Punto nevralgico del Medio Oriente

Il Libano in bilico tra crisi politica e tensioni sociali

di Fausta Speranza

“Salvare la città di Beirut al di là della politica e dei conflitti”: è l’appello del Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Béchara Boutros Raï, all’indomani delle violente esplosioni nel porto che hanno lasciato “la città devastata”, 136 morti, 5000 feriti, dispersi e dubbi sulle responsabilità. Il Libano sta attraversando una gravissima crisi economico-sociale e “non è in grado di far fronte a questa catastrofe umana”. Da qui la richiesta accorata di aiuto del Patriarca rivolta “a tutti gli Stati del mondo”. In questione c’è un territorio chiave, punto nevralgico di un contesto mediorientale che non si è mai presentato così militarizzato dagli anni dei conflitti mondiali, teatro di confronti per corrispondenza di altre potenze regionali, cartina tornasole di contrasti che investono Oriente e Occidente.

Le deflagrazioni, avvertite anche a Cipro, sembra siano avvenute per un tragico incidente nel deposito di nitrato di ammonio dove, però, c’è chi sostiene che ci fossero anche armi. Secondo documenti citati dall’emittente Al Jazeera, funzionari doganali avevano messo in guardia già anni fa le autorità contro il “grave pericolo” rappresentato dall’enorme quantità del composto chimico utile in agricoltura ma anche per produrre esplosivo.

In Libano gli interessi privati prevalgono da anni sul bene comune, come denunciano da tempo i vescovi che si sono uniti alle richieste di una svolta nel Paese allo scoppio delle proteste che, a ottobre scorso,   hanno visto sfilare insieme cristiani e musulmani, gente meno abbiente e professionisti di una classe media falciata. Cortei che non si sono mai fermati neanche al cambio di governo o durante il lockdown, che peraltro è ripreso dopo una pausa, a seguito della nuova impennata di Covid-19. I contagi nei dati governativi restano sempre più bassi di quelli che ospedali e centri per migranti denunciano, ma a questo punto è evidente la tragedia, se si considera che le strutture sanitarie erano quasi al collasso prima che tre ospedali di Beirut fossero rasi al suolo e altri due parzialmente distrutti.

Le devastanti esplosioni rappresentano una catastrofe per il Libano, ma anche uno scossone per la comunità internazionale: non si può continuare a dimenticare il Paese che è stato la Svizzera del Medio Oriente e che nel default finanziario rivela incapacità interne ma anche mutati equilibri di investimenti e dunque di potere regionali. E poi ci sono pagine di storia ancora da completare: si aspetta il verdetto del Tribunale Speciale dell’Onu sull’assassinio di Rafīq al-Ḥarīrī, il primo ministro ucciso, con altre 21 persone, in una esplosione sul lungomare di Beirut nel 2005. Per quell’atto terroristico sono state processate in contumacia quattro persone, membri di Hezbollah, il movimento sciita e poi partito al governo  che però ha sempre negato le accuse. Per rispetto alle vittime l’annuncio è stato posticipato da domani al 18 agosto. In ogni caso, dopo 15 anni arriva in un Paese colpito al cuore. Non può cadere nel vuoto l’invocazione del Patriarca: “Non solo aiutare Beirut, ma “far sì che il Libano ritrovi il suo ruolo storico a servizio dell’uomo, della democrazia, della pace in Medio Oriente e nel mondo”.

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2020-08/punto-nevralgico-del-medio-oriente.html

 

 

 

 

I vescovi europei e il Libano

A nome di tutti i vescovi dell’Unione Europea, il cardinale Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Comece, Commissione degli episcopati dell’Ue, condivide il dramma e la tristezza della popolazione di Beirut a seguito delle orribili e mortali esplosioni avvenute nel porto della capitale del Libano, assicura preghiere per le vittime e lancia un forte appello per il Libano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“A nome di tutti i vescovi dell’Unione Europea, condivido il dramma e la tristezza della popolazione di Beirut a seguito delle orribili e mortali esplosioni avvenute   nel porto della capitale del Libano”. Sono parole espresse dal cardinale Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Comece, Commissione degli episcopati dell’Ue, con un comunicato dopo la tragedia delle esplosioni a Beirut, assicurando “le più sentite condoglianze alle famiglie delle vittime e a tutti coloro che hanno perso i propri cari: amici, vicini, colleghi”, elevando “preghiere per le anime dei defunti e per la pronta guarigione dei feriti”.Condividendo le parole di Papa Francesco, i vescovi europei pregano per il Libano “affinché, attraverso la dedizione di tutte le sue componenti sociali, politiche e religiose, possa affrontare questo momento estremamente tragico e doloroso”.

R. – Il Libano è il nostro vicino. Ci sono tanti cristiani, tanti musulmani che vogliono vivere in pace in questo Paese, un Paese che è stato molto prospero e ora è diventato molto povero: la gente ha tante sofferenze … Non dobbiamo dimenticare che il Libano ha accolto tanti profughi, che anche nella Chiesa in Europa ci sono libanesi, così come nei nostri Paesi. Ad esempio, a Cipro, la Chiesa cattolica di Cipro è la Chiesa maronita: sono persone venute dal Libano. Quindi, in un certo senso, fanno parte dell’Europa e noi nelle nostre preghiere, nell’aiuto concreto non dobbiamo dimenticare il Libano.

Eminenza, qual era l’impegno delle Chiese europee anche prima di questa tragedia?

R. – Naturalmente, nella Comece lavoriamo per la pace e lavoriamo anche per le relazioni tra l’Unione Europea e il Libano; ma per quanto riguarda il denaro, l’aiuto concreto è ogni Chiesa nazionale che dà il suo contributo. E sappiamo che ci sono tante Chiese in Europa che sono molto generose.

E’ importante anche un appello alla comunità internazionale a non dimenticare il Libano? Questo piccolo Paese che negli ultimi 30 anni è stato baluardo di pace e di convivenza, sembra un po’ dimenticato, a parte questa tragedia …

R. – Sì, e anche dal punto di vista politico, della sicurezza. Penso che il Libano sia importante per l’Unione Europea, che ha tutto l’interesse ad avere un Libano stabile, stabile dal punto di vista politico e dal punto di vista economico. Dunque, penso che i politici, anche dell’Europa, debbano reagire perché è nell’interesse dei popoli europei che il Libano sia aiutato. Ma noi come cristiani dobbiamo fare di più: non dobbiamo agire per il solo nostro interesse, ma dobbiamo agire con solidarietà e con amore, con carità.

Sembra non sia stato un atto voluto, ma un incidente: un incidente, comunque, dove c’era un deposito con una quantità spropositata di composto chimico utile per l’agricoltura, ma anche per creare esplosivi. In ogni caso, è anche una tragedia ambientale: torna l’appello del Papa a un’attenzione agli equilibri tra uomo e natura…

R. – E’ tanto importante: noi non abbiamo ancora capito questo appello così importante.  Vediamo che il riscaldamento della nostra Terra è più veloce di quello che abbiamo pensato. Vediamo che ci sono incendi in Amazzonia: il 19% in più rispetto all’anno scorso, se non sbaglio. Questo significa che dobbiamo agire, e vuol dire anche che noi dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere. E’ molto importante, perché noi abbiamo una responsabilità nei riguardi di questa Terra, abbiamo una responsabilità nei riguardi delle generazioni future. E si capisce che, dove non c’è più stabilità politica, dove ci sono tanti interessi diversi, come accade attualmente in Libano, la situazione diventa molto pericolosa. Sappiamo che sono tanti i Paesi che si trovano in  situazioni analoghe, dunque bisogna agire a livello internazionale, per garantire che in Paesi a rischio non si verifichino incidenti di questo tipo.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-08/libano-beirut-vescovi-europei-comece.html

Il tramonto del nucleare inizia dalla Francia

di Fausta Speranza

Mentre in Francia i Verdi assaporano il trionfo alle municipali, segnato dal secondo turno tenutosi domenica scorsa, chiude la centrale simbolo del nucleare in Francia e si discute sui rischi dell’impianto attualmente più importante d’Europa, con sede sempre in territorio francese a Gravelines. Si tratta dell’inizio di una nuova era, e non solo politica, ma a ben guardare il declino del nucleare è segnato più da motivi economici che da ragioni ecologiste, come ci spiega nella nostra intervista Romolo Infusino, già ricercatore dell’Enea e attuale membro del direttivo scientifico dell’associazione Ambientevivo, sottolineando che è tempo di nuove scommesse. Resta la sfida delle sfide indicata da Papa Francesco: una tecnologia a dimensione umana.

Il successo senza precedenti dei leader ecologisti segna un cambio di sensibilità, che bisognerà valutare quanto legato all’allarme pandemia. In ogni caso, la percezione dell’urgenza di ripensare il rapporto tra uomo e natura, come invocato cinque anni fa dall’enciclica di Papa Francesco Laudato si’, sembra farsi strada un po’ ovunque.

Proprio due giorni dopo il voto, con una di quelle combinazioni che la storia regala — le municipali infatti si sarebbero svolte ad aprile se non ci fosse stato il lockdown — la Francia assiste alla seconda operazione, dopo quella di febbraio, destinata a chiudere l’impianto per la produzione di energia nucleare più emblematico del Paese: la struttura di Fessenheim, in Alsazia, con due reattori Pwr da 880 Mw ognuno, i due più vecchi finora funzionanti nel Paese. E solo pochi giorni fa è arrivato l’avvertimento per l’impianto in piena funzione di Gravelines, nella regione di Hauts-de-France. È stata definita «a rischio esplosioni di origini esterne». È stata l’autorità francese di sicurezza nucleare (Asn) ad avvertire la Edf Energy, che gestisce l’impianto, del fatto che un potenziale incendio al vicino terminal del gas di Dunkerque, o su una nave che trasporti gas in mare nelle vicinanze, potrebbe compromettere i meccanismi di raffreddamento della centrale nucleare, portare al suo surriscaldamento e scatenare un disastro. Il richiamo è a proteggere meglio i reattori che devono essere resi «in grado di far fronte a un’esplosione esterna ad alta intensità». Un avvertimento del genere era già stato fatto nel 2015. Ci si chiede come si esprimeranno i candidati ecologisti che hanno conquistato grandi città come Lione, Bordeaux e Strasburgo, ma hanno vinto di fatto anche a Parigi e Marsiglia, seppure in modo indiretto imponendosi in accordi di governo.

In ogni caso, sembra proprio si debba parlare di tramonto del nucleare, che ha fatto la storia dell’energia in parte del dopoguerra. Dopo la crisi di Hiroshima, sono state avviate le centrali per produrre energia elettrica in primis negli Stati Uniti, poi la Francia ha sviluppato un sistema energetico — anche perché funzionale al relativo progetto militare — basato proprio sul nucleare che ha prodotto una grande quantità di energia. Il punto è che l’investimento ha presentato il suo conto. Si è partiti infatti dall’ipotesi che l’energia nucleare fosse più economica rispetto all’energia da combustibili fossili. Lo era se non si prendeva in considerazione il decommissioning, lo smantellamento, la chiusura del ciclo nucleare, che — ricorda Infusino — ha dei costi esorbitanti. Per cui il messaggio del ricercatore è chiaro: «L’energia nucleare va in pensione, oltre che per motivi di sicurezza, soprattutto perché non è più vantaggiosa dal punto di vista economico». Chiude il suo ciclo sulla base della valenza, della convenienza e dell’economicità.

A Infusino abbiamo chiesto in che modo questa sorta di evento-spartiacque del covid-19 abbia riportato l’attenzione sull’ambiente. Ricorda che sembra accertato che il coronavirus sia stato scatenato dal cattivo utilizzo di risorse alimentari di origine animale selvatica e sottolinea, quindi, che «l’attenzione all’ambiente è fondamentale per la salvaguardia della salute mondiale». Considerando che le realtà sono interconnesse, non si può dimenticare che qualsiasi pandemia in qualsiasi parte del mondo si diffonde ormai a una velocità inimmaginabile rispetto alle pandemie storiche che ci sono state.

E dunque Infusino focalizza la sfida centrale: «Il problema che si pone adesso è ripartire dal punto di vista economico, ridisegnare un nuovo progetto economico a livello nazionale e anche mondiale, basato sulla sostenibilità. Il covid-19 è un acceleratore di questo processo di cambiamento del sistema energetico e anche del sistema di produrre». Lo sguardo è di speranza: «Ritengo che d’ora in poi in qualsiasi organizzazione industriale, in qualsiasi rilancio di progetto industriale, venga fatta una valutazione su base delle sostenibilità, l’unica base che può dare un futuro al pianeta e anche al sistema produttivo industriale perché l’impatto non sia letale».

In definitiva, Infusino esprime una consapevolezza: «Il covid-19 è uno spartiacque. È stato una sciagura per l’umanità, ma è un momento di riflessione per ripensare una nuova umanità più rispettosa dell’ambiente, che possa progettare i suoi servizi — perché di servizi ne ha bisogno — nell’ambito di una convivenza con gli equilibri naturali anche sulla base di quanto il Santo Padre ha detto nella sua Enciclica Laudato si’, con la sua tanta attenzione sull’ambiente come rilancio di una nuova umanità».

Se l’orizzonte deve essere umanistico, la ricerca deve essere più concreta che mai. Infusino ci chiarisce le attuali potenzialità: «Le nuove tecnologie ci permettono orizzonti soft. Ciò che era pesante non ha più ragione di esistere. Le tecnologie informatiche faranno una rivoluzione su altre tecnologie soft, leggere, praticamente immateriali». E poi il già ricercatore dell’Enea indica una via precisa da imboccare: «Dal punto di vista energetico ritengo che vada valorizzato il progetto idrogeno, che vuol dire produrre energia senza inquinare l’ambiente. Ci sono progetti di ricerca per la produzione di idrogeno da fonti fotovoltaiche o da fonti rinnovabili ed è prevista la sua utilizzazione nel ciclo energetico, per uso industriale e nella mobilità». Si parla di auto elettrica e Infusino assicura: «Sta facendo progressi inimmaginabili prima. Ritengo che l’auto a idrogeno possa avere un futuro molto interessante per una mobilità a dimensione umana».

L’apertura alla tecnologia è confermata dalla stessa Laudato si’, in cui però Papa Francesco riprende il tema fondamentale della capacità della tecnologia di modificare la nostra percezione della realtà e il nostro rapporto con le persone e con la conoscenza. Il Papa avverte che all’origine di molte difficoltà c’è il fatto che il mondo occidentale utilizza il pensiero tecnico-scientifico come «paradigma di comprensione» per spiegare «tutta la realtà, umana e sociale». Spiega che «la specializzazione propria della tecnologia implica una notevole difficoltà ad avere uno sguardo d’insieme» e sebbene consenta di ottenere applicazioni concrete, «spesso conduce a perdere il senso della totalità, delle relazioni che esistono tra le cose». Non manca l’indicazione della via da percorrere pensando o ripensando qualunque tecnologia: «Ciascuna specializzazione — chiarisce Papa Francesco — dovrebbe tener conto di tutto ciò che la conoscenza ha prodotto nelle altre aree del sapere», riconoscendo anche gli «orizzonti etici di riferimento», senza i quali «la vita diventa un abbandonarsi alle circostanze condizionate dalla tecnica, intesa come la principale risorsa per interpretare l’esistenza».

da L’Osservatore Romano del 30 giugno 2020

Nadia Murad la memoria che vive

dentro l’inserto mensile “Donne Chiesa Mondo””
di FAUSTA SPERANZA
«Hanno ucciso mia madre davanti ai miei occhi ma non hanno cancellato i suoi insegnamenti di bene»: così Nadia Murad ha iniziato a raccontarci la sua esperienza di drammatico contatto con gli uomini del sedicente stato islamico (Is). La giovane yazida, come altre centinaia di ragazze appartenenti alla stessa minoranza, è stata resa “schiava del sesso”. Una condizione patita dalle donne che aggiunge orrore alla campagna di omicidi di massa, sequestri, spettacolari esecuzioni, conversioni forzate di cui si sono macchiati i miliziani dell’Is tra il 2014 e il 2017 in un territorio tra Iraq e Siria. Ma se non riusciamo a dimenticare gli occhi di Nadia, dopo una conversazione tanto grave quanto luminosa, è per la forza straordinaria che l’ha guidata fino al Premio Nobel per la pace e soprattutto per la solidità della sua fede nel bene. Abbiamo incontrato la prima volta Nadia a Strasburgo, dove aveva ricevuto sostegno dal Parlamento europeo dopo la fuga dall’Iraq e l’arrivo in Germania. Non aveva ancora recuperato il sorriso e la pienezza che ora vive anche grazie all’uomo che ha accanto e che condivide il suo impegno — sempre costante — contro la tratta degli esseri umani. Le è valso il Premio Sacharov nel 2016 e il Nobel nel 2018.
La famiglia di Nadia viveva a Kocho, un villaggio vicino alla città di Sinjar, nel nord dell’Iraq, a poca distanza dal confine siriano, quando il 3 agosto del 2014 uomini armati hanno portato l’orrore: hanno trucidato gli uomini, hanno catturato i bambini e le donne, e le hanno passate in rassegna uccidendo quelle che non avrebbero reso soldi al mercato delle schiave del sesso. Le più giovani sono state messe a disposizione dei miliziani a Mosul. Ha significato subito una violenza di gruppo per piegare qualunque resistenza e che — ci ha raccontato Nadia — si ripeteva in caso di tentativo di fuga o di ribellione. Nello sguardo di Nadia sopravvive un’eco del terrore, del dolore, del disgusto, del senso di impotenza provati negli otto lunghissimi mesi di prigionia, prima di riuscire a scappare.
Nadia, aiutata da una famiglia irachena dopo essersi allontanata di nascosto dalla casa dell’uomo che l’aveva comprata, avrebbe voluto  dimenticare, ma continua a denunciare: «Il potere dell’Is è passato ma in qualche parte del mondo ci sono ragazzine vendute, scambiate come merci e io, che so cosa significa, non posso tacere». Dice: «Bisogna prevenire ogni forma di razzismo, che io invece vedo crescere ovunque.
E i rischi sono due: il radicalismo e il terrorismo da una parte, ma anche possibili risposte sbagliate a tutto ciò, dall’altra parte». Una consapevolezza precisa, oltre i problemi dell’Iraq, al di là delle vicende della fede yazida antica di 4000 anni o del popolo curdo tra i quali è diffusa; prescinde anche dalla cronaca recente degli ultimi sviluppi nei territori ancora sotto i raid in Siria. La conversazione ha consentito una certa confidenza, e così ci siamo ritrovate sedute su un divanetto a cinque posti rotondo in quelle La yazida schiava del sesso dell’Is premio Nobel per la pace: «Nel mondo ci sono ancora ragazze vendute e scambiate come merci» aree che permettono l’isolamento acustico nei pressi dell’emiciclo dell’Europarlamento, dove si muovono politici e giornalisti. Quasi una zona protetta da altri sguardi e altre orecchie. Nadia ci ha parlato del sorriso di sua madre: «Lei è sempre stata una persona piena di rispetto per tutti e mi ha educato all’amore e al bene, mi ha insegnato a pregare. Queste cose l’Is non ha potuto distruggerle». Questa ragazza minuta non può dimenticare «le tante ragazzine in mano all’Is che appena hanno potuto si sono tolte la vita, perché non ce l’hanno fatta a sostenere tanto strazio». Ci ha confidato: «Io non ho mai pensato di uccidermi. Più il male mi toccava e più risentivo in me tutti gli insegnamenti di mia madre e della mia gente, ma soprattutto la forza di Dio che mai mi ha abbandonata. Più il male mi toccava, più trovavo il bene dentro di me.»
Per questo la storia di Nadia non è più un’esperienza, si è fatta testimonianza.
Donne Chiesa Mondo di aprile 2020

Evitare che la pandemia sia un’opportunità per le mafie

di Fausta Speranza

La gravità e l’urgenza delle conseguenze del covid-19 per la salute pubblica e per l’economia richiedono misure immediate perché in ballo c’è la sussistenza di milioni di persone, ma anche perché si rischia che diventino un’opportunità per le mafie. In questi giorni, il Papa ha lanciato il suo monito perché non accada che qualcuno speculi sulle difficoltà dei più deboli e, in tema di legalità, è tornato a ribadire il suo appello contro ogni forma di corruzione. Non c’è, infatti, solo quella dei grandi sistemi, ma anche quella a livello di gente comune che rende possibile le altre modalità più gravi, come conferma Antonio Nicaso, uno dei massimi esperti a livello mondiale di mafie, docente tra l’altro di Storia sociale della criminalità organizzata alla Queen’s University.

«Le mafie sono rapaci» afferma Nicaso. «Hanno sempre trasformato le crisi in opportunità. La ‘ndrangheta, che oggi è l’o rg a n i z z a z i o n e illecita più ricca e potente al mondo, ha cominciato ad assumere un atteggiamento imprenditoriale dopo il terremoto del 1908 a Reggio Calabria e a Messina, quando ha cominciato a concedere prestiti a tasso d’usura. Le inchieste degli ultimi tempi ci hanno chiaramente “fotografato” l’opportunismo e la rapacità delle mafie anche in occasione dei vari terremoti avvenuti più di recente nel Centro Italia. Ci sono le registrazioni della telefonata in cui, pochi minuti dopo una scossa violenta, due faccendieri legati alla ‘ndrangheta si felicitavano dell’accaduto sorridendo per gli “affari” e i guadagni che avrebbero fatto».

Si è parlato in altri Paesi d’Europa del rischio che eventuali aiuti straordinari all’Italia arrivino in mano alla mafia. Cosa risponde?

Queste preoccupazioni, secondo me, sono discutibili, perché le mafie non operano solo in Italia. Da tempo sono attive in Olanda e in Germania perché quei Paesi consentono di fatto più di altri di investire, di riciclare denaro. Oggi, se dovessi indicare un posto dove la ‘ndrangheta è più radicata fuori dalla Calabria, dalla penisola non avrei nessuna difficoltà a citare la Germania. Il rischio non è solo legato ai soldi che possono arrivare dall’Europa, ma ai meccanismi di circolazione del denaro, come quelli che portano ai cosiddetti paradisi fiscali. E, dunque, il problema è in tutta l’Europa, se vogliamo fermarci al contesto europeo. È chiaro che in questa situazione bisogna tenere gli occhi aperti, fare una mappatura dei settori a rischio: quelli che possono finire più facilmente nelle grinfie delle organizzazioni criminali.

Per esempio?

Penso alla piccola e media impresa, che farà fatica ad andare avanti non potendo contare su utili. È importante intervenire con tempestività con aiuti piuttosto che perdere troppo tempo a discutere. Bisogna ridurre i margini di azione delle mafie. Possono sostituirsi alle banche qualora le imprese restino bloccate dalla burocrazia bancaria e da quella della pubblica amministrazione. È fondamentale intervenire per evitare che un’azienda possa andare in default economico e accettare il ricorso a soldi sporchi. Lo abbiamo già visto durante la crisi dei Subprime nel 2008, quando le mafie hanno cercato di acquisire quote di minoranza, quando hanno investito i soldi attraverso le banche. Questi sono i rischi peggiori da scongiurare e non soltanto in Italia ma un po’ dappertutto.

Ci aiuti a ragionare sull’accostamento di questi due termini: globalizzazione e organizzazioni internazionali.

Le mafie hanno certamente tratto vantaggio dalla globalizzazione dei mercati. Ma la prima cosa da dire è che non metteranno in discussione la loro globalizzazione in nessun caso. Ricordiamoci che sono riuscite ad internazionalizzarsi quando ancora nessuno parlava di globalizzazione. Il fenomeno esisteva — penso al pomodoro nato in America e divenuto alimento centrale nella nostra cucina o alla grande questione delle migrazioni di massa — ma non con queste modalità o con questa definizione.

Nella nostra storia recente ci sono dei momenti chiave?

Direi che c’è stata una sorta di spartiacque nella storia delle mafie: la caduta del muro di Berlino. Prima erano più circoscritte nell’Ovest d’Europa, poi sono riuscite a operare in Paesi dell’Est dove non c’era neanche emigrazione italiana. In mancanza di regole certe, alcuni faccendieri hanno approfittato della fase di transizione da un’economia pianificata a un’economia di mercato. Nella fase attuale, se pensiamo al mercato degli stupefacenti (cocaina, eroina, droghe sintetiche) le mafie sono concentrate sulla Cina, dove si parlerà, di qui a poco, di un mercato di 20 milioni di tossicodipendenti, o sull’Australia, dove un chilo di cocaina costa tre volte di più che in Italia.

Da una parte, c’è la legalità e, dall’altra, queste organizzazioni. In mezzo c’è una zona grigia, abitata da colletti bianchi, dalla disonestà diffusa a tanti livelli. È così?

Certo. Diciamo che se non ci fosse questa zona grigia non ci sarebbero le mafie. Le mafie da sempre hanno avuto bisogno di condotte agevolatrici per potersi affermare. Per i miei studenti utilizzo la formula chimica dell’acqua e spiego che i due atomi di idrogeno rappresentano la violenza, ma quello che fa la differenza è l’atomo di ossigeno, che è proprio il rapporto con questa zona grigia, con professionisti senza scrupoli. Se non ci fossero, le mafie farebbero molta più fatica a riciclare denaro.

Può citare un caso concreto?

Ricordo l’operazione Iscreen con la quale agli inizi degli anni Novanta un’organizzazione criminale internazionale è stata smantellata proprio perché faceva fatica a investire, a riciclare denaro. Aveva cominciato a depositarlo in una casa, ma alla fine non c’era più spazio per contenere il contante accumulato attraverso attività illecite. Ecco, il riciclaggio e l’investimento sono importanti nelle dinamiche di un’organizzazione criminale: si può rimanere “soffocati” dai soldi. Quindi, il rapporto con il mondo dell’imprenditoria, della politica, della finanza è fondamentale.  Ci può essere corruzione senza mafia, ma non ci può essere mafia senza corruzione. Non riesco a pensare al crimine organizzato senza zona grigia.

Quanto è importante il reiterato appello di Papa Francesco a combattere la corruzione?

È fondamentale! La corruzione saccheggia risorse pubbliche che potrebbero sanare tanti squilibri sociali. E, soprattutto, tendiamo a sottovalutare il ruolo della corruzione per le mafie, che invece è centrale. Oggi le organizzazioni criminali sembrano invisibili perché non hanno quasi più bisogno di sparare. Sanno di poter utilizzare la violenza, ma, se possono evitare il clamore preferiscono. Sanno di avere in mano qualcosa di più efficace rispetto alle armi: la corruzione che permette alla mafia di radicarsi, di infiltrarsi senza fare rumore. E tanta gente presta consapevolmente il fianco o chiude gli occhi.

Per la crisi che sta scoppiando ora, c’è qualcosa da imparare da quella del 2007-2008?

Certo. Nel 2008 i soldi delle mafie sono stati un pilastro fondamentale per evitare di far crollare tantissime banche nel mondo. Lo denunciò Antonio Costa, l’ex direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc). Quindi, fa benissimo Papa Francesco a richiamare le coscienze di tutti.

Dopo i traffici di droghe, di armi, quello odioso di esseri umani, il riciclaggio di denaro sporco o gli investimenti illeciti nell’edilizia o nelle slotmachine, oggi si parla di dark web o di criptovalute. Il suo ultimo volume, scritto con il magistrato Nicola Gratteri ed edito da Mondadori, si intitola «La rete degli invisibili»: sono questi gli ambiti dove le mafie restano lontane dai riflettori?

La seconda capacità delle mafie, dopo quella relazionale, è quella di adattamento. Quello che un tempo si faceva nella gestione delle case da gioco, nelle bische clandestine, oggi si fa con il gaming on line. Vari Paesi, come per esempio Malta, acconsentono alla costituzione facile di società per il gioco su web, che nascono con i soldi che provengono da mafie. Per quanto riguarda le criptovalute, già si comincia a sentire in alcune intercettazioni il riferimento all’uso di bitmonero, o bitcoin per la vendita di partite di cocaina. E poi c’è il darkweb, un sistema cinquecento volte più grande della rete conosciuta come www. È un sistema di comunicazione dove non c’è timore di essere intercettati, si può vendere qualsiasi cosa. Alcune indagini hanno già messo in luce questa sorta di “Amazon del male”, in cui è possibile acquistare droga, armi, materiale pedopornografico.

In definitiva, quali vie indicare per il mondo post covid-19 che tutti sogniamo migliore?

Mi auguro che questa esperienza possa farci capire l’importanza di combattere le diseguaglianze sociali, di concepire forme di capitalismo che tengano conto del bene della comunità e non seguano solo la logica del “fare soldi per fare soldi”. Bisogna ricordarsi che problemi globali richiedono risposte globali.

Dunque, non è d’accordo con chi in questa fase mette in discussione in diverso modo tutto ciò che è avvertito come sovranazionale, agenzie delle Nazioni Unite o Unione europea?

È impossibile pensare di combattere le organizzazioni criminali o quelle terroristiche senza azioni concertate, senza maggiore coesione internazionale. È necessario globalizzare l’azione di contrasto alle mafie, che sono globalizzate. Oggi le mafie vanno a cercare i Paesi che si presentano come paradisi fiscali o normativi, perché lì le legislazioni sono meno affliggenti. E alcuni Paesi di recente guardano alle mafie come a un’opportunità più che a una minaccia, perché portano liquidità. Tutto questo perché mancano normative giuridiche adeguate. Abbiamo bisogno di organismi sovranazionali perché c’è molto da fare a livello legislativo per sanare alcune disparità.

Qual è la sua speranza?

Per me la speranza è costruire. Ognuno di noi deve pensare che non è vero che non può fare niente. Tutti possiamo fare qualcosa per cambiare le ingiustizie che abbiamo di fronte oggi. La mia speranza è che venga ascoltato l’altro richiamo di Papa Francesco di questi giorni, quello ai politici perché «non pensino al bene del loro partito ma al bene comune». C’è urgente bisogno di riscoprire il bene comune.

da L’Osservatore Romano del 27 aprile 2020

Una Costituzione globale più forte dei mercati

L’orizzonte del dopo pandemia nella riflessione di Luigi Ferrajoli
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di Fausta Speranza

In un mondo globale che tende a ridistribuire la potenza politica e la ricchezza concentrandola in capo ai giganti emergenti, l’infezione da Covid-19 ha messo in crisi l’interdipendenza mondiale per un tempo che ancora non sappiamo quantificare, ma soprattutto ha evidenziato, come in una cartina tornasole, sfide epocali. Non ci sono solo i sistemi sanitari o la viabilità internazionale a essere messi in discussione dalla pandemia. L’onda lunga dello tsunami del coronavirus lascia intravedere seri contraccolpi per l’economia e scuote le fondamenta dell’ordine liberale su cui ci siamo basati per decenni. Da tempo si parla di una globalizzazione che non può restare senza forme di governance globale. Basti considerare il moltiplicarsi di conflitti e l’inasprirsi della forbice delle disuguaglianze sociali in praticamente tutte le aree geografiche, mentre solo l’internazionalizzazione delle organizzazioni illecite non conosce crisi o recessioni. Si pone l’esigenza di una forma concettualmente nuova e operativamente inedita di regolamentazione su scala mondiale che tuteli i principi di bene comune. Per riflettere su questi temi abbiamo intervistato Luigi Ferrajoli, giurista, ex magistrato, professore universitario e filosofo del diritto, che da anni porta avanti i suoi studi su un “costituzionalismo globale”.

Quali spazi trovano nel suo ragionamento i valori della salute e il possibile contrasto all’attuale livello di diseguaglianze nel mondo, tale che l’un per cento della popolazione mondiale detiene il 99 per cento delle ricchezze? E cosa ci può insegnare la pandemia da covid-19?

Il diritto alla salute è un diritto fondamentale stabilito non solo nelle costituzioni statali più avanzate, ma anche in molte carte internazionali dei diritti umani. L’aggressione alla salute e alla vita del coronavirus, con il suo terribile bilancio quotidiano di morti in tutto il mondo, ha reso più clamorosamente visibili e intollerabili di qualunque altra emergenza i costi della mancanza di adeguate istituzioni di garanzia di tali diritti vitali e la necessità di una Costituzione della Terra che a questa mancanza ponga rimedio. Più di qualunque altra catastrofe, essa rende perciò più urgente e, insieme, più universalmente condivisa la necessità di colmare questa lacuna. C’è poi un’altra ragione, più specifica, che distingue questa emergenza da tutte le altre e impone una sua gestione a livello globale: non solo la garanzia dell’uguaglianza nel diritto alla vita e alla salute di tutti gli esseri umani, ma anche l’efficacia delle misure adottate, la quale dipende largamente dalla loro coerenza e omogeneità. I diversi paesi della terra si muovono invece ciascuno con strategie diverse, con il pericolo che le misure inadeguate o intempestive di taluni di essi possano riaprire il contagio per tutti gli altri.

Cosa intende per “costituzionalismo globale”?

Esistono, e stanno diventando sempre più drammatici, problemi globali che non fanno parte dell’agenda politica dei governi nazionali ma dalla cui soluzione, possibile soltanto a livello globale, dipende la sopravvivenza dell’umanità: il salvataggio del pianeta dal riscaldamento climatico, i pericoli di conflitti nucleari, la crescita della povertà e la morte ogni anno di milioni di persone per la mancanza dell’alimentazione di base e dei farmaci salva-vita, il dramma di centinaia di migliaia di migranti e, ora, la tragedia di questa pandemia del coronavirus. È da questa banale consapevolezza che è nata, un anno fa, l’idea di dar vita a un movimento politico — la cui prima assemblea si è svolta qui a Roma il 21 febbraio — diretto a promuovere una Costituzione della Terra. Lo strumento che abbiamo adottato è quello della scuola “Costituente Terra”: precisamente, l’istituzione di più scuole, che vorremmo fossero organizzate non solo a Roma, ma in tutta Italia (e in prospettiva in tutto il mondo) e che saranno in realtà luoghi di riflessione, di dibattito e di elaborazione delle tecniche e, soprattutto, delle istituzioni di garanzia dei diritti umani e della pace che una Costituzione della Terra dovrebbe prevedere per dar vita a una sfera pubblica internazionale all’altezza delle sfide globali.

Quali sono, secondo lei, i principali ostacoli a una prospettiva di questo genere?

Sono fondamentalmente due. Il primo è la miopia delle forze politiche, determinata da una grave aporia della democrazia rappresentativa: gli spazi angusti e i tempi brevi cui sono ancorate, in democrazia, la ricerca del consenso delle forze politiche e che impediscono di farsi carico dei problemi del pianeta di solito ignorati dalle pubbliche opinioni. Il secondo è costituito dai potenti interessi economici che si oppongono al progetto di una sfera pubblica garante dell’uguaglianza nei diritti fondamentali e della pace, la cui attuazione imporrebbe una fiscalità mondiale, limiti e controlli sullo sviluppo industriale ecologicamente insostenibile e la subordinazione ai diritti fondamentali dei poteri selvaggi dei mercati.

Davvero il dopo pandemia potrebbe rappresentare una occasione per comprendere la necessità di un nuovo orizzonte?

Certamente. Giacché essa, ripeto, ci fa toccare con mano l’insensatezza della mancanza di preparazione e di previdenza che ha colto tutti gli Stati, rendendoci consapevoli del fatto che piani adeguati di emergenza saranno tanto più efficaci quanto più omogenei e perciò globali. Mi pare che questo sia l’insegnamento più ovvio di questa pandemia: la necessità di trasformare l’Organizzazione Mondiale della Sanità, attualmente priva di mezzi e di poteri, in una vera istituzione globale di garanzia del diritto alla salute per tutti gli abitanti della Terra. Si può insomma sperare che il dramma che stiamo vivendo provochi un risveglio della ragione. Colpendo tutto il genere umano, senza distinzioni di nazionalità e di ricchezze, essa può forse generare, a livello di massa, la consapevolezza — anche con riguardo alle altre emergenze globali, da quella ecologica a quella nucleare e a quella umanitaria — della nostra comune fragilità, della nostra interdipendenza e del nostro comune destino.

Professore, le accademie hanno sviluppato negli ultimi anni diversi modelli di governance globale: il modello liberal democratico, quello della democrazia radicale, o quello della democrazia cosmopolita o infine della democrazia multipolare; secondo lei qual è il più adatto a fronteggiare l’attuale crisi?

Le tipologie dei modelli di democrazia possono essere le più svariate. Dei quattro modelli da lei indicati quello più idoneo a rispondere alle sfide globali è certamente quello della democrazia cosmopolitica. È il sogno di Kant, che oggi è possibile integrare, attuare e garantire dando a esso la forma e la sostanza di una Costituzione globale, rigidamente sopraordinata ai poteri sia degli Stati che dei mercati.

Nella sua riflessione continua che posto occupa l’Onu?

L’Onu è oggi il solo ordinamento internazionale di cui sono membri praticamente tutti gli Stati della Terra. Si tratta di democratizzarla, di rafforzarla e, soprattutto, di modificarne la struttura. Ciò che si richiede non è tanto il rafforzamento delle funzioni e delle istituzioni politiche di governo: tali funzioni, in quanto legittimate dalla rappresentanza politica, lo sono tanto più quanto più sono vicine agli elettori e perciò di livello statale o regionale. Ciò che è necessario è soprattutto l’implementazione — che ovviamente richiede una decisione politica a opera delle istituzioni di governo — di adeguate funzioni e istituzioni di garanzia della salute, della sussistenza, dell’istruzione di base, dell’abitabilità del pianeta, cioè di diritti fondamentali già stabiliti in tante carte dei diritti umani che si tratta semplicemente di prendere sul serio. In questa prospettiva, una Costituzione della Terra dovrebbe introdurre un demanio planetario dei beni comuni come l’atmosfera, l’acqua potabile, i grandi ghiacciai e il patrimonio forestale. Dovrebbe inoltre prevedere una fiscalità globale in grado di finanziare l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Fao e altre autorità di garanzia.

da L’Osservatore Romano del 17 aprile 2020

Quando l’accoglienza diventa integrazione

Un Centro di assistenza straordinaria in Puglia registra record di impiego tra immigrati

di Fausta Speranza
Un Paese in rivolta per l’arrivo di un gruppo di migranti africani e un Paese che registra un record di contratti a tempo indeterminato per giovani neri: sembrano due storie diverse di posti differenti, ma invece parliamo della stessa comunità vista in due momenti distinti e di una vicenda che la rende un modello in Italia e non solo. È la storia del comune di Fasano, nella regione Puglia, e più precisamente della Casa del Sole che ospita richiedenti asilo. Giuridicamente è un Cas, Centro di assistenza straordinaria.

In realtà, l’accoglienza non è fuori dell’ordinario nel senso di emergenziale, ma lo è per gli standard di integrazione, tanto da meritare a giugno 2019 un encomio da parte della Prefettura di Brindisi. Tra tanti resoconti di tensioni e difficoltà legati alle migrazioni — spesso amplificati dai media assetati di sensazionalismo — la Casa del Sole racconta una storia positiva.

Tutto comincia nell’estate 2016, segnata, quasi come l’anno precedente, da flussi intensi di sbarchi sulle coste del Mediterraneo e sulla rotta balcanica. Nel cuore della notte, il sindaco di Fasano, Francesco Zaccaria, viene assediato da messaggi e telefonate di cittadini che hanno saputo che la Prefettura, in affanno, sta assegnando al comune 30 africani: la reazione di chiusura — ci assicura Zaccaria incontrato nel suo palazzo comunale d’epoca — è stata compatta. A tutti sembrava assurda l’idea di dover subire quella che — racconta con un sorriso — veniva definita “un’invasione di neri”. E per lo più nella frazione di Laureto, zona residenziale e abitata da famiglie benestanti. Il sindaco ci confessa di aver vissuto un momento difficile, in particolare perché il suo mandato era cominciato da pochissimi giorni. Poi è arrivata quell’idea che ha «disinnescato la bomba» pur essendo — sono sempre parole di Zaccaria — «una proposta banalissima», cioè quella di accogliere in piazza i ragazzi appena arrivati insieme con i più accaniti difensori della territorialità. Lo ha fatto «pensando che c’erano paure da una parte e dall’altra, ma soprattutto persone e le persone possono parlarsi solo se si conoscono».

A sovrintendere all’incontro c’era Stefania Baldassarre, avvocato e imprenditore che ha assunto l’onere di gestire la struttura sita su un terreno di proprietà della diocesi di Brindisi Ostuni. Anche lei, come il sindaco, ci racconta che non ci sono volute troppe spiegazioni. Dopo pochissimi scambi, soprattutto di sguardi, la gente non si è più opposta. Qualcuno è andato a prendere qualcosa di caldo.

Alla Casa del Sole, a tempo di record, tutto è stato predisposto. L’impegno di Baldassarre, che da allora con polso gestisce la situazione, è andato via via ben oltre l’assistenzialismo. Sono arrivati i fondi messi a disposizione dalle autorità, e per i ragazzi sono cominciate giornate di assistenza legale e soprattutto di apprendimento: dai corsi di italiano a percorsi di preparazione professionale. Un ragazzo, con grande orgoglio anche se con un italiano stentato, ci ha detto di aver fatto «la scuola pizzaiola». Un altro ci assicura: «Ho imparato ad essere un bravo elettricista anche in Italia perché qualcosa da Paese a Paese cambia e soprattutto ora posso capire e farmi capire sul problema che c’è, mi dicono che sono bravo».

La formazione è il tratto caratteristico della Casa del Sole, che peraltro ha una tradizione di accoglienza perché fino a pochi anni fa ospitava un orfanotrofio. Abbiamo visitato questo centro che si distingue innanzitutto per la bellezza del luogo, per l’atmosfera amichevole, ma soprattutto per la precisione e per il rispetto delle regole. Abbiamo parlato con molti dei 90 giovani attualmente ospitati, di cui la maggior parte proviene dall’Africa e solo alcuni dal Medio Oriente o dal Sud est asiatico. Non citiamo i loro nomi per rispetto del procedimento legale in corso in Italia per rispondere alla loro richiesta di asilo. Comunque, in tutti i colloqui, questi ragazzi ci hanno parlato dell’impegno per assicurarsi una qualche professionalità. Ci hanno comunicato «l’ansia di fare qualcosa, fare un lavoro». È toccante rendersi conto che hanno voglia di parlare del loro futuro, che sognano di tranquillità, molto più delle loro vicende personali. Quando sono sollecitati a farlo, cambia l’espressione del loro volto. Le parole, che pure in italiano sono sempre imprecise o pronunciate in modo buffo, si fanno lapidarie: per molti di loro c’è stato il passaggio in Libia. Bisognerebbe riuscire a raccontare la smorfia di dolore che si manifesta sui loro visi quando citiamo i campi profughi in questo Paese dell’Africa settentrionale. Sentiamo di far loro violenza. Ci bastano le parole disperate di uno di loro: «Ho visto fare violenze ma la cosa più brutta è stata vedere l’inganno: quando arrivi, alcuni degli sfruttatori hanno i giubbotti dell’Unhcr (l’organizzazione Onu per i rifugiati) così tu ti fidi e li segui. E non pensano alla disperazione di quando scopri che non sei nelle mani di gente che ti vuole aiutare, ma di uomini senza umanità». Un altro ci confida: «Chi parla di razzismo in Italia non sa cosa sia il razzismo, non sa cosa sia il disprezzo di un uomo per la vita di un altro uomo: lo sai solo se vai in Libia». E aggiunge: «Sì lo so che c’è qualcuno che non ci vuole in Puglia, ma non è vero odio e sono pochi. Tanti sono felici di farci lavorare».

In effetti c’è un dato incontrovertibile: i meno ostili alla prospettiva che questi migranti restino sul territorio sono gli imprenditori. Ne abbiamo incontrati due, titolari di esercizi commerciali. Entrambi hanno sottoscritto contratti a tempo indeterminato per due giovani che definiscono «volenterosi e bravissimi in cucina». Uno, proprietario di due ristoranti, nella nostra conversazione spiega: «Hanno la voglia di fare sacrifici che si aveva noi negli anni cinquanta, la voglia di fare e l’umiltà. È quello che ho imparato io da mio padre che ha aperto questo ristorante 40 anni fa, ma si fa difficoltà a farlo passare ad alcuni dei nostri giovani che vorrebbero solo lavori comodi».

Certamente per l’inserimento è fondamentale quella formazione di base su cui batte tanto l’avvocato Baldassarre. E non solo. Abbiamo incontrato anche il vice prefetto di Brindisi, Maria Rita Coluccia, che ribadisce lo stesso concetto esprimendo seri timori: «Finora non si è messo mano praticamente ai bandi per il rinnovo dei mandati di gestione dei Cas, ma se rimarrà in vita il cosiddetto Decreto Sicurezza, approvato a novembre 2018 dal governo M5s-Lega, saranno ridotti notevolmente i fondi e tante attività non saranno più possibili». Il viceprefetto Coluccia parla di «capitolati che potrebbero essere rivisti». In concreto, il decreto Salvini, dal nome dell’allora ministro dell’interno Matteo Salvini, ha ridotto i fondi: da 35 euro per migrante si è passati a 20. Un taglio che significa fare a meno di psicologi e insegnanti di italiano, ridurre drasticamente le ore del mediatore culturale e dell’assistente sociale. Pensando a questi lavoratori, significa licenziare sul territorio italiano 18.000 persone. Per i migranti significa che, privati di questo tipo di assistenza, rischiano di venire abbandonati a loro stessi e, una volta fuori, di essere fagocitati dal circuito del lavoro nero, del caporalato, della mafia. Tra l’altro, viene anche abolita la sorveglianza notturna nei centri, trasformati in dormitori più insicuri per tutti.

Anche Casa del Sole ha cominciato ad affrontare alcuni tagli e con i prossimi bandi di assegnazione dovrà fare i conti con le nuove cifre. L’espressione solare dell’avvocato Baldassarre quando parla dei progressi nel rispetto delle regole o dei successi lavorativi dei suoi ragazzi cambia quando affrontiamo questo discorso. Nelle sue parole, estremamente competenti e battagliere, c’è l’impegno a mettere in campo tutti gli strumenti giuridici possibili per difendere gli standard raggiunti.

Ma poi c’è anche un moto di fiducia: «Non credevamo di poter fare tutto quello che il Signore ci ha aiutato a fare finora, in qualche modo non ci abbandonerà». Sono tanti gli aspetti che fanno del Cas Casa del Sole un centro di assistenza straordinaria.

La crisi ambientale è una crisi morale

Responsabilità da condividere tra scienziati, imprese, consumatori e politici   con la consapevolezza che si deve cercare l’alternativa alla distruzione

«Lavorare per un ambiente migliore ha senso se si lavora anche per avere persone migliori»: è la premessa, un po’ sorprendente, che il ricercatore ed esploratore Alex Bellini fa prima di parlare degli otto milioni di tonnellate di materiale plastico che ogni anno si riversano negli oceani, senza eccezione per il 2019. Abbiamo intervistato Bellini — che con le sue competenze scientifiche collabora con università italiane e straniere e organizzazioni come il Wwf — appena di ritorno dal particolarissimo viaggio alla Garbage Patch, la cosiddetta «isola di plastica» dalle dimensioni pari a due volte l’estensione della Francia, che si trova tra San Francisco e le isole Hawaii. Bellini ha partecipato al convegno Ocean Race Summit che ha riunito la scorsa settimana a Genova rappresentanti della politica, del business e della ricerca per discutere dei danni, ma anche delle prospettive future e delle soluzioni, del marine litter, l’inquinamento dei mari. Bellini, da esperto, usa termini specifici per individuare responsabilità e vie di uscita sul piano tecnologico come sul piano legislativo, ma innanzitutto invita ad «ascoltare il messaggio della Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, che chiarisce come la crisi ambientale sia solo lo specchio di una crisi culturale, morale». «Senza comprendere questo non ci saranno soluzioni che tengano».

La Garbage Patch si trova in una zona di mondo nota per i paesaggi selvaggi fatti di scogliere, cascate, vegetazione tropicale, spiagge di sabbia dorata, rossa, nera e persino verde. Non è l’unico scempio. Almeno altre quattro gigantesche isole di rifiuti macchiano gli oceani, e le coscienze. Quando chiediamo a Bellini di riferire qualcosa delle prime emozioni provate alla vista della Garbage Patch non ha esitazioni e parla di «delusione», spiegando all’«Osservatore Romano» che non si deve immaginare tutta una montagna di rifiuti plastici che potrebbe scioccare chiunque e provocare una reazione immediata. Piuttosto, oltre a una relativamente piccola parte più evidente e più fotografata, c’è il dramma di una miriade di microparticelle che inquinano terribilmente ma che — dice Bellini — non sono così evidenti. La definisce «una zuppa», angosciante per chi si avvicina, ma difficile da “immortalare” e invisibile ad esempio dai satelliti. Ci si deve fermare a comprendere rinunciando alla spettacolarizzazione, di cui purtroppo, invece, oggi sembra impossibile fare a meno per qualunque denuncia mediatica.

In realtà, gli elementi per mettere a fuoco i danni ci sono e i dati dovrebbero essere “spettacolari” anche senza immagini. Per ogni chilometro quadrato di estensione marina, si contano almeno cento chili di microparticelle di plastica in sospensione. E non stiamo parlando più delle cinque isole di plastica in continuo accrescimento negli oceani, ma del resto delle acque a partire dal Mar Mediterraneo. E il punto è che degli otto milioni di tonnellate citati, in superficie restano “solo” 300.000 tonnellate. Significa che il resto si deposita sui fondali o torna con le correnti sulle coste.

Si capisce che le isole sono davvero solo la punta di un iceberg che provoca effetti di tossicità generale, di stress ossidativo, di interferenza endocrina sugli esseri umani — con conseguenze in termini di malattie e patologie importanti — e distrugge le risorse del pianeta. Il mare è sempre stato considerato uno scarico naturale. La parte dei rifiuti biologici è riassorbita e l’acqua purificata grazie ai cicli biologici, ma i danni provocati da fattori chimici creano gravi e persistenti squilibri. La produzione mondiale di resine e fibre plastiche è cresciuta dai due milioni di tonnellate del 1950 ai 400 dei giorni nostri. E 10.000 milioni di tonnellate prodotte in 70 anni hanno reso la plastica uno dei simboli industriali — con cemento e acciaio — dell’era «antropocene», l’epoca geologica in cui viviamo.

Parlare di smaltimento è sostanzialmente ridicolo se si pensa che per una bottiglia o un sacchetto di plastica servono tra i 100 e i 1000 anni, a seconda dell’equilibrio tra i composti di carbonio e di idrogeno che, ricavati dal petrolio e dal metano, vengono agglomerati attraverso processi chimici complessi in lunghe catene chiamate «polimeri».

È evidente l’obbligato coinvolgimento della politica. Si deve invertire la rotta assicurando strumenti legislativi adeguati per sostenere le aziende che producono e gestiscono i rifiuti in ecosostenibilità e, invece, penalizzare quelle che non riducono l’impatto ambientale. Significa, ad esempio, ripensare l’eco-design dei prodotti anche per evitare sprechi in produzione, consumare il minor numero di risorse possibile e curare un corretto smaltimento dei rifiuti a terra prima che siano riversati nei fiumi e quindi nei mari.

Ma anche in tema di responsabilità del legislatore torna la raccomandazione dell’esploratore di «lavorare su causa e effetto», perseguendo «accanto alle soluzioni tecnologiche un profondo cambiamento morale». E a questo proposito, Bellini fa un esempio preciso che diventa forte denuncia di un fenomeno che in qualche modo tutti avvertiamo ma di cui non si parla abbastanza: «l’obsolescenza programmata». Significa decidere a tavolino di produrre oggetti di consumo — dal telefonino alla lavatrice — in modo che non durino più di tanto. È uno di quegli obiettivi per i quali si pagano benefit e bonus che vanno ad arrotondare un bel po’ gli stipendi di programmatori e manager. Non è un segreto ma non è neanche oggetto di discussione seria.

Il dibattito a Genova è stato arricchito da un panel di relatori che ha spaziato da imprenditori ad ambientalisti, da velisti (del calibro dello statunitense Mark Towill) a chimici, da politici locali a giovani influencer. Non è mancato spessore filosofico: tra gli altri, Wayne Visser, scrittore futurista e accademico dell’Istituto di sostenibilità dell’Università di Cambridge, ha parlato delle sfide per cambiare immaginario e visione del pianeta, incoraggiando a uno sguardo positivo, seppure allarmato, che lasci spazio alla creatività e alla voce dei giovani. Anne-Cécile Turner, direttore del progetto di sostenibilità della Ocean Race ci ha parlato della «importante missione di fare da catalizzatori di soluzioni per la salute degli oceani».

Che si tratti di Millennial, di generazione Y o Z, i giovani oggi sono di fatto la forza propulsiva che darà forma al futuro del pianeta. Possono fare la differenza già adottando soluzioni condivise semplici come l’utilizzo di borracce ricaricabili, per fermare lo tsunami di bottiglie monouso ovunque nei nostri mari. Lo ha ricordato la rappresentante genovese del movimento Fridays for Future, Francesca Ghio, che ha chiuso i lavori con un appello ai “grandi” dell’Onu chiedendo «chance per fare rete e allargare la comunità di persone in cerca di soluzioni a tutti i livelli». E il convegno si è svolto proprio nella settimana in cui in ogni parte del mondo si organizzavano cortei di ragazzi e il Panel Intergovernativo per i cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (Ipcc) pubblicava il rapporto sulla salute degli oceani in vista del Summit Onu sul clima al via oggi a New York.

L’Unione europea è stata presente a Genova con un videomessaggio del commissario europeo all’ambiente, agli affari marittimi e alla pesca, Karmenu Vella. Ma, al di là delle parole, in realtà è da citare un’iniziativa lanciata l’anno scorso dalla Commissione Ue che proprio in questi giorni ha raccolto i primi significativi frutti: in virtù di una «alleanza circolare per la plastica», hanno raggiunto quota 100 i partner pubblici e privati che hanno sottoscritto l’impegno a contribuire per raggiungere, entro il 2025, l’obiettivo comune di utilizzare ogni anno 10 milioni di tonnellate di plastica riciclata in nuovi prodotti. La dichiarazione, firmata da piccole e medie imprese, grandi società, associazioni di imprese, organismi di normazione, organizzazioni di ricerca e autorità locali e nazionali, approva l’obiettivo dei 10 milioni di tonnellate e chiede una transizione verso l’eliminazione totale dei rifiuti di plastica in natura e l’abbandono della messa in discarica. Sono previste azioni concrete tra cui migliorare la progettazione dei prodotti per renderli più riciclabili; individuare sia il potenziale inutilizzato sia le lacune in materia di investimenti; creare un programma di ricerca e sviluppo; istituire un sistema di monitoraggio trasparente e affidabile per tenere traccia di tutti i flussi di rifiuti di plastica nell’Ue.

Motivazioni, finalità e indicazioni non mancano. Non deve venire meno la volontà di essere «persone migliori», come dice Bellini, rispettose dell’humus vitale in cui viviamo e dell’ambiente che sarà dei nostri figli, e capaci di comprendere il valore di tutto ciò anche se non in grado di chiamarlo Creato.

L’Osservatore Romano, 23 Settembre 2019

Un seme che ha prodotto molto frutto

A trent’anni dall’assassinio di Jerry Masslo

«Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato ed allora ci si accorgerà che esistiamo»: così diceva Jerry Essan Masslo, il rifugiato sudafricano assassinato esattamente 30 anni fa, che resta la figura simbolo di una precisa e concreta svolta legislativa in Italia. La sua vicenda personale, infatti, scosse tanto profondamente l’opinione pubblica da portare ad una riforma della normativa per il riconoscimento dello status di rifugiato. La sua storia rappresenta un monito a ricordare il doveroso sforzo di adeguare la legislazione ai bisogni e alle ingiustizie dei tempi, un richiamo alle drammatiche situazioni che ancora oggi si verificano per migranti e richiedenti asilo e anche un’occasione per riflettere sul peso della parola razzismo.

Vittima di sfruttamento nelle coltivazioni di pomodori in Campania, Jerry Essan Masslo la sera del 24 agosto 1989 fu freddato a colpi di arma da fuoco a Villa Literno, in provincia di Caserta, da criminali capaci di andare a derubare migranti impegnati 15 ore al giorno per cifre inadeguate e in condizioni igienico-sanitarie inaccettabili. Poco dopo la sua morte, ebbe luogo a Roma la prima manifestazione antirazzista mai organizzata in Italia sino ad allora, con la partecipazione di oltre 200.000 persone, italiani e stranieri.

Ha rappresentato per l’Italia la presa d’atto della necessità di garantire adeguati diritti e doveri agli immigrati, che nel corso degli anni ottanta erano cresciuti considerevolmente di numero. La vicenda del mancato riconoscimento dello status di rifugiato a Jerry Masslo, in quanto non cittadino dell’Europa dell’est, portò infatti il governo Andreotti di quel momento a varare, in tempi record, il decreto legge 30 dicembre 1989 n. 416, recante norme urgenti sulla condizione dello straniero, convertito poi nella Legge 28 febbraio 1990 n. 39: la cosiddetta legge Martelli. La legge Martelli, all’articolo 1, riconobbe agli stranieri extraeuropei sotto mandato dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, lo status di rifugiato, eliminando la «limitazione geografica» per i richiedenti asilo politico stabilita in base alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951. Furono, inoltre, riconosciuti e garantiti — sulla carta — i diritti dei lavoratori stranieri.

Nella sua tappa a Roma, prima di recarsi nel sud Italia per il lavoro stagionale, Masslo aveva trovato accoglienza presso la struttura «Tenda di Abramo» della Comunità di Sant’Egidio, che non lo ha mai dimenticato e che oggi ha riunito al cimitero di Villa Literno italiani e stranieri, provenienti da Roma, Napoli e altre città, per una marcia silenziosa. Vengono deposti fiori anche in omaggio ad alcune tombe senza nome di migranti morti mentre si trovavano in quelle campagne per il lavoro dei campi e volutamente collocate in questi anni accanto a quella di Masslo. Il comunicato con cui è stata presentata l’iniziativa è chiaro: «Molte cose sono cambiate dalla vicenda di Jerry, ma resta il gravissimo problema dei braccianti stranieri sfruttati nelle campagne per pochi soldi e costretti a vivere in alloggi più che precari. E restano soprattutto sentimenti di intolleranza e di xenofobia — cresciuti purtroppo negli ultimi tempi — che occorre condannare». Con una considerazione che vorremmo scontata e che invece si fa sempre più doverosa: «L’Italia, se tiene al suo futuro, deve allontanare ogni radice di odio e di discriminazione e puntare su integrazione, diritti e un lavoro dignitoso per tutti».

Nella vicenda di Masslo, esemplare per comprendere il fenomeno dell’immigrazione e il difficile cammino verso l’integrazione in Italia, c’è un altro fatto da ricordare. Cinque anni dopo l’eccidio, i clan della camorra, infastiditi dalla eccessiva attenzione mediatica che le campagne di Villa Literno continuavano a riscuotere — il punto di ritrovo dei lavoratori neri era per tutti «la piazza degli schiavi» — nel settembre del 1994 reagirono causando il rogo del ghetto costituito dalle loro abitazioni, proprio mentre la prefettura di Caserta metteva a punto un piano per una soluzione alternativa. Monsignor Raffaele Nogaro, allora alla guida della diocesi di Caserta, definì l’incendio del Ghetto di Villa Literno, un «incendio di Stato». Nessuno poteva guardare dall’altra parte. Alla luce di quelle vicende, oggi non si può ignorare che gli episodi di razzismo, i crimini di odio, le azioni di ostilità verso gli stranieri, le aggressioni a sfondo xenofobo sono aumentati in maniera inquietante, al punto che dall’estate 2018 si parla di «un’emergenza razzismo» in Italia, come peraltro in altri paesi europei. Esistono diverse agenzie che raccolgono questo tipo di dati, ma non c’è un coordinamento centralizzato. Nel 2010 è stato creato l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), un’agenzia del ministero degli Interni che raccoglie le segnalazioni alla polizia di crimini di odio e risulta che, tra tutte le discriminazioni, quelle per motivi etnico-razziali hanno la percentuale più alta, arrivando a rappresentare l’82 per cento delle segnalazioni.

Jerry Essan Masslo era nato nella regione del Sudafrica da cui proveniva Nelson Mandela, precisamente a Umtata, oggi denominata Mthatha, il 4 dicembre 1959 e, nonostante le condizioni di povertà della famiglia, aveva studiato. Quando una troupe della Rai raggiunse la baracca per documentare il fenomeno sempre più diffuso dello sfruttamento nei campi di africani irregolari, Masslo rilasciò un’intervista in cui spiegava ragioni e rivendicazioni. Intervista che la tv pubblica italiana rimandò in onda quando arrivò la notizia della sua uccisione. Una sorta di testamento in cui Masslo affermava: «Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile». Parole cariche di dolore come la considerazione finale: «Il razzismo è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto».

Oggi c’è bisogno di riascoltare le parole e la storia di Jerry Masslo e forse ce n’è ancora più bisogno rispetto a 30 anni fa. Sfruttamento, discriminazione, razzismo verso i lavoratori immigrati non sono, per l’Europa, novità di questi ultimi anni. Inoltre negli ultimi anni sui mass media l’immigrazione viene presentata essenzialmente come un problema di ordine pubblico, da affidare sempre più alle polizie, alle marine militari, alle carceri, ai centri di detenzione. Ed è così che la massa degli immigrati, composta nella sua quasi totalità di lavoratori — forzati all’emigrazione dalla devastazione per conflitti e cambiamenti climatici di crescenti aree del Sud del mondo — viene criminalizzata come un pericolo da cui proteggersi con ogni mezzo, se non come un nemico da stigmatizzare. Ricordare Jerry Masslo deve essere un atto di umanità ma soprattutto l’occasione per riflettere su tanti piani di responsabilità: dalla politica alla società civile.

L’Osservatore Romano, 24 agosto 2019