Quando l’accoglienza diventa integrazione

Un Centro di assistenza straordinaria in Puglia registra record di impiego tra immigrati

di Fausta Speranza
Un Paese in rivolta per l’arrivo di un gruppo di migranti africani e un Paese che registra un record di contratti a tempo indeterminato per giovani neri: sembrano due storie diverse di posti differenti, ma invece parliamo della stessa comunità vista in due momenti distinti e di una vicenda che la rende un modello in Italia e non solo. È la storia del comune di Fasano, nella regione Puglia, e più precisamente della Casa del Sole che ospita richiedenti asilo. Giuridicamente è un Cas, Centro di assistenza straordinaria.

In realtà, l’accoglienza non è fuori dell’ordinario nel senso di emergenziale, ma lo è per gli standard di integrazione, tanto da meritare a giugno 2019 un encomio da parte della Prefettura di Brindisi. Tra tanti resoconti di tensioni e difficoltà legati alle migrazioni — spesso amplificati dai media assetati di sensazionalismo — la Casa del Sole racconta una storia positiva.

Tutto comincia nell’estate 2016, segnata, quasi come l’anno precedente, da flussi intensi di sbarchi sulle coste del Mediterraneo e sulla rotta balcanica. Nel cuore della notte, il sindaco di Fasano, Francesco Zaccaria, viene assediato da messaggi e telefonate di cittadini che hanno saputo che la Prefettura, in affanno, sta assegnando al comune 30 africani: la reazione di chiusura — ci assicura Zaccaria incontrato nel suo palazzo comunale d’epoca — è stata compatta. A tutti sembrava assurda l’idea di dover subire quella che — racconta con un sorriso — veniva definita “un’invasione di neri”. E per lo più nella frazione di Laureto, zona residenziale e abitata da famiglie benestanti. Il sindaco ci confessa di aver vissuto un momento difficile, in particolare perché il suo mandato era cominciato da pochissimi giorni. Poi è arrivata quell’idea che ha «disinnescato la bomba» pur essendo — sono sempre parole di Zaccaria — «una proposta banalissima», cioè quella di accogliere in piazza i ragazzi appena arrivati insieme con i più accaniti difensori della territorialità. Lo ha fatto «pensando che c’erano paure da una parte e dall’altra, ma soprattutto persone e le persone possono parlarsi solo se si conoscono».

A sovrintendere all’incontro c’era Stefania Baldassarre, avvocato e imprenditore che ha assunto l’onere di gestire la struttura sita su un terreno di proprietà della diocesi di Brindisi Ostuni. Anche lei, come il sindaco, ci racconta che non ci sono volute troppe spiegazioni. Dopo pochissimi scambi, soprattutto di sguardi, la gente non si è più opposta. Qualcuno è andato a prendere qualcosa di caldo.

Alla Casa del Sole, a tempo di record, tutto è stato predisposto. L’impegno di Baldassarre, che da allora con polso gestisce la situazione, è andato via via ben oltre l’assistenzialismo. Sono arrivati i fondi messi a disposizione dalle autorità, e per i ragazzi sono cominciate giornate di assistenza legale e soprattutto di apprendimento: dai corsi di italiano a percorsi di preparazione professionale. Un ragazzo, con grande orgoglio anche se con un italiano stentato, ci ha detto di aver fatto «la scuola pizzaiola». Un altro ci assicura: «Ho imparato ad essere un bravo elettricista anche in Italia perché qualcosa da Paese a Paese cambia e soprattutto ora posso capire e farmi capire sul problema che c’è, mi dicono che sono bravo».

La formazione è il tratto caratteristico della Casa del Sole, che peraltro ha una tradizione di accoglienza perché fino a pochi anni fa ospitava un orfanotrofio. Abbiamo visitato questo centro che si distingue innanzitutto per la bellezza del luogo, per l’atmosfera amichevole, ma soprattutto per la precisione e per il rispetto delle regole. Abbiamo parlato con molti dei 90 giovani attualmente ospitati, di cui la maggior parte proviene dall’Africa e solo alcuni dal Medio Oriente o dal Sud est asiatico. Non citiamo i loro nomi per rispetto del procedimento legale in corso in Italia per rispondere alla loro richiesta di asilo. Comunque, in tutti i colloqui, questi ragazzi ci hanno parlato dell’impegno per assicurarsi una qualche professionalità. Ci hanno comunicato «l’ansia di fare qualcosa, fare un lavoro». È toccante rendersi conto che hanno voglia di parlare del loro futuro, che sognano di tranquillità, molto più delle loro vicende personali. Quando sono sollecitati a farlo, cambia l’espressione del loro volto. Le parole, che pure in italiano sono sempre imprecise o pronunciate in modo buffo, si fanno lapidarie: per molti di loro c’è stato il passaggio in Libia. Bisognerebbe riuscire a raccontare la smorfia di dolore che si manifesta sui loro visi quando citiamo i campi profughi in questo Paese dell’Africa settentrionale. Sentiamo di far loro violenza. Ci bastano le parole disperate di uno di loro: «Ho visto fare violenze ma la cosa più brutta è stata vedere l’inganno: quando arrivi, alcuni degli sfruttatori hanno i giubbotti dell’Unhcr (l’organizzazione Onu per i rifugiati) così tu ti fidi e li segui. E non pensano alla disperazione di quando scopri che non sei nelle mani di gente che ti vuole aiutare, ma di uomini senza umanità». Un altro ci confida: «Chi parla di razzismo in Italia non sa cosa sia il razzismo, non sa cosa sia il disprezzo di un uomo per la vita di un altro uomo: lo sai solo se vai in Libia». E aggiunge: «Sì lo so che c’è qualcuno che non ci vuole in Puglia, ma non è vero odio e sono pochi. Tanti sono felici di farci lavorare».

In effetti c’è un dato incontrovertibile: i meno ostili alla prospettiva che questi migranti restino sul territorio sono gli imprenditori. Ne abbiamo incontrati due, titolari di esercizi commerciali. Entrambi hanno sottoscritto contratti a tempo indeterminato per due giovani che definiscono «volenterosi e bravissimi in cucina». Uno, proprietario di due ristoranti, nella nostra conversazione spiega: «Hanno la voglia di fare sacrifici che si aveva noi negli anni cinquanta, la voglia di fare e l’umiltà. È quello che ho imparato io da mio padre che ha aperto questo ristorante 40 anni fa, ma si fa difficoltà a farlo passare ad alcuni dei nostri giovani che vorrebbero solo lavori comodi».

Certamente per l’inserimento è fondamentale quella formazione di base su cui batte tanto l’avvocato Baldassarre. E non solo. Abbiamo incontrato anche il vice prefetto di Brindisi, Maria Rita Coluccia, che ribadisce lo stesso concetto esprimendo seri timori: «Finora non si è messo mano praticamente ai bandi per il rinnovo dei mandati di gestione dei Cas, ma se rimarrà in vita il cosiddetto Decreto Sicurezza, approvato a novembre 2018 dal governo M5s-Lega, saranno ridotti notevolmente i fondi e tante attività non saranno più possibili». Il viceprefetto Coluccia parla di «capitolati che potrebbero essere rivisti». In concreto, il decreto Salvini, dal nome dell’allora ministro dell’interno Matteo Salvini, ha ridotto i fondi: da 35 euro per migrante si è passati a 20. Un taglio che significa fare a meno di psicologi e insegnanti di italiano, ridurre drasticamente le ore del mediatore culturale e dell’assistente sociale. Pensando a questi lavoratori, significa licenziare sul territorio italiano 18.000 persone. Per i migranti significa che, privati di questo tipo di assistenza, rischiano di venire abbandonati a loro stessi e, una volta fuori, di essere fagocitati dal circuito del lavoro nero, del caporalato, della mafia. Tra l’altro, viene anche abolita la sorveglianza notturna nei centri, trasformati in dormitori più insicuri per tutti.

Anche Casa del Sole ha cominciato ad affrontare alcuni tagli e con i prossimi bandi di assegnazione dovrà fare i conti con le nuove cifre. L’espressione solare dell’avvocato Baldassarre quando parla dei progressi nel rispetto delle regole o dei successi lavorativi dei suoi ragazzi cambia quando affrontiamo questo discorso. Nelle sue parole, estremamente competenti e battagliere, c’è l’impegno a mettere in campo tutti gli strumenti giuridici possibili per difendere gli standard raggiunti.

Ma poi c’è anche un moto di fiducia: «Non credevamo di poter fare tutto quello che il Signore ci ha aiutato a fare finora, in qualche modo non ci abbandonerà». Sono tanti gli aspetti che fanno del Cas Casa del Sole un centro di assistenza straordinaria.

La crisi ambientale è una crisi morale

Responsabilità da condividere tra scienziati, imprese, consumatori e politici   con la consapevolezza che si deve cercare l’alternativa alla distruzione

«Lavorare per un ambiente migliore ha senso se si lavora anche per avere persone migliori»: è la premessa, un po’ sorprendente, che il ricercatore ed esploratore Alex Bellini fa prima di parlare degli otto milioni di tonnellate di materiale plastico che ogni anno si riversano negli oceani, senza eccezione per il 2019. Abbiamo intervistato Bellini — che con le sue competenze scientifiche collabora con università italiane e straniere e organizzazioni come il Wwf — appena di ritorno dal particolarissimo viaggio alla Garbage Patch, la cosiddetta «isola di plastica» dalle dimensioni pari a due volte l’estensione della Francia, che si trova tra San Francisco e le isole Hawaii. Bellini ha partecipato al convegno Ocean Race Summit che ha riunito la scorsa settimana a Genova rappresentanti della politica, del business e della ricerca per discutere dei danni, ma anche delle prospettive future e delle soluzioni, del marine litter, l’inquinamento dei mari. Bellini, da esperto, usa termini specifici per individuare responsabilità e vie di uscita sul piano tecnologico come sul piano legislativo, ma innanzitutto invita ad «ascoltare il messaggio della Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, che chiarisce come la crisi ambientale sia solo lo specchio di una crisi culturale, morale». «Senza comprendere questo non ci saranno soluzioni che tengano».

La Garbage Patch si trova in una zona di mondo nota per i paesaggi selvaggi fatti di scogliere, cascate, vegetazione tropicale, spiagge di sabbia dorata, rossa, nera e persino verde. Non è l’unico scempio. Almeno altre quattro gigantesche isole di rifiuti macchiano gli oceani, e le coscienze. Quando chiediamo a Bellini di riferire qualcosa delle prime emozioni provate alla vista della Garbage Patch non ha esitazioni e parla di «delusione», spiegando all’«Osservatore Romano» che non si deve immaginare tutta una montagna di rifiuti plastici che potrebbe scioccare chiunque e provocare una reazione immediata. Piuttosto, oltre a una relativamente piccola parte più evidente e più fotografata, c’è il dramma di una miriade di microparticelle che inquinano terribilmente ma che — dice Bellini — non sono così evidenti. La definisce «una zuppa», angosciante per chi si avvicina, ma difficile da “immortalare” e invisibile ad esempio dai satelliti. Ci si deve fermare a comprendere rinunciando alla spettacolarizzazione, di cui purtroppo, invece, oggi sembra impossibile fare a meno per qualunque denuncia mediatica.

In realtà, gli elementi per mettere a fuoco i danni ci sono e i dati dovrebbero essere “spettacolari” anche senza immagini. Per ogni chilometro quadrato di estensione marina, si contano almeno cento chili di microparticelle di plastica in sospensione. E non stiamo parlando più delle cinque isole di plastica in continuo accrescimento negli oceani, ma del resto delle acque a partire dal Mar Mediterraneo. E il punto è che degli otto milioni di tonnellate citati, in superficie restano “solo” 300.000 tonnellate. Significa che il resto si deposita sui fondali o torna con le correnti sulle coste.

Si capisce che le isole sono davvero solo la punta di un iceberg che provoca effetti di tossicità generale, di stress ossidativo, di interferenza endocrina sugli esseri umani — con conseguenze in termini di malattie e patologie importanti — e distrugge le risorse del pianeta. Il mare è sempre stato considerato uno scarico naturale. La parte dei rifiuti biologici è riassorbita e l’acqua purificata grazie ai cicli biologici, ma i danni provocati da fattori chimici creano gravi e persistenti squilibri. La produzione mondiale di resine e fibre plastiche è cresciuta dai due milioni di tonnellate del 1950 ai 400 dei giorni nostri. E 10.000 milioni di tonnellate prodotte in 70 anni hanno reso la plastica uno dei simboli industriali — con cemento e acciaio — dell’era «antropocene», l’epoca geologica in cui viviamo.

Parlare di smaltimento è sostanzialmente ridicolo se si pensa che per una bottiglia o un sacchetto di plastica servono tra i 100 e i 1000 anni, a seconda dell’equilibrio tra i composti di carbonio e di idrogeno che, ricavati dal petrolio e dal metano, vengono agglomerati attraverso processi chimici complessi in lunghe catene chiamate «polimeri».

È evidente l’obbligato coinvolgimento della politica. Si deve invertire la rotta assicurando strumenti legislativi adeguati per sostenere le aziende che producono e gestiscono i rifiuti in ecosostenibilità e, invece, penalizzare quelle che non riducono l’impatto ambientale. Significa, ad esempio, ripensare l’eco-design dei prodotti anche per evitare sprechi in produzione, consumare il minor numero di risorse possibile e curare un corretto smaltimento dei rifiuti a terra prima che siano riversati nei fiumi e quindi nei mari.

Ma anche in tema di responsabilità del legislatore torna la raccomandazione dell’esploratore di «lavorare su causa e effetto», perseguendo «accanto alle soluzioni tecnologiche un profondo cambiamento morale». E a questo proposito, Bellini fa un esempio preciso che diventa forte denuncia di un fenomeno che in qualche modo tutti avvertiamo ma di cui non si parla abbastanza: «l’obsolescenza programmata». Significa decidere a tavolino di produrre oggetti di consumo — dal telefonino alla lavatrice — in modo che non durino più di tanto. È uno di quegli obiettivi per i quali si pagano benefit e bonus che vanno ad arrotondare un bel po’ gli stipendi di programmatori e manager. Non è un segreto ma non è neanche oggetto di discussione seria.

Il dibattito a Genova è stato arricchito da un panel di relatori che ha spaziato da imprenditori ad ambientalisti, da velisti (del calibro dello statunitense Mark Towill) a chimici, da politici locali a giovani influencer. Non è mancato spessore filosofico: tra gli altri, Wayne Visser, scrittore futurista e accademico dell’Istituto di sostenibilità dell’Università di Cambridge, ha parlato delle sfide per cambiare immaginario e visione del pianeta, incoraggiando a uno sguardo positivo, seppure allarmato, che lasci spazio alla creatività e alla voce dei giovani. Anne-Cécile Turner, direttore del progetto di sostenibilità della Ocean Race ci ha parlato della «importante missione di fare da catalizzatori di soluzioni per la salute degli oceani».

Che si tratti di Millennial, di generazione Y o Z, i giovani oggi sono di fatto la forza propulsiva che darà forma al futuro del pianeta. Possono fare la differenza già adottando soluzioni condivise semplici come l’utilizzo di borracce ricaricabili, per fermare lo tsunami di bottiglie monouso ovunque nei nostri mari. Lo ha ricordato la rappresentante genovese del movimento Fridays for Future, Francesca Ghio, che ha chiuso i lavori con un appello ai “grandi” dell’Onu chiedendo «chance per fare rete e allargare la comunità di persone in cerca di soluzioni a tutti i livelli». E il convegno si è svolto proprio nella settimana in cui in ogni parte del mondo si organizzavano cortei di ragazzi e il Panel Intergovernativo per i cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (Ipcc) pubblicava il rapporto sulla salute degli oceani in vista del Summit Onu sul clima al via oggi a New York.

L’Unione europea è stata presente a Genova con un videomessaggio del commissario europeo all’ambiente, agli affari marittimi e alla pesca, Karmenu Vella. Ma, al di là delle parole, in realtà è da citare un’iniziativa lanciata l’anno scorso dalla Commissione Ue che proprio in questi giorni ha raccolto i primi significativi frutti: in virtù di una «alleanza circolare per la plastica», hanno raggiunto quota 100 i partner pubblici e privati che hanno sottoscritto l’impegno a contribuire per raggiungere, entro il 2025, l’obiettivo comune di utilizzare ogni anno 10 milioni di tonnellate di plastica riciclata in nuovi prodotti. La dichiarazione, firmata da piccole e medie imprese, grandi società, associazioni di imprese, organismi di normazione, organizzazioni di ricerca e autorità locali e nazionali, approva l’obiettivo dei 10 milioni di tonnellate e chiede una transizione verso l’eliminazione totale dei rifiuti di plastica in natura e l’abbandono della messa in discarica. Sono previste azioni concrete tra cui migliorare la progettazione dei prodotti per renderli più riciclabili; individuare sia il potenziale inutilizzato sia le lacune in materia di investimenti; creare un programma di ricerca e sviluppo; istituire un sistema di monitoraggio trasparente e affidabile per tenere traccia di tutti i flussi di rifiuti di plastica nell’Ue.

Motivazioni, finalità e indicazioni non mancano. Non deve venire meno la volontà di essere «persone migliori», come dice Bellini, rispettose dell’humus vitale in cui viviamo e dell’ambiente che sarà dei nostri figli, e capaci di comprendere il valore di tutto ciò anche se non in grado di chiamarlo Creato.

L’Osservatore Romano, 23 Settembre 2019

Un seme che ha prodotto molto frutto

A trent’anni dall’assassinio di Jerry Masslo

«Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato ed allora ci si accorgerà che esistiamo»: così diceva Jerry Essan Masslo, il rifugiato sudafricano assassinato esattamente 30 anni fa, che resta la figura simbolo di una precisa e concreta svolta legislativa in Italia. La sua vicenda personale, infatti, scosse tanto profondamente l’opinione pubblica da portare ad una riforma della normativa per il riconoscimento dello status di rifugiato. La sua storia rappresenta un monito a ricordare il doveroso sforzo di adeguare la legislazione ai bisogni e alle ingiustizie dei tempi, un richiamo alle drammatiche situazioni che ancora oggi si verificano per migranti e richiedenti asilo e anche un’occasione per riflettere sul peso della parola razzismo.

Vittima di sfruttamento nelle coltivazioni di pomodori in Campania, Jerry Essan Masslo la sera del 24 agosto 1989 fu freddato a colpi di arma da fuoco a Villa Literno, in provincia di Caserta, da criminali capaci di andare a derubare migranti impegnati 15 ore al giorno per cifre inadeguate e in condizioni igienico-sanitarie inaccettabili. Poco dopo la sua morte, ebbe luogo a Roma la prima manifestazione antirazzista mai organizzata in Italia sino ad allora, con la partecipazione di oltre 200.000 persone, italiani e stranieri.

Ha rappresentato per l’Italia la presa d’atto della necessità di garantire adeguati diritti e doveri agli immigrati, che nel corso degli anni ottanta erano cresciuti considerevolmente di numero. La vicenda del mancato riconoscimento dello status di rifugiato a Jerry Masslo, in quanto non cittadino dell’Europa dell’est, portò infatti il governo Andreotti di quel momento a varare, in tempi record, il decreto legge 30 dicembre 1989 n. 416, recante norme urgenti sulla condizione dello straniero, convertito poi nella Legge 28 febbraio 1990 n. 39: la cosiddetta legge Martelli. La legge Martelli, all’articolo 1, riconobbe agli stranieri extraeuropei sotto mandato dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, lo status di rifugiato, eliminando la «limitazione geografica» per i richiedenti asilo politico stabilita in base alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951. Furono, inoltre, riconosciuti e garantiti — sulla carta — i diritti dei lavoratori stranieri.

Nella sua tappa a Roma, prima di recarsi nel sud Italia per il lavoro stagionale, Masslo aveva trovato accoglienza presso la struttura «Tenda di Abramo» della Comunità di Sant’Egidio, che non lo ha mai dimenticato e che oggi ha riunito al cimitero di Villa Literno italiani e stranieri, provenienti da Roma, Napoli e altre città, per una marcia silenziosa. Vengono deposti fiori anche in omaggio ad alcune tombe senza nome di migranti morti mentre si trovavano in quelle campagne per il lavoro dei campi e volutamente collocate in questi anni accanto a quella di Masslo. Il comunicato con cui è stata presentata l’iniziativa è chiaro: «Molte cose sono cambiate dalla vicenda di Jerry, ma resta il gravissimo problema dei braccianti stranieri sfruttati nelle campagne per pochi soldi e costretti a vivere in alloggi più che precari. E restano soprattutto sentimenti di intolleranza e di xenofobia — cresciuti purtroppo negli ultimi tempi — che occorre condannare». Con una considerazione che vorremmo scontata e che invece si fa sempre più doverosa: «L’Italia, se tiene al suo futuro, deve allontanare ogni radice di odio e di discriminazione e puntare su integrazione, diritti e un lavoro dignitoso per tutti».

Nella vicenda di Masslo, esemplare per comprendere il fenomeno dell’immigrazione e il difficile cammino verso l’integrazione in Italia, c’è un altro fatto da ricordare. Cinque anni dopo l’eccidio, i clan della camorra, infastiditi dalla eccessiva attenzione mediatica che le campagne di Villa Literno continuavano a riscuotere — il punto di ritrovo dei lavoratori neri era per tutti «la piazza degli schiavi» — nel settembre del 1994 reagirono causando il rogo del ghetto costituito dalle loro abitazioni, proprio mentre la prefettura di Caserta metteva a punto un piano per una soluzione alternativa. Monsignor Raffaele Nogaro, allora alla guida della diocesi di Caserta, definì l’incendio del Ghetto di Villa Literno, un «incendio di Stato». Nessuno poteva guardare dall’altra parte. Alla luce di quelle vicende, oggi non si può ignorare che gli episodi di razzismo, i crimini di odio, le azioni di ostilità verso gli stranieri, le aggressioni a sfondo xenofobo sono aumentati in maniera inquietante, al punto che dall’estate 2018 si parla di «un’emergenza razzismo» in Italia, come peraltro in altri paesi europei. Esistono diverse agenzie che raccolgono questo tipo di dati, ma non c’è un coordinamento centralizzato. Nel 2010 è stato creato l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), un’agenzia del ministero degli Interni che raccoglie le segnalazioni alla polizia di crimini di odio e risulta che, tra tutte le discriminazioni, quelle per motivi etnico-razziali hanno la percentuale più alta, arrivando a rappresentare l’82 per cento delle segnalazioni.

Jerry Essan Masslo era nato nella regione del Sudafrica da cui proveniva Nelson Mandela, precisamente a Umtata, oggi denominata Mthatha, il 4 dicembre 1959 e, nonostante le condizioni di povertà della famiglia, aveva studiato. Quando una troupe della Rai raggiunse la baracca per documentare il fenomeno sempre più diffuso dello sfruttamento nei campi di africani irregolari, Masslo rilasciò un’intervista in cui spiegava ragioni e rivendicazioni. Intervista che la tv pubblica italiana rimandò in onda quando arrivò la notizia della sua uccisione. Una sorta di testamento in cui Masslo affermava: «Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile». Parole cariche di dolore come la considerazione finale: «Il razzismo è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto».

Oggi c’è bisogno di riascoltare le parole e la storia di Jerry Masslo e forse ce n’è ancora più bisogno rispetto a 30 anni fa. Sfruttamento, discriminazione, razzismo verso i lavoratori immigrati non sono, per l’Europa, novità di questi ultimi anni. Inoltre negli ultimi anni sui mass media l’immigrazione viene presentata essenzialmente come un problema di ordine pubblico, da affidare sempre più alle polizie, alle marine militari, alle carceri, ai centri di detenzione. Ed è così che la massa degli immigrati, composta nella sua quasi totalità di lavoratori — forzati all’emigrazione dalla devastazione per conflitti e cambiamenti climatici di crescenti aree del Sud del mondo — viene criminalizzata come un pericolo da cui proteggersi con ogni mezzo, se non come un nemico da stigmatizzare. Ricordare Jerry Masslo deve essere un atto di umanità ma soprattutto l’occasione per riflettere su tanti piani di responsabilità: dalla politica alla società civile.

L’Osservatore Romano, 24 agosto 2019

Il difficile riscatto della Somalia

Tra tensioni locali e timidi segnali di ripresa

Dal Jubaland arriva un appello all’Onu: nella regione somala semi-autonoma si voterà a fine agosto per rinnovare il parlamento e scegliere il presidente, ma cresce la preoccupazione e si invoca la supervisione della comunità internazionale. In ballo non c’è solo il risultato delle consultazioni locali, ma piuttosto una sorta di test sul sistema federale della Somalia, paese che con difficoltà sta ancora cercando il proprio equilibrio istituzionale. Il tutto accade mentre oggi ricorre l’anniversario della nascita, sette anni fa, della Repubblica federale di Somalia, ma soprattutto mentre in questi giorni, a Mogadiscio, si discutono le tesi dei primi laureati dopo anni di chiusura delle Università a causa della guerra civile e del terrorismo. Sembra questa la tappa dal più grande valore simbolico per la difficile rinascita del paese del martoriato Corno d’Africa.

Consegna dei diplomi di laurea all’Università di Mogadiscio (Ansa)

Jubaland è una regione del sud con un milione di abitanti. Si capisce l’importanza se si ricorda la città più grande: Kismayo, che torna tristemente, insieme con Mogadiscio, nelle cronache degli attentati.

In una lettera all’inviato speciale delle Nazioni Unite in Somalia, il consiglio degli anziani del Jubaland esprime “preoccupazione”, accusa la commissione elettorale locale di essere di parte e chiede espressamente l’intervento della comunità internazionale. La scorsa settimana anche all’interno del Palazzo di Vetro erano emersi dubbi sul funzionamento delle elezioni. E le perplessità non finiscono qui: anche lo stesso governo federale di Mogadiscio minaccia di non riconoscere il risultato delle elezioni. Da parte sua, la commissione elettorale locale ha assicurato di essere in grado di organizzare un voto trasparente e credibile. Ha convalidato sette candidature per la presidenza regionale. Tra i candidati di spicco c’è il presidente uscente, Ahmed Mohamed Islam, meglio noto come Madobe. In realtà è conosciuto per il suo particolare percorso: è un ex membro e tra i fondatori del gruppo terroristico al Shabaab. Madobe si è pentito alla fine degli anni Duemila e da allora ha aiutato assiduamente le truppe del confinante Kenya a riconquistare Kismayo, terza città somala nelle mani degli al Shabaab. Per le autorità di Nairobi, Madobe è un forte alleato nella lotta contro i miliziani jihadisti e sarebbe la scelta giusta come prossimo presidente. Ma Madobe non sembra avere lo stesso appoggio dal governo federale somalo, che parla di volti nuovi da proporre.

Dopo anni — praticamente dal 1969 al 2012 — senza pace, tra guerra civile, conflitti tra vari cosiddetti “signori della guerra”, terrorismo e pirateria, la speranza si riaccende davvero a inizio 2012, quando viene elaborato il progetto di una nuova Costituzione, che tra gli altri, vede d’accordo il presidente Sharif Ahmed, il primo ministro Abdiweli Mohamed Ali, il presidente del parlamento Sharif Adan Sharif Hassan, ma anche le autorità del Puntland, del Galmudug e la leadership del movimento paramilitare anti-al Shabaab Ahlu Sunnah Wal Jama’a. L’Assemblea Nazionale Costituente approva il 1º agosto il progetto con il 96 per cento dei voti, il due per cento di contrari ed altrettanti astenuti. Il 20 agosto 2012, dunque, nasce ufficialmente la Repubblica Federale di Somalia. Lo stesso giorno, termina il mandato di Ahmed e si scioglie il Governo Federale di Transizione. Dopo l’avvenuta liberazione di Mogadiscio, da parte del contingente di African Union Mission in Somalia (Amisom), e di Kismayo, ad opera dell’esercito kenyota, alla fine del 2012, secondo l’Onu, il governo centrale controlla circa l’85 per cento del territorio nazionale.

Nel 2013 il presidente Mohamud riprende i colloqui di riconciliazione tra il governo centrale di Mogadiscio, da lui presieduto, e quello del Somaliland, regione settentrionale che rivendica l’indipendenza dal resto della Somalia dal 1991, peraltro senza riconoscimento internazionale. Viene siglato un accordo che prevede un’equa assegnazione al Somaliland di una parte degli aiuti umanitari stanziati per la Somalia, e cooperazione in materia di sicurezza. Torna sempre, dunque, il tema del difficile equilibrio tra istituzioni federali e realtà territoriali. E si capisce anche meglio, dunque, l’importanza e l’urgenza dell’appello da parte del Jubaland, stato esasperato peraltro dalla presenza del terrorismo.

Ma il dramma è che nonostante le gravi perdite numeriche e territoriali, al Shabaab non ha mai smesso di colpire Mogadiscio, Kismayo ed altre città sotto il controllo congiunto di Amisom e del Governo centrale con frequenti attentati suicidi, quelli che nei rapporti internazionali si chiamano Improvised Explosive Device (Ied) ed attacchi “mordi e fuggi” tipici della guerriglia. Peraltro al Shabaab risulta ancora in grado di colpire anche in Etiopia ed in Kenya. Basti dire che a febbraio 2017 le elezioni presidenziali si sono tenute per motivi di sicurezza nell’hangar dell’aeroporto internazionale Aden Adde di Mogadiscio.

Tutto questo percorso è disseminato di fatti di sangue. Una scia che ci porta fino al 13 luglio scorso, quando gli al Shabaab a Kismayo hanno colpito ancora una volta un hotel, l’Asasey, molto frequentato da stranieri. Il bilancio delle vittime è stato di 26 morti tra cui anche la nota giornalista Hodan Naleyah e suo marito. Gli ultimi anni sono disseminati di episodi simili. Non si può dimenticare nel 2017 la forte esplosione nei pressi del Safari Hotel di Mogadiscio che ne ha causato il crollo uccidendo oltre 360 persone.

Gli al Shabaab attaccano oltre a caserme, check-point, mercati, tante strutture alberghiere con stranieri per assicurarsi risonanza mediatica. Ma una delle principali mire del radicalismo islamico resta la cultura e l’istruzione, chiavi essenziali per il riscatto. Dunque, se in un primo momento le università sono state chiuse per mandare i giovani a combattere o distrutte dalla guerra, in un secondo momento il mondo dell’istruzione è stato duramente ostacolato dal terrorismo. LaMogadishu University, aperta per la prima volta nel 1970, è stata prima chiusa e poi distrutta.

Il nuovo campus dell’Università è rinato solo nel 2006. C’è voluto tempo e tenacia sotto tanti punti di vista, ma in questi giorni finalmente il paese festeggia i primi laureati, precisamente in giurisprudenza, agricoltura, economia. Giovani che possono essere i paladini di una sana riattivazione del sistema economico-commerciale e soprattutto simbolo di sviluppo e pacificazione. Rappresentano indubbiamente la più grande sconfitta per i gruppi terroristici.

L’Osservatore Romano, 20 agosto 2019

Quando la manna non cade dal cielo

A Castelbuono in Sicilia il riscatto dalla disoccupazione arriva dall’antichissima «polvere delle stelle» impastata di tecnologia

La manna torna a essere nutrimento a Castelbuono, comune italiano della città metropolitana di Palermo. In uno tra i territori più segnati dalla disoccupazione e dallo spopolamento, c’è chi ha scommesso su quella che gli antichi greci chiamavano la “polvere delle stelle” ed è storia di riscatto.

In Sicilia, un giovane su due è disoccupato, una percentuale che accentua il già drammatico dato di uno su tre dell’Italia, in un’Europa che registra di media un ragazzo senza lavoro su sette. Sulle colline di Castelbuono, invece, una nuova generazione di frassino-coltori in questo momento è all’opera: c’è chi ha creduto nel progetto e ha deciso di restare, chi era partito ed è tornato a casa.

Il percorso è solo all’inizio, sarà lungo e articolato, ma la manna è tornata a essere nutrimento — oltre che fonte di speranza — per questa gente che per secoli ne aveva tratto giovamento.

A Castelbuono la manna non cade dal cielo, ma viene estratta, sotto il sole estivo, dalla corteccia di alberi speciali. Migliaia di esemplari di fraxinus ornus, gli ornielli, si innalzano ordinatamente sulle colline attorno a questo borgo siciliano di 8.000 abitanti nel cuore del parco delle Madonie, a mezz’ora di macchina da Cefalù. Gli «alberi della manna», come li chiama la popolazione da sempre, rubano la scena fino all’area di Pollina. Piccole stalattiti di resina bianca, i cannoli, colano come cera solidificata dai rami intaccati sapientemente dai mannaroli.

La crisi — con il calo della produzione e delle esportazioni – è arrivata già nel secondo dopoguerra, e poi con il sopraggiungere della mannite sintetica e altre alterne vicende, relegata a produzione marginale. In assenza di un ricambio generazionale, nei primi anni Duemila, i pochi mannaroli rimasti avevano un’età media superiore ai 60 anni.

Questa risorsa particolarissima e preziosa, ma così delicata, sensibile alle condizioni climatiche e allo stesso tempo complessa da raccogliere, conservare e commercializzare, è stata sempre meno capace di farsi mestiere, di attrarre i giovani, di contrastarne l’emorragia verso nord.

Poi nel 2012 è arrivata a Castelbuono la fondazione Con il Sud, un ente non profit privato nato nel 2006 dall’alleanza tra fondazioni di origine bancaria e mondo del terzo settore e del volontariato. La fondazione ha avviato un’indagine sulle potenzialità del territorio e con la determinazione di intraprendere qui un’iniziativa integrata di rilancio e sviluppo locale “dal basso”, che deve significare una strategia di progettazione partecipata. E questo è avvenuto, assicurano tutti: per due anni sono stati ascoltati cittadini, associazioni, operatori produttivi, rappresentanti delle istituzioni, per individuare punti di forza, criticità, settori su cui intervenire. Un processo che si è tradotto in otto progetti, finanziati dalla fondazione stessa con risorse interamente private, per un contributo di circa quattro milioni di euro. Tra questi, spicca il progetto per il recupero e la valorizzazione della manna, linfa rara da cui viene estratta la mannite: idratante per la pelle, è soprattutto un dolcificante naturale, indicato in particolare per i diabetici.

«Abbiamo intercettato il fermento, lo spirito imprenditoriale, l’attaccamento a questo bene “comune”», spiega il presidente, Carlo Borgomeo, sottolineando le potenzialità inespresse trovate, le prospettive occupazionali e di sviluppo del territorio immaginate. Borgomeo fotografa così la situazione: «Mancava un passaggio: creare una rete, un sistema di relazioni, un processo virtuoso di economia sociale e di comunità attorno alla manna».

Nel 2014 vengono così avviati i primi progetti. Il Consorzio Manna Madonita nasce nel 2015 dall’unione di quattro cooperative di Castelbuono e Pollina. Finora, sono 42 i lavoratori che a più riprese vi hanno collaborato; otto le nuove assunzioni; 20 gli operai agricoli stabilizzati; 30 i giovani che hanno già aderito ai corsi di formazione. Nel biennio 2016-2017, sono stati recuperati 60 ettari di frassineti in terreni incolti e prodotti 1500 chilogrammi di manna. E ora si punta a raddoppiare il raccolto.

Di fatto, una tradizione a rischio estinzione ha trovato nuova linfa nell’innovazione: una tecnica artigianale sperimentale, escogitata dagli stessi anziani produttori, ha permesso di aumentare notevolmente la produzione e di innalzare la qualità. Prevede l’inserimento di fili di nylon e di piastrelle d’acciaio sotto le incisioni: la linfa (lagrima) viene deviata dalla piastrella, scorre sul filo e si solidifica. I cannoli così ottenuti, quasi totalmente privi di impurità, possono essere raccolti ogni due o tre giorni, essiccati in due settimane, insacchettati e immessi sul mercato.

Il sistema sembra proprio funzionare: nell’ultimo anno il fatturato risulta cresciuto del 30 per cento. E si ampliano nuovi mercati virtuali: la manna ora si può acquistare anche online. La «polvere delle stelle» ha recuperato anche molta della sua “preziosità”: la più pura, quella in cannolo, è ben valorizzata nell’ambito dello Slow Food e costa 220 euro al chilo. A breve sarà attivo anche un laboratorio di trasformazione, per produrre semilavorati per l’industria.

L’esperimento di Castelbuono rientra perfettamente nell’obiettivo centrale della fondazione Con il Sud: promuovere l’infrastrutturazione sociale del Mezzogiorno, cioè, percorsi di coesione per favorire lo sviluppo del Sud Italia. La fondazione sostiene molti interventi per l’educazione dei ragazzi alla legalità e per il contrasto alla dispersione scolastica, per valorizzare i giovani talenti e attrarre “cervelli” al Sud, per la tutela e la valorizzazione dei beni comuni.

Nel Sud Italia è ricchissimo — eppure troppo speso abbandonato a se stesso — il patrimonio storico-artistico, culturale, ambientale. E c’è il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie da assicurare, che diventa nei progetti della fondazione anche occasione di integrazione dei migranti e, in generale, di sostegno del welfare. Finora, sono state sostenute 1.153 iniziative, coinvolgendo 6.000 organizzazioni e oltre 320.000 destinatari diretti. Sono stati erogati complessivamente oltre 211,7 milioni di euro di risorse private. Una manna da saper gestire.

L’Osservatore Romano, 12 agosto 2019

I “caschi blu della sanità” preparano il summit di settembre

L’obiettivo di una copertura sanitaria globale in discussione all’Assemblea generale

Se i Paesi ad alto reddito spendono circa 270 dollari pro-capite per la salute dei propri cittadini, quelli più poveri non arrivano a 20, lasciando milioni di persone senza alcuna copertura sanitaria. È il preoccupante dato che fa pensare che siamo ancora lontani dal raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdgs), che prevedono la copertura sanitaria globale minima per tutti. Per questo, il 23 settembre, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, i capi di stato e di governo si riuniranno per un High level Meeting sulla Copertura sanitaria universale (Universal Health Coverage), dopo mesi di preparazione portati avanti dagli esperti.

A New York in queste settimane si lavora: dopo una prima fase di elaborazione dei contenuti, in cui le diverse agenzie delle Nazioni Unite si sono occupate degli argomenti a loro più congeniali — con una supervisione generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) — si è aperto un periodo di consultazione pubblica, che si è chiuso a inizio luglio, per favorire la partecipazione della società civile e dei governi al processo. Il piano è ora sotto esame per poter essere presentato all’Assemblea tra poco più di un mese.

A poco più di dieci anni dallo scadere dell’Agenda 2030, le Nazioni Unite hanno deciso di mettere il tema al centro del dibattito di quest’anno e provare a mobilitare i cittadini a chiedere ai loro governi di investire adeguatamente sui servizi sanitari. I dati dell’Oms ci dicono che metà della popolazione mondiale può contare solo sul cinque per cento della spesa sanitaria globale, mentre appena nove dei 49 Paesi a basso reddito possono garantire ai propri cittadini servizi sanitari essenziali.

Sul tavolo di esperti e politici a settembre ci sarà un Global action plan: nelle ambizioni, non solo l’analisi, ma il piano di azione vuole essere globale. Implica, come abbiamo detto, che siano coinvolte tutte le agenzie specializzate dell’Onu, ma soprattutto significa che l’obiettivo è una copertura sanitaria globale. A ottobre 2018, su impulso dei governi di Germania, Norvegia e Ghana, 12 delle principali agenzie specializzate delle Nazioni Unite, inclusa l’Oms, la Banca mondiale e l’Unicef, hanno concordato una road map per massimizzare le convergenze e favorire l’efficienza degli interventi. Riconoscendo la grande distanza da colmare per raggiungere l’ambizioso obiettivo di sviluppo (Sdg3) sulla salute, queste organizzazioni hanno identificato sette principali tematiche su cui “accelerare”. Non è un caso che nella terminologia di lavoro inglese siano definite proprio «accelerators».

Le sette tematiche in questione coprono macroaeree, come il sistema di finanziamento per la salute, o argomenti più tecnici, come la ricerca per favorire l’innovazione e la produzione di nuovi farmaci. Hanno come filo rosso la necessità di semplificare la macchina burocratica internazionale per essere più rapidi e attrezzati a supportare i governi e la popolazione. L’efficacia e l’impatto del piano andranno di pari passo con la volontà politica, non solo delle Agenzie, ma di tutta la comunità internazionale, di cambiare finalmente un sistema che non sembra più «fit for purpose», come si legge nei documenti, cioè adeguarsi ai fenomeni in evoluzione. Basti pensare alla difficoltà dell’Oms nel contrastare la nuova crisi dell’ebola nella Repubblica Democratica del Congo.

Da parte sua, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha stilato una lista che raccoglie i dieci problemi legati alla salute a livello mondiale che richiedono un’attenzione speciale da parte della comunità internazionale e dei singoli Paesi.

Al primo posto si parla di inquinamento atmosferico. Nove persone su dieci respirano aria inquinata ogni giorno. In particolare, quest’anno è considerato dall’Oms il maggior rischio ambientale per la salute. Gli inquinanti microscopici nell’aria possono penetrare nei sistemi respiratorio e circolatorio, danneggiando i polmoni, il cuore e il cervello, uccidendo sette milioni di persone prematuramente ogni anno da malattie come cancro, ictus, malattie cardiache e polmonari. Circa il 90 per cento di questi decessi avviene in Paesi a basso e medio reddito, con elevati volumi di emissioni da industria, trasporti e agricoltura, oltre a fornelli e combustibili sporchi nelle case. La causa principale dell’inquinamento atmosferico da combustione di combustibili fossili è anche uno dei principali fattori che contribuiscono ai cambiamenti climatici, che hanno a loro volta impatto sulla salute delle persone in diversi modi. Tra il 2030 e il 2050, si prevede che causeranno 250.000 decessi aggiuntivi all’anno, a causa di malnutrizione, malaria, diarrea e stress da calore. Nell’ottobre 2018, l’Oms ha tenuto la sua prima conferenza mondiale sull’inquinamento atmosferico e la salute a Ginevra. Paesi e organizzazioni hanno assunto oltre 70 impegni per migliorare la qualità dell’aria. Il vertice di settembre traccerà un bilancio.

Il secondo capitolo comprende le patologie non trasmissibili, come il diabete, il cancro e le malattie cardiache, che sono responsabili di oltre il 70 per cento di tutti i decessi nel mondo per malattie. Ciò include 15 milioni di persone che muoiono prematuramente, di età compresa tra 30 e 69 anni. Oltre l’85 per cento di questi decessi prematuri è nei Paesi a basso e medio reddito. L’aumento di queste malattie è stato guidato da cinque principali fattori di rischio: uso del tabacco, inattività fisica, uso dannoso di alcol, diete malsane e inquinamento dell’aria. Questi fattori di rischio esacerbano anche i problemi di salute mentale, che possono avere origine in tenera età: la metà di tutte le malattie mentali inizia all’età di 14 anni, ma la maggior parte dei casi non viene rilevata e non curata. In discussione arriva tra tanti un dato particolarmente drammatico: il suicidio è la seconda causa di morte tra i 15-19 anni.

C’è poi un tema per il quale conta più di tutto la prevenzione. Gli esperti sanno che il mondo dovrà affrontare un’altra pandemia di influenza: l’unica cosa che non sanno è quando colpirà e quanto sarà grave. Il punto è che difese globali sono efficaci solo quanto l’anello più debole nel sistema di preparazione e risposta alle emergenze sanitarie di qualsiasi Paese. La parola d’ordine nei documenti è monitoraggio: l’Oms monitora costantemente la circolazione dei virus dell’influenza per rilevare potenziali ceppi di pandemia: 153 istituzioni in 114 Paesi sono coinvolte nella sorveglianza e nelle risposte globali. A settembre si farà il punto anche su questo. Ampio spazio poi viene dedicato alle emergenze per ebola e per dengue, che non si riesce a superare.

C’è anche la sfida di “rincorrere” l’evoluzione degli agenti patogeni e dei farmaci. Lo sviluppo di antibiotici, antivirali e antimalarici è uno dei maggiori successi della medicina moderna. Ora, praticamente il tempo con questi farmaci sta per scadere. La resistenza antimicrobica — la capacità di batteri, parassiti, virus e funghi di resistere a questi medicinali — minaccia di rimandarci indietro nel tempo in cui non eravamo in grado di trattare facilmente infezioni come polmonite, tubercolosi, gonorrea e salmonellosi.

La questione vaccini è fondamentale e perfino aggravata: non c’è più solo il problema di raggiungere persone in aree isolate o di conflitto, ma c’è anche quello di contrastare le resistenze psicologiche in Paesi ricchi: nell’ordine del giorno della riunione di settembre compare l’urgenza di una strategia per diffondere meglio i dati degli studi scientifici che attestano che la vaccinazione attualmente previene 2-3 milioni di decessi all’anno e altri 1,5 milioni potrebbero essere evitati se la copertura globale migliorasse.

Dopo tante considerazioni specialistiche, nei documenti colpisce una raccomandazione: la priorità deve essere l’assistenza sanitaria di base che rappresenta il primo step per qualunque intervento. E purtroppo proprio qui emerge il primo vulnus: molti Paesi non dispongono di adeguate strutture sanitarie primarie.

L’Osservatore Romano, 10 agosto 2019

Uno su quattro senz’acqua

La crisi idrica emergenza planetaria

Sono diciassette Paesi e ospitano un quarto della popolazione di tutto il mondo: in comune hanno una gravissima crisi idrica con un rischio «molto elevato» che terminino le loro risorse di acqua. Lo sostiene l’analisi del World Resources Institute (Wri), un’organizzazione non profit che si occupa di misurare le risorse naturali globali. E il dato si intreccia purtroppo perfettamente con quello pubblicato ieri dall’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, ovvero il “braccio scientifico” dell’Onu: più di un quarto della terra del Pianeta è soggetta al «degrado indotto dall’uomo», è primo fra tutti «la siccità dovuta all’innalzamento della temperatura di 1,53 gradi dal periodo preindustriale».

In sostanza, la terra è arida e i Paesi stanno prelevando troppa acqua dalle proprie falde acquifere, che non sono infinite.

L’allarme riguarda soprattutto Medio oriente e Nord Africa, l’area che nella classifica dei Paesi più a rischio è presente con 12 Paesi su 17. E desta molta preoccupazione anche l’India, che è al tredicesimo posto dei Paesi a maggiore rischio idrico, ma che ha una popolazione tre volte superiore a quella di tutti gli altri 16 Paesi della classifica messi insieme. Ma non solo.

Dal 1960 a oggi, il prelievo di acqua in tutto il mondo è più che raddoppiato, a causa dell’incremento della richiesta. Tra le cause, c’è da considerare il cambiamento climatico, che ha portato a periodi di siccità più frequenti, rendendo più difficile l’irrigazione dei terreni agricoli e costringendo di conseguenza a un utilizzo maggiore dell’acqua prelevata dalle falde acquifere. Nel frattempo l’innalzamento delle temperature fa evaporare l’acqua presente nei bacini idrici con più facilità, esaurendo quella a disposizione per il prelievo.

Il dato si presenta inquietante quando si guarda a Paesi come Qatar, Israele, Libano e Iran, che ogni anno prelevano in media più dell’80 per cento delle proprie risorse totali di acqua. Si traduce in un serissimo rischio di rimanerne a corto. Ci sono poi altri 44 Paesi, che ospitano un terzo della popolazione mondiale, che prelevano ogni anno il 40 per cento dell’acqua di cui dispongono. Per questi territori, che comprendono anche l’Italia, il rischio è meno elevato ma comunque preoccupante.

Un esempio concreto di allerta: il ministero delle politiche agricole e forestali del Laos ha dichiarato che a causa della siccità, quest’anno gli agricoltori laotiani hanno piantato riso solo sul 40 per cento dei circa 850.00 ettari di terra da sempre coltivabili.

Ci sono anche Paesi dove il rischio di crisi idrica in generale è basso, ma che presentano zone interne densamente abitate con un rischio maggiore. È il caso dello Stato del New Mexico negli Stati Uniti, dove la popolazione interessata dal fenomeno risulta essere maggiore di quelle di alcuni dei primi 17 Paesi nella classifica. Considerando le città, tra tutte quelle che hanno più di tre milioni di abitanti, 33 stanno soffrendo una grave crisi idrica, con un totale di 255 milioni di persone coinvolte.

Non mancano le indicazioni sul da farsi. Si dovrebbero utilizzare coltivazioni e infrastrutture di uso e riciclo che richiedono meno acqua. E soprattutto agire sui consumi. L’indicazione del Wri è chiara: si deve ridurre dove è evidente lo spreco di cibo, la cui produzione richiede circa un quarto di tutta l’acqua utilizzata in agricoltura.

L’Osservatore Romano, 9 agosto 2019

Immaginare un mondo «plastic free»

Le responsabilità della politica, delle imprese e dei cittadini

Plastic free, liberi dalla plastica: sta diventando parola d’ordine di aziende e amministrazioni. Finalmente si è messo in moto qualcosa di fronte alla consapevolezza del gravosissimo inquinamento in particolare ai danni degli oceani. I rifiuti plastici prodotti annualmente nel mondo sono oltre 300 milioni di tonnellate, di cui almeno 35 milioni sono rifiuti plastici impropriamente trattati, ossia dispersi nell’ambiente. Circa un quarto di queste tonnellate finisce negli oceani.

Ma si fa presto a dire plastic free: si tratta di un processo in controtendenza, che in sostanza stravolge produzione e consumi e che va ben studiato e accompagnato. Il 20 settembre prossimo, a Genova, si ritroveranno esperti di fama internazionale per l’Ocean Race Summit 2019, che, dopo le precedenti edizioni nel 2017 e nel 2018 in altre città del mondo, darà il via a una serie di convegni organizzati proprio per esaminare il ruolo centrale delle imprese e della società civile nella lotta all’inquinamento da plastica in mare.

Ci sono da considerare responsabilità, decisioni, implicazioni sul piano dell’economia. «Dobbiamo essere attenti a evitare i facili slogan», raccomanda Carlo Altomonte che si è formato all’Università cattolica di Lovanio e oggi insegna all’Università Bocconi di Milano, occupandosi in particolare di economia industriale e di commercio internazionale. Lo abbiamo interpellato perché non è facile quantificare o fotografare l’impegno di mettere al bando la plastica. Da esperto ci ricorda: «La plastica, se adeguatamente riciclata, è un importante alleato dell’uomo in diversi ambiti: pensiamo alla medicina, all’igiene alimentare, ai materiali leggeri e resistenti che consentono di risparmiare carburante». Il problema è il trattamento del rifiuto plastico. Dunque, «dovremmo più correttamente parlare di un mondo plastic waste free».

Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), solo il 15 per cento della plastica viene raccolta e riciclata. Se tutto va bene il 25 per cento viene avviato a recupero energetico, mentre il 60 per cento finisce in discarica, abbandonato o bruciato all’aperto. Colpa della scarsa qualità dei prodotti, della mancanza di politiche che ne incentivino il riciclo e dei prezzi della materia prima: ancora troppo bassi per incoraggiare il riciclo. È evidente che invertire la rotta comporti uno sforzo notevole da parte delle aziende, a partire dalle più grandi, ma che la questione non può non coinvolgere anche gli enti statali, nonché i leader mondiali. «Le aziende possono fare di più nel limitare produzione e uso della plastica, ma la raccolta e il riciclo sono necessariamente gestiti a livello governativo, che sia locale o statale», sottolinea Altomonte ricordando che ci sono grandi Paesi al mondo dove oltre il 70 per cento della plastica utilizzata non viene gestita correttamente. «Queste sono le priorità da cui partire, con decisioni da prendere a livello del G20». E Altomonte indica l’Unione europea come possibile traino, perché, «come accade anche su altre tematiche ambientali, è la realtà più avanzata al mondo sia sul tema della corretta gestione dei rifiuti plastici, sia nella messa al bando di quelli più dannosi per l’ambiente, in particolare gli oggetti in plastica monouso». La direttiva approvata in primavera dall’Europarlamento mette al bando entro il 2021 prodotti usa-e-getta in plastica, in polistirene espanso. Sono evidentemente esentati i prodotti biodegradabili, come i piatti di cartone o di plastica compostabile, che troviamo già nei supermercati. E qui la responsabilità da globale si fa locale: dobbiamo tutti imparare a usarli da subito.

Ci si pone un interrogativo in tema di occupazione. Può essere motivo di nuovo slancio, per tutto l’impegno nuovo da mettere in campo, ma può essere anche motivo di perdita di posti di lavoro. Altomonte avverte: «Come sempre con le riforme dei grandi standard ambientali è opportuno procedere seguendo due linee guida: da un lato, occorre implementare questi standard gradualmente. Ad esempio, la stessa direttiva Ue prevede l’obiettivo di integrare il 25 per cento di plastica riciclata nelle bottiglie in pet a partire dal 2025 e il 30 per cento in tutte le bottiglie di plastica a partire dal 2030. Non il 100 per cento da domani». Ovviamente occorre che queste decisioni siano condivise da tutti: «Altrimenti si apre il fianco alla concorrenza sleale degli altri paesi». Dunque, sforzo condiviso e multilaterale diremmo. E poi ci vogliono visioni chiare: solo «se opportunamente gestiti, questi nuovi standard creano progresso tecnologico, investimenti e posti di lavoro: pensiamo alle norme sulle emissioni e al futuro dell’auto elettrica». La stessa cosa capiterà con la ricerca dei nuovi materiali che progressivamente sostituiranno alcuni usi della plastica.

Resta la questione dello smaltimento delle terribili isole di plastica che galleggiano negli oceani: quella del Pacifico è grande tre volte la Spagna, e ce n’è una larga qualche chilometro anche nel Mediterraneo, sebbene temporanea, tra la Corsica e l’Elba. E se ne scoprono sempre di nuove. Altomonte sottolinea che «rappresentano solo una piccola parte dei rifiuti plastici che finiscono negli Oceani: la gran parte della plastica nei mari è invisibile, in quanto finisce sul fondale dove si dissolve in microframmenti poi ingeriti dagli organismi, entrando dunque nella catena alimentare anche dell’uomo». L’alternativa alla corretta gestione dei rifiuti plastici è finire per mangiarli.

L’Osservatore Romano, 7 agosto 2019

Egiziani e rifugiati fianco a fianco
per ripulire il Nilo

Al Cairo un’iniziativa ambientale sostenuta dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite

Nelle acque del Nilo, culla di antiche vestigia, oggi decine di rifugiati provenienti da cinque diversi Paesi lavorano insieme con la popolazione locale per rimuovere tonnellate di plastica, dando esempio di una civiltà del servizio e della condivisione.

La pulizia del fiume è stata organizzata da VeryNile, un’iniziativa locale che ha lo scopo di promuovere la consapevolezza ambientale e di ridurre l’inquinamento provocato dalla plastica.

Ragazzi impegnati e ripulire il Nilo dalla plastica (Unhcr)

Ma non è solo un impegno concreto: è anche un’occasione per instaurare legami con la comunità egiziana. È con queste finalità che l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, Unhcr, ha reso possibile la partecipazione di cinquanta rifugiati provenienti da Siria, Sudan, Etiopia, Somalia e Yemen.

C’è un ampio tratto del fiume Nilo, nel cuore del Cairo, dove centinaia di giovani lavorano per rimuovere rifiuti di plastica, accumulatisi in quantità tali da creare isolotti di spazzatura che galleggiano lungo la riva. A loro si sono aggiunti, da volontari, i migranti. Attualmente l’Egitto ospita 247.499 rifugiati e richiedenti asilo registrati, più della metà dei quali sono fuggiti dal conflitto che infuria in Siria ormai da otto anni.

Tra loro, c’è Mohammad, rifugiato siriano di 50 anni. Accanto agli altri, si fa strada nell’acqua fino alle caviglie, per recuperare sacchetti di plastica e cartoni di succhi di frutta appiattiti. Mohammad, fuggito dal conflitto con la moglie e cinque figli nel 2013, racconta che all’inizio veniva solo per accompagnare sua figlia. Poi, però, quel lavoro di pulizia collettiva gli ha riportato alla memoria i ricordi dell’infanzia a Damasco, in particolare sul fiume Awaj, che scorre a sud della capitale siriana. E ha voluto unirsi trascinando altri.

Da sempre i fiumi sono simbolo di fertilità e sussistenza. Il Nilo è stato poeticamente soprannominato «la linea della vita dell’Egitto». Il fiume taglia il Paese, attraversando il deserto, da sud a nord. È la fonte principale di acqua dolce del Paese: ancora oggi assicura il 90 per cento del fabbisogno. Ma oltre all’aumento demografico e agli effetti dei cambiamenti climatici, l’inquinamento pone seri rischi per l’ecosistema del fiume. Rimuovere la plastica può restituire ovviamente fertilità, ma anche far emergere altre «linee di vita» in esistenze segnate dalla fuga da zone di conflitti.

L’Osservatore Romano, 7 agosto 2019

Per le ferite dell’anima

Nella rubrica dell’Osservatore dedicata a  “La chiesa  ospedale da campo”,  lo speciale su:  La  Confessione

di Fausta Speranza

Nell’ospedale da campo non può mancare il confessionale. Nella Chiesa, definita da Papa Francesco con questa espressione, occupa un posto speciale il dono della Confessione, che rappresenta l’unico sacramento che prevede un colloquio a tu per tu, con una risposta personalizzata e non standard, prevista da un rituale. Una straordinaria occasione di comunione con Dio.

Dal confessionale si esce assolti e non più colpevoli: l’aspetto straordinario non è tanto la “pulizia” dai peccati, ma il ripristino pieno del rapporto con il Signore. Eppure, tra i sette sacramenti, la Confessione resta quello più difficile da vivere e non sempre ci rendiamo conto del valore eccezionale della disponibilità di sacerdoti che passano ore e ore nel confessionale: Chiesa viva che medica le ferite dell’anima e dello spirito e che in un mondo frettoloso e individualista assicura l’eccezionale servizio dell’ascolto, con una risposta, mai scontata per l’uomo, di misericordia.

Riecheggia l’invito di San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio».

Ed è altrettanto forte l’appello di Papa Francesco ai suoi preti “in trincea” tra i dolori del mondo, quando chiede con fermezza di esercitare e non lesinare l’amore di Dio. Incontrando i Missionari della Misericordia, nell’aprile 2018, Francesco ha detto: «Cari confessori, lasciate respirare i penitenti e non siate inquisitori». Chiara la via indicata: «La Chiesa non può, non deve e non vuole creare alcuna barriera o difficoltà che ostacoli l’accesso al perdono del Padre. Il “figliol prodigo” non è dovuto passare per la dogana: è stato accolto dal Padre, senza ostacoli». Purtroppo nell’umanità dei sacerdoti accade anche una risposta giudicante, frettolosa, irrispettosa. Ha ricordato anche questo Papa Francesco sottolineando, con tristezza, di aver incontrato persone che per questo sono rimaste per anni lontano dal confessionale.

Paolo VI quando — primo Pontefice — parlò alle Nazioni Unite nel 1965 presentò al consesso delle nazioni la Chiesa quale «esperta in umanità». E forse possiamo dire che lo è anche grazie alla Confessione che la avvicina così tanto al vissuto delle persone, tanto da farci meravigliare profondamente — e per fortuna questo è quello che accade nella maggior parte dei casi — per quella parola così comprensiva, così calzante, così precisa su realtà, ad esempio, come le dinamiche di coppia, che dovrebbero essere più lontane dall’esperienza sacerdotale. Eppure, quante volte ci siamo sentiti capiti nel più intimo da un sacerdote molto più che da qualunque amico o amica! La vulgata corrente vorrebbe i cristiani sottomessi alla mortificazione di dover ammettere davanti a qualcun altro i propri peccati, con frustrazione e imbarazzo, ma si dimentica del valore di essere accolti e liberati, non solo dai propri limiti ma anche dal giudizio di se stessi, spesso più implacabile di qualunque altro.

Delle potenzialità del sacramento della Confessione abbiamo scelto di parlare con uno delle migliaia di sacerdoti impegnati “sul campo”: don Antonio Mitrugno, studioso di teologia morale e impegnato con vari incarichi pastorali di rilievo nella diocesi di Brindisi-Ostuni, ma sempre disponibile per il confessionale, perché — ci dice con semplicità — «tra tanti possibili importanti impegni, il più bello è quello di offrire ai fedeli la Confessione». Ci spiega: «La Confessione fa vivere una tale comunione con il Signore che si può vedere il mondo con i Suoi occhi, si può agire come Lui».

Abbiamo incontrato don Antonio a Roma nella parrocchia santuario di Santa Maria delle Grazie al Trionfale, dove ha vissuto per due anni di recente, il tempo del diploma in Archivistica, paleografia e diplomatica, e dove torna periodicamente rientrando sempre — anche se solo per pochissimi giorni — nel confessionale dove tante persone sono felici di ritrovarlo. Glielo chiede il parroco don Antonio Fois, che sa bene il legame che si crea, grazie alla Confessione, con un padre spirituale che ti segue nel tempo, creando un rapporto che aiuta e rafforza nel cammino.

Don Antonio, definirebbe la Confessione come atto di carità?

Sì. La carità è una partecipazione fatta a noi del medesimo modo di amare di Dio, e l’infusione dello Spirito Santo rimuove in noi i peccati nel medesimo modo in cui la luce elimina le tenebre. Sono presenti diversi riferimenti biblici. San Pietro nella sua prima lettera scrive che «la carità copre una moltitudine di peccati» (I Pietro 4, 8). Inoltre nel Vangelo in riferimento alla peccatrice che gli aveva profumato i piedi Gesù dice: «Le sono perdonati i suoi molti peccati» (Luca 7, 47) ). E anche nell’Antico Testamento si fa riferimento nel Libro dei Proverbi, dove Salomone dice che «la carità copre tutti i peccati» (Pr 10, 12).

Quanto può essere “faticosa” la Confessione per un sacerdote? Non solo per le volte in cui si sta ore nel confessionale, ma per la pesantezza di ascoltare dolori, difficoltà, cecità delle persone più diverse che arrivano?

Comporta la fatica di ascoltare drammi, inquietudini e fragilità del penitente. Ma aiuta a vivere il proprio sacerdozio. La fedele e generosa disponibilità dei sacerdoti all’ascolto delle confessioni, sull’esempio dei grandi santi della storia, da san Giovanni Maria Vianney a san Giovanni Bosco, da san Josemaría Escrivá a san Pio da Pietrelcina, da san Giuseppe Cafasso a san Leopoldo Mandić, indica a tutti noi come «il confessionale possa essere un reale luogo di santificazione», ricordava Benedetto XVI nel discorso ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria apostolica del 25 marzo 2011. Occorre lavorare molto su noi stessi, sulla nostra umanità, per non essere mai di ostacolo, ma per favorire sempre l’avvicinarsi alla misericordia e al perdono. La Confessione non è un tribunale di condanna, ma esperienza di perdono e di misericordia! Nella mia esperienza di presbitero la Confessione è determinante perché mi permette di vivere il ministero sacerdotale in pienezza in quanto si trasmette al penitente la gioia del perdono e del sorriso di Dio. Per tutti i religiosi la confessione dovrebbe avere gli stessi riverberi all’interno della comunità religiosa e nel rapporto con i penitenti.

Quanto è prezioso dire a voce alta i propri peccati con la certezza che quella confidenza resterà nello spazio del confessionale? Alla fine di giugno la Penitenzieria apostolica ha ritenuto opportuno intervenire con una Nota per ribadire l’importanza di tale segreto…

La riconciliazione è un bene che la sapienza della Chiesa ha sempre salvaguardato con tutta la propria forza morale e giuridica con il sigillo sacramentale. Anche se non sempre compreso dalla mentalità moderna, è indispensabile per la santità del sacramento e per la libertà di coscienza del penitente; il quale deve essere certo, in qualunque momento, che il colloquio sacramentale resterà nel segreto del confessionale, tra la propria coscienza che si apre alla grazia e Dio, con la mediazione necessaria del sacerdote. Il sigillo sacramentale è indispensabile e nessun potere umano ha giurisdizione, né può rivendicarla, su di esso.

Quanto è decisivo sentire di essere perdonati per potersi perdonare? Sembra imperare il modello del super eroe che non ammette di sbagliare, che attribuisce comunque la colpa ad altri, che non chiede scusa. In questi atteggiamenti c’è l’aver fatto fuori Dio dalla propria storia, ma c’è anche l’incapacità di riconoscersi limitati e di perdonarsi. È così?

Si vede il peccato come una sconfitta a fronte della nostra fragilità umana. Perciò essere perdonati è prezioso, in quanto ci cambia la vita in tutti i suoi aspetti e ci permette di accogliere il sorriso di Dio nella vita.

Si sentono spesso frasi del tipo «e perché io dovrei raccontare a un prete i fatti miei» oppure «e che pensi che il prete sia migliore di me»? E sono magari le stesse persone che farebbero carte false per essere ascoltate da qualcuno, in casa, sul lavoro, in una società dove tutti corrono e in pochi hanno voglia di ascoltare i problemi altrui….

Molto spesso in una società dove impera il relativismo etico frequentemente l’uomo afferma di confessarsi direttamente a Dio per cui fa a meno del sacerdote pensando di essere assolto direttamente da Dio. Si prova vergogna nel raccontare le proprie debolezze al sacerdote perché si pensa di essere giudicati. Tuttavia oggi dalla mia esperienza emerge un forte desiderio di essere ascoltati e orientati di fronte alle problematiche che emergono nella vita di ogni uomo o donna. Purtroppo, succede che non sempre i sacerdoti dedicano tempo all’ascolto delle persone. In ogni caso l’unico che può ascoltare davvero è il sacerdote perché in lui — per volere di Dio — c’è la grazia. L’incontro con il sacerdote diventa il “toccasana” per ricredersi e iniziare un cammino di fede serio.

Secondo Freud, la confessione, al di là del valore sacramentale, era una geniale invenzione per avere l’opportunità di aprire il cuore e di avere un altro in ascolto, come lui poi ha proposto con la psicanalisi, che sappiamo ultimamente trova sempre più persone che si avvicinano. Non si nega il valore scientifico di una introspezione seguita da uno specialista serio: tanti sono di alto livello e aiutano benissimo le persone a ritrovare il bandolo delle proprie piccole o grandi nevrosi, a impostare in modo più sano rapporti e relazioni, a tenere a bada paure eccessive, a smorzare la propria visione egocentrica e miope della realtà. Ma qualcosa di fondamentale distingue una Confessione da una seduta con uno psicologo…

Nella Confessione emerge la grazia perché è Gesù stesso che attraverso il sacerdote dona la grazia: si trasmette al penitente la gioia del perdono e del sorriso di Dio. Mentre la seduta con lo psicologo rimane un intervento scientifico. È importantissimo che il confessore ascolti attentamente il penitente per fargli prendere coscienza in maniera tenera delle proprie colpe, per sviluppare in lui il senso di Dio e il senso del peccato ormai perso nella nostra società odierna.

È vero che tanta gente si reca nei santuari piuttosto che nelle parrocchie perché si trovano sempre confessionali aperti? Non le sembra che a volte nelle realtà parrocchiali l’organizzazione sia un po’ sbilanciata verso attività belle e importanti di oratorio ma che lasciano troppo poco spazio alle confessioni?

È vero, c’è questa tendenza in atto. Forse perché le parrocchie vengono viste come luoghi dell’impegno costante, della partecipazione continuativa, della presenza operativa, dell’appartenenza. Aspetti considerati troppo vincolanti da molti. Così si preferisce riprendere il cammino religioso in luoghi religiosamente più “neutri”, meno prossimi all’esperienza quotidiana, che non richiedono un impegno diretto o continuativo in termini di partecipazione ai riti o alla comunità. Come per i santuari così per le parrocchie sarebbe opportuno privilegiare molto la Confessione come pilastro per formare e rafforzare la fede dei credenti. Sarebbe opportuno avere un appuntamento mensile o quindicinale di riconciliazione comunitaria per fortificare la propria anima a Dio.

Nella preparazione al sacramento della Comunione, non dovrebbe esserci più spazio per accompagnare per mano le persone a scoprire la grandezza del sacramento della Confessione?

Sì! Non ci può essere Eucaristia senza riconciliazione. Il sacramento della Comunione prevede una buona Confessione, la Confessione aiuta ad accostarci a Gesù con sentimenti di libertà interiore a tal punto da sentirsi sereni dopo aver ricevuto l’Eucaristia. Non ci può essere Eucaristia senza riconciliazione e viceversa.

Qual è la differenza generalmente tra un giovane e un anziano che entrano nel confessionale? E tra uomo e donna?

La differenza c’è perché l’anziano è strutturato secondo una forma mentisdel passato dove spesso non ci si accostava alla Comunione con facilità, se non dopo essersi confessati. Il giovane fa fatica a chiedere di confessarsi perché la Confessione può significare motivo di debolezza, di fragilità e invece non è così, perché con la Confessione aumenta la grazia, senza di essa diminuisce. Tra uomo e donna, l’uomo ci impiega molto a decidersi e lo fa di rado, la donna ha una sensibilità forte verso Gesù per cui si attiva molto spesso ad accostarsi al sacramento della riconciliazione.

Lei che vede i volti e sente le espressioni delle persone “liberate” da pesi dell’anima a conclusione di una Confessione, ci dice la sua impressione su quanto faccia male alle persone portare dentro di sé limiti, colpe, responsabilità? Anche oggi in una società dove apparentemente tutti hanno abbassato il livello di percezione del Bene e del Male e in cui troppi relativizzano tutto schiarendo tale confine, non le sembra che quando si passa dal piano della razionalità a quello personale e fattuale, è ancora grandissima la sofferenza di persone che per prime non si perdonano?

È vero. Ci sono persone che non facilmente perdonano le proprie fragilità e i propri peccati, anche se poi, effettivamente, tendono ad assolversi per tutto e per qualunque cosa. Spesso succede che la gente si accosta al sacramento della Confessione portando con sé notevoli macigni che non sempre riescono a esternare, spesso esplodono in pianto e il dono delle lacrime permette poi di aprirsi e di sentirsi liberati, con il sorriso di Dio sul volto.

L’Osservatore Romano, 4 agosto 2019

.

 

Il consumo oltre il Pianeta

Già in rosso il bilancio annuale tra produzione e sfruttamento delle risorse naturali

Lo chiamano Earth Overshoot Day e quest’anno è arrivato il 29 luglio, con due giorni di anticipo rispetto al 2018. È il giorno in cui il bilancio tra la produzione di risorse nel mondo e il consumo segna un’allerta. In meno di sette mesi, il pianeta ha già consumato già quello che avrebbe dovuto adoperare in dodici. Da qui in poi, in qualche modo, andiamo in deficit: ricorriamo a riserve, attingiamo a quanto spetterebbe alle prossime generazioni. Il calcolo è scientifico, elaborato dall’organizzazione Global footprint network (Gfn). La riflessione dovrebbe coinvolgere qualunque ambito sociale e politico, spaziando dai numeri all’etica.

Trent’anni fa il «giorno-limite» cadeva in ottobre, vent’anni fa verso la fine di settembre. L’anticipo di questi giorni si quantifica in un dato inquietante: l’impronta ecologica dell’uomo, in media in tutto il mondo, consumerà nel 2019 le risorse che spetterebbero a 1,75 pianeti. Significa ammettere che le conseguenze sono, senza mezzi termini, distruttive.

Secondo il Gfn, sono quattro i fattori chiave che configurano la domanda di risorse di un Paese: come l’amministrazione gestisce l’edificazione in particolare delle città; come fornisce energia; quali sono gli standard nutritivi dei suoi cittadini; quanti abitanti conta rispetto al territorio.

L’organizzazione continua ad accompagnare l’allarme, ogni anno, con le misure utili per invertire la tendenza. Insieme con altre 30 organizzazioni nate in diverse parti del mondo, l’associazione Gfn ha lanciato la campagna «Steps to #MoveTheDate», che indica cinque ambiti su cui poter incidere: energia, cibo, città, popolazione, e pianeta. Si propongono alcune azioni concrete da mettere in pratica subito, spiegando di quanto potrebbero limitare i danni.

Innanzitutto, tra le raccomandazioni si legge l’invito a ridurre la componente delle emissioni di co2 del 50 per cento, che sposterebbe la data di ben 93 giorni. Poi c’è il suggerimento di sostituire il 50 per cento di consumo di carne con una dieta vegetariana, che — sempre secondo i calcoli e se messo in atto da tutti — contribuirebbe a spostare la data di 15 giorni.

Non si tratta solo di un discorso di sopravvivenza del pianeta, ma anche di qualità della vita. Mathis Wackernagel, co-inventore della contabilità dell’impronta ecologica e fondatore del Global footprint network, assicura che «le aziende e i Paesi che comprendono e gestiscono la realtà dell’operare in un contesto planetario sono in una posizione di gran lunga migliore nell’affrontare le sfide del xxi secolo».

Ma c’è un discorso anche strettamente personale. Rientra nella campagna anche il «footprint calculator», strumento che permette di calcolare la personale impronta ecologica oltre che l’Overshoot day personale.

Tra il punto di vista globale e quello personale, l’analisi può farsi macroregionale. È evidente che l’impatto ambientale mette sempre più in sofferenza i territori della Terra già ampiamente destabilizzati a causa di siccità, deforestazione e desertificazione. Ma ci sono poi altre aree da fotografare. Si distinguono, infatti, tristemente sul mappamondo le zone degli Stati Uniti e dell’Europa: se tutti vivessimo come gli abitanti degli Usa — dove si stima che ogni cittadino sprechi 95 chilogrammi di cibo l’anno e dove le emissioni dei cosiddetti «Greenhouse Gas» derivanti dai combustibili fossili, dalla produzione di elettricità e dai trasporti, sono tra le più alte del mondo — avremmo bisogno di ben cinque pianeti. Ma i Paesi dell’Unione europea non possono sentirsi tanto più virtuosi: hanno raggiunto già a metà maggio la data che sancisce lo sfruttamento di tutte le risorse naturali in grado di essere rigenerate in un anno e il consumo arriverebbe a quanto dovrebbero assicurare due pianeti. Secondo i dati, l’Unione europea, nonostante ospiti solo il sette per cento della popolazione mondiale, consuma quasi il 20 per cento della biocapacità della Terra. La nazione che per prima ha esaurito le risorse a disposizione è stata la più ricca d’Europa, il Lussemburgo. Un dato che torna in altre aree del mondo: anche spostandosi fuori del vecchio continente, in testa alla classifica dei maggiori consumatori si trova un Paese piccolo, il Qatar.

C’è una lista anche dei Paesi più green e vi figurano Giamaica e Vietnam: si calcola che se tutti avessero lo stesso standard di consumo di questi due Paesi, le risorse verrebbero esaurite non prima di metà dicembre.

In generale, gli esseri umani stanno degradando gli ambienti naturali e i servizi ecosistemici. E, se la tendenza a sfruttare tali risorse come se non ci fosse un domani potrebbe risalire all’Homo Sapiens, indubbiamente è stata esponenzialmente esacerbata dall’avvento del consumismo e da un concetto di crescita a tutti i costi. Da anni non manca la voce della scienza a ricordarlo. In quanto a responsabilità, nessuno si senta escluso.

L’Osservatore Romano, 30 luglio 2019