Un Libano aperto al mondo

La moschea di Al-Amin e la cattedrale
Dall’accoglienza dei profughi alla valorizzazione di un patrimonio inestimabile

di Fausta Speranza

Non più aiuti ma strategie: il Libano, dopo l’ombra scurissima del conflitto nella vicina Siria, cerca di ritrovare la luce. Torna ad aprirsi al turismo e ai pellegrinaggi, ma chiede alla comunità internazionale di impegnarsi nel favorire il rientro dei profughi in Siria. Il paese, esempio di convivenza tra cristiani e musulmani, è diventato anche simbolo di solidarietà: circa quattro milioni di libanesi hanno accolto oltre un milione e mezzo di profughi siriani, dando al mondo una lezione di umanità a fronte di un onere numericamente schiacciante. Ma nessun paese o organismo internazionale può pensare che, mentre si va faticosamente normalizzando la situazione per Damasco, ci si dimentichi dei nuovi rifugiati nel paese dei cedri, che conta ancora in alcuni campi 500.000 palestinesi arrivati nel 1948.

Abbiamo visitato la terra dei cedri con una delegazione dell’Opera romana pellegrinaggi guidata dall’amministratore delegato don Remo Chiavaroni, che, su invito di Papa Francesco,  ha inserito per il 2019 anche il Libano nella lista degli itinerari religiosi. È Terra Santa: a Tiro e a Sidone, nonché in altri luoghi del sud, è arrivato Gesù. Il capo dello stato, il generale Michel Aoun cattolico maronita, ci ha ricevuti nel suo palazzo presidenziale con parole di riconoscenza per la decisione del Papa e affermando che «ci sono tutte le circostanze di sicurezza perché è stata vinta la guerra contro il terrorismo». Ci ha accolto anche il ministro degli esteri Gebran Bassil, sottolineando «la capacità del paese, terra di incontro tra Occidente e Oriente, di resistere, di difendere la propria identità malgrado tutte le sfide».

Visitando il Libano oggi, si percepisce a vari livelli il tentativo di riscatto rispetto alla crisi economica e il desiderio di rinascita per siti archeologici come quello famosissimo di Baalbek, che si trova a soli 20 chilometri dal confine siriano. Basta ricordare questa prossimità per raccontare come il sito, uno tra i più importanti in assoluto di tutto il Vicino Oriente — Robert Byron lo definì «il mondo nella pietra» — sia sostanzialmente scomparso dai circuiti delle visite guidate negli otto anni di conflitto in Siria. Il sindaco di Baalbek, il generale Hussein Lakis, ha il sorriso di chi torna a vivere ed è felicemente proiettato al futuro, ma parla anche delle «autobombe esplose nei pressi del confine, dei missili avvistati dalla popolazione, della paura diffusa diffusa di infiltrazioni», da un confine che ora è stato riaperto al traffico ufficialmente, ma che non è sembrato mai abbastanza chiuso per i terroristi del sedicente stato islamico (Is) che hanno portato morte in Siria come in Iraq.

E, proprio a qualche decina di metri dalle magnificenti colonne e dagli enormi ma dettagliatissimi capitelli rimasti dell’antico tempio di Giove, in quella che si chiama la Valle di Baak, si trovano alcuni dei campi profughi dove si incontrano famiglie siriane. La maggior parte non aspetta altro che avere la possibilità di tornare in pace nella propria terra. Finora, secondo le ultime cifre dell’Alto commissariato per i rifugiati Onu (Unhcr), solo 150.000 quelli già rientrati. Ma alcuni, provenienti in particolare dalla martoriata Raqqa scelta come capitale dell’Is, hanno abbandonato l’idea di rimpatriare a breve e sognano di restare in Libano o di muoversi in altri paesi. In realtà, questi campi sono un’eccezione in Libano. Il governo ha cercato di non costringere i profughi in aree che potessero diventare ghetti permanenti, come in fondo è successo per molti dei campi di palestinesi. Le scuole di ogni ordine e grado, ad esempio, sono state aperte anche il pomeriggio per assicurare percorsi di studio ai piccoli siriani. «Il Libano accoglie, malgrado abbia sofferto durante la guerra civile, sia stato invaso e occupato dai vicini». Con queste parole il nunzio apostolico Joseph Spiteri, nell’intervista con «L’Osservatore Romano», definisce «più che lodevole» l’impegno del Libano. Il nunzio però avverte: non si può chiedere di portarlo avanti troppo a lungo, soprattutto in considerazione delle opportunità di lavoro che mancano anche per i libanesi. Il nunzio si illumina all’accenno allo storico documento di fratellanza siglato presso il Founder’s Memorial ad Abu Dhabi da Papa Francesco e il grande imam di Al-AzharAhmad Al-Tayyeb, e confida: «Si sente davvero intensificarsi la fraternità in questo momento». Aggiunge: «I fratelli e sorelle rappresentati dal grande Imam sono uomini e donne di fede accanto ai quali possiamo camminare e vogliono avere appoggio nel riconoscere che non sono terroristi».

In Libano, l’eco del documento di Abu Dhabi è fortissimo. Tutti ne parlano con entusiasmo e commozione, cristiani e musulmani. Padre Salim Daccache, rettore della Saint Joseph University, ateneo fondato nel 1875 dai padri gesuiti e a tutt’oggi uno dei più prestigiosi in Libano, dove ci ha ricevuti, spiega che «il fermento è grande», che «si moltiplicano gli inviti per incontri interreligiosi con sciiti, sunniti, drusi», che «l’accordo è già oggetto di studio nelle università cattoliche e nei centri di formazione islamici».

A Beirut abbiamo incontrato anche il professor Mohammed Al Summak, segretario generale del comitato cristiano musulmano per il dialogo e consigliere del Gran Muftì del Libano. Con orgoglio ricorda di aver partecipato, per parte musulmana, ai preparativi della Dichiarazione di fratellanza e ci lascia due sostanziali sollecitazioni: «Ricordare che il cammino è partito dalla Nostra Aetate», per poter «valutare tutti i passi e i frutti compiuti» proprio a partire dal documento del Concilio Ecumenico Vaticano II che riguarda il tema del senso religioso e dei rapporti tra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane. Nelle parole di Summak, la dichiarazione di Abu Dhabi è «un grande salto in avanti» ancora più significativo in un momento in cui «siamo sopravvissuti allo tsunami di terrorismo e crimini del sedicente stato islamico». Una raccomandazione concreta: «Di fronte alla crescita di tanti estremismi e di facili populismi, dobbiamo tenere gli occhi bene aperti» e «fare il molto che resta da fare: inserire il messaggio della Dichiarazione nei curricula accademici, nei percorsi di studio, nei processi culturali nei paesi islamici. In chiusura, Summak avverte: «Ci sono sempre persone che non credono nella fraternità umana: solo loro possono essere ostili al documento».

Anche il Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Béchara Boutros Raï, accogliendoci nel Patriarcato a Bkerké, si rallegra della eco della Dichiarazione di Abu Dhabi. Poi lancia con forza un appello al mondo. Ricorda che «il Libano è l’unico stato in cui cristiani e musulmani non solo vivono gli uni accanto agli altri ma gestiscono insieme la cosa pubblica». In questo particolare equilibrio, «non si possono sostenere oltre un milione e mezzo di profughi siriani in un paese che è più piccolo della Sardegna». Dunque, il vero e proprio appello: «È necessario che la comunità internazionale non vincoli il loro rientro in patria alla soluzione politica della crisi in Siria». C’è il rischio che il processo vada troppo perle lunghe — sottolinea il Patriarca — e che in Libano saltino gli equilibri numerici, e dunque di rappresentanza, tra cristiani e musulmani, «perché i rifugiati siriani sono sunniti: solo 200 sono cristiani di quelli arrivati in Libano». Ma l’avvertimento del Patriarca è anche per la Siria: non permettere il rientro in patria dei siriani dal Libano, dalla Giordania o da altre zone in cui sono scappati, significherebbe infliggere alla Siria «una seconda guerra: dopo la distruzione sul terreno, la distruzione dell’identità, stravolta da tante fughe».

In ogni caso, resta eccezionale in Libano lo slancio che viene dalle comunità monastiche, che tanto hanno da offrire a chi cerca spiritualità sulle orme di Gesù o a chi è attirato dalla ricchezza storico-culturale del più piccolo degli stati del Vicino Oriente. Nell’offerta dell’Opera romana pellegrinaggi c’è in programma un tour di otto giorni nella terra menzionata in 30 dei 66 libri della Bibbia. Tra le varie tappe previste, citiamo solo quella alla cosiddetta Valle Santa, ricca di monasteri, e quella alla cittadella crociata di Byblos. Nel tour c’è altro. E nel paese c’è molto altro oltre i luoghi, a partire dal richiamo prepotente alla mente delle pagine della Bibbia che narra il Libano come terra di latte e miele.

L’Osservatore Romano, 28 Marzo 2019

Inaugurata a Tiro la chiesa costruita dai soldati di pace

Il nuovo edificio per il culto cattolico di rito latino dedicato a Maria Mater Decor Carmeli e a San Giovanni XXIII

Il sud est del Libano ha finalmente la sua chiesa di rito latino: mancava in tutta la zona di Tiro e da lunedì è un punto di riferimento all’interno della base delle Forze di interposizione dell’Onu (Unifil), volute dal 1982 perché si tratta della zona al confine con Israele sempre a rischio, in fasi diverse, di tensioni e di scontri. Nel tardo pomeriggio di lunedì, il nuovo edificio di culto è stato inaugurato con una celebrazione alla quale è stato importante veder partecipare le autorità politiche locali ed esponenti di tutte le diverse confessioni religiose che fanno la ricchezza, rappresentando un elemento di complessità, del paese dei cedri. A tutti è arrivato il messaggio di benedizione a nome di Papa Francesco del cardinale segretario di stato Pietro Parolin. L’auspicio giunto ai partecipanti è che la chiesa di pietra e di acciaio — costruita dai militari italiani che da agosto hanno il comando del settore ovest dell’Unifil — tenga viva una comunità di fede capace di farsi testimone di pace e di fratellanza. A presiedere la celebrazione è stato l’ordinario militare in Italia, arcivescovo Santo Marcianò, che ha sottolineato l’importanza della dedicazione della nuova chiesa a Maria Mater Decor Carmeli e a San Giovanni XXIII, che è stato legato pontificio in Libano nel 1954 per il Congresso internazionale mariano. In quell’occasione il Papa incoronò Maria Regina del Libano. Si è trattato di un momento di festa e di visibile gioia in particolare tra i 1100 militari italiani guidati dal generale di brigata Diodato Abagnara, che in un mese hanno costruito la chiesa.

Ma il contingente Onu della base Millevoi di Shama è composto in tutto da 10.000 soldati di 42 paesi e alla celebrazione hanno preso parte diversi  militari irlandesi, coreani, indonesiani.
“Non solo per loro ma per tutta la parte a sud di Tiro mancava una chiesa di
rito latino”, ci ha detto con grande gioia il vescovo greco cattolico melchita Micail Abras della città storica di Tiro che, come Sidone, ha ospitato la predicazione di Gesù.
“La pace è unità tra diritto e amore”, ha detto l’arcivescovo ordinario militare Marcianò, che ha spiegato “la differenza con un pacifismo che non si impegni a costruire convivenza e fratellanza o che possa tollerare discriminazioni di minoranze”, con un “pacifismo irreale fatto di legalismo escludente”. Pace non è solo assenza di guerra, ha ricordato affermando che piuttosto è “il frutto di ordine, giustizia, carità, libertà”. Il riferimento dichiarato delle parole dell’arcivescovo è la Pacem in terris di Giovanni XXIII, il Papa che era stato nunzio apostolico in Bulgaria e in Turchia e aveva vissuto un particolare apostolato di dialogo negli anni difficili del secondo conflitto mondiale. Un’enciclica che resta illuminante oggi – ha detto l’ordinario militare Marcianò – per la pace nel mondo e in questo paese del Vicino Oriente dove – ha sottolineato – ritrovare nella chiesa cattolica di rito latino di Shama musulmani accanto a cristiani di diverse confessioni dice qualcosa del “miracolo del Libano”.

L’Osservatore Romano, 20-21 Marzo 2019

 

Le elezioni in Slovacchia test europeo

Tra ambientalismo e ruolo nell’Unione

di Fausta Speranza

Nelle elezioni che si tengono oggi in Slovacchia, e che condurranno molto probabilmente al ballottaggio il prossimo 30 marzo, sono 15 i candidati. Tuttavia, la sfida vera riguarda tre esponenti politici e, secondo gli ultimi sondaggi — prima della sospensione per legge a inizio mese — una di questi sarebbe la grande favorita. Si tratta dell’avvocato Zuzana Čaputová, seguita da Maroš Šefcovic, il candidato del principale partito di governo, e del giudice Štefan Harabín.
Čaputová si è impegnata in battaglie per l’ambiente, tra cui quella contro una discarica in una regione vinicola del paese. Si presenta come indipendente, anche se è vicepresidente della formazione liberalsociale Progresìvne Slovensko, per ora fuori dal parlamento. Si è detta a favore delle unioni civili omosessuali e di altre misure nel campo di diritti civili e queste posizioni potrebbero costarle i voti di una parte consistente dell’elettorato. Ma se nel giro di poche settimane ha registrato un exploit nei consensi — si ipotizza intorno al 50 per cento — è soprattutto perché viene considerata espressione di quella reazione cittadina che portò alla protesta in piazza un anno fa, in seguito all’omicidio del giovane giornalista Ján Kuciak e della sua fidanzata Martina Kušnírová. La protesta si giustificava in considerazione della denuncia di presunti legami tra persone dell’entourage del primo ministro Robert Fico con elementi della mafia italiana, come riportato dal giovane reporter in alcuni suoi articoli. Per l’omicidio del giornalista, due giorni fa, il procuratore generale ha indicato un mandante, il noto imprenditore Marián Kočner, dopo l’arresto in precedenza di quattro persone ritenute esecutori, smentendo la pista italiana.

Altro candidato di punta è Maroš Šefčovič, del principale partito di governo, la Direzione – Socialdemocrazia (Smer), dell’ex primo ministro Fico. Šefčovičc è vicepresidente della Commissione europea dal 2010 e, dunque, viene favorevolmente considerato distante dai settori di partito più criticati. Tra i conservatori, però, potrebbe essere inviso a quanti hanno posizioni antieuropeiste.

Ha grandi attese anche il giudice della corte suprema Štefan Harabín, già ministro della giustizia, che oggi i media locali descrivono tra i più accesi “sovranisti” e in concorrenza con Marian Kotleba, leader del Partito popolare Nostra Slovacchia (Lsns) che si definisce di estrema destra. Harabín in campagna elettorale ha puntato molto sulla proposta di una netta presa di distanza dall’Ue.

A proposito di Europa, l’attuale primo ministro Peter Pellegrini è intervenuto proprio in questi giorni alla plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo, nell’ambito del tradizionale dibattito sul futuro del continente che ospita capi di stato e di governo prima del voto di fine legislatura. Pellegrini ha rivendicato il percorso europeista del suo paese, dicendo che «un’Europa unita è per Bratislava il solo ambiente naturale possibile» e ha invocato «un’Ue globale in grado di rispondere alle sfide del momento, poste soprattutto dall’avanzata di Cina e Russia». Ha chiesto una riforma del progetto europeo «necessaria in tempi difficili», ribadendo però che Bratislava intende rimanere «nel gruppo degli stati membri più impegnati». Nel dibattito a Strasburgo è intervenuto il presidente della commissione europea, Jean-Claude Juncker, ricordando l’appartenenza della Slovacchia (con Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca) al gruppo di Visegrad, spesso critico rispetto alle decisioni che si prendono a Bruxelles, soprattutto in tema di politiche migratorie. E Juncker ha invitato tutti a «mettere fine al dibattito inutile fra europei dell’est e dell’ovest», perché «l’Europa deve respirare con due polmoni che non si mettano in rivalità nello stesso corpo».

In generale, ormai in vista del voto europeo che si svolgerà tra il 23 e il 26 maggio, ogni tornata elettorale di un singolo paese membro viene seguita con maggiore attenzione, perché ovunque si tende a individuare quei sintomi di “sovranismo” o di estremizzazione a destra che si riconoscono nel vento politico che soffia un po’ su tutto il vecchio continente e che potrebbero palesarsi con evidenza al voto europeo.

Anche se, in realtà, non sempre le situazioni interne, normalmente più complesse di quanto appaia all’esterno, giustificano troppo facili parallelelismi. In ogni caso, in questa prima parte di 2019, a parte le elezioni a livello amministrativo e solo in alcune regioni in Italia tra febbraio e marzo, si è votato il 3 marzo per il rinnovo del parlamento in Estonia, dove ha vinto il partito di centrodestra europeista e l’ultradestra del partito Ekre ha raddoppiato i seggi. E poi, oltre alle urne aperte oggi in Slovacchia, il prossimo mese si svolgeranno le parlamentari in Finlandia e, sempre ad aprile, in Spagna ci sarà il voto anticipato dopo la crisi di governo. La Lituania aprirà i seggi il 12 maggio. In Belgio, invece, si voterà in concomitanza con le europee. Nel 2019 anche Grecia e Portogallo hanno appuntamento con le urne ma sarà per entrambi in autunno.

L’Osservatore Romano, 17 Marzo 2019

Partita riaperta per la Brexit

Dopo il voto contrario al “no deal” si attende il pronunciamento del parlamento sul rinvio

di Fausta Speranza

 Tutto il processo della Brexit potrebbe essere rimesso in discussione. Escluso il distacco dall’Ue senza un accordo sulle relazioni future — il famigerato “no deal” bocciato ieri sera dalla camera dei comuni con 321 voti a favore e 278 contrari — tante ipotesi tornano a recuperare legittimità e diverse vie appaiono percorribili. A partire dal rinvio: questa sera a Westminster la camera dei comuni si pronuncerà sull’opp ortunità

Di chiedere a Bruxelles un posticipo della data della Brexit fissata al momento al 29 marzo. Ma c’è da mettere in conto anche che il premier Theresa May ottenga che si voti per la terza volta sul suo piano, bocciato a gennaio e — in una versione leggermente rivista — respinto martedì scorso. La prima breccia alle certezze è arrivata dal premier. May ha parlato di «chiara maggioranza contraria al “no deal”», ma ha anche aggiunto che «l’opzione di una Brexit senza accordo resta lo

sbocco naturale in mancanza di un accordo o di un rinvio». Il punto è che May ha confermato per questa sera il voto sulla mozione che apre la strada a un «breve rinvio» della Brexit, ma ha fissato alcune condizioni: lo ha messo in relazione con la disponibilità della camera dei comuni ad accettare il suo accordo come testo di base, aprendo la strada a un terzo voto la prossima settimana sul suo piano di intesa con la Ue. Altrimenti, ha evocato «un rinvio a più lungo termine con l’inevitabile partecipazione

britannica alle elezioni europee di maggio». Da parte sua, il leader laburista Jeremy Corbyn ha parlato di «necessità che sia il parlamento a prendere il controllo del processo verso la Brexit» e ha annunciato consultazioni trasversali per trovare un compromesso accettabile per la maggioranza. Corbyn ha un suo piano di intesa che finora non ha raccolto sufficienti consensi, ma che in linea teorica potrebbe essere discusso. Inoltre, non si può dare per scontato che i 27 paesi membri accolgano la richiesta di rimandare la Brexit a due mesi dalle elezioni europee di fine maggio. La decisione spetterà al consiglio europeo del 20 e 21 marzo. Un portavoce del caponegoziatore Michel Barnier ha dichiarato che non sarà concesso alcun rinvio al buio, «senza una valida motivazione». La Commissione ha già fatto sapere di non volere rinvii oltre il 21-22 maggio, vigilia dell’apertura delle urne per il rinnovo dell’Europarlamento. A Bruxelles tempo fa era emersa la disponibilità a un rinvio ma di lunga portata, fino al 2021. May si è sempre schierata contro, spiegando che ciò «tradirebbe lo spirito del referendum». A proposito di eventualità tutte in discussione, il conservatore Jacob Rees-Mogg ha precisato: «Tecnicamente la mozione votata ieri non ha valore legale vincolante». Dunque, in punta di legge — nonostante il pronunciamento di Westminster — resterebbe in piedi la norma che impone l’uscita il 29 marzo, “deal” o “no deal”.

L’osservatore Romano, 15 marzo 2019

Sulla Brexit sempre meno certezze

 

· ​Westminster apre al rinvio e concede un terzo voto a May ·

di Fausta Speranza

Nessuna vera decisione sulla Brexit si avrà prima del 20 o 21 marzo. All’Ue spetta l’ultima parola sull’ipotesi, avallata ieri da Westminster, di un rinvio, mentre a Londra il timone resta nelle mani di Theresa May. Il premier britannico ha ottenuto dal parlamento il mandato per chiedere all’Ue un posticipo della Brexit e la risposta si avrà solo al prossimo Consiglio europeo previsto il 21 e 22 di questo mese. Ma la seduta di ieri sera è stata importante non tanto per la conferma dell’ipotesi del rinvio, quanto perché la camera dei comuni ha dato via libera a un terzo voto sul piano May, fissato al 20 marzo. E ha respinto la mozione dell’opposizione che avrebbe di fatto affidato al parlamento, strappandolo al governo, il controllo della Brexit. 

Il testo del premier — bocciato a gennaio e respinto dopo essere stato emendato martedì scorso — potrebbe passare in extremis il 20 marzo, ormai a nove giorni dalla data fissata per l’uscita del Regno Unito dall’Ue. A quel punto, a meno di una decisione concordata con Bruxelles su un rinvio — che non è scontata — la Brexit scatterebbe senza un accordo sulle relazioni future, secondo il famigerato “no deal”. Al momento, dunque, a conclusione della serie di votazioni alla camera dei comuni di questa settimana, nonostante le bocciature, la posizione di Theresa May è ancora forte dell’opportunità di un altro voto e della scelta fatta a Westminster di respingere la mozione con cui il leader dell’opposizione Jeremy Corbyn chiedeva di «affidare al parlamento il compito di trovare una strada che possa assicurarsi il sostegno della maggioranza», che avrebbe di fatto ridimensionato il ruolo dell’esecutivo.

L’Osservatore Romano, 16 Marzo 2019

Dilemma a Westminster

Per la Brexit nessun accordo o rinvio

di Fausta Speranza

LONDRA, 13. La camera dei comuni ha respinto per la seconda volta il piano sulla Brexit del premier Theresa May, con 391 voti contrari e 242 a favore. Oggi, dunque, si tornerà a votare per decidere se procedere con l’uscita dalla Ue anche senza l’a c c o rd o . May aveva difeso il testo concordato con Bruxelles a novembre scorso e respinto a gennaio, apportando solo alcune modifiche. E lo aveva rinegoziato fino all’ultimo, incontrando lunedì sera a Strasburgo il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Le piccole modifiche in tema di backstop non sono state tuttavia sufficienti a convincere i più critici, che da subito si sono manifestati in gran numero all’interno della maggioranza. Le modifiche concordate riguardavano in particolare la clausola di garanzia relativa al mantenimento della libertà di transito e doganale tra Irlanda e Irlanda del Nord. Secondo May, le aggiunte rendevano di fatto improbabile l’applicazione della clausola e comunque la rendevano realmente temporanea e circoscritta. Ma gli aggiustamenti non hanno convinto affatto molti deputati tra i conservatori e tra gli unionisti nordirlandesi del Dup. Resta sul tavolo anche un’altra ipotesi: un voto oggi contro il “no deal” porterebbe a una nuova consultazione parlamentare, da tenersi domani, per autorizzare o meno il governo a chiedere all’Ue un lieve rinvio della Brexit.

Nessun accordo: non è solo la traduzione dell’espressione inglese “no deal” — ipotesi sulla quale il parlamento britannico è chiamato a pronunciarsi oggi — ma è anche la fotografia di quanto sta accadendo nel Regno Unito. Si tratta della seconda sconfitta per la linea del capo del governo conservatore e sui giornali britannici si leggono parole come «Caos» e «disfatta». «May perde il controllo della Brexit», titola il «Financial Times», secondo il quale l’autorità del premier è ormai «a brandelli». «Un’altra sonora sconfitta per la May e mancano solo 16 giorni alla Brexit», si legge sulla prima pagina del progressista «The Guardian». Secondo quanto scrive «The Times», una delegazione di autorevoli Tory potrebbe chiedere a May di dimettersi, aprendo alla possibilità di elezioni anticipate. Il portavoce del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha commentato il voto: «Ci dispiace, ma da parte europea abbiamo fatto tutto il possibile per raggiungere un accordo. Visto le assicurazioni aggiuntive fornite a dicembre, gennaio e anche lunedì sera, è difficile vedere cosa altro possiamo fare: se c’è una soluzione all’attuale impasse, può essere trovata solo a Londra». E Bruxelles chiarisce: «Se ci sarà una richiesta ragionata da parte del Regno Unito per un’uscita posticipata, i 27 paesi dell’Ue la valuteranno e decideranno all’unanimità».

A sostenere la linea del rinvio è la Confindustria britannica. Carolyn Fairbairn, direttore generale della Confederation of British Industry, chiede di prorogare l’articolo 50 ma sottolineando che «serve un nuovo approccio: i Conservatori devono rinunciare ai loro paletti, il Labour deve sedersi al tavolo con un autentico impegno per trovare soluzioni». Fairbairn chiosa: «È ora di fermare questo circo». A questo punto, May deve rispettare la promessa di mettere ai voti oggi la successiva mozione per esprimere un sì o un no a proposito della possibilità del “no deal”, cioè la Brexit senza accordo. A seconda di quanto emergerà, domani il premier potrebbe presentare alla camera il testo con la richiesta all’Ue di un «breve» slittamento della Brexit.

Dopo mesi in cui la possibilità del “no deal” è stata evocata come lo scenario nefasto da evitare, a questo punto la camera dei comuni potreb be votare a favore dell’ipotesi che il Regno Unito lasci immediatamente l’Ue il 29  marzo  senza negoziati né rassicurazioni in merito ai rapporti futuri tra le parti. Il “no deal” costringerebbe le  imprese  a dover fronteggiare  costi maggiori e nuovi vincoli doganali e  le priverebbe dei cosiddetti  passporting rights, ossia i diritti di scambiare beni e servizi con l’Ue senza necessità di licenze e permessi. Potrebbe mettere in discussione trasporti e operazioni commerciali: il Regno Unito potrebbe essere trattato come un paese terzo assoggettato alle regole dell’O rganizzazione mondiale del commercio. Oggi il ministro delle politiche commerciali, George Hollingbery, ha cercato di rassicurare spiegando che in caso di “no deal” «saranno impostati a zero la maggior parte dei dazi britannici sulle importazioni». Ma il punto è che Londra non può decidere per l’Ue. Le due parti potrebbero decidere effettivamente di mettere in atto accordi specifici e temporanei su singoli aspetti. Ma è tutto da ver i f i c a re .

Le possibili conseguenze

Crollo della sterlina, impennate dei prezzi, esodo di grandi gruppi internazionali: la Brexit senza accordo potrebbe essere lo scenario peggiore per l’economia del Regno Unito con serie ripercussioni per le imprese e i consumatori. Secondo  lo studio commissionato dal governo britannico, il “no deal” p otrebb e costare al paese più del 10 per cento del suo pil in 15 anni. Il governatore della Bank of England (BoE), Mark Carney, nello scenario più oscuro prevede: perdita di valore per la sterlina del 25 per cento e crollo nei prezzi degli immobili residenziali del 30 per cento; inflazione al 6,5 per cento; disoccupazione al 7,5 per cento. Nell’ipotesi, Carney ha già chiesto alle banche di aumentare i fondi facilmente mobilitati, che ora superano i 1.000 miliardi di sterline in totale. La reintroduzione di dazi doganali e passaggi burocratici lascia immaginare enormi ingorghi di autoveicoli sui due lati del Canale della Manica, dove sono situati i principali porti tramite i quali si svolgono gli scambi di merci tra paesi Ue e Regno Unito, in particolare, nel sud dell’Inghilterra. Il consiglio della Contea di Kent prevede intorno al porto di Dover fino a 10.000 autotrasporti in attesa, il che significherebbe una coda di oltre 25 chilometri.

L’Osservatore Romano, 14 Marzo 2019

Strasburgo dà una mano a May

 

Accordo sul backstop in vista del voto a Westminster

dal nostro inviato a Strasburgo Fausta Speranza

LONDRA, 12. Il Parlamento inglese si accinge a votare questo pomeriggio l’accordo che regola la Brexit. Il premier Theresa May ieri sera si è recata a Strasburgo per un incontro con il presidente della Commissione europea Jean-Claude Junckere e  il capo negoziatore Michel Barnier, durante il quale i rappresentanti delle istituzioni europee hanno fatto qualche concessione alle richieste britanniche in merito al cosiddetto “backstop”, la soluzione per regolare temporaneamente la questione del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord.

Le concessioni riguardano proprio la temporaneità della soluzione, garantita da clausole legali. Un risultato che consente a Theresa May di presentarsi al voto di oggi con qualche chance in più di vedere approvato l’accordo. «A volte arriva anche una seconda possibilità — ha detto ieri Juncker commentando l’incontro di Strasburgo — tuttavia non ce ne sarà una terza».Il pericolo per Theresa May è che il Parlamento possa bocciare anche questo estremo tentativo di intesa con l’Unione europea  (il leader dell’opposizione, James Corbyn, ha già commentato negativamente l’accordo). Se ciò accadesse, alla luce anche delle ultime parole di Juncker, la strada che si apre è quella che conduce a una uscita senza accordo,sulla quale tuttavia il parlamento potrebbe essere chiamato a decidere già domani, un nuovo referendum o la richiesta di un lieve slittamento dei tempi: la data prevista per l’uscita del Regno Unito dall’Ue è attualmente il prossimo 29 marzo,

L’Unione europea tende la mano al Regno Unito sul backstop, la clausola di garanzia sul confine irlandese. Si tratta di concessioni che potrebbero essere sufficienti a convincere il parlamento inglese ad approvare il piano per la Brexit che il premier Theresa May presenterà questo pomeriggio alla camera dei comuni, dopo la bocciatura del primo testo a gennaio. Ieri sera May è venuta a Strasburgo per avere un colloquio con il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, e il capo negoziatore Ue Michel Barnier. Ha incontrato anche Antonio Tajani, il presidente dell’Europarlamento riunito in questi giorni in plenaria. «A volte arriva una seconda possibilità», ha detto Juncker aggiungendo:«Lo dobbiamo alla storia». Ma ha anche precisato con fermezza che «non ce ne sarà una terza». Il colloquio a Strasburgo è stato deciso e annunciato solo poche ore prima e, secondo il premier britannico, ha «scongiurato il rischio di una perdita di sovranità parziale sull’Irlanda del Nord, parte della Gran Bretagna e quindi non Ue, a vantaggio della tutela dei diritti della Repubblica d’Irlanda, paese membro dell’Unione».

Si tratta di piccole modifiche ai documenti che accompagnano l’accordo principale. Il punto nodale è sempre il backstop, cioè la soluzione temporanea per mantenere aperto il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord, che entrerà in vigore dal 2021 se i  27 paesi membri Ue e Londra non avranno trovato, entro quella data, un accordo definitivo sulle loro relazioni future. In sostanza, quello che l’intesa in extremis di ieri sera dovrebbe fare, nelle intenzioni di May e di Juncker, è fornire chiarimenti e rassicurazioni su come verrà implementato il backstop e sul fatto che rimarrà comunque una soluzione temporanea.

Precisamente, i due hanno spiegato di essersi accordati su una dichiarazione «legalmente vincolante» che dovrebbe impedire il permanere indeterminato di un’unione doganale temporanea, impegnandosi a negoziare per superare questa ipotesi. Se non dovessero farlo — si legge nel documento — l’altra parte potrebbe decidere di abbandonare unilateralmente l’unione doganale prevista. Praticamente l’obiettivo è convincere i parlamentari britannici conservatori che il backstop non diventerà mai permanente. In realtà, si vorrebbe far sì che proprio non si arrivi a dover usare il backstop e per questo è stata fissata una nuova scadenza per i negoziati: entro il dicembre 2020 si dovranno trovare alternative. In questo modo — ha sottolineato May —se anche si arrivasse al 2021 senza accordo, ci sarebbero altri modi per gestire la situazione. E Londra non rimarrebbe mai “intrappolata” nel backstop. C’è anche una postilla che però si presenta come un’interpretazione unilaterale”: il premier britannico ha voluto affermare che sosterrà di avere diritto ad abbandonare il backstop in ogni caso, se si arrivasse a quel punto. Appare come una specifica che May ha deciso di inserire nell’accordo per mostrare la volontà politica del suo governo. Juncker dopo una prima perplessità ha accettato perché legalmente — visti i postulati — non avrà grandi conseguenze.

A questo punto si guarda al voto previsto nel tardo pomeriggio di oggi alla Camera dei comuni. Se l’accordo verrà approvato, inizieranno i lavori per permettere l’uscita del Regno Unito dall’Ue entro la data prevista del 29 marzo. A Londra, l’annuncio è stato dato in una dichiarazione ufficiale ai Comuni, dopo le 22 locali, dal vicepremier David Lidington, secondo il quale l’ultima estenuante maratona negoziale ha portato «cambiamenti legalmente vincolanti che rafforzano e migliorano» l’accordo — raggiunto a novembre tra le parti ma bocciato a Westminster a gennaio — e la dichiarazione politica allegata. Il valore giuridico del supplemento d’intesa deve essere formalizzato oggi dall’Attorney general Geoffrey Cox dinanzi ai deputati prima del voto. Lidington si è detto convinto — rispondendo al laburista Keir Starmer, che sostiene il contrario — che l’aggiunta abbia lo stesso peso, in termini di diritto internazionale, dell’accordo.

Il punto è che l’intesa di ieri, pur non soddisfacendo appieno tutte le richieste dei più oltranzisti della maggioranza formata da conservatorie unionisti nordirlandesi del Dup, potrebbe far rientrare buona parte del dissenso all’interno della coalizione. Le prime reazioni — da quella del Tory brexiteer Ian Duncan Smith a quella del capogruppo del Dup, Nigel Dodds — si sono trincerate dietro la necessità di aver il tempo necessario per «leggere bene le carte», facendo trapelare comunque soddisfazione. Negativa, invece, la prima reazione del leader dell’opposizione Jeremy Corbyn, che ha dichiarato che «i negoziati sono falliti» e che «l’accordo non contiene niente che si avvicini ai cambiamenti promessi». Per questo, secondo il leader del Labour, l’accordo va respinto. Si vedrà cosa deciderà la Camera dei comuni. Dalla Borsa trapela ottimismo: la sterlina in apertura dei mercati ha guadagnato lo 0,4 per cento sul dollaro e lo 0,3 sull’euro .

Da Downing Street assicurano che May, nell’eventualità di una nuova bocciatura oggi, onorerà la promessa fatta di mettere ai voti domani, mercoledì 13, una successiva mozione per esprimere un sì o un no a proposito della possibilità del no deal, cioè la Brexit senza accordo. A seconda del voto, giovedì 14 potrebbe presentare un secondo testo sulla richiesta all’Ue di un “breve” slittamento della Brexit. Tutte soluzioni di riserva che a questo punto potrebbero non servire più.

L’Osservatore Romano, 13 Marzo 2019

Caos calmo a Strasburgo

 


Sessione parlamentare mentre a Londra si decide sulla Brexit

dal nostro inviato a Strasburgo Fausta Speranza

Sulla Brexit nessuna novità è arrivata dai colloqui tra Regno Unito e Ue nel fine settimana e qui a Strasburgo, sede del parlamento europeo, nessuno si meraviglia: la linea – è stato più volte ribadito dal caponegoziatore Michel Barnier – è stata concordata in due anni di negoziati e sottoscritta a novembre e i 27 paesi membri non intendono cambiarla. A sottolineare che il dialogo sarebbe proseguito era stato, sabato, il premier britannico Theresa May, spiegando di sperare di riuscire a “strappare” qualche rassicurazione sul punto cruciale del cosiddetto backstop, cioè il sistema di salvaguardia che l’Ue ha chiesto per mantenere aperto il confine irlandese in ogni caso. May sperava in sostanza di rimuovere l’espressione “legalmente vincolante” e questo,  a suo avviso, avrebbe convinto l’ala più critica del suo partito conservatore ad approvare domani il suo piano per la Brexit. Ma a meno di grandi sosprese, torna a Westminster sostanzialmente con lo stesso piano presentato e bocciato dalla camera dei comuni a gennaio con ben 230 voti di scarto.

Sui media britannici si parla sempre più concretamente di prossime dimissioni  del premier ma anche della possibilità che la promessa di un suo passo indietro possa convincere la maggioranza a votare quello che viene definito dai brexiteer più convinti il “compromesso May.” Ad appena un paio di settimane dalla data del 29 marzo fissata per la Brexit con o senza accordo, le speranze del premier sono affidate ai segnali di disponibilità che una parte dei “dissidenti” Tory di vario orientamento hanno lasciato trapelare nelle scorse settimane e a qualche eventuale aiuto dalla sponda dei laburisti eletti in collegi elettorali pro-Leave, la cui dimensione rimane  da quantificare e sarebbe legata ad alcune concessioni in tema di politiche del lavoro.  Ma sembra davvero difficile che possano bastare, tenuto conto dell’atteggiamento dell’ala più oltranzista dei brexiteer della maggioranza, che in queste ore si è detta non disponibile – con l’eccezione forse di Boris Johnson che non si è pronunciato e di pochi altri  – neanche  ad accettare persino il “baratto” evocato dai media fra un placet al compromesso May e l’ipotetico impegno dell’inquilino di Downing Street di accettare di indicare un termine esatto per le sue dimissioni. Lo conferma la lettera aperta affidata alle colonne dell’euroscettico <Sunday Telegraph dall’ex viceministro Steve Baker e Nigel Dodds, capogruppo degli alleati della destra unionista nordirlandese del Dup, che ribadiscono la linea di <nessuna concessione>  a nome di almeno una quarantina di deputati.

Confermano il rifiuto dell’accordo May, a meno di <svolte concrete> sul backstop da parte dei 27. Inoltre, definiscono l’opzione di un rinvio della Brexit come “una calamità politica” un tradimento” della fiducia” dell’elettorato, insistendo semmai sulla strada dell’uscita senza accordo: il cosiddetto no deal,  paventato come disastroso dal mondo del business e non solo nel Regno Unito.  Hanno in qualche modo  risposto iministri di esteri e istruzione del governo May, Jeremy Hunt e Damian Hinds, affermando di non considerare “inevitabile” una sconfitta domani, ma avvertendo anche – come ha fatto altre volte già il premier – che un nuovo no alla ratifica potrebbe essere “devastante” e potrebbe “dare una mano a coloro che vogliono fermare la Brexit”.

Tutto sarà deciso in questi giorni.  Il percorso imposto  dalla camera dei comuni prevede, infatti, nell’eventualità di una nuova bocciatura domani,  la messa ai voti mercoledì 13 di un emendamento proprio per il ‘sì o no’ sul no deal. E, in caso di un altro no,   l’aula si riserva di dare mandato  al governo, giovedì 14, di chiedere all’Ue “un breve slittamento” oltre il 29 marzo.  E c’è da dire che al momento è quanto auspica il Labour. Il suo leader Jeremy Corbyn non ha più parlato nelle ultime settimane dell’opzione di un referendum bis. Ha invece più volte riproposto la linea di una Brexit più soft, cioè in grado  di mantenere il Regno Unito nell’unione doganale.

A Strasburgo è evidente che i 27 ormai guardano al vertice del 21 e 22 marzo, in cui Theresa May dovrà arrivare con la decisione che emergerà a Londra nel frattempo. Non si percepisce alcuna preoccupazione perché il salto nel buio è sostanzialmente questione del Regno Unito: anche se alcune ripercussioni ci saranno per i mercati europei, non saranno certo determinanti come per la City. E’ importante che arrivino dichiarazioni di disponibilità fino all’ultimo al dialogo perché la più concreta forma di solidarietà potrebbe essere proprio quella di accettare la possibilità di un rinvio della Brexit, che a Londra si dà per scontata mentre potrebbe non esserlo.

“In definitiva, per i restanti paesi membri Ue ci sono al momento altre priorità. Con l’inizio di marzo si è aperta ufficialmente la campagna elettorale per il voto di maggio (23-26) e qui, alla penultima sessione dell’Europarlamento prima della fine di questa legislatura, le discussioni che prendono il via oggi verteranno su questioni scottanti come i cyber attacchi e l’inondazione di fake news proprio in funzione del voto. Sullo sfondo restano le pressioni dei cosiddetti “sovranisti” che mettono in discussione molto dell’impalcatura della costruzione europea. Non è un dibattito da poco.

L’Osservatore Romano, 11-12  Marzo 2019

Speciale Europa

Ogni sabato un inserto speciale

di Fausta Speranza

Spalancare il cielo sull’Europa, ritrovare i tesori del passato, affacciarsi da protagonisti sul futuro. È questo l’obiettivo della rubrica che si inaugura da oggi con l’inserto speciale «Europa Ieri Oggi Domani» per segnare il percorso di avvicinamento alle elezioni europee di maggio. Con l’inizio del mese di marzo, ha preso il via ufficialmente la campagna elettorale in vista del voto che in alcuni paesi dell’Ue si terrà il 23, in altri il 24 o il 26 maggio. Oltre alla consueta cronaca delle dinamiche politiche messe in atto a vari livelli — tra sfida della Brexit, questione migrazioni, crisi economica, nuovi equilibri internazionali politici e commerciali — con l’inserto speciale, che uscirà ogni sabato, riproporremo alcuni dei principali contributi di intellettuali, statisti che stanno alla base del progetto comunitario europeo.

Nella convinzione che l’Europa recupera sana vitalità se ritrova il respiro della dimensione di pensiero e di spirito che era di quanti hanno saputo sognare e progettare un’integrazione di popoli e, dopo la tragedia dei due conflitti mondiali, sono stati capaci di rilanciare sugli individualismi, sulla banalità della litigiosità, sul clamore e il baratro dei proclami vuoti.

Chiuderemo con ampi brani dei discorsi dei tre leader politici riconosciuti come i “Padri fondatori”: De Gasperi, Schumann e Adenauer. Ma ci saranno anche le riflessioni di Altiero Spinelli, di Luigi Sturzo, di Luigi Einaudi, in quanto teorici e ispiratori; di Jean Monet e di Paul Henry Spaak per il loro contributo alla causa europeista.

Iniziamo con l’acume lungimirante di Salvador De Madariaga, che sarà seguito dalla poetica visione di Thomas Eliot, perché non si può prescindere dalla comprensione dell’ethos europeo.

L’obiettivo è ambizioso ed è possibile grazie al preziosissimo contributo di tre studiosi: Dario Antiseri, Enzo Di Nuoscio, Flavio Felice. Con loro, esponenti del pensiero filosofico contemporaneo, riflettiamo su alcune preoccupanti tentazioni che intravediamo nell’attuale discorso politico e mediatico: la semplificazione, la banalizzazione, l’estremizzazione.

Solo al di là di tutto questo, può esserci la via per seguire l’indicazione che Papa Francesco ha dato in particolare in occasione della visita alle istituzioni del Vecchio continente — Parlamento Europeo e Consiglio d’Europa — a Strasburgo il 25 novembre 2014. Quel giorno il Papa ha chiarito che l’Europa se riscopre la sua anima buona può essere «prezioso punto di riferimento per tutta l’umanità». Un’Europa che Papa Francesco ha fotografato «nonna e meno vitale» ma anche potenzialmente «più ampia e influente del passato». Alla comunità dei popoli europei Francesco ha raccomandato di «riscoprire la dignità dell’uomo persona, e non solo cittadino o soggetto economico», in relazione a tutte le più scottanti tematiche che il Papa, circa quattro anni fa, ha sottolineato con precisione e che restano i punti nodali di quello che dovrebbe essere il dibattito intorno alle elezioni europee di maggio: lavoro, migrazioni, persecuzioni religiose, ma anche i rischi concreti per la democrazia.

Spalancare il cielo sull’Europa, dunque, dovrebbe significare recuperare slancio etico e spirituale per proposte politiche che abbiano come orizzonte il bene comune. Nell’eredità dei pensatori che proponiamo ci sono insegnamenti in quella direzione. Li rileggiamo con la consapevolezza che solo chi è capace di vedere e conservare i semi di bene, nel passato e nel presente, può essere capace di speranza per il futuro.

L’Osservatore Romano, 10/11 Maggio 2019

Se il relativismo si fa assoluto

Storia e implicazioni del «politicamente corretto»

di Fausta Speranza

Un’assolutizzazione del relativismo: non è un ossimoro, ma è il risultato di un processo culturale che, attraverso la declinazione linguistica, si è imposto come critica distruttiva di un’idea di società in positivo. Parliamo dell’ideologia riassumibile nell’espressione politically correct. Apparentemente si tratta di una sollecitazione sempre più pressante a modificare il linguaggio perché sia più rispettoso delle diverse sensibilità possibili, ma in realtà è il tentativo sottile di alterare la lingua per modellare la mentalità, imponendo lo sgretolamento di un’idea di convivenza basata su principi condivisi. L’assioma ribadito è che tutto è relativo e, dunque, nulla è dato per certo e condivisibile. Vacilla l’idea di un patrimonio di valori certi. Il paradosso, però, è che nella presunta sdoganata libertà di definire volta per volta tutto e tutti, si è andata assolutizzando una certezza: la contrapposizione tra l’oscurantismo di chi resiste a queste logiche e l’illuminazione dei seguaci più zelanti del politically correct. La contrapposizione che emerge è a dir poco dogmatica: il relativismo si fa assoluto.

In tanti, a diverso titolo, accademici o intellettuali, hanno cercato di approfondire i concetti chiave cui fa riferimento questa ideologia. Mancava una ricostruzione storica del percorso e dell’evoluzione fatta negli ultimi cinquant’anni. Ha colmato la lacuna il volume dello storico Eugenio Capozzi, edito da Marsilio Editore, intitolato proprio Politically correct, con sottotitolo Storia di un’ideologia (Venezia, 2018, pagine 206, euro 17).

Secondo la retorica sempre più dominante nel discorso pubblico delle società occidentali da qualche decennio — sostenuta da élites intellettuali, politiche, mediatiche — è “politicamente corretto” tutto ciò che fa riferimento a un ideale di progresso che si afferma nel secondo dopoguerra, ed in particolare con la frattura portata dalla grande ribellione giovanile degli anni Sessanta. Si tratta di un ideale che non teorizza l’uguaglianza economica e sociale attraverso il collettivismo, come nel modello comunista sovietico o in quello socialista in generale, ma esprime un’aspirazione radicale: amplia il campo delle prospettive rivoluzionarie fino a formulare una critica di fondo alla cultura occidentale in quanto tale, che viene progressivamente condannata come strutturalmente imperialista, colonialista, sfruttatrice, produttrice di discriminazioni. Ed è estremamente interessante seguire, nelle pagine di Capozzi, l’evoluzione di quella che in fondo è una sola ideologia ma dalle molte sfaccettature, che, nel corso degli ultimi decenni, si sono rivelate come per un effetto domino. Si è parlato man mano di “neo-progressismo”, “culturalismo” o “ideologia diversitaria” e soprattutto sono stati toccati diversi ambiti: dal sapere alla convivenza sociale, come ricostruisce, da storico, Capozzi.

Si tratta, come dicevamo, di una generale critica distruttiva che non è ispirata da una visione del mondo unitaria, da un’interpretazione della storia, da un’idea di società in positivo. È piuttosto fondata sostanzialmente sul principio che l’unica possibile base della convivenza tra gli uomini sia proprio l’assenza di princìpi condivisi. Ne deriva la libertà per individui e gruppi di definire arbitrariamente la propria natura, la propria essenza, i propri fini. Da qui nasce l’invadenza di quello che lo storico definisce il “catechismo politicalcorrettista”, i cui risvolti vengono sistematicamente evidenziati da intellettuali critici. Tra i mille esempi possibili, ricordiamo l’assunto secondo il quale il Moro di Venezia nell’Otello di Shakespeare non deve essere per forza “moro”, che diventa la convinzione che , anzi, debba non essere “moro”: la scelta, dunque, di un attore scuro di pelle o truccato in modo che appaia tale viene bollata come politically uncorrect: non si devono segnare differenze. Scelte tipo questa, avvenute per rappresentazioni di vario genere negli Stati Uniti o in Europa, vengono spesso rubricate come un fenomeno pittoresco, una pedante bizzarria. Capozzi parla di un «tic delle classi dirigenti». E poi spiega che rappresentano invece qualcosa di molto più serio e grave: «La logica espressione di una vera e propria ideologia, cresciuta nell’ultimo mezzo secolo fino a conquistare una quasi indiscussa egemonia nelle democrazie dei paesi industrializzati, mentre le grandi dottrine otto-novecentesche morivano o declinavano».

Al di là delle particolari scelte, i “progressisti diversitari” si propongono, innanzitutto, di rimodellare la mentalità e la cultura. Si dicono convinti di voler estirpare le radici di violenza, da cui derivano i conflitti con cui l’Occidente avrebbe «avvelenato» il mondo, per ripristinare quella che, a loro avviso, è una naturale condizione di armonia e convivenza pacifica tra gli esseri umani e le civiltà. In questa ottica, diventano condannabili tutte le tradizioni, i costumi, le norme etico-religiose, persino i criteri estetici sedimentati nella storia della cultura di origine europea. Al contrario, vengono proposti come preferibili, benvenuti, giustificati tutti gli elementi culturali provenienti da civiltà non occidentali, e tutti i modelli di vita alternativi a quelli prevalenti nelle società che in quella civiltà si sono sviluppate. Si avverte l’impegno su più fronti per una «rieducazione» alla civiltà, che dovrebbe produrre assoluta libertà ed uguaglianza, mai raggiunte dalle dottrine ideologiche classiche. E, soprattutto, si dilata a dismisura lo spazio dei diritti, a scapito dei doveri e del senso del dovere.

Capozzi fotografa non solo l’impianto di fondo, ma anche le singole derive, sottolineando quelli che definisce i «quattro dogmi principali». Il primo è, come dicevamo, il relativismo culturale, per cui — mentre si attacca la tradizione di pensiero occidentale — si teorizza la convinzione che tutte le culture, tutti i costumi e tutte le religioni abbiano uguale valore e che debbano essere considerati sullo stesso piano. Il secondo è il libertarismo “biopolitico”, ossia l’idea dell’equivalenza tra desideri e diritti, per cui ogni tipo di repressione è sbagliata (vietato vietare), e il soggetto umano viene ridotto alla pura pulsione, ad una funzione desiderante. Il terzo è quello secondo il quale l’umanità non gode di uno statuto gerarchicamente prevalente nella natura e nell’ambiente, ed anzi, al contrario, la civilizzazione rappresenta in primo luogo una “colpa” e una minaccia per l’equilibrio ambientale, da “espiare” attraverso la riduzione della “impronta” umana sul pianeta. Ne deriva un “animalismo” che più che promuovere il rispetto per tutti gli esseri viventi tende a cancellare la superiorità spirituale dell’essere umano. A ben guardare ritroviamo in tanti prodotti mediatici a carattere scientifico il segno di questa impostazione mentale. Il quarto punto è rappresentato dall’identificazione totale tra identità e autodeterminazione soggettiva, per cui ogni individuo o gruppo dovrebbe essere in grado di definire la propria natura indipendentemente da condizionamenti storici, culturali e persino biologici, come nel caso dell’identità “di genere” presentata come un’opzione da scegliere.

Tratto comune a tutte queste letture ideologiche, che sfociano nella precettistica politicamente corretta, è il rifiuto totale della dialettica, del pluralismo, che paradossalmente va di pari passo proprio con il relativismo filosofico ed etico. Se il progresso viene identificato con l’affermazione del più radicale soggettivismo, con l’assenza di ogni principio condiviso nella definizione della vita e della società, allora non ci può essere dubbio, per i politicalcorrettisti, che ogni posizione conservatrice, tradizionalista, o di continuità con l’eredità culturale euro-occidentale, sia soltanto un residuo del passato da eliminare. Senza spazio per il confronto. A saltare agli occhi, dunque, è la forma di intolleranza, di tendenza alla censura che si registra nel discorso politicalcorrettista.
Emerge una visione del mondo in cui tutto dipende dalla propria scelta di definizione. Eppure, se non si accettano per dogma alcune verità del politicamente corretto, senza alcuna attenuante si viene tacciati di oscurantismo. L’arbitrio e il senso critico dovrebbero funzionare per demolire tutto e tutti ma non per sollevare dubbi e critiche sul politically correct. Il libro di Capozzi ha il merito di lasciare bene aperto il margine di questi doverosi dubbi.

L’Osservatore Romano, 6 Marzo 2019