Da tutto il mondo le preghiere alla Madonna che scioglie i nodi

Cresce l’attesa per la riapertura ai fedeli, superate le misure anti-covid, della chiesa che conserva il quadro originale di Nostra Signora che scioglie i nodi. Siamo andati ad Augsburg, in Germania, dove il custode ogni giorno porta le email con le preghiere che arrivano da tutto il mondo. Con noi don Gunter Grimma e Martin Ziegelmayr dell’Associazione Virgen Maria Knotenlöserin

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Nella piccola chiesa di San Peter Perlach, che nella cittadina tedesca di Augsburg  conserva il quadro originale dedicato a Nostra Signora che scioglie i nodi, non si può accedere da mesi e mesi per via delle misure contro la pandemia. Si celebra una sola Messa la domenica, ma oltre al sacerdote possono partecipare solo altre due o tre persone per volta. In ogni caso, la devozione alla Vergine che scioglie i nodi è più viva che mai: sono incessanti le richieste di notizie sulla riapertura e soprattutto si moltiplicano i messaggi inviati con le intenzioni di preghiera ispirate dalla particolarissima immagine.

L’associazione di cittadini Virgen Maria Knotenlöserin

Ad occuparsi della chiesa che custodisce il quadro della Madonna che scioglie i nodi è l’associazione di cittadini Virgen Maria Knotenlöserin. Da 32 anni la presiede Martin Ziegelmayr, che ci ha guidato eccezionalmente ad una visita:

L’amministratore Ziegelmayr sottolinea il noto legame con Papa Francesco, ricordando che da giovane Jorge Mario Bergoglio, durante i suoi studi di teologia in Germania, vide l’immagine di questo quadro, rimanendone profondamente colpito. Tornato in patria, ne ha diffuso il culto che da Buenos Aires ha raggiunto poi l’intera Argentina e tutta l’America del sud. In particolare nel 1996 è stata realizzata una copia in Argentina che ha destato grande curiosità. E Ziegelmayr aggiunge che dall’inizio di questo Pontificato si avverte un moltiplicarsi dell’attenzione a questa devozione in tutto il mondo. Un fenomeno – assicura – che non si è fermato neanche in tempo di misure restrittive da coronavirus. Se sono diminuiti gli accessi di persone fisiche, si sono centuplicati i messaggi.

La storia del dipinto

Ziegelmayr ricorda che Virgen Maria Knotenlöserin è un dipinto a olio su tela realizzato intorno al 1700 dal pittore tedesco Johann georg Melchior Schmidtner. Il dipinto, in stile veneziano con influenza barocca, di centimetri 182 x 110, fu realizzato dall’artista nella chiesa di St. Peter am Perlach su commissione di Hieronymus Ambrosius Langenmantel, un nobile prelato e canonico dottore. La tradizione racconta che il nonno del canonico committente aveva attraversato una crisi coniugale e era riuscito a superarla pregando la Vergine Maria.

Una devozione sempre più ravvivata

Di fronte al quadro originale e unico della Madonna che scioglie i nodi ci ha accompagnato anche don Gunter Grimma del clero della città bavarese:

Don Gunter racconta che a parte il periodo di pandemia normalmente è straordinario l’afflusso alla piccola chiesa per accostarsi al quadro della Madonna che scioglie i nodi. Si contano anche 500 persone nell’arco di un giorno – afferma – e si tratta di pellegrini dalla Germania e dalle più varie parti del mondo.

La rappresentazione

Poi don Gunter spiega che viene rappresentata Maria al centro, con a destra un angelo che le porge un filo pieno di nodi intrecciati e a sinistra un altro angelo che raccoglie il filo libero dai nodi che Maria ha sciolto. C’è la luna (secondo la visione riportata al capitolo 12 dell’Apocalisse) ai piedi della Vergine che calpesta un serpente (rappresentazione del diavolo, secondo la profezia di Genesi 3,15). In basso al centro sembra sia rappresentata la scena biblica di Tobia. Le figure sono molto piccole ma sembra di poter individuare il giovane israelita in viaggio per raggiungere colei che diventerà la propria sposa. E’ guidato dall’arcangelo Raffaele e accompagnato dal proprio cane, simbolo della fedeltà di Dio. Sul capo, Maria ha una corona di dodici stelle.  A destra si vede un angelo che porge a Maria un nastro con nodi di tutti i tipi. All’altro lato, il sinistro, tra la luce della misericordia e della salvezza divina, un altro angelo riceve un nastro che scivola liscio tra le sue mani: significa che la preghiera del fedele è stata ascoltata e che il nodo è stato sciolto per intercessione di Maria.: questo spiegherebbe la presenza sulla tela del riferimento biblico a Tobia.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2021-10/vergine-maria-scioglie-i-nodi-augsburg-germania-papa-francesco.html

L’assistenza alimentare chiave per promuovere la pace nel mondo

Reportage:  Il senso e il valore del Premio Nobel al World Food Programme

Un riconoscimento per l’impegno da sempre contro la terribile “pandemia delle carestie”. È questo il senso del Premio Nobel per la Pace 2020 assegnato al Wfp (World Food Programme), l’agenzia delle Nazioni Unite che da 75 anni si prefigge di combattere la fame nel mondo. Si devono considerare i successi raggiunti e l’impegno concreto di assistenza nel 2019 a 97 milioni di persone in 88 Paesi. Ma, soprattutto, la presidente del comitato di Oslo, Berit Reiss-Andersen, ha chiarito che si è voluto mettere in luce lo straordinario slancio dell’agenzia di fronte alla diffusione del covid-19: sono stati infatti intensificati gli sforzi prevedendo carestie di “proporzioni bibliche” nel giro di pochi mesi. Il comitato del Nobel, dunque, ha ricordato al mondo che «il cibo resta il miglior vaccino contro il caos».

Per l’epidemia da covid-19, 130 milioni di persone rischiano l’inedia. Si aggiungono agli oltre 800 milioni riscontrati negli ultimi due anni. Ad aprile scorso, il direttore esecutivo del Wfp, David Beasley, aveva dichiarato: «Mentre combattiamo la pandemia, siamo di fronte al rischio di una pandemia di fame, il pericolo reale è che molte persone muoiano più per l’impatto economico del covid-19, che per il virus stesso». Alla notizia del Nobel, Beasley ha commentato definendo il premio «un potente promemoria per il mondo che la pace e l’obiettivo fame zero vanno di pari passo».

In questi giorni il Fondo monetario internazionale ha quantificato i danni della pandemia a livello globale: 28.000 miliardi di dollari bruciati entro i prossimi cinque anni per colpa di una crisi, quella generata dalla pandemia di covid-19, che lascerà cicatrici evidenti almeno nel medio termine, in particolare per quanto riguarda il mercato del lavoro. E con una disconnessione tra mercati finanziari ed economia reale che, se protratta nel tempo, rischia di diventare un altro fattore di criticità della congiuntura globale.
Nell’anno in cui il mondo è stato sconvolto dalla pandemia del nuovo coronavirus, in molti scommettevano sulla vittoria dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). L’annuncio è arrivato il 12 ottobre un po’ a sorpresa: si contavano quest’anno 318 candidati per la categoria (211 erano individui e 107 organizzazioni).

Il premio al Wfp ci ricorda soprattutto che la pandemia passerà, mentre la fame era e resterà un problema globale a prescindere. Sembra che il Comitato di Oslo abbia voluto idealmente ricordare che la fame è  l’estrema conseguenza di molti fenomeni globali, tra i quali la pandemia è solo l’ultimo in ordine cronologico. Nel 2020, si è assistito a una recrudescenza di guerre, crisi economiche, al declino nei flussi di aiuti internazionali e a un drastico calo del prezzo del petrolio, il cui effetto combinato porta a una diminuzione delle scorte alimentari. Sono questi gli elementi su cui occorre lavorare per invertire la rotta ed evitare un disastro globale.
Come ricordato dai leader mondiali durante l’ultima Assemblea generale delle Nazioni Unite, lo scopo principale dell’azione della comunità internazionale deve essere quello di combattere la povertà, in tutte le sue sfaccettature. In primo luogo, le immense diseguaglianze sociali che oggi caratterizzano le nostre società, con ricadute molteplici. Va ricordato che, secondo i dati del Fondo monetario e della Banca Mondiale, la maggioranza dei Paesi del mondo era  impreparata ad affrontare l’emergenza covid: solo 26 dei 158 Paesi analizzati investivano a sufficienza in salute pubblica.

Ma è altrettanto significativo che le politiche sanitarie di Stati Uniti e India, due dei Paesi al mondo più colpiti dalla pandemia, continuano ad escludere centinaia di milioni di persone. Dunque, sono gravi le diseguaglianze tra Stati ma anche quelle all’interno delle società.
Va sottolineato infine che la povertà è anche povertà farmaceutica, ovvero mancato accesso alle cure mediche ed ai medicinali essenziali. È un altro elemento di quella spirale di esclusione e di disuguaglianza che va di pari passo con la povertà e la fame.

C’è poi una povertà che espone ai disastri ambientali.  In troppi contesti mancano, infatti, strutture socio-economiche per prevenire o ridurre al minimo i danni che gli effetti negativi del cambiamento climatico possono causare.  Il fenomeno è sotto gli occhi di tutti nelle drammatiche cronache di catastrofi legate a piogge eccessive, inondazioni, smottamenti, innalzamento del livello del mare e siccità.
Infine, dobbiamo ricordare la povertà di istruzione: un percorso di scolarizzazione è essenziale per sollevare le famiglie e le comunità dal ciclo della povertà. Purtroppo, la pandemia ha influito negativamente anche su questo aspetto, tanto che il tasso di abbandono scolastico  è aumentato drasticamente.       di Fausta Speranza

Osservatore Romano 16 Ottobre 2020

 

Una scelta politica lungimirante che ha segnato l’Europa

di FAUSTA SPERANZA
Ancora alla metà degli anni Ottanta, sembrava un sogno cancellare la spartizione del territorio tedesco decisa in tempi di guerra fredda dalle potenze alleate nella seconda guerra mondiale. Eppure il 3 ottobre del 1990, la Germania tornava unita dopo i drammatici anni del Muro di Berlino. Sono state diverse le tappe e diverse le strategie per rendere possibile la riunificazione. Si sono distinti protagonisti del mondo della politica e dell’economia tedeschi ed europei, ma anche intellettuali. Non mancavano ferite profonde per la drammatica pagina di storia da cui si usciva, seri interrogativi e timori concreti, voci allarmistiche su flussi migratori insostenibili, ma su tutto ha prevalso una visione del futuro dettata da uno slancio ideale.

I problemi non sono mancati e non tutte le scelte sono state le migliori, ma, 30 anni dopo, resta l’esempio di quella prospettiva di ferma volontà e di lungimiranza, diversa dall’attitudine a ragionare in funzione di “ora e subito”, spendibile in termini di consenso immediato, che oggi riconosciamo come “pre-sentismo”. All’inizio degli anni Novanta, i Länder che uscivano dalla dissolta Repubblica Democratica Tedesca (Ddr) erano arretrati di decenni rispetto a quelli che li accoglievano nella Repubblica Federale Tedesca(Rft). Non c’era paragone per standard di vita, infrastrutture, capacità  produttive, libertà di ricerca, innovazione, imprese capaci di stare sui mercati. Alla promessa dell’allora cancelliere Helmut Kohl di elevare gli standard di vita al livello di quelli dell’Occidente non si può dire che non seguirono i fatti. Non è mancato il business: nel giugno 1990, è stata fondata la Treuhandstalt, alla quale è stato dato il compito di ristrutturare 8.500 imprese di Stato della Ddr, con oltre quattro milioni di dipendenti. Sono state privatizzate le caserme, le proprietà dei partiti, le case popolari, 2,4 milioni di ettari di terreni agricoli e foreste. In parallelo, è partito un grande piano di infrastrutture che ha portato nei Länder orientali strade, ferrovie, ponti, parchi, e che ha permesso di rinnovare il 65 per cento del patrimonio abitativo e di eliminare il 95 per cento delle emissioni di anidride solforosa, delle quali la Ddr era il primo emettitore europeo. Ma non è stata solo una questione di affari.

Con atto di generosità tutta politica, Kohl decide, contro il parere di quasi tutti gli economisti, di trasformare i marchi dell’Est in marchi dell’Ovest alla parità, quando i primi avevano un valore inferiore. E’ possibile con l’entrata in vigore, il 1 luglio 1990, del Trattato sull’unione monetaria, economica e sociale (Währungs-, Wirtschafts- und Sozialunion) tra i due Stati. E nel 1991 viene introdotta la Solidaritätszuschlag, una tassa del 5,5 per cento sul reddito di tutti i cittadini tedeschi per finanziare la ricostruzione dell’Est. Di recente è stata ridotta, ma nel trentennio ha finanziato uno spostamento di risorse da Ovest a Est per migliaia e migliaia di miliardi.
Nessun leader europeo ha messo in discussione le scelte di Kohl, piuttosto si è colta l’occasione per dare impulso al progetto di moneta unica europea, passo decisivo, anche se non l’unico ovviamente da fare, verso una maggiore integrazione. Le cancellerie europee in realtà erano anche timorose della forza che sarebbe andata acquisendo la Germania unita e, in sostanza, avevano dato il via libera alla riunificazione proprio in cambio della rinuncia, da parte della Germania, alla sovranità monetaria.

Era stato previsto anche il fattore migrazione e infatti un milione e novecentomila persone sono passate in poco tempo da Est a Ovest, tantissimi piccoli centri e le campagne si sono spopolati, soprattutto le ragazze se ne sono andate. Alcune zone sono indubbiamente rimaste ai margini. Ma ci sono state anche alcune città, come Lipsia e Dresda in Sassonia, che hanno riscoperto e messo in campo forte spirito imprenditoriale: sono nate imprese ad alta tecnologia.
La storia di questi trent’anni è anche una storia di diseguaglianze e di crescenti insofferenze sociali. realtà è la stessa storia che si è vissuto e si vive in altri territori europei. Il divario tra Länder occidentali e Länder orientali oggi è minore di quello che si registra in Italia tra regioni come Lombardia e la Calabria.
In Germania, però, si è creata una forte tensione politica: nelle elezioni del 2019, rispetto a quelle del 2014, l’estrema destra ha raddoppiato i consensi in Brandeburgo raggiungendo il 23.7 per cento dei voti, e li ha quasi triplicati in Sassonia ottenendo il 27.8 per cento. Dunque, nell’Est la media è del 25 per cento di elettori dell’estrema destra. È’ evidente la sfida a livello sociale che di questi tempi Berlino e in realtà l’intera Unione europea devono affrontare insieme con le incognite della crisi sanitaria ed economica. Al di là delle possibili soluzioni concrete, aiuterebbe una visione non “presen-tista”, cioè non schiacciata sul presente, ma di grado di ricordare il passato e di pensare il futuro.
Oggi il pensiero va al giorno della Deutsche Wiedervereinigung, la riconquista dell’unità nazionale tedesca, in relazione al più antico processo di Deutsche Einigung, l’unificazione che portò alla costituzione dello Stato tedesco nel 1871.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale in Europa, la Germania era stata divisa in quattro zone di occupazione. La vecchia capitale Berlino, in quanto sede del Consiglio di controllo alleato, era stata suddivisa in quattro zone di occupazione. Benché l’intento delle quattro potenze occupanti fosse di governare insieme una Germania con i confini del 1947, l’avvento delle tensioni della guerra fredda fece sì che le zone francese, britannica e statunitense formassero nel 1949 la Repubblica Federale Tedesca (e Berlino Ovest), escludendo la zona di occupazione russa, che divenne nello stesso anno la Repubblica Democratica Tedesca (comprendente Berlino Est). Oltre a ciò, diverse parti dell’ex Reich tedesco vennero annesse alla Polonia e all’Unione Sovietica.
Si è arrivati alla Wiedervereinigung grazie ai negoziati tra i due Stati culminati in un Trattato di Unificazione, mentre i negoziati tra le due “Germanie” e le quattro potenze occupanti — Francia, Regno Unito, Stati Uniti d’America e Unione Sovietica — avevano prodotto il cosiddetto Trattato due + quattro, che garantiva la piena indipendenza a uno Stato tedesco riunificato.
Legalmente non si trattò di una riunificazione tra i due Stati tedeschi, ma dell’annessione da parte della Germania Ovest dei cinque Länder della Germania Est e di Berlino Est: una scelta che ha velocizzato il processo evitando la creazione di una nuova costituzione e la sottoscrizione di nuovi trattati internazionali. Le prime elezioni libere nella Germania Est, si sono tenute il 18 marzo 1990.
A livello simbolico, la tappa fondamentale è stata e rimane la caduta del Muro di Berlino, avvenuta il 9 novembre 1989. Le emozioni tornano a quel tardo pomeriggio quando la barriera di mattoni, filo spinato e nidi di mitragliatrice, che dal 13 agosto 1961 aveva spezzato la città, si sgretolava. Nessuno pensava alla produttività, alla disoccupazione, alla crescita dell’economia. Il pensiero dei berlinesi e di tutto il mondo era per la vittoria della democrazia.

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2020-10/una-scelta-politica-lungimirante-che-ha-segnato-l-europa.html

a Pag. 2 del Numero cartaceo del 4 Ottobre 2020

https://media.vaticannews.va/media/osservatoreromano/pdf/quo/2020/10/QUO_2020_227_0410.pdf

Punto nevralgico del Medio Oriente

Il Libano in bilico tra crisi politica e tensioni sociali

di Fausta Speranza

“Salvare la città di Beirut al di là della politica e dei conflitti”: è l’appello del Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Béchara Boutros Raï, all’indomani delle violente esplosioni nel porto che hanno lasciato “la città devastata”, 136 morti, 5000 feriti, dispersi e dubbi sulle responsabilità. Il Libano sta attraversando una gravissima crisi economico-sociale e “non è in grado di far fronte a questa catastrofe umana”. Da qui la richiesta accorata di aiuto del Patriarca rivolta “a tutti gli Stati del mondo”. In questione c’è un territorio chiave, punto nevralgico di un contesto mediorientale che non si è mai presentato così militarizzato dagli anni dei conflitti mondiali, teatro di confronti per corrispondenza di altre potenze regionali, cartina tornasole di contrasti che investono Oriente e Occidente.

Le deflagrazioni, avvertite anche a Cipro, sembra siano avvenute per un tragico incidente nel deposito di nitrato di ammonio dove, però, c’è chi sostiene che ci fossero anche armi. Secondo documenti citati dall’emittente Al Jazeera, funzionari doganali avevano messo in guardia già anni fa le autorità contro il “grave pericolo” rappresentato dall’enorme quantità del composto chimico utile in agricoltura ma anche per produrre esplosivo.

In Libano gli interessi privati prevalgono da anni sul bene comune, come denunciano da tempo i vescovi che si sono uniti alle richieste di una svolta nel Paese allo scoppio delle proteste che, a ottobre scorso,   hanno visto sfilare insieme cristiani e musulmani, gente meno abbiente e professionisti di una classe media falciata. Cortei che non si sono mai fermati neanche al cambio di governo o durante il lockdown, che peraltro è ripreso dopo una pausa, a seguito della nuova impennata di Covid-19. I contagi nei dati governativi restano sempre più bassi di quelli che ospedali e centri per migranti denunciano, ma a questo punto è evidente la tragedia, se si considera che le strutture sanitarie erano quasi al collasso prima che tre ospedali di Beirut fossero rasi al suolo e altri due parzialmente distrutti.

Le devastanti esplosioni rappresentano una catastrofe per il Libano, ma anche uno scossone per la comunità internazionale: non si può continuare a dimenticare il Paese che è stato la Svizzera del Medio Oriente e che nel default finanziario rivela incapacità interne ma anche mutati equilibri di investimenti e dunque di potere regionali. E poi ci sono pagine di storia ancora da completare: si aspetta il verdetto del Tribunale Speciale dell’Onu sull’assassinio di Rafīq al-Ḥarīrī, il primo ministro ucciso, con altre 21 persone, in una esplosione sul lungomare di Beirut nel 2005. Per quell’atto terroristico sono state processate in contumacia quattro persone, membri di Hezbollah, il movimento sciita e poi partito al governo  che però ha sempre negato le accuse. Per rispetto alle vittime l’annuncio è stato posticipato da domani al 18 agosto. In ogni caso, dopo 15 anni arriva in un Paese colpito al cuore. Non può cadere nel vuoto l’invocazione del Patriarca: “Non solo aiutare Beirut, ma “far sì che il Libano ritrovi il suo ruolo storico a servizio dell’uomo, della democrazia, della pace in Medio Oriente e nel mondo”.

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2020-08/punto-nevralgico-del-medio-oriente.html

 

 

 

 

I vescovi europei e il Libano

A nome di tutti i vescovi dell’Unione Europea, il cardinale Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Comece, Commissione degli episcopati dell’Ue, condivide il dramma e la tristezza della popolazione di Beirut a seguito delle orribili e mortali esplosioni avvenute nel porto della capitale del Libano, assicura preghiere per le vittime e lancia un forte appello per il Libano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“A nome di tutti i vescovi dell’Unione Europea, condivido il dramma e la tristezza della popolazione di Beirut a seguito delle orribili e mortali esplosioni avvenute   nel porto della capitale del Libano”. Sono parole espresse dal cardinale Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Comece, Commissione degli episcopati dell’Ue, con un comunicato dopo la tragedia delle esplosioni a Beirut, assicurando “le più sentite condoglianze alle famiglie delle vittime e a tutti coloro che hanno perso i propri cari: amici, vicini, colleghi”, elevando “preghiere per le anime dei defunti e per la pronta guarigione dei feriti”.Condividendo le parole di Papa Francesco, i vescovi europei pregano per il Libano “affinché, attraverso la dedizione di tutte le sue componenti sociali, politiche e religiose, possa affrontare questo momento estremamente tragico e doloroso”.

R. – Il Libano è il nostro vicino. Ci sono tanti cristiani, tanti musulmani che vogliono vivere in pace in questo Paese, un Paese che è stato molto prospero e ora è diventato molto povero: la gente ha tante sofferenze … Non dobbiamo dimenticare che il Libano ha accolto tanti profughi, che anche nella Chiesa in Europa ci sono libanesi, così come nei nostri Paesi. Ad esempio, a Cipro, la Chiesa cattolica di Cipro è la Chiesa maronita: sono persone venute dal Libano. Quindi, in un certo senso, fanno parte dell’Europa e noi nelle nostre preghiere, nell’aiuto concreto non dobbiamo dimenticare il Libano.

Eminenza, qual era l’impegno delle Chiese europee anche prima di questa tragedia?

R. – Naturalmente, nella Comece lavoriamo per la pace e lavoriamo anche per le relazioni tra l’Unione Europea e il Libano; ma per quanto riguarda il denaro, l’aiuto concreto è ogni Chiesa nazionale che dà il suo contributo. E sappiamo che ci sono tante Chiese in Europa che sono molto generose.

E’ importante anche un appello alla comunità internazionale a non dimenticare il Libano? Questo piccolo Paese che negli ultimi 30 anni è stato baluardo di pace e di convivenza, sembra un po’ dimenticato, a parte questa tragedia …

R. – Sì, e anche dal punto di vista politico, della sicurezza. Penso che il Libano sia importante per l’Unione Europea, che ha tutto l’interesse ad avere un Libano stabile, stabile dal punto di vista politico e dal punto di vista economico. Dunque, penso che i politici, anche dell’Europa, debbano reagire perché è nell’interesse dei popoli europei che il Libano sia aiutato. Ma noi come cristiani dobbiamo fare di più: non dobbiamo agire per il solo nostro interesse, ma dobbiamo agire con solidarietà e con amore, con carità.

Sembra non sia stato un atto voluto, ma un incidente: un incidente, comunque, dove c’era un deposito con una quantità spropositata di composto chimico utile per l’agricoltura, ma anche per creare esplosivi. In ogni caso, è anche una tragedia ambientale: torna l’appello del Papa a un’attenzione agli equilibri tra uomo e natura…

R. – E’ tanto importante: noi non abbiamo ancora capito questo appello così importante.  Vediamo che il riscaldamento della nostra Terra è più veloce di quello che abbiamo pensato. Vediamo che ci sono incendi in Amazzonia: il 19% in più rispetto all’anno scorso, se non sbaglio. Questo significa che dobbiamo agire, e vuol dire anche che noi dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere. E’ molto importante, perché noi abbiamo una responsabilità nei riguardi di questa Terra, abbiamo una responsabilità nei riguardi delle generazioni future. E si capisce che, dove non c’è più stabilità politica, dove ci sono tanti interessi diversi, come accade attualmente in Libano, la situazione diventa molto pericolosa. Sappiamo che sono tanti i Paesi che si trovano in  situazioni analoghe, dunque bisogna agire a livello internazionale, per garantire che in Paesi a rischio non si verifichino incidenti di questo tipo.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-08/libano-beirut-vescovi-europei-comece.html

Il tramonto del nucleare inizia dalla Francia

di Fausta Speranza

Mentre in Francia i Verdi assaporano il trionfo alle municipali, segnato dal secondo turno tenutosi domenica scorsa, chiude la centrale simbolo del nucleare in Francia e si discute sui rischi dell’impianto attualmente più importante d’Europa, con sede sempre in territorio francese a Gravelines. Si tratta dell’inizio di una nuova era, e non solo politica, ma a ben guardare il declino del nucleare è segnato più da motivi economici che da ragioni ecologiste, come ci spiega nella nostra intervista Romolo Infusino, già ricercatore dell’Enea e attuale membro del direttivo scientifico dell’associazione Ambientevivo, sottolineando che è tempo di nuove scommesse. Resta la sfida delle sfide indicata da Papa Francesco: una tecnologia a dimensione umana.

Il successo senza precedenti dei leader ecologisti segna un cambio di sensibilità, che bisognerà valutare quanto legato all’allarme pandemia. In ogni caso, la percezione dell’urgenza di ripensare il rapporto tra uomo e natura, come invocato cinque anni fa dall’enciclica di Papa Francesco Laudato si’, sembra farsi strada un po’ ovunque.

Proprio due giorni dopo il voto, con una di quelle combinazioni che la storia regala — le municipali infatti si sarebbero svolte ad aprile se non ci fosse stato il lockdown — la Francia assiste alla seconda operazione, dopo quella di febbraio, destinata a chiudere l’impianto per la produzione di energia nucleare più emblematico del Paese: la struttura di Fessenheim, in Alsazia, con due reattori Pwr da 880 Mw ognuno, i due più vecchi finora funzionanti nel Paese. E solo pochi giorni fa è arrivato l’avvertimento per l’impianto in piena funzione di Gravelines, nella regione di Hauts-de-France. È stata definita «a rischio esplosioni di origini esterne». È stata l’autorità francese di sicurezza nucleare (Asn) ad avvertire la Edf Energy, che gestisce l’impianto, del fatto che un potenziale incendio al vicino terminal del gas di Dunkerque, o su una nave che trasporti gas in mare nelle vicinanze, potrebbe compromettere i meccanismi di raffreddamento della centrale nucleare, portare al suo surriscaldamento e scatenare un disastro. Il richiamo è a proteggere meglio i reattori che devono essere resi «in grado di far fronte a un’esplosione esterna ad alta intensità». Un avvertimento del genere era già stato fatto nel 2015. Ci si chiede come si esprimeranno i candidati ecologisti che hanno conquistato grandi città come Lione, Bordeaux e Strasburgo, ma hanno vinto di fatto anche a Parigi e Marsiglia, seppure in modo indiretto imponendosi in accordi di governo.

In ogni caso, sembra proprio si debba parlare di tramonto del nucleare, che ha fatto la storia dell’energia in parte del dopoguerra. Dopo la crisi di Hiroshima, sono state avviate le centrali per produrre energia elettrica in primis negli Stati Uniti, poi la Francia ha sviluppato un sistema energetico — anche perché funzionale al relativo progetto militare — basato proprio sul nucleare che ha prodotto una grande quantità di energia. Il punto è che l’investimento ha presentato il suo conto. Si è partiti infatti dall’ipotesi che l’energia nucleare fosse più economica rispetto all’energia da combustibili fossili. Lo era se non si prendeva in considerazione il decommissioning, lo smantellamento, la chiusura del ciclo nucleare, che — ricorda Infusino — ha dei costi esorbitanti. Per cui il messaggio del ricercatore è chiaro: «L’energia nucleare va in pensione, oltre che per motivi di sicurezza, soprattutto perché non è più vantaggiosa dal punto di vista economico». Chiude il suo ciclo sulla base della valenza, della convenienza e dell’economicità.

A Infusino abbiamo chiesto in che modo questa sorta di evento-spartiacque del covid-19 abbia riportato l’attenzione sull’ambiente. Ricorda che sembra accertato che il coronavirus sia stato scatenato dal cattivo utilizzo di risorse alimentari di origine animale selvatica e sottolinea, quindi, che «l’attenzione all’ambiente è fondamentale per la salvaguardia della salute mondiale». Considerando che le realtà sono interconnesse, non si può dimenticare che qualsiasi pandemia in qualsiasi parte del mondo si diffonde ormai a una velocità inimmaginabile rispetto alle pandemie storiche che ci sono state.

E dunque Infusino focalizza la sfida centrale: «Il problema che si pone adesso è ripartire dal punto di vista economico, ridisegnare un nuovo progetto economico a livello nazionale e anche mondiale, basato sulla sostenibilità. Il covid-19 è un acceleratore di questo processo di cambiamento del sistema energetico e anche del sistema di produrre». Lo sguardo è di speranza: «Ritengo che d’ora in poi in qualsiasi organizzazione industriale, in qualsiasi rilancio di progetto industriale, venga fatta una valutazione su base delle sostenibilità, l’unica base che può dare un futuro al pianeta e anche al sistema produttivo industriale perché l’impatto non sia letale».

In definitiva, Infusino esprime una consapevolezza: «Il covid-19 è uno spartiacque. È stato una sciagura per l’umanità, ma è un momento di riflessione per ripensare una nuova umanità più rispettosa dell’ambiente, che possa progettare i suoi servizi — perché di servizi ne ha bisogno — nell’ambito di una convivenza con gli equilibri naturali anche sulla base di quanto il Santo Padre ha detto nella sua Enciclica Laudato si’, con la sua tanta attenzione sull’ambiente come rilancio di una nuova umanità».

Se l’orizzonte deve essere umanistico, la ricerca deve essere più concreta che mai. Infusino ci chiarisce le attuali potenzialità: «Le nuove tecnologie ci permettono orizzonti soft. Ciò che era pesante non ha più ragione di esistere. Le tecnologie informatiche faranno una rivoluzione su altre tecnologie soft, leggere, praticamente immateriali». E poi il già ricercatore dell’Enea indica una via precisa da imboccare: «Dal punto di vista energetico ritengo che vada valorizzato il progetto idrogeno, che vuol dire produrre energia senza inquinare l’ambiente. Ci sono progetti di ricerca per la produzione di idrogeno da fonti fotovoltaiche o da fonti rinnovabili ed è prevista la sua utilizzazione nel ciclo energetico, per uso industriale e nella mobilità». Si parla di auto elettrica e Infusino assicura: «Sta facendo progressi inimmaginabili prima. Ritengo che l’auto a idrogeno possa avere un futuro molto interessante per una mobilità a dimensione umana».

L’apertura alla tecnologia è confermata dalla stessa Laudato si’, in cui però Papa Francesco riprende il tema fondamentale della capacità della tecnologia di modificare la nostra percezione della realtà e il nostro rapporto con le persone e con la conoscenza. Il Papa avverte che all’origine di molte difficoltà c’è il fatto che il mondo occidentale utilizza il pensiero tecnico-scientifico come «paradigma di comprensione» per spiegare «tutta la realtà, umana e sociale». Spiega che «la specializzazione propria della tecnologia implica una notevole difficoltà ad avere uno sguardo d’insieme» e sebbene consenta di ottenere applicazioni concrete, «spesso conduce a perdere il senso della totalità, delle relazioni che esistono tra le cose». Non manca l’indicazione della via da percorrere pensando o ripensando qualunque tecnologia: «Ciascuna specializzazione — chiarisce Papa Francesco — dovrebbe tener conto di tutto ciò che la conoscenza ha prodotto nelle altre aree del sapere», riconoscendo anche gli «orizzonti etici di riferimento», senza i quali «la vita diventa un abbandonarsi alle circostanze condizionate dalla tecnica, intesa come la principale risorsa per interpretare l’esistenza».

da L’Osservatore Romano del 30 giugno 2020

Nadia Murad la memoria che vive

dentro l’inserto mensile “Donne Chiesa Mondo””
di FAUSTA SPERANZA
«Hanno ucciso mia madre davanti ai miei occhi ma non hanno cancellato i suoi insegnamenti di bene»: così Nadia Murad ha iniziato a raccontarci la sua esperienza di drammatico contatto con gli uomini del sedicente stato islamico (Is). La giovane yazida, come altre centinaia di ragazze appartenenti alla stessa minoranza, è stata resa “schiava del sesso”. Una condizione patita dalle donne che aggiunge orrore alla campagna di omicidi di massa, sequestri, spettacolari esecuzioni, conversioni forzate di cui si sono macchiati i miliziani dell’Is tra il 2014 e il 2017 in un territorio tra Iraq e Siria. Ma se non riusciamo a dimenticare gli occhi di Nadia, dopo una conversazione tanto grave quanto luminosa, è per la forza straordinaria che l’ha guidata fino al Premio Nobel per la pace e soprattutto per la solidità della sua fede nel bene. Abbiamo incontrato la prima volta Nadia a Strasburgo, dove aveva ricevuto sostegno dal Parlamento europeo dopo la fuga dall’Iraq e l’arrivo in Germania. Non aveva ancora recuperato il sorriso e la pienezza che ora vive anche grazie all’uomo che ha accanto e che condivide il suo impegno — sempre costante — contro la tratta degli esseri umani. Le è valso il Premio Sacharov nel 2016 e il Nobel nel 2018.
La famiglia di Nadia viveva a Kocho, un villaggio vicino alla città di Sinjar, nel nord dell’Iraq, a poca distanza dal confine siriano, quando il 3 agosto del 2014 uomini armati hanno portato l’orrore: hanno trucidato gli uomini, hanno catturato i bambini e le donne, e le hanno passate in rassegna uccidendo quelle che non avrebbero reso soldi al mercato delle schiave del sesso. Le più giovani sono state messe a disposizione dei miliziani a Mosul. Ha significato subito una violenza di gruppo per piegare qualunque resistenza e che — ci ha raccontato Nadia — si ripeteva in caso di tentativo di fuga o di ribellione. Nello sguardo di Nadia sopravvive un’eco del terrore, del dolore, del disgusto, del senso di impotenza provati negli otto lunghissimi mesi di prigionia, prima di riuscire a scappare.
Nadia, aiutata da una famiglia irachena dopo essersi allontanata di nascosto dalla casa dell’uomo che l’aveva comprata, avrebbe voluto  dimenticare, ma continua a denunciare: «Il potere dell’Is è passato ma in qualche parte del mondo ci sono ragazzine vendute, scambiate come merci e io, che so cosa significa, non posso tacere». Dice: «Bisogna prevenire ogni forma di razzismo, che io invece vedo crescere ovunque.
E i rischi sono due: il radicalismo e il terrorismo da una parte, ma anche possibili risposte sbagliate a tutto ciò, dall’altra parte». Una consapevolezza precisa, oltre i problemi dell’Iraq, al di là delle vicende della fede yazida antica di 4000 anni o del popolo curdo tra i quali è diffusa; prescinde anche dalla cronaca recente degli ultimi sviluppi nei territori ancora sotto i raid in Siria. La conversazione ha consentito una certa confidenza, e così ci siamo ritrovate sedute su un divanetto a cinque posti rotondo in quelle La yazida schiava del sesso dell’Is premio Nobel per la pace: «Nel mondo ci sono ancora ragazze vendute e scambiate come merci» aree che permettono l’isolamento acustico nei pressi dell’emiciclo dell’Europarlamento, dove si muovono politici e giornalisti. Quasi una zona protetta da altri sguardi e altre orecchie. Nadia ci ha parlato del sorriso di sua madre: «Lei è sempre stata una persona piena di rispetto per tutti e mi ha educato all’amore e al bene, mi ha insegnato a pregare. Queste cose l’Is non ha potuto distruggerle». Questa ragazza minuta non può dimenticare «le tante ragazzine in mano all’Is che appena hanno potuto si sono tolte la vita, perché non ce l’hanno fatta a sostenere tanto strazio». Ci ha confidato: «Io non ho mai pensato di uccidermi. Più il male mi toccava e più risentivo in me tutti gli insegnamenti di mia madre e della mia gente, ma soprattutto la forza di Dio che mai mi ha abbandonata. Più il male mi toccava, più trovavo il bene dentro di me.»
Per questo la storia di Nadia non è più un’esperienza, si è fatta testimonianza.
Donne Chiesa Mondo di aprile 2020

Evitare che la pandemia sia un’opportunità per le mafie

di Fausta Speranza

La gravità e l’urgenza delle conseguenze del covid-19 per la salute pubblica e per l’economia richiedono misure immediate perché in ballo c’è la sussistenza di milioni di persone, ma anche perché si rischia che diventino un’opportunità per le mafie. In questi giorni, il Papa ha lanciato il suo monito perché non accada che qualcuno speculi sulle difficoltà dei più deboli e, in tema di legalità, è tornato a ribadire il suo appello contro ogni forma di corruzione. Non c’è, infatti, solo quella dei grandi sistemi, ma anche quella a livello di gente comune che rende possibile le altre modalità più gravi, come conferma Antonio Nicaso, uno dei massimi esperti a livello mondiale di mafie, docente tra l’altro di Storia sociale della criminalità organizzata alla Queen’s University.

«Le mafie sono rapaci» afferma Nicaso. «Hanno sempre trasformato le crisi in opportunità. La ‘ndrangheta, che oggi è l’o rg a n i z z a z i o n e illecita più ricca e potente al mondo, ha cominciato ad assumere un atteggiamento imprenditoriale dopo il terremoto del 1908 a Reggio Calabria e a Messina, quando ha cominciato a concedere prestiti a tasso d’usura. Le inchieste degli ultimi tempi ci hanno chiaramente “fotografato” l’opportunismo e la rapacità delle mafie anche in occasione dei vari terremoti avvenuti più di recente nel Centro Italia. Ci sono le registrazioni della telefonata in cui, pochi minuti dopo una scossa violenta, due faccendieri legati alla ‘ndrangheta si felicitavano dell’accaduto sorridendo per gli “affari” e i guadagni che avrebbero fatto».

Si è parlato in altri Paesi d’Europa del rischio che eventuali aiuti straordinari all’Italia arrivino in mano alla mafia. Cosa risponde?

Queste preoccupazioni, secondo me, sono discutibili, perché le mafie non operano solo in Italia. Da tempo sono attive in Olanda e in Germania perché quei Paesi consentono di fatto più di altri di investire, di riciclare denaro. Oggi, se dovessi indicare un posto dove la ‘ndrangheta è più radicata fuori dalla Calabria, dalla penisola non avrei nessuna difficoltà a citare la Germania. Il rischio non è solo legato ai soldi che possono arrivare dall’Europa, ma ai meccanismi di circolazione del denaro, come quelli che portano ai cosiddetti paradisi fiscali. E, dunque, il problema è in tutta l’Europa, se vogliamo fermarci al contesto europeo. È chiaro che in questa situazione bisogna tenere gli occhi aperti, fare una mappatura dei settori a rischio: quelli che possono finire più facilmente nelle grinfie delle organizzazioni criminali.

Per esempio?

Penso alla piccola e media impresa, che farà fatica ad andare avanti non potendo contare su utili. È importante intervenire con tempestività con aiuti piuttosto che perdere troppo tempo a discutere. Bisogna ridurre i margini di azione delle mafie. Possono sostituirsi alle banche qualora le imprese restino bloccate dalla burocrazia bancaria e da quella della pubblica amministrazione. È fondamentale intervenire per evitare che un’azienda possa andare in default economico e accettare il ricorso a soldi sporchi. Lo abbiamo già visto durante la crisi dei Subprime nel 2008, quando le mafie hanno cercato di acquisire quote di minoranza, quando hanno investito i soldi attraverso le banche. Questi sono i rischi peggiori da scongiurare e non soltanto in Italia ma un po’ dappertutto.

Ci aiuti a ragionare sull’accostamento di questi due termini: globalizzazione e organizzazioni internazionali.

Le mafie hanno certamente tratto vantaggio dalla globalizzazione dei mercati. Ma la prima cosa da dire è che non metteranno in discussione la loro globalizzazione in nessun caso. Ricordiamoci che sono riuscite ad internazionalizzarsi quando ancora nessuno parlava di globalizzazione. Il fenomeno esisteva — penso al pomodoro nato in America e divenuto alimento centrale nella nostra cucina o alla grande questione delle migrazioni di massa — ma non con queste modalità o con questa definizione.

Nella nostra storia recente ci sono dei momenti chiave?

Direi che c’è stata una sorta di spartiacque nella storia delle mafie: la caduta del muro di Berlino. Prima erano più circoscritte nell’Ovest d’Europa, poi sono riuscite a operare in Paesi dell’Est dove non c’era neanche emigrazione italiana. In mancanza di regole certe, alcuni faccendieri hanno approfittato della fase di transizione da un’economia pianificata a un’economia di mercato. Nella fase attuale, se pensiamo al mercato degli stupefacenti (cocaina, eroina, droghe sintetiche) le mafie sono concentrate sulla Cina, dove si parlerà, di qui a poco, di un mercato di 20 milioni di tossicodipendenti, o sull’Australia, dove un chilo di cocaina costa tre volte di più che in Italia.

Da una parte, c’è la legalità e, dall’altra, queste organizzazioni. In mezzo c’è una zona grigia, abitata da colletti bianchi, dalla disonestà diffusa a tanti livelli. È così?

Certo. Diciamo che se non ci fosse questa zona grigia non ci sarebbero le mafie. Le mafie da sempre hanno avuto bisogno di condotte agevolatrici per potersi affermare. Per i miei studenti utilizzo la formula chimica dell’acqua e spiego che i due atomi di idrogeno rappresentano la violenza, ma quello che fa la differenza è l’atomo di ossigeno, che è proprio il rapporto con questa zona grigia, con professionisti senza scrupoli. Se non ci fossero, le mafie farebbero molta più fatica a riciclare denaro.

Può citare un caso concreto?

Ricordo l’operazione Iscreen con la quale agli inizi degli anni Novanta un’organizzazione criminale internazionale è stata smantellata proprio perché faceva fatica a investire, a riciclare denaro. Aveva cominciato a depositarlo in una casa, ma alla fine non c’era più spazio per contenere il contante accumulato attraverso attività illecite. Ecco, il riciclaggio e l’investimento sono importanti nelle dinamiche di un’organizzazione criminale: si può rimanere “soffocati” dai soldi. Quindi, il rapporto con il mondo dell’imprenditoria, della politica, della finanza è fondamentale.  Ci può essere corruzione senza mafia, ma non ci può essere mafia senza corruzione. Non riesco a pensare al crimine organizzato senza zona grigia.

Quanto è importante il reiterato appello di Papa Francesco a combattere la corruzione?

È fondamentale! La corruzione saccheggia risorse pubbliche che potrebbero sanare tanti squilibri sociali. E, soprattutto, tendiamo a sottovalutare il ruolo della corruzione per le mafie, che invece è centrale. Oggi le organizzazioni criminali sembrano invisibili perché non hanno quasi più bisogno di sparare. Sanno di poter utilizzare la violenza, ma, se possono evitare il clamore preferiscono. Sanno di avere in mano qualcosa di più efficace rispetto alle armi: la corruzione che permette alla mafia di radicarsi, di infiltrarsi senza fare rumore. E tanta gente presta consapevolmente il fianco o chiude gli occhi.

Per la crisi che sta scoppiando ora, c’è qualcosa da imparare da quella del 2007-2008?

Certo. Nel 2008 i soldi delle mafie sono stati un pilastro fondamentale per evitare di far crollare tantissime banche nel mondo. Lo denunciò Antonio Costa, l’ex direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc). Quindi, fa benissimo Papa Francesco a richiamare le coscienze di tutti.

Dopo i traffici di droghe, di armi, quello odioso di esseri umani, il riciclaggio di denaro sporco o gli investimenti illeciti nell’edilizia o nelle slotmachine, oggi si parla di dark web o di criptovalute. Il suo ultimo volume, scritto con il magistrato Nicola Gratteri ed edito da Mondadori, si intitola «La rete degli invisibili»: sono questi gli ambiti dove le mafie restano lontane dai riflettori?

La seconda capacità delle mafie, dopo quella relazionale, è quella di adattamento. Quello che un tempo si faceva nella gestione delle case da gioco, nelle bische clandestine, oggi si fa con il gaming on line. Vari Paesi, come per esempio Malta, acconsentono alla costituzione facile di società per il gioco su web, che nascono con i soldi che provengono da mafie. Per quanto riguarda le criptovalute, già si comincia a sentire in alcune intercettazioni il riferimento all’uso di bitmonero, o bitcoin per la vendita di partite di cocaina. E poi c’è il darkweb, un sistema cinquecento volte più grande della rete conosciuta come www. È un sistema di comunicazione dove non c’è timore di essere intercettati, si può vendere qualsiasi cosa. Alcune indagini hanno già messo in luce questa sorta di “Amazon del male”, in cui è possibile acquistare droga, armi, materiale pedopornografico.

In definitiva, quali vie indicare per il mondo post covid-19 che tutti sogniamo migliore?

Mi auguro che questa esperienza possa farci capire l’importanza di combattere le diseguaglianze sociali, di concepire forme di capitalismo che tengano conto del bene della comunità e non seguano solo la logica del “fare soldi per fare soldi”. Bisogna ricordarsi che problemi globali richiedono risposte globali.

Dunque, non è d’accordo con chi in questa fase mette in discussione in diverso modo tutto ciò che è avvertito come sovranazionale, agenzie delle Nazioni Unite o Unione europea?

È impossibile pensare di combattere le organizzazioni criminali o quelle terroristiche senza azioni concertate, senza maggiore coesione internazionale. È necessario globalizzare l’azione di contrasto alle mafie, che sono globalizzate. Oggi le mafie vanno a cercare i Paesi che si presentano come paradisi fiscali o normativi, perché lì le legislazioni sono meno affliggenti. E alcuni Paesi di recente guardano alle mafie come a un’opportunità più che a una minaccia, perché portano liquidità. Tutto questo perché mancano normative giuridiche adeguate. Abbiamo bisogno di organismi sovranazionali perché c’è molto da fare a livello legislativo per sanare alcune disparità.

Qual è la sua speranza?

Per me la speranza è costruire. Ognuno di noi deve pensare che non è vero che non può fare niente. Tutti possiamo fare qualcosa per cambiare le ingiustizie che abbiamo di fronte oggi. La mia speranza è che venga ascoltato l’altro richiamo di Papa Francesco di questi giorni, quello ai politici perché «non pensino al bene del loro partito ma al bene comune». C’è urgente bisogno di riscoprire il bene comune.

da L’Osservatore Romano del 27 aprile 2020

Una Costituzione globale più forte dei mercati

L’orizzonte del dopo pandemia nella riflessione di Luigi Ferrajoli
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di Fausta Speranza

In un mondo globale che tende a ridistribuire la potenza politica e la ricchezza concentrandola in capo ai giganti emergenti, l’infezione da Covid-19 ha messo in crisi l’interdipendenza mondiale per un tempo che ancora non sappiamo quantificare, ma soprattutto ha evidenziato, come in una cartina tornasole, sfide epocali. Non ci sono solo i sistemi sanitari o la viabilità internazionale a essere messi in discussione dalla pandemia. L’onda lunga dello tsunami del coronavirus lascia intravedere seri contraccolpi per l’economia e scuote le fondamenta dell’ordine liberale su cui ci siamo basati per decenni. Da tempo si parla di una globalizzazione che non può restare senza forme di governance globale. Basti considerare il moltiplicarsi di conflitti e l’inasprirsi della forbice delle disuguaglianze sociali in praticamente tutte le aree geografiche, mentre solo l’internazionalizzazione delle organizzazioni illecite non conosce crisi o recessioni. Si pone l’esigenza di una forma concettualmente nuova e operativamente inedita di regolamentazione su scala mondiale che tuteli i principi di bene comune. Per riflettere su questi temi abbiamo intervistato Luigi Ferrajoli, giurista, ex magistrato, professore universitario e filosofo del diritto, che da anni porta avanti i suoi studi su un “costituzionalismo globale”.

Quali spazi trovano nel suo ragionamento i valori della salute e il possibile contrasto all’attuale livello di diseguaglianze nel mondo, tale che l’un per cento della popolazione mondiale detiene il 99 per cento delle ricchezze? E cosa ci può insegnare la pandemia da covid-19?

Il diritto alla salute è un diritto fondamentale stabilito non solo nelle costituzioni statali più avanzate, ma anche in molte carte internazionali dei diritti umani. L’aggressione alla salute e alla vita del coronavirus, con il suo terribile bilancio quotidiano di morti in tutto il mondo, ha reso più clamorosamente visibili e intollerabili di qualunque altra emergenza i costi della mancanza di adeguate istituzioni di garanzia di tali diritti vitali e la necessità di una Costituzione della Terra che a questa mancanza ponga rimedio. Più di qualunque altra catastrofe, essa rende perciò più urgente e, insieme, più universalmente condivisa la necessità di colmare questa lacuna. C’è poi un’altra ragione, più specifica, che distingue questa emergenza da tutte le altre e impone una sua gestione a livello globale: non solo la garanzia dell’uguaglianza nel diritto alla vita e alla salute di tutti gli esseri umani, ma anche l’efficacia delle misure adottate, la quale dipende largamente dalla loro coerenza e omogeneità. I diversi paesi della terra si muovono invece ciascuno con strategie diverse, con il pericolo che le misure inadeguate o intempestive di taluni di essi possano riaprire il contagio per tutti gli altri.

Cosa intende per “costituzionalismo globale”?

Esistono, e stanno diventando sempre più drammatici, problemi globali che non fanno parte dell’agenda politica dei governi nazionali ma dalla cui soluzione, possibile soltanto a livello globale, dipende la sopravvivenza dell’umanità: il salvataggio del pianeta dal riscaldamento climatico, i pericoli di conflitti nucleari, la crescita della povertà e la morte ogni anno di milioni di persone per la mancanza dell’alimentazione di base e dei farmaci salva-vita, il dramma di centinaia di migliaia di migranti e, ora, la tragedia di questa pandemia del coronavirus. È da questa banale consapevolezza che è nata, un anno fa, l’idea di dar vita a un movimento politico — la cui prima assemblea si è svolta qui a Roma il 21 febbraio — diretto a promuovere una Costituzione della Terra. Lo strumento che abbiamo adottato è quello della scuola “Costituente Terra”: precisamente, l’istituzione di più scuole, che vorremmo fossero organizzate non solo a Roma, ma in tutta Italia (e in prospettiva in tutto il mondo) e che saranno in realtà luoghi di riflessione, di dibattito e di elaborazione delle tecniche e, soprattutto, delle istituzioni di garanzia dei diritti umani e della pace che una Costituzione della Terra dovrebbe prevedere per dar vita a una sfera pubblica internazionale all’altezza delle sfide globali.

Quali sono, secondo lei, i principali ostacoli a una prospettiva di questo genere?

Sono fondamentalmente due. Il primo è la miopia delle forze politiche, determinata da una grave aporia della democrazia rappresentativa: gli spazi angusti e i tempi brevi cui sono ancorate, in democrazia, la ricerca del consenso delle forze politiche e che impediscono di farsi carico dei problemi del pianeta di solito ignorati dalle pubbliche opinioni. Il secondo è costituito dai potenti interessi economici che si oppongono al progetto di una sfera pubblica garante dell’uguaglianza nei diritti fondamentali e della pace, la cui attuazione imporrebbe una fiscalità mondiale, limiti e controlli sullo sviluppo industriale ecologicamente insostenibile e la subordinazione ai diritti fondamentali dei poteri selvaggi dei mercati.

Davvero il dopo pandemia potrebbe rappresentare una occasione per comprendere la necessità di un nuovo orizzonte?

Certamente. Giacché essa, ripeto, ci fa toccare con mano l’insensatezza della mancanza di preparazione e di previdenza che ha colto tutti gli Stati, rendendoci consapevoli del fatto che piani adeguati di emergenza saranno tanto più efficaci quanto più omogenei e perciò globali. Mi pare che questo sia l’insegnamento più ovvio di questa pandemia: la necessità di trasformare l’Organizzazione Mondiale della Sanità, attualmente priva di mezzi e di poteri, in una vera istituzione globale di garanzia del diritto alla salute per tutti gli abitanti della Terra. Si può insomma sperare che il dramma che stiamo vivendo provochi un risveglio della ragione. Colpendo tutto il genere umano, senza distinzioni di nazionalità e di ricchezze, essa può forse generare, a livello di massa, la consapevolezza — anche con riguardo alle altre emergenze globali, da quella ecologica a quella nucleare e a quella umanitaria — della nostra comune fragilità, della nostra interdipendenza e del nostro comune destino.

Professore, le accademie hanno sviluppato negli ultimi anni diversi modelli di governance globale: il modello liberal democratico, quello della democrazia radicale, o quello della democrazia cosmopolita o infine della democrazia multipolare; secondo lei qual è il più adatto a fronteggiare l’attuale crisi?

Le tipologie dei modelli di democrazia possono essere le più svariate. Dei quattro modelli da lei indicati quello più idoneo a rispondere alle sfide globali è certamente quello della democrazia cosmopolitica. È il sogno di Kant, che oggi è possibile integrare, attuare e garantire dando a esso la forma e la sostanza di una Costituzione globale, rigidamente sopraordinata ai poteri sia degli Stati che dei mercati.

Nella sua riflessione continua che posto occupa l’Onu?

L’Onu è oggi il solo ordinamento internazionale di cui sono membri praticamente tutti gli Stati della Terra. Si tratta di democratizzarla, di rafforzarla e, soprattutto, di modificarne la struttura. Ciò che si richiede non è tanto il rafforzamento delle funzioni e delle istituzioni politiche di governo: tali funzioni, in quanto legittimate dalla rappresentanza politica, lo sono tanto più quanto più sono vicine agli elettori e perciò di livello statale o regionale. Ciò che è necessario è soprattutto l’implementazione — che ovviamente richiede una decisione politica a opera delle istituzioni di governo — di adeguate funzioni e istituzioni di garanzia della salute, della sussistenza, dell’istruzione di base, dell’abitabilità del pianeta, cioè di diritti fondamentali già stabiliti in tante carte dei diritti umani che si tratta semplicemente di prendere sul serio. In questa prospettiva, una Costituzione della Terra dovrebbe introdurre un demanio planetario dei beni comuni come l’atmosfera, l’acqua potabile, i grandi ghiacciai e il patrimonio forestale. Dovrebbe inoltre prevedere una fiscalità globale in grado di finanziare l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Fao e altre autorità di garanzia.

da L’Osservatore Romano del 17 aprile 2020