Sempre più vittime della tratta

Per il grande ospedaliere dell’Ordine di Malta i bambini sono la “merce” che vale di più

La tratta di esseri umani è un dramma che affligge oltre 40 milioni di persone in tutto il mondo ed è un fenomeno in crescita. È quanto emerge in occasione della Giornata mondiale dell’Onu contro il traffico di esseri umani che si celebra domani 30 luglio. Ad attestarlo è il «Global Report on Trafficking in Persons», lo studio dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc) che lo scorso anno ha raccolto dati provenienti da 142 paesi. Un’analisi che l’Unodc svolge da oltre dieci anni e che non lascia spazio a dubbi: aumentano le vittime e i paesi coinvolti. Le donne sono oggetto di tratta soprattutto per motivi sessuali: schiave del ventunesimo secolo, imprigionate da catene spesso invisibili, fatte di minacce, di violenze, di paure, di miserie. Gli uomini cadono soprattutto nella rete dello sfruttamento lavorativo, procurando agli aguzzini — sono dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) — un profitto di 150 miliardi di dollari all’anno. I bambini spesso sono atrocemente protagonisti nel traffico di organi. Secondo i dati del Counter-Trafficking Data Collaborative, gestito dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), nel 2019 il fenomeno riguarda più di 91.000 casi afferenti a 169 paesi. A febbraio scorso, in occasione della Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di esseri umani, Papa Francesco ha raccolto in Vaticano esponenti di spicco di diverse religioni e di altre confessioni cristiane, per la firma di una dichiarazione congiunta contro la“moderna schiavitù”. Ha richiamato tutti a sottoscrivere il seguente impegno: «Dichiariamo in nome di tutte e di ciascuna delle nostre fedi che la schiavitù moderna, in termini di traffico di esseri umani, di lavoro forzato, di prostituzione, di sfruttamento di organi, è un crimine contro l’umanità». Da sempre e in particolare negli ultimi anni, l’Ordine di Malta è impegnato a contrastare questa terribile piaga. «Il fenomeno è molto preoccupante: le bande criminali che si dedicano a questo odioso business sono in aumento», avverte il grande ospedaliere dell’Ordine di Malta, Dominique de La Rochefoucauld-Montbel, da oltre cinque anni responsabile dei progetti medico-sociali dell’Ordine in 120 paesi del mondo. Abbiamo incontrato il grande ospedaliere in questi giorni a Roma e ha confermato che «i bambini sono “la merce” che vale di più sul mercato: molte famiglie sono disposte a pagare cifre esose per garantire un futuro migliore ai propri figli, mettendoli in mano a trafficanti senza scrupoli per portarli lontano da guerre e povertà». Al tempo stesso — aggiunge — sono le bande di trafficanti che, approfittando di povertà e miseria, sottraggono i figli alle loro famiglie in cambio di denaro. Un vero e proprio impegno sul campo per l’Ordine di Malta, che assiste sfollati e migranti in circa 30 paesi nel mondo ed è proprio lì che si imbatte nella tratta di esseri umani. Tra il 2015 e il 2016 era presente sulla rotta balcanica e poi ha concentrato il suo impegno nei centri che hanno ospitato le persone transitate su quel percorso. Due esempi: ha prestato assistenza a 70.000 persone in 160 centri in Germania, a 20.000 rifugiati in 200 centri in Ungheria. E poi ci sono 10 team che prestano assistenza nel Mediterraneo, così come decine di altri nell’America centrale, a Panamá, in Costa Rica e non solo. La testimonianza si fa dolorosa quando il grande ospedaliere racconta: «Oltre a tutto il resto, abbiamo visto persone con cicatrici che evidenziano il traffico di organi». La scommessa di essere accanto a chi soffre è sempre la stessa, ma il grande ospedaliere ci spiega che ora l’Ordine sta promuovendo più progetti che vanno nella direzione della prevenzione: lavorare per aiutare le persone in difficoltà a restare nei loro paesi, evitando drammatiche esposizioni alla tratta. Solo un esempio di successo estremamente significativo: nel nord dell’Uganda l’aver portato la logistica necessaria per lo sfruttamento dell’energia solare ha ridato possibilità di vita sul loro territorio a 100.000 persone. Lo stesso vale per villaggi del Sud Sudan o del Congo dove hanno assicurato acqua potabile, o per il Benin dove l’Ordine ha portato un ospedale che serve 5000 famiglie, che prima in caso di malattie dovevano raggiungere luoghi di cura lontani. E poi ci sono progetti per la scolarizzazione e la formazione al lavoro. Il Sovrano militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta affronta calamità naturali e conseguenze dei conflitti armati. Conta 13.500 membri, 80.000 volontari, coadiuvati da oltre 42.000 tra medici, infermieri e ausiliari paramedici. Un punto di vista qualificato per la seguente riflessione: «Nei periodi di crisi certe zone entrano sotto i riflettori, ma dopo la risoluzione di questa crisi vengono dimenticate. A chi davvero interessa? Ma le storie di successo, sebbene ce ne siano moltissime da raccontare, non sono così “vendibili” quanto quelle riportate dai reporter nelle zone di crisi». Significativi alcuni esempi: Dominique de La Rochefoucauld-Montbel ha menzionato il centro Bakhita, una casa di accoglienza per donne vittime di tratta, inaugurato nel mese di marzo, a Lagos, in Nigeria,uno dei paesi maggiormente coinvolti nella tratta di uomini e donne in quanto luogo di partenza, di transito e di destinazione. Il centro, oltre a offrire alloggio e sostegno psicologico alle vittime, organizza percorsi lavorativi per agevolare il reinserimento delle vittime nella società. Oltre al dramma dello sfruttamento, queste donne vivono spesso anche il trauma rappresentato dal rigetto da parte delle famiglie e della comunità. Il grande ospedaliere ci ha annunciato il prossimo appuntamento nell’ambito dell’impegno a livello diplomatico: il prossimo 8 ottobre, l’Ordine di Malta organizzerà una conferenza a Parigi in cui verranno ascoltate anche le testimonianze di donne vittime di sfruttamento. Si vuole affinare le politiche di sostegno e di protezione delle vittime in Europa e mettere in luce gli accordi intergovernativi tra Francia e Nigeria in tema di tratta per individuare le “best practices”. L’obiettivo generale resta quello di rafforzare la collaborazione con le organizzazioni locali impegnate sul fronte della lotta alla tratta e le agenzie umanitarie.

La rotta dall’Africa all’Europa

Per le organizzazioni criminali africane la tratta di esseri umani è diventato il business centrale anche se resta ancora sottostimato. Dalle armi alla droga, dal contrabbando del petrolio a quello dei medicinali contraffatti, fino alle truffe online: il campo degli interessi illeciti è vasto, ma, secondo l’ultimo report del Centro studi internazionali, pubblicato in primavera, il traffico di esseri umani è il “mercato” del presente e del futuro perché la richiesta di viaggi dall’Africa all’Europa è cresciuta e ci si aspetta che aumenterà ancora nei prossimi anni per via di fattori demografici ed economici.

Chi non riuscirà a muoversi legalmente, andrà a ingrossare il portafoglio dei trafficanti. Donne e uomini disperati che fuggono dai conflitti, dalla crisi economica, e anche dal riscaldamento globale che inaridisce le terre. Una miseria su cui far leva per accrescere la propria forza lavoro.

Dal trasporto allo sfruttamento di esseri umani: la criminalità organizzata africana cura ogni aspetto della tratta: reclutamento dei potenziali migranti, canali di spaccio di droga o percorsi di avvio alla prostituzione, passando per il trasporto. La traversata comincia via terra: ci si muove dai luoghi di origine verso le coste nord-africane, passando attraverso i paesi della fascia del Sahel. Qui sono i dintorni della città di Agadez, in Niger, a fare da punto di snodo.

Dal rapporto si evidenzia che il problema è sottostimato, considerando che i riflettori si sono concentrati soprattutto sul terrorismo e, in particolar modo, sul jihadismo. Coni d’ombra che hanno fatto la fortuna dei gruppi criminali, consentendo loro di crescere e rafforzarsi, fino a diventare un «fenomeno territoriale ascendente, molto più vasto del terrorismo e in grado di muovere maggiori capitali nonché di accedere a molti più mercati illeciti», come si legge nel report. Alcune “confraternite”, questo il nome con cui sono conosciute le mafie africane, riescono ad avere un giro di affari superiore a quello di intere regioni del continente. La loro portata è globale e va ad abbracciare l’Africa, l’America, e l’Europa.

L’organizzazione è capillare. Basti pensare ai trafficanti che, riuniti in un cartello chiamato Bureau des passeurs (ufficio dei contrabbandieri), dispongono di intere flotte di pick-up e fuoristrada, ma soprattutto di “burocrazie informali”. Le alleanze con la camorra, la ‘ndrangheta e i colletti bianchi in Italia, territorio appena al di là del Mediterraneo fanno il resto.

Per avere un’idea di grandezza del fenomeno che riguarda l’Africa, basta ricordare le cifre degli sbarchi: nonostante i flussi migratori si siano progressivamente ridotti negli ultimi anni, la rotta del Mediterraneo centrale rimane una delle direttrici preferite per l’immigrazione, regolare ma, soprattutto, irregolare, dai paesi sub-sahariani e, più in generale, dall’Africa continentale. Secondo i dati dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, fino a metà luglio 2019 sono stati oltre trentamila quelli registrati in Europa, dei quali più di tremila in Italia, più di quindicimila in Grecia e quasi dodicimila in Spagna. E con l’immigrazione irregolare rimane costante la violazione dei diritti umani.

L’Osservatore Romano, 29 luglio 2019

Semaforo rosso per le fake news

Il team di NewsGuard segnala siti attendibili e non

di FAUSTA SPERANZA

Si chiama NewsGuard e combatte le fake news: parliamo dell’organizzazione nata negli Stati Uniti nel 2018 e sbarcata nei mesi scorsi in Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia: una task force di professionisti della comunicazione che fiuta e denuncia fonti on line non attendibili. Ieri, alla sede della Stampa estera a Roma, è stato presentato il frutto dell’impegno di monitoraggio su siti in italiano, in una conferenza stampa che è diventata occasione di confronto tra giornalisti e studiosi del settore. A spiegare lo spirito dell’iniziativa e il funzionamento in concreto sono stati lo stesso fondatore e co-Coe di NewsGuard, Gordon Crovitz, e Giampiero Gramaglia, già direttore dell’Ansa e Senior Advisor di NewsGuard in Italia. Non è una pagella e non prevede oscuramenti o tantomeno qualunque cosa che assomigli a una censura. Si tratta piuttosto di una sorta di bollino di garanzia rilasciato a siti di informazione che, in base a una attenta analisi, risultino rispondere a nove criteri universalmente riconosciuti come essenziali per una buona informazione: dalla veridicità e correttezza all’imp egno del cosiddetto factchecking, cioè la verifica delle notizie; dalla rettifica di eventuali errori alla trasparenza sulle fonti di statistiche, rapporti etc. Nessuna correlazione con posizioni ideologiche: l’elemento discriminante è l’attendibilità, dato essenziale per qualunque elaborazione di giudizio da parte del cittadino utente dell’informazione. Distinguere, nel mare magnum dell’info on line, le cosiddette fake news dalle informazioni corrette è la sfida epocale di un mondo che appare più globale e connesso, ma anche più indistinto e frammentato. L’impresa è ardua. Se il primo passo indubbiamente non può che essere la consapevolezza, la prospettiva in Italia sembrerebbe incoraggiante visto che, secondo il sondaggio, segnalato ieri, condotto da YouGov — società internazionale di ricerche di mercato e analisi dei dati basata su Internet — il 92 per cento dei cittadini della penisola sostiene di ben riconoscere la problematica. Ma Crovitz ha spiegato che può non bastare, facendo l’esempio di un sito pieno di notizie false il cui nome, precisamente l’U rl (la sequenza di caratteri che identifica univocamente l’indirizzo di una risorsa in Internet) si richiamava sfacciatamente a una nota emittente televisiva differenziandosi praticamente di un nonnulla ma riuscendo a depistare l’utente su una piattaforma gestita da persone in Australia e infarcita proprio di fake news. Non solo. A fronte della presunta consapevolezza di “navigare” tra false notizie, c’è un altro dato che deve far riflettere. Lo ha ricordato Marco Dalmastro di Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni: l’Italia è tra i primi paesi europei per “dispercezione”, ossia lo scollamento tra la verità dei fatti e la percezione nell’opinione pubblica. Due esempi: diminuiscono i reati sul territorio nei dati oggettivi, ma le persone parlano di aumento delle violenze; l’Italia ha molti meno immigrati rispetto ai paesi del Nord Europa, ma campeggia la convinzione che la penisola ne conti un numero record. In tema di falsità, inquieta particolarmente quello che è stato definito pochi giorni fa dal capo dello stato italiano Sergio Mattarella il «negazionismo scientifico», cioè le presunte smentite di convinzioni mediche con le quali si mina la credibilità degli studi scientifici. Silvia Bencivelli, altro Senior Advisor di NewsGuard per l’Italia, che è medico prima che giornalista scientifica, ne ha citate diverse, tra cui quella per cui sindromi riconducibili all’alterazione del Dna vengono citate tra le conseguenze possibili dei vaccini. Un’assurdità prima di tutto temporale, visto che il Dna si compone al formarsi del feto. Si capisce l’importanza che può avere una spunta verde accanto all’Url di un sito rilasciata come garanzia di autorevolezza, in alternativa a un segnale rosso che indica di trovarsi di fronte a un sito che non risponde ai suddetti criteri di veridicità. È proprio questo l’impegno di NewsGuard, che, prima di assegnare il suo “semaforo” di qualità, contatta l’eventuale sito scorretto o invita a far meglio chi risponde solo ad alcuni dei criteri. Il frutto dell’impegno di pochi mesi si rivela sorprendentemente concreto: ben 500 siti sono corsi ai ripari dopo le segnalazioni. Per gli impenitenti, resta il bollino rosso. Per gli utenti uno strumento che, se non può essere certo risolutivo di tutta la problematica, può essere molto utile come bussola di navigazione. Ma l’importanza dell’incontro – dibattito di ieri non è ben messa in luce se non si dà atto di una ammissione importantissima finalmente ascoltata da parte di autorevoli giornalisti: le fake news non sono nate con Internet, che rappresenta solo una cassa di risonanza più permeante e impositiva di altre, ma non ha inventato la distorsione dell’informazione, la strumentalizzazione politica, il «brutto giornalismo». Nasce da lontano la disaffezione per il giornalismo tradizionale, poi alimentata ad arte dal complottismo e dalle bufale in rete, che ha spinto tanti a valutare post veloci e superficiali sui social media alla stessa stregua di articoli documentati, dimenticando che serve trasparenza sulle fonti, possibilità di verifiche e riscontri per fare una notizia.

14 giugno 2019 p.2

L’Europa, una risposta alla barbarie nazifascista

Premio Carlo Magno al network Europhonica

di Fausta Speranza

«Avvicinare l’Europa ai cittadini»: non è la promessa di un politico, né lo slogan di una campagna di sensibilizzazione, ma sono parole che compaiono nella motivazione con cui è stato consegnato il Premio Carlo Magno della gioventù a Europhonica IT, programma radio dove i giovani condividono le loro storie e i loro punti di vista sul progetto comunitario, spiegando le istituzioni dell’Unione europea e il loro operato e rendendole, dunque, più familiari ai cittadini. È il network radiofonico al quale collaboravano l’italiano Antonio Megalizzi e il polacco Bartosz Orent-Niedzielski, rimasti uccisi il 14 dicembre scorso nell’attentato al mercatino di Natale a Strasburgo. Dei due giovani reporter resta la passione, condivisa dai loro “compagni di radio” e difesa con rinnovato slancio proprio in risposta all’odio terroristico. E lo stesso desiderio di far sopravvivere l’unità, a dispetto della disgregazione, si ritrova nell’impegno di un giornalista di lunga carriera che ha scelto un’espressione diretta per il titolo del suo libro: Salvare l’Europa. L’autore è il vaticanista Rai Enzo Romeo. Il volume, dell’Ave editrice (pagine 189, euro 12), è frutto di approfondimenti e di studio, ma ha la freschezza dell’entusiasmo giovanile per una casa allargata al vecchio continente e per questo più ricca. Si parla di un premio e di un libro che hanno il pregio di ricordare lo spessore della costruzione europea da due punti di vista generazionali diversi.

Far sì che i ragazzi sappiano cosa si faccia davvero, e cosa non si faccia, in Europa era l’obiettivo di Antonio Megalizzi colpito in testa, come altre quattro persone, dalla follia omicida di un giovane esattamente della sua età, ma senza veri obiettivi nella vita. In piena atmosfera natalizia, la città francese al confine con la Germania sede del Parlamento europeo regalava una serata bellissima. Chi scrive era lì, a seguire la stessa sessione dell’Assemblea parlamentare e a gioire, a quel primo imbrunire, delle stesse bancarelle con manufatti artigianali.

Per seguire i lavori erano arrivati giornalisti italiani da varie parti d’Italia ma non moltissimi ed era stata organizzata una cena tutti insieme. Sapevamo che c’erano giovani colleghi precari come Antonio ed era venuto naturale organizzare in un pub piuttosto che in un vero ristorante più costoso. Antonio, come gli altri di Europhonica, facevano salti mortali per rientrare nel budget a disposizione. Al funerale di Antonio, un compagno di classe ha detto: «Se Europhonica fosse una metafora, sarebbe Don Chisciotte contro i mulini a vento, ma Antonio era un Don Chisciotte che cercava i cavalli giusti e vinceva contro i mulini dell’ignoranza».

Antonio aveva capito che di Europa si parla male, non nel senso di negativamente, ma di superficialmente ed erroneamente. Ricordo, su questo argomento, un breve scambio di idee all’ascensore di fronte all’Emiciclo dell’Europarlamento: battute e incoraggiamenti reciproci a non mollare, per fare la differenza in mezzo alla disinformazione. Ad Antonio dissi: «Però bisogna studiare molto, perché le questioni sono complesse e i documenti articolati» e lui mi rispose: «L’ho capito; è faticosissimo ma per fortuna che esiste la radio perché diventa divertente!». Replicai al volo: «Vedrai, sarà divertente anche quando, come me, ti troverai a passare da una radio a un quotidiano, dalla tv a un settimanale».

Non posso dimenticare il suo sorriso intenso e le sue parole un po’ gridate mentre si chiudeva l’ascensore: «Ehi, grazie perché di solito i giornalisti affermati si lamentano sempre e invece tu mi incoraggi!». Oggi vorrei poter dire ad Antonio quanto incoraggiamento mi trasmettono il suo ricordo e i frutti, come questo premio, che continuano a germogliare dal suo impegno per l’unità dei popoli e per un mondo migliore. Vorrei anche spiegargli che, se si è giornalisti sul serio, esercitando senso critico, non ci si afferma mai davvero: si rimane nella sola condizione possibile di tensione verso la difesa degli ideali e dei valori e non si arriva mai.

Il lavoro di Antonio e di Bartosz è stato stroncato come la loro giovane vita, ma Europhonica (RadUni – Associazione Operatori Radiofonici Universitari) con la redazione composta da giovani provenienti da Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Grecia e Germania continua a trasmettere mensilmente dal Parlamento Europeo a Strasburgo e ha meritato di essere definita dalla giuria di Aquisgrana «il perfetto esempio di come avvicinare le istituzioni dell’Ue ai cittadini, contribuendo alla comprensione del funzionamento dell’Unione e a migliorare le condizioni per la partecipazione attiva di tutti».

E lo studio radiofonico del Parlamento Ue è stato intitolato a quel ragazzo infaticabile e al suo amico polacco, che risiedeva a Strasburgo e che era sempre pronto a ospitare qualunque collaboratore di Europhonica, di diverse nazionalità. Quella sera Antonio sarebbe rimasto a dormire in quella casa così ricca di scambi. Vorremmo ascoltare il sonoro di qualche conversazione avvenuta tra ragazzi di paesi diversi così simili tra loro.

E c’è qualcosa da sapere della costruzione europea che restituisce lo slancio etico e culturale e il sentire spirituale che ha animato chi nel passato, dopo la devastazione dei due conflitti mondiali, ha immaginato un futuro di integrazione tra popoli che potesse rendere impossibili le guerre e favorire la solidarietà: è la storia della bandiera europea, di cui Romeo racconta nel suo libro nascita e significati. Spiega tante curiosità, ritrovate in vecchi archivi, sul disegnatore che l’ha ideata e sulla sua ispirazione alla corona e al manto di Maria. Sulla prima bandiera voluta alla nascita del Consiglio d’Europa, così come su quella dell’attuale Unione europea, compaiono dodici stelle dorate, disposte in cerchio su campo azzurro.

Il numero di stelle non è legato in nessun modo al numero, crescente negli anni, di stati membri, ma riprende un’immagine della devozione alla Madonna propria del dodicesimo capitolo dell’Apocalisse: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una Donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle». E l’azzurro riprende il colore della veste con la quale si raffigura la Madonna. Dettagli che richiamano idealità e valori profondi e pregnanti, che si ritrovano poi nei discorsi dei Papi sul tema dell’Europa raccolti nella seconda parte del libro. La bandiera è un simbolo per definizione e il libro di Romeo ha il grandissimo pregio di restituirne la meravigliosa potenza. E il pensiero va alla bara di Antonio alla cerimonia funebre: il drappo europeo era steso sul drappo italiano e alcuni ragazzi tra la folla dei partecipanti teneva sulle spalle, e sul proprio dolore, una bandiera d’Europa. Anche lì si poteva avvertirne la potenza. Aiuta l’etimologia della parola simbolo: dal greco antico symbolon, che significa unire, tenere insieme. L’opposto di diabolon, che significa dividere.

L’Osservatore Romano, 6 giugno 2019

Gli appelli dei vescovi per il voto

Oltre 360 milioni di aventi diritto al voto, tra gli oltre 500 milioni di cittadini europei, sono chiamati a rinnovare direttamente il Parlamento europeo, che solo a partire dal Trattato di Lisbona del 2009 ha acquisito facoltà di codecisione su alcune materie con il Consiglio Ue, segnando così un passo avanti nell’equilibrio di poteri tra il Parlamento che rappresenta direttamente i cittadini e il Consiglio che raccoglie i capi di stato e di governo.

Il dibattito politico in campagna elettorale è stato segnato, in modo particolare in Italia ma anche altrove, da temi come le migrazioni, l’austerity, il cosiddetto sovranismo e si è parlato molto di un possibile exploit di partiti che si possono ritrovare sotto la definizione di estremisti o populisti. Stando ai risultati degli exit poll, in Olanda dove si temeva il boom di voti per l’estrema destra, il risultato sarebbe invece di un forte ridimensionamento. E in Irlanda si confermerebbe un testa a testa tra partiti moderati, con un aumento significativo di voti solo per i Verdi che passerebbero da meno del 2 per cento al 9 per cento. Ma si tratta per il momento solo di dichiarazioni di voto all’uscita dai seggi.

«Che queste elezioni possano costituire un Parlamento formato da uomini e donne scelti non per assicurare la vittoria di una parte rispetto a un’altra ma per lavorare insieme alla ricostruzione dei legami sociali tra tutte le componenti della nostra società europea e costruire il bene comune»: questa è la raccomandazione di padre Olivier Poquillon, segretario generale dell’altro organismo di vescovi europei: la Commissione degli episcopati dell’Ue (Comece), che precisamente riunisce i delegati delle conferenze episcopali dell’Unione.

«I vescovi europei credono fermamente nell’Europa unita» afferma il cardinale Bagnasco in un’intervista al quotidiano «Avvenire». «Per quanto riguarda sovranismi e populismi, come tutti gli ‘ismi’, rappresentano delle patologie», sostiene il cardinale arcivescovo di Genova, spiegando che «devono essere assolutamente curati ma non stroncati, perché stroncare è un metodo che lascia solo dei ‘morti’ e dei risentimenti». Nell’intervista Bagnasco sottolinea anche l’assenza di una vera politica migratoria europea: «Se pensiamo che nel 2050 la popolazione africana raddoppierà e arriverà almeno a due miliardi, l’Ue deve con lungimiranza fare una politica molto più ampia, che tenga presente queste prospettive, non per rinchiudersi in politiche difensive contro chissà quali invasori, ma per tener conto dei cambiamenti geopolitici».

Padre Olivier Poquillon, in un’intervista all’agenzia «Sir», invita a ridare un volto all’Europa: «L’Ue non è un insieme di edifici né una struttura amministrativa. È innanzitutto il mosaico di popoli che la compongono e che si impegnano insieme nel governo del loro destino comune». E aggiunge: «Il destino è comune che lo si voglia o meno». Il segretario generale della Comece intravede «periodi difficili da vivere», ma sottolinea la chiamata a «costruire insieme, pezzo per pezzo, il futuro comune». «È questo il progetto europeo», conclude.

Sono molteplici in questi giorni anche gli appelli delle chiese dei diversi paesi. In particolare, i vescovi polacchi incoraggiano la partecipazione al voto ricordando, in un messaggio, «l’impegno personale di Papa Giovanni Paolo II, proclamato santo, per «un’Europa che respira con due polmoni», cioè l’ovest e l’est.

L’Osservatore Romano, 26 maggio 2019

 

Gli svizzeri chiamati a votare sulle armi

Il referendum del 19 maggio

di Fausta Speranza

Il popolo più pacifico del mondo, gli svizzeri, sono chiamati a votare domani, domenica 19 maggio, per un referendum che riguarda le armi. Non è una proposta di bando, piuttosto la consultazione mira a rimettere in discussione l’avvenuta ratifica da parte del parlamento svizzero della direttiva europea che limita l’uso di quelle automatiche. Nel paese, che non fa parte dell’Ue ma mantiene con i 28 strettissimi legami tra cui lo spazio Schengen, circolano con regolare autorizzazione due milioni di fucili, pistole e vere e proprie armi da guerra, su una popolazione di appena ottomilioni di abitanti contando anche donne, anziani e bambini. Resta il paese con meno episodi di violenza, ma alcuni risvolti di quanto accade in Svizzera in tema di armi rendono il referendum di rilievo anche per il resto d’E u ro p a . La direttiva europea, che restringe le norme sul possesso di armi automatiche, è stata proposta dalla Commissione Ue il 18 novembre 2015, pochi giorni dopo la seconda strage terroristica di Parigi. L’E u ro p a r l a m e n t o l’ha approvata il 14 marzo 2017 ed è stata adottata lo scorso settembre dall’Assemblea federale, il parlamento svizzero formato dal Consiglio nazionale e dal Consiglio degli Stati. La maggioranza ha accolto le nuove disposizioni, giudicando la partecipazione elvetica allo spazio Schengen «troppo importante a livello di sicurezza, per metterla in pericolo rigettando la direttiva». Un “no” alle urne potrebbe condurre, infatti, a una esclusione della Svizzera dall’area di libera circolazione in Europa. Durante i passaggi  tra i due rami dell’Assemblea, la Svizzera ha concordato eccezioni al testo europeo, per esempio per quanto riguarda l’arma personale che ogni soldato ha il diritto di portare a casa: una volta prosciolti dall’obbligo di prestare servizio militare, i cittadini potranno ancora tenere l’arma dell’esercito con il relativo caricatore da venti cartucce e continuare a utilizzarla per il tiro sportivo. L’arma in dotazione all’esercito elvetico di cui si parla è conosciuta come SIG SG 550 o Fass 90 o StGw 90: in ogni caso, si tratta di un fucile d’assalto del calibro di 5,56 millimetri. E anche per cacciatori e appassionati di tiro non cambierà nulla. Inoltre, i Cantoni avranno tempo tre anni affinché gli attuali detentori di armi semiautomatiche si facciano confermare il legittimo possesso presso gli uffici preposti. Tale conferma non sarà però necessaria se l’arma non risulta già iscritta in un registro o non è stata ceduta in proprietà direttamente dall’esercito al termine degli obblighi militari. E anche i collezionisti e i musei potranno acquisire armi, a condizione di aver adottato tutte le misure necessarie per custodirle in sicurezza e di tenere un elenco dei dispositivi che necessitano di un’autorizzazione eccezionale. Nonostante queste rassicurazioni, il Partito Unione democratica di centro (Udc) ha appoggiato la campagna per l’abrogazione, sostenendo che le nuove restrizioni nel possesso di armi metterebbero in pericolo la tradizione elvetica del tiro. Anche la registrazione a posteriori è invisa al comitato referendario. Secondo Luca Filippini, presidente della federazione sportiva svizzera di tiro nonché del Comitato contrario alla modifica della legge approvata dal Parlamento, «le nuove direttive europee al riguardo, che la Svizzera è obbligata a riprendere poiché associata allo spazio Schengen, non apporteranno alcun miglioramento a livello di sicurezza». Filippini, che è segretario generale e coordinatore del Dipartimento delle istituzioni, sostiene che le nuove disposizioni europee ledono i diritti e le libertà dei cittadini svizzeri. «Se con il diritto attuale un cittadino incensurato ha il diritto di acquistare un’arma semi-automatica, le nuove disposizioni vietano tutti questi fucili e pistole dotate di grandi caricatori», ha dichiarato nei giorni scorsi. Circa la sicurezza, e in particolare il dilemma del terrorismo, Filippini è convinto che i recenti attentati abbiano dimostrato che le armi utilizzate sono «illegali, acquistate magari sul mercato nero», senza contare che «i terroristi hanno fatto anche uso di camion e automobili per portare a termine i loro propositi criminali». Di opinione opposta è il Partito dei Verdi liberali Ticino, che ha deciso di appoggiare la revisione della legge sulle armi spiegando che migliora la sicurezza e permette di continuare a beneficiare dell’accordo di Schengen che facilita la cooperazione tra la Svizzera e l’estero per la lotta alla criminalità. Sottolineano che la nuova legge rende possibile stabilire con più precisione la provenienza delle armi in circolazione, combattere il traffico d’armi e rafforzare la collaborazione tra le autorità e le forze dell’ordine svizzere con quelle estere. Dai primi anni Novanta, da quando è concreto lo scambio di informazioni, sono state arrestate  4000 persone. Dopo la strage di Zurigo nel 2001 — 14 persone colpite a morte nel parlamento cantonale — il dibattito sulla vendita delle armi semi-automatiche che sparano a raffica si è fatto più intenso. Lo stesso tipo di armi usate in quel 27 settembre, che ha sconvolto il Paese,  è stato rinvenuto a casa del giovane che, a dicembre scorso, pianificava una strage alla Scuola cantonale di commercio di Bellinzona. Fortunatamente, cinque mesi fa le forze dell’ordine sono intervenute in tempo fermando il giovane. L’attività delle polizie negli ultimi anni ha evidenziato anche altro: la Svizzera, insieme con la Serbia, è finita più volte al centro delle indagini dell’Europol come possibile crocevia del traffico illecito di armi che poi finiscono nelle mani del terrorismo. L’ultimo caso di vendita illegale si è verificato un mese fa nel parcheggio di un supermercato a Cantù, dove le forze dell’ordine hanno fermato quattro persone, di cui due italiani della Brianza, che contrattavano il prezzo del mitragliatore conservato nel bagagliaio della macchina. È un caso emblematico per capire che la posta in gioco nel referendum di domenica non riguarda solo il piccolo paese nel cuore dell’Europa che nell’immaginario di tutti richiama laghi, paesini e picchi alpini, oltre a orologi di precisione e tante banche.

L’Osservatore Romano, 19 maggio 2019

I cristiani e l’E u r o p a

Valori e luoghi d’Europa

di  Fausta Speranza

«Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?».

È l’interrogativo sollevato da Papa Francesco prima dell’incoraggiamento a ritrovare «uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente». L’occasione era il Premio Carlo Magno, conferitogli il 6 maggio 2016, ma queste parole, a poche settimane dal voto europeo, rappresentano un monito importante per ricordare le potenzialità della famiglia di popoli del vecchio continente.

 Il filosofo Dario Antiseri ha raccolto queste e altre sollecitazioni più che mai attuali nel suo saggio intitolato L’Europa di Papa Francesco. I cristiani nell’Europa di oggi (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana 2019, pagine 54, euro 8). E, sempre in vista delle elezioni che si svolgeranno tra il 23 e il 26 maggio nei 28 paesi Ue, il giornalista e sociologo Pietro Pisarra ha raccolto in un volume le suggestioni dei luoghi che meglio rappresentano la ricchezza “umanistica”. Il libro si intitola Europa una mappa interiore, (Roma, Editrice Ave 2019, pagine 212, euro 18). In ogni caso, si tratta di preziosissima memoria collettiva. All’origine della civiltà europea si trova il cristianesimo — ricorda Antiseri nella premessa del suo breve ma incisivo libro — «senza il quale i valori occidentali di dignità, libertà e giustizia risultano per lo più incomprensibili». Il filosofo, dunque, invoca una «trasfusione di memoria», per ricordare che scienza e filosofia spiegano in modi diversi la realtà umana: la prima fornisce le ragioni scientifiche, l’altra dona voce ai problemi etici e religiosi della vita di ogni uomo. La «filosofia non salva», ricorda Antiseri citando Norberto Bobbio, ma pone grandi domande per fornire risposte a interrogativi che riguardano la «richiesta di senso per la nostra vita, la storia degli uomini, l’universo intero». Il libro si articola in tre parti: la prima è dedicata alla necessità che l’Europa riscopra il suo volto più autentico, attingendo alla sua storia. La seconda parte è una riflessione sistematica sulla prima enciclica di Papa Francesco Lumen fidei. Il terzo capitolo è una densa riflessione sul contributo della scuola economica francescana allo sviluppo della società moderna. Un aspetto strategico per comprendere la possibile prossima positiva parabola dell’Europa, se resta fedele innanzitutto ai valori della pace, del dialogo, della solidarietà sui quali è nata.

 Il cuore del volume è l’apologetica cristiana del filosofo e teologo Blaise Pascal che l’autore riprende per spiegare come la fede non sia l’esito di una dimostrazione scientifica ma — come ricorda Papa Francesco nella Lumen fidei — «un dono gratuito di Dio che chiede l’umiltà e il coraggio di fidarsi e affidarsi, per vedere il luminoso cammino dell’incontro tra Dio e gli uomini, la storia della salvezza». Si parla dell’Europa che Francesco ha definito «terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati», «madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli», che dopo i due conflitti mondiali «hanno saputo testimoniare all’umanità che un nuovo inizio era possibile». Papa Francesco ha ricordato che le ceneri delle macerie «non poterono estinguere la speranza e la ricerca dell’altro» e furono gettate «le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che non si sono uniti per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune, rinunciando per sempre a fronteggiarsi». A  Dario Antiseri il merito di rilanciare il monito di Thomas Eliot: «Se è nel giusto Shelley a dire che noi tutti siamo greci, perché è stata la Grecia a passare all’Europa l’idea di razionalità come discussione critica, ha altrettanto ragione Benedetto Croce a sostenere che non possiamo non dirci cristiani» e — aggiunge Antiseri — «non possiamo non dirci europei». Ma lo sbocco dei popoli europei non deve essere il suicidio, avverte il filosofo. Suicidio che tanto servirebbe ad altre potenze internazionali, che infatti alimentano tante delle fake news circolanti. Anche qui sono illuminanti le parole di Papa Francesco: «Oggi abbiamo davanti agli occhi l’immagine di un’Europa ferita, per le tante prove del passato, ma anche per le crisi del presente, che non sembra più capace di fronteggiare con la vitalità ed energia di un tempo». Il riferimento è a quando l’Europa unita è stata sognata proprio come baluardo di pace e di civiltà, a metà del secolo scorso. Ne è nata una «famiglia di popoli diventata nel frattempo più ampia». Purtroppo però — ha avvertito Francesco — di recente «sembra sentire meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai Padri». La considerazione è amara ma innegabile: «Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti». Eppure anche davanti a un’Europa «nonna, stanca e invecchiata, decaduta, che si va trincerando», il Papa si è detto «convinto che la rassegnazione e la stanchezza non appartengono all’anima» del continente. Da qui l’invito a «non accontentarsi  di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove» per poter «affrontare con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri giorni, accettando con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di Europa». In un momento di scossoni, attacchi e sfide alla costruzione europea, le considerazioni di Papa Francesco offrono una bussola. In ogni caso, nel dibattito restano incompiutezze e inadeguatezze della costruzione europea, ma il discorso può farsi consapevole e all’altezza delle urgenze dei popoli e può soprattutto rifarsi al concetto di bene comune. Questa dovrebbe essere la priorità, per politici che siano locali, nazionali, o sovranazionali. Antiseri, argomentando da filosofo, ci riporta a Benedetto Croce: «Il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuto [e] la ragione di ciò è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all’umanità». «Oggi è facile attaccare l’Europa dei mille regolamenti», scrive Pisarra avvertendo che «non si possono dimenticare le opportunità, i progressi, i vantaggi derivati dalla caduta dei muri e delle frontiere». Il viaggio ideale proposto dal libro di Pisarra va da Patmos a Salamanca, da Praga a Parigi, e poi Lisbona, Berlino, Londra, Copenhagen, il Cammino di Santiago, alla riscoperta della letteratura e della spiritualità di capitali che hanno fatto la storia.

Senza il cristianesimo i valori occidentali di dignità, libertà e giustizia risultano incomprensibili

E le tappe ripercorse restituiscono flash della verità dell’Europa fatta, come scrive Pisarra, di «cristianesimo più illuminismo, universalismo cristiano e idea di tolleranza, diritti umani e razionalità scientifica». Un patrimonio che deve essere in grado di segnare il dibattito «spesso falsato da fake news e retorica nazionalista».Il pensiero va alla cosiddetta Linea Sacra, la linea ideale che da centinaia e centinaia di anni, in sintonia con il tramonto del sole nel giorno del solstizio di estate, per oltre duemila chilometri taglia l’Europa collegando sette monasteri. Rimanda all’invito dell’arcangelo Michele ai fedeli di perseverare sulla via retta e di difendere l’Europa stessa dal male. I siti sono sette: Skellig Michael (Irlanda), St Michael’s Mount (Gran Bretagna), Mont Saint Michel (Francia), la Sacra di San Michele (Piemonte, Italia), San Michele (Puglia,Italia), Monastero di San Michele (Grecia). I tre più importanti — ovvero Mont Saint Michel in Normandia, la Sacra di San Michele in Val di Susa e il Santuario di Monte Sant’Angelo nel Gargano — si trovano tutti alla stessa distanza fra di loro. L’unico a trovarsi fuori dall’Europa, ma facendo parte del proseguimento della Linea Sacra è il Monastero di Monte Carmelo, che si trova in Israele, luogo della nascita del Cristianesimo. Furono i monaci a salvare il patrimonio classico dai barbari e a far sorgere lo straordinario Occidente, con tutta la sua ricchezza di conoscenze, di scoperte, di bellezze, di lavoro, di civiltà. Dal seme delle abbazie è nata l’Europa cristiana e dall’Europa cristiana il sogno di una famiglia di popoli in pace.

L’Osservatore Romano, 18 maggio 2019

Stupro e violenza sulle donne armi globali

A colloquio con il premio Nobel per la pace Denis Mukwege

dal nostro inviato Fausta Speranza

BRUXELLES, 15. «La risoluzione dell’Onu contro gli stupri come arma da guerra è un punto di partenza, ma ora bisogna moltiplicare l’attenzione e impegnarsi davvero perché cambi la mentalità patriarcale che dà vita e sostiene tante logiche di violenza contro le donne». Con queste parole Denis Mukwege, premio Nobel per il suo impegno di medico a favore delle vittime in Congo, esprime soddisfazione per il pronunciamento delle Nazioni Unite, formalizzato tre settimane fa, che riconosce l’uso dello stupro come drammatica e sistematica strategia di guerra, ma sottolinea anche che può essere solo «un punto di partenza». Lo incontriamo a Bruxelles,dove è impegnato a sostenere la campagna #School4All, voluta dall’Ue per raggiungere i 75 milioni di minori senza istruzione nel mondo. La prima riflessione che sottolinea è che «senza istruzione non c’è protezione» .Mukwege da 19 anni opera nell’ospedale Panzi a Bukavu, in quella che definisce «una situazione formale né di guerra né di pace, ma di autentica impunità», in cui lo «stupro è usato come l’arma più economica di guerra». A dicembre 2014 è stato insignito del premio Sacharov del parlamento europeo perché — ci ricorda oggi — «in un mondo di inversione di valori, rifiutare la violenza significa essere dissidente». Nel 2018 ha ricevuto il Nobel per la pace insieme con Nadia Murad, una delle yazide ridotte a schiave del sesso dagli uomini del sedicente stato islamico (Is) in Iraq.  Ricordandolo, afferma con forza: «A violare le donne sono anche tutti gli uomini che di fronte a tutto ciò tacciono». Il ginecologo cura il fisico di queste giovanissime, anche bambine piccolissime, violate e segnate brutalmente nei corpi in modo che si sappia da quale clan criminale sono state colpite, in un equilibrio disumano di predominazione. Ma cura anche i diritti sistematicamente altrettanto violati di queste donne, denunciando da anni con grandissimo coraggio quello che succede nel difficile paese africano della regione dei Grandi Laghi, dove il commercio di oro, diamanti, rame, coltan, cobalto muove interessi e armi. E, a dispetto di qualunque guerra dei dazi, è davvero globale. Mukwege ci dice: nessun paese si senta escluso. Il suo straordinario impegno è ormai noto e la comunità internazionale gli assicura la protezione che lo ha salvato da diversi attentati. «Cercano di colpirmi — ci spiega — non perché curo i corpi, ma perché rivendico lo statuto di vittime per le donne violentate e per i loro bambini». Mukwage raccomanda di riferire che, oltre allo strazio letto nei corpi, c’è la disperazione delle don-ne che vengono stuprate e alle quali poi viene imposta la presenza ogni giorno degli uomini che le hanno «violate nell’intimità e nell’anima». C’è lo sgomento di «donne alle quali viene imposto di obbedire agli uomini che hanno violato le loro figlie». E c’è l’angoscia, e spesso il rifiuto, per i figli avuti da barbare violenze. «Tutta questa trama di fragilità psicologiche va ricucita», ci spiega, sottolineando che «bisogna tutelare i figli frutto di stupri» perché sono anche loro «vittime della violenza inaudita che troppo spesso li fa odiare dalle proprie madri e dalla comunità. La prima cosa è salvarli», ci confida: la tentazione di aborti affidati a mani peraltro incompetenti è forte per giovanissime disperate che vedono i propri figli come seconda violenza: un impedimento al ritorno a una vita normale». Mukwege grida al mondo questo orrore di «una violenza che spezza il legame più bello e più forte: quello di una madre con il proprio figlio».E accade non solo in Congo. Il segretario generale dell’Onu, António Guterres, il 23 aprile scorso,quando al Consiglio di sicurezza la risoluzione 1820 è stata approvata — con 13 voti a favore e due astenuti (Russia e Cina) — ha dichiarato: «Nonostante numerosi sforzi, la violenza sessuale continua ad essere una caratteristica orribile dei conflitti in tutto il mondo, usata deliberatamente come arma di guerra». «Dobbiamo riconoscere che lo stupro in guerra riporta a questioni più ampie come la discriminazione sessuale», ha proseguito, sottolineando che c’è «un’impunità diffusa» e la«maggior parte di questi crimini non viene denunciata, investigata o perseguita». Dopo la risoluzione, Mukwege chiede un’azione coraggiosa e responsabile, nel suo paese e altrove, contro quella che definisce «una società che a livello mondiale autorizza la predominanza degli uomini sulle donne». Il ginecologo spiega che «la violenza che in contesti di conflitto diventa bruta disumanità su ragazzine, normalmente si esprime in tanti modi a cominciare dalla maggiore esclusione dell’universo femminile dai percorsi formativi e dalle stanze del potere. Le decisioni in tema di politica, di economia, di capacità di scatenare conflitti — ci dice Mukwege — sono in mano agli uomini, ovunque nel mondo: sono loro a stuprare le donne, così come fanno violenza a sane dinamiche di convivenza e di pace».

L’Osservatore Romano, 16 maggio 2019

Solo quattro euro

A tanto ammonta per ogni europeo il costo annuale dell’aiuto alla scuola nelle situazioni d’emerg e n z a

dal nostro inviato Fausta Speranza

BRUXELLES, 14. Settantacinque milioni di minori nel mondo non hanno accesso all’istruzione e nel caso di bambine si registra la drammatica percentuale di esclusione di due volte e mezza rispetto ai coetanei dell’altro sesso. Nel mondo crescono le situazioni di crisi legate a conflitti o a disastri naturali e cresce anche “l’emergenza scuola”, mentre l’istruzione  rappresenta uno dei fondamentali diritti umani e il primo veicolo di speranza per il futuro. Siria, Iraq, Yemen, Afghanistan, Sud Sudan: questi paesi da soli nel mondo hanno un numero di bambini che non hanno accesso allo studio, superiore ai 66 milioni di bambini scolarizzati nei 28 paesi dell’Ue. Ma sono almeno 55 i paesi in cui l’istruzione non è assicurata. Questi dati, insieme con la consapevolezza di quale danno possa apportare la mancata acquisizione degli strumenti per avere accesso al sapere, la conseguente assenza di consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri e dei mezzi per farli valere, hanno convinto le istituzioni europee a porre “l’emergenza educativa” tra le priorità di spesa nell’ambito dell’aiuto umanitario targato Ue. Se nel 2015 la spesa dedicata a raggiungere minori in difficoltà — ad esempio profughi per guerre o carestie — rappresentava l’1 per cento del budget, nel 2019 ha raggiunto il 10 per cento. E l’appello che lancia oggi da Bruxelles il commissario europeo Christos Stylianides — nell’ambito dell’evento intitolato #School4All, istruzione per tutti — è chiaro: qualunque sia il risultato del voto europeo della prossima settimana per il rinnovo delle istituzioni Ue, questa percentuale non deve cambiare perché la «posta in gioco è troppo importante». L’Ue è il primo tra i donatori umanitari al mondo. Tra il 2015 e il 2018, a fronte delle necessità sottolineate, ha potuto assicurare un percorso di istruzione, seppure in campi per rifugiati o sfollati, “solo” a 6,5 milioni di bambini in 55 contesti di crisi. Purtroppo si moltiplicano le tragedie per conflitti vecchi e nuovi e per i disastri naturali come alluvioni, carestie, uragani, anche in conseguenza dei cambiamenti climatici dovuti a uno sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta da parte dell’uomo.                                In considerazione di tutto ciò, Stylianides, commissario Ue uscente per l’aiuto umanitario, sottolinea che i 290 milioni di euro che la Commissione europea ha speso nel 2018 per supportare l’agenzia dell’Onu per l’infanzia, l’Unicef, nel portare strumenti e insegnanti dove c’era solo violenza e solitudine per i minori, non possono essere messi in discussione nei bilanci futuri. «Non è solo questione di solidarietà, che comunque rappresenta uno dei valori fondanti della costruzione europea — ribadisce Stylianides — ma si tratta di assicurare prevenzione per tutte le situazioni di sfruttamento da parte delle organizzazioni criminali e di conflittualità che vengono inesorabilmente favorite da generazioni di persone che non hanno avuto l’opportunità di beneficiare di  un’istruzione». Si parla di situazioni di ignoranza che favoriscono il commercio di esseri umani, lo sfruttamento della prostituzione, il traffico di organi, i processi di cosiddetta “radicalizzazione” e di adesione a gruppi terroristici, evidenti in svariate aree del mondo. «Nessuno può pensare di voltare lo sguardo da un’altra parte: nessun genitore, certo del percorso scolastico del proprio figlio in uno dei paesi Ue, può pensare che tutto ciò non lo riguardi», afferma Stylianides, spiegando: «Tutto l’aiuto finanziario assicurato dall’Ue l’anno scorso è costato a ogni cittadino europeo quattro euro: è la forza dello stare insieme tra gli oltre mezzo milione di cittadini dei 28 paesi membri Ue». In contesti di messaggi disgreganti e di spinte al cosiddetto sovranismo, è un dato che può far riflettere.

L’Osservatore Romano, 15 maggio 2019

Dalle urne in Spagna molta incertezza

Psoe primo partito ma maggioranza difficile

di Fausta Speranza

Il Partido Socialista Obrero Español (Psoe) ha vinto le elezioni sfiorando il 29 per cento dei consensi e canta vittoria anche Vox, il partito di estrema destra che per la prima volta entra nel parlamento nazionale, con il 10,3. Solo tre anni fa aveva lo 0,3. In netta perdita il Partido Popular (Pp), che si ferma al 16,7. Buona l’affermazione del partito Esquerra  republicana (Erc), che guadagna 15 scranni. Per quanto riguarda l’affluenza è cresciuta del 9 per cento, in Catalogna del 17 percento. Il paese, però, si ritrova senza una maggioranza chiara per formare il prossimo governo. E il partito Erc potrebbe essere l’ago della bilancia nel rebus delle alleanze che si prospetta. Da parte sua, il leader socialista Pedro Sánchez ha affermato: «Abbiamo mandato un messaggio all’Europa e al resto del mondo: si può vincere l’autoritarismo e l’involuzione», e ha promesso poi un «governo pro europa».  Il Psoe torna a essere il primo partito (come era stato per 36 anni dal dopo Franco), ottenendo 123 seggi al Congreso de los deputados, che con il Senado forma le Cortes generales, il parlamento spagnolo. Per i popolari la sconfitta è storica: 65 seggi in parlamento rispetto ai 137 nel 2016. Il leader trentottenne Pablo Casado, nominato a luglio scorso, ha dovuto ammettere nella notte che «il risultato è molto negativo» e sottolineare la frammentazione della destra.  A proposito di altri elementi chiave a destra, a  Ciudadanos vengono riconosciuti 57 seggi, ben 25 in più rispetto a tre anni fa. E sono 24 quelli conquistati da Vox, che porta l’estrema destra nel parlamento nazionale dopo essere entrato per la prima volta a dicembre scorso in quello regionale dell’Andalusia. Per quanto riguarda la sinistra, l’alleanza Unidas Pomedos (Up) tra Podemos, Izquierda unida, Equo e altre formazioni si è contesa nella notte fino all’ultimo il terzo posto proprio con Ciudadanos, entrambe intorno al 15 per cento. Ma il dato più significativo sono i 42 seggi del partito Podemos, guidato da Pablo Iglesias. Sono quelli infatti che sicuramente si uniranno ai 123 dei socialisti. Il punto è che il Psoe e Podemos non raggiungono — per undici seggi — la soglia dei 176 sufficienti ad assicurare una maggioranza tra i 350 deputati, mentre avranno invece maggioranza assoluta al Senado, roccaforte in passato del Pp. Resta l’incognita di chi possa appoggiare Sánchez al governo. La folla dei sostenitori da Calle Ferraz a Madrid ha mandato un chiarissimo messaggio: «Con Rivera no!». Significa: nessuna intesa con la destra del Partido de la Ciudadanía —di cui Albert Rivera è leader dalla nascita nel 2006 — che a febbraio ha respinto la legge di bilancio facendo cadere il governo socialista di minoranza. Lo stesso Sánchez  ha ribadito la distanza ma ha anche affermato: «Non faremo come fanno altri, che mettono cordoni sanitari al partito». Il primo pensiero per un possibile appoggio va agli “indipendentisti”. Il partito Erc, legato al leader Oriol Junqueras, ha superato Junts per Catalunya, (JxCat), coalizione che fa riferimento all’ex presidente della Generalitat Carles Puigdemont, che si è fermato a 7 seggi. Entrambi i leader sono sottoprocesso dopo la proclamazione dell’indipendenza della regione nel 2017. Resta l’evidenza della frammentazione politica. Dall’avvento alle Cortes di Podemos e Ciudadanos nel 2015, “forze anti-casta”,  si sono succeduti due governi di minoranza— uno popolare e uno socialista — e in quattro anni si è tornati tre volte alle urne. Ora il Psoe ha ottenuto una vittoria insperata ma la sfida di governare non sarà semplice.

L’Osservatore Romano, 30 aprile 2019

La Spagna vota l’Ue s’interroga

Le elezioni politiche a ridosso di quelle europee

di Fausta Speranza

Spagnoli alle urne a conclusione di una campagna elettorale quasi improvvisata dopo l’annuncio, a metà febbraio, di elezioni anticipate. Con il voto di domenica 28 si devono rinnovare le due Cortes Generales, che dovranno poi votare la fiducia a un nuovo esecutivo. Si tratta di un punto di snodo in una crisi di governo tutta interna al paese, ma l’appuntamento elettorale di Madrid assume particolare significato perché precede di quattro settimane le elezioni europee, fotografando una tendenza alla frammentazione delle forze politiche.

Il governo uscente è guidato da Pedro Sánchez, leader del Partito Socialista (Psoe), principale partito di centrosinistra in Spagna che per 36 anni ha avuto la leadership del paese ma che tra il 2015 e il 2016 ha subito sei sconfitte elettorali. Sánchez è diventato primo ministro nel giugno 2018, dopo la sfiducia votata dal Parlamento nei confronti di Mariano Rajoy, leader del Partito Popolare (Pp), formazione che aveva vinto le ultime elezioni generali nel 2016. Per la Costituzione spagnola vale il sistema della cosiddetta “sfiducia costruttiva”, per cui un governo cade solo se il parlamento vota contestualmente la fiducia a un altro esecutivo. In sostanza, negli ultimi tre anni lo stesso Parlamento ha legittimato due governi molto diversi, uno di destra e uno di sinistra. La decisione di elezioni anticipate è stata presa dopo che i deputati hanno bocciato la legge di bilancio per il 2019 presentata dall’esecutivo socialista, mettendo in evidenza l’assenza di una maggioranza in grado di continuare a governare. Sánchez aveva varato un esecutivo con una fragilissima maggioranza: il mancato sostegno degli indipendentisti catalani è stato sufficiente a ritornare alle urne. Per quanto riguarda i socialisti nell’ottobre 2016 l’orizzonte si presentava fosco come mai era stato e sembrava arrivata alla fine la carriera politica di Sánchez, che tutti si aspettavano si dimettesse da segretario generale del partito. Ma Sánchez in quel momento ha deciso comunque di non andarsene e l’anno successivo si è presentato come candidato segretario al congresso del Psoe, vincendo. E, dopo il periodo segnato dalle difficoltà per la vicenda degli indipendentisti in Catalogna, nel momento di crisi che aveva colpito il governo di Rajoy (Pp), il 2 giugno scorso, ha ottenuto la fiducia in Parlamento, seppure risicata, per formare il nuovo governo. Oggi nei sondaggi, il Psoe è il partito posizionato meglio. A dispetto della caduta del governo, sembra aver recuperato voti a sinistra e una parte di consensi potrebbe arrivare dal centro, dopo lo spostamento a destra di Ciudadanos e la promessa del suo leader, Alberto Rivera, di non fare alleanze proprio con il Psoe. Possibili alleati in una coalizione di governo sono Podemos di Pablo Iglesias e Izquierda Unida di Alberto Garzón. Ma se il Psoe come partito si difende bene, i sondaggi danno per favorita la coalizione del nuovo centro destra, composto dai popolari, dai liberali di Ciudadanos e dal partito di estrema destra Vox. Quest’ultimo si è presentato sulla scena politica a inizio 2014 e fino al 2017 ha registrato consensi che sfioravano l’1 per cento ma alle regionali in Andalusia, a dicembre scorso, ha fatto il suo exploit ottenendo il 10,97 per cento di voti e 12 seggi nel parlamento regionale. Il terremoto politico in Spagna è iniziato con le amministrative del 25 maggio 2015, quando il partito di Pablo Iglesias, Ciudadanos, ha messo fine al bipartitismo tradizionale che ha segnato la storia democratica dopo la caduta del franchismo. È stato il frutto delle denunce contro la corruzione dei partiti tradizionali e delle proteste contro le politiche di austerità. Gli elettori hanno voltato le spalle al Pp di Rajoy in particolare per il caso Gürtel, uno scandalo di corruzione, riciclaggio ed evasione fiscale che ha investito i vertici dei popolari. Ma anche i socialisti sono stati visti come esponenti della casta ritenuta responsabile della profonda crisi economica e sociale del paese. Di fatto, a due giorni dal voto, il leader del Pp, Pablo Casado, ha aperto per la prima volta esplicitamente alla destra di Vox e alla possibilità che questa entri in un ipotetico governo guidato dal Pp. Ha dichiarato che «Vox o Ciudadanos, che ottengano 10 seggi o 40, avranno l’influenza che vorranno avere per entrare nel governo o per decidere l’investitura o la legislatura». Un messaggio chiaro, accompagnato però anche da un appello al «voto utile» e compatto, nella speranza di contrastare così il possibile blocco delle sinistre. Si capisce che anche il Pp ha bisogno come mai di alleanze. Incombe proprio l’esempio dell’Andalusia dove a febbraio si è insediato un governo di centro destra che vive dell’appoggio di Vox. La regione meridionale ricca di arte e di storia ha segnato la prima volta di un esecutivo senza i socialisti nella storia del dopo Franco. Una svolta che è stata definita storica per la Spagna, ma che significa qualcosa non solo per il paese: Vox rappresenta, infatti, uno dei tanti partiti “sovranisti” che stanno segnando il dibattito per il voto europeo. Dal voto, dunque, ci si aspetta la nascita di quello che i commentatori politici hanno definito il “pentapartitismo imperfetto”. Una definizione nuova per un equilibrio nuovo, che però in realtà si basa su un presupposto ormai consolidato negli ultimi quattro anni: la politica spagnola non gira più attorno alla sola rivalità tra i due partiti tradizionali, il Psoe e il Pp. Tra tutti i candidati in lizza c’è una caratteristica che ritorna: i nuovi leader sono tutti giovani. L’elezione nove mesi fa di Pablo Casado (38 anni) quale presidente del Pp — fino ad allora guidato dal sessantaquattrenne Rajoy — ha confermato la fine di un ciclo, un cambio generazionale. Il più  “anziano” è Pedro Sánchez del Psoe, 47 anni. Hanno 40 anni Pablo Iglesias di Unidos Podemos e Alberto Rivera,che è a capo di Ciudadanos dalla sua fondazione. È loro coetaneo Santiago Abascal di Vox, ex deputato del Parlamento locale dei Paesi Baschi, che ne ha 43. Per sapere chi avrà più peso bisogna aspettare l’esito delle urne, ma intanto il “sistema pentapartitico” chiarisce che per governare serviranno alleanze, fare da soli non sarà possibile per nessuno. Resta il fatto che le elezioni di domenica 28 sono le terze in meno di quattro anni, in un paese che fino a non molto tempo fa veniva considerato come uno dei più politicamente stabili in Europa. Anche questo fa pensare alla stessa Ue, che a partire dal 23 maggio affronta il voto per il rinnovo delle sue istituzioni più incerto della sua storia e che rischia di perdere molto della sua stabilità.

L’Osservatore Romano, 28 aprile 2019