Libano: una crisi da contestualizzare e da storicizzare
Chi gioca davvero la partita (aperta da anni) nella terra dei cedri?
link alla pagina rassegna stampa su “Fortezza Libano”
Libano: una crisi da contestualizzare e da storicizzare
Chi gioca davvero la partita (aperta da anni) nella terra dei cedri?
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Ospite a Il mondo alla radio (RV) per parlare di
Le sfide politiche ed economiche per un’Unione europea competitiva in un mondo nuovo:
Paolo Guerrieri – economista e docente a La Sorbona, autore con Pier Carlo Padoan del libro: Europa Sovrana. Le tre sfide di un mondo nuovo. Edito da Laterza
Fausta Speranza – giornalista de L’Osservatore Romano
10 giugno 2024
di Fausta Speranza
La vera natura dello Spazio e del Tempo. Di questo affascinante orizzonte di pensiero si parlerà al convegno scientifico organizzato dalla Specola Vaticana ad Albano Laziale dal 16 al 21 giugno, intitolato “Buchi neri, onde gravitazionali e singolarità spazio-temporali”. Il workshop – incentrato sull’attualità delle intuizioni scientifiche di George Lemaître (1894-1966) – è stato presentato questa mattina nella Sala Stampa della Santa Sede. Fratel Guy Consolmagno, S.I., planetologo direttore della Specola Vaticana, ha sottolineato che il dibattito promosso rappresenta un “terreno neutro” di confronto per scienziati di diverso orientamento. “L’obiettivo è la verità”, ha affermato sottolineando l’importanza di contribuire continuativamente alla ricerca nella consapevolezza di tutto quanto ancora non è possibile conoscere”. Si tratta della seconda conferenza dedicata al sacerdote professore di fisica all’Università Cattolica di Lovanio che dal 1960 al 1966 è stato anche presidente della Pontificia Accademia delle Scienze. Gli atti della prima, svoltasi nel 2017, sono stati pubblicati da Foundation of Physics.
Nella conferenza di quest’anno, sostenuta anche dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), i temi in discussione andranno dalla tensione nelle misure della costante di Hubble, all’enigmatica natura delle singolarità spazio-temporali (compresi Big Bang e buchi neri), fino alle onde gravitazionali e alla ricerca della gravità quantistica e delle sue connessioni con l’entanglement e i fondamenti della teoria quantistica. La materia non è di immediata comprensione ma si capisce come si tratta di indagare su cosa ci dicono le singolarità spazio-temporali sulla natura del nostro Universo. La risposta in termini di partecipazione– è stato sottolineato da padre Gabriele Gionti, gesuita cosmologo, vice-direttore della Specola Vaticana – è stata entusiasta. Don Matteo Galaverni, cosmologo della Specola, ha precisato che oltre ai 40 studiosi di cosmologia teorica e osservativa partecipanti – tra cui i premi Nobel Adam Riess e Roger Penrose; i cosmologi e fisici teorici Andrei Linde, Joseph Silk, Wendy Freedman, Licia Verde, Cumrun Vafa e il vincitore della Medaglia Fields Edward Witten – in presenza ci saranno almeno 150 studiosi collegati on line. Ed è interessante sapere che la registrazione video della conferenza sarà sul sito della Specola, forse in diretta streaming, certamente in differita.
Sono molte le prenotazioni anche per la serata del 21 giugno aperta al pubblico in cui Viviana Fafone (Università di Roma Tor Vergata e Istituto Nazionale di Fisica Nucleare INFN) e Gabriele Veneziano (European Organization for Nuclear Research CERN e Collège de France) parleranno di buchi neri, onde gravitazionali e dell’Universo prima del Big Bang.
George Lemaître – ha sottolineato padre Gabriele Gionti – è stato una pietra miliare negli studi in materia interloquendo con Einstein, anche “correggendo il grande scienziato su alcuni punti”. In particolare Lemaître non ha avuto la chiusura di Einstein rispetto alla teoria quantistica ma piuttosto “ha saputo accogliere da subito la prospettiva di avere due dimensioni, quella della fisica classica e quella quantistica”. Inoltre, “ha dimostrato la capacità di comprendere subito l’importanza degli studi sulla costante cosmologica, che adesso è utilizzata per spiegare l’accelerazione dell’universo”.
In particolare, padre Gionti ha spiegato che negli anni Venti, le osservazioni astronomiche avevano rivelato un misterioso moto di recessione di galassie lontane. Nel 1927, risolvendo le complicate equazioni della teoria della relatività generale di Einstein, Lemaître spiegò che questo moto era il risultato dell’espansione dell’Universo. Questo poco prima che le osservazioni di Edwin Hubble stabilissero una relazione, chiamata “legge di Hubble” che collega la velocità di recessione e la distanza delle galassie. Per questo motivo, nel 2018, l’Unione Astronomica Internazionale ha votato affinché la “Legge di Hubble” venga ribattezzata “Legge di Hubble-Lemaître”.
In tema di Big Bang, padre Gionti ha chiarito che è famosa la teoria dell’“Atomo primordiale”, oggi nota come teoria di Lemaître. Comprese che l’espansione dell’Universo implicava che in qualche momento nel passato l’Universo doveva aver attraversato uno stato di altissima densità energetica, come un “atomo originario” da cui tutto ebbe inizio. Il suo studio può essere considerato pertanto il precursore della moderna gravità quantistica.
A proposito della sfida continua di comprendere come fede e scienza, Genesi e studi in divenire, non debbano essere concepiti “in competizione”, padre Gionti ha raccontato che Pio XII ricorse a Lemaître per esprimere il punto di vista della Chiesa che si nutre sia di fede che di sapere scientifico. Fratel Guy Consolmagno ha fatto riferimento alla confusione che a volte si crea tra la teoria del Big bang e la narrazione della genesi sulla Creazione per sottolineare che si tratta di due campi distinti nei loro percorsi di approfondimento che fanno parte di un unico cammino.
Massimo Bianchi, fisico teorico, professore ordinario dell’Università degli studi di Roma e INFN Tor Vergata, è intervenuto alla conferenza stampa per spiegare, tra l’altro, che oggi tra i temi di approfondimento c’è quello della velocità delle galassie. In tema di buchi neri è importante capire – ha chiarito – “è stato importante intuire, rispetto al passato, che la velocità della luce non è infinita, che la luce si propaga con velocità elevatissima ma finita”. Ha aggiunto, inoltre, che attualmente all’attenzione degli studiosi ci sono onde gravitazionali rivelate di recente. Bianchi ha anche ricordato che George Lemaître e Einstein in quattro occasioni si sono incontrati personalmente.
Fabio Scardigli, fisico teorico, del Politecnico di Milano, ha spiegato che si tratta delle “due grandissime costruzioni teoriche del ventesimo secolo basi a tutt’oggi di conoscenza dell’universo” e che scopo della conferenza è farle dialogare.
Per un’Unione Europea competitiva in un mondo nuovo
Fausta Speranza – giornalista della redazione Cultura de “L’Osservatore Romano”
ospite della trasmissione Il mondo alla radio di Stefano Leszczynski, con il professor Paolo Guerrieri – economista e docente all’Università di Parigi Sciences Po, autore con Pier Carlo Padoan del libro Europa Sovrana. Le tre sfide di un mondo nuovo (2024 Laterza)
su Radio Vaticana:
Fausta Speranza – Città del Vaticano
Depositi unici della memoria e dell’ingegno umano stratificati lungo i secoli entro una prospettiva insieme umana ed ecclesiale: rappresentano tutto ciò l’Archivio Apostolico Vaticano e la Biblioteca Apostolica Vaticana e si capisce subito quanto siano preziose, al loro interno, la Scuola di Paleografia, Diplomatica e Archivistica voluta da Leone XIII 140 anni fa, e la Scuola di Biblioteconomia istituita da Pio XI, 90 anni fa.
Si tratta di due anniversari che saranno celebrati con una giornata di studio il 13 maggio prossimo, un evento presentato questa mattina in Sala Stampa vaticana da monsignor Angelo Vincenzo Zani, Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa; da monsignor Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio Apostolico Vaticano e direttore della Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica; da don Mauro Mantovani, prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana e direttore della Scuola Vaticana di Biblioteconomia.
“Un’occasione per ripercorrere la storia e la finalità delle due scuole con uno sguardo rivolto alle prospettive future”: così monsignor Vincenzo Zani sottolinea l’importanza di celebrare due anniversari d’eccezione. Ricorda che papa Ratti parlava del “culto della scienza e della nobile fatica intorno alla scienza”, ovvero – spiega – la costellazione delle varie discipline finalizzate allo studio, alla custodia, alla valorizzazione e al miglior trattamento dei beni archivistici e librari. L’intenzione è anche quella di far conoscere meglio le due scuole che – afferma – “hanno il compito di raccogliere, custodire e mettere a disposizione di tutti il ricco patrimonio conservato perché si propaghi ovunque la conoscenza”.
Ricordando che la Biblioteca Apostolica è stata creata da Niccolò V nel 1451, e l’Archivio da Paolo V nel 1610, monsignor Zani cita Papa francesco per chiarire gli obiettivi: “tenere vive le radici” e “coltivare la memoria”. Non mancano le sfide: monsignor Zani fotografa l’attuale “scenario di mutevole e imprevedibile, caratterizzato dalla rapidità con cui le tecnologie si evolvono e improntano profondamente anche la produzione dei contenuti intellettuali, come pure dalla instabilità e labilità del patrimonio digitale, tra formati in continuo cambiamento e rapida obsolescenza di dispositivi e applicativi”. L’impegno è notevole: mantenere la profonda e consolidata vocazione umanistica abbracciando, al tempo stesso, le nuove forme di elaborazione e propagazione del sapere. In particolare monsignor Zani sottolinea che “è stato importante, per le due scuole, porsi in dialogo con le disposizioni maturate negli ultimi venti anni attraverso il cosiddetto “Processo di Bologna”, creato per facilitare la circolazione internazionale dei docenti e studenti attraverso il riconoscimento dei relativi titoli di studio”. La Santa Sede ha aderito al Processo di Bologna nel settembre 2003.
Il prefetto monsignor Sergio Pagano ha ricordato che Carlo Emilio Gadda, che si trovava fin dal 1931 in Vaticano per via del suo impiego presso i Servizi tecnici come reggente della sezione tecnologica dell’Ufficio centrale, nel 1936 si iscrisse alla Scuola di archivistica anche se non completò il corso. Inoltre, Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo cita il segretario del cardinale di Palermo, don Pacchiotti che – dice monsignor Pagano – effettivamente era stato allievo della Scuola di Paleografia.
A proposito di valori fondamentali, il prefetto Pagano ricorda il “clima favorevole agli studi storici durante la seconda metà del XIX secolo” e la lettera Saepenumero considerantes del 18 agosto 1883 con cui papa Leone XIII proponeva agli studiosi cattolici di rientrare in forza nel campo scientifico, in specie storico, senza remore e paure. Il papa affermava: “Ai nudi racconti si opponga la faticosa e paziente investigazione; alla leggerezza del sentenziare la maturità de’ giudizi; al capriccio delle opinioni la saviezza della critica. I fatti travisati o supposti si faccia il possibile a fin di restituirli alla vera luce col ricorrere ai fonti; e a questo in special modo gli scrittori pongano ben mente, esser primaria legge della storia, non osar dir nulla di falso, né tacere nulla di vero.
L’apertura degli Archivi Vaticani fu decretata alla fine del 1880 e realizzata già all’inizio del 1881 e il Motu proprio Fin dal principio del 1° maggio 1884 contiene il regolamento dell’Archivio e gli ordinamenti per la Scuola. Nel 1923, sotto Pio XI, fu istituito presso la Scuola Vaticana di Paleografia un corso minore di Archivistica, per addestrare gli allievi “a comporre buoni indici e carte e di manoscritti” in modo da “soddisfare ad uno dei più stringenti bisogni dei possessori e degli studiosi e alle ripetute forti prescrizioni dell’autorità”. Il nome della Scuola dunque cambiò in Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica.
La finalità principale delle celebrazioni – chiarisce don Mauro Mantovani – non è quella di guardare al passato ma quella di prendersi cura degli studi specialistici in scienze biblioteconomiche come di “un campo fertile in cui esercitare l’interdisciplinarità forte, esercitandosi ad una visione d’insieme”. E al paradigma della competenza si aggiunge dunque “la capacità di adattamento ai diversi contesti di impiego e di genere di biblioteche, al long life learning”.
Emerge una responsabilità particolare: lavorare a servizio delle future generazioni fa del bibliotecario un operatore di “diplomazia culturale”. E pertanto – sottolinea don Mantovani – tanto più è grande il patrimonio librario di un’Istituzione, quanto più grande deve essere il ‘patrimonio umano’ di chi in essa vi opera”.
A proposito di prossimo futuro, don Mantovani chiarisce che ci sono iniziative in preparazione per il Giubileo citando in particolare una esposizione dedicata al tema del viaggio: si tratterà di valorizzare il Fondo Poma. E poi c’è anche un progetto per una mostra particolare di monete. Inoltre don Mantovani annuncia che l’Expo di Osaka in Giappone nell’anno del Giubileo sarà occasione di scambio. Don Mantovani torna con la memoria al primo corso della Scuola Vaticana di Biblioteconomia che prese avvio il 13 novembre 1934, per citare la Prolusione in cui il futuro cardinale Eugène Tisserant “indicò con i seguenti verbi l’identità e la professionalità del bibliotecario da formare: aver cura, conservare, accrescere” ordinare, mettere in valore”. Sono proprio questi – afferma – gli obiettivi da tradurre in didattica.
Papa Francesco accoglierà nella mattina del 13 maggio prossimo nella Sala Clementina dei Palazzi Apostolici gli allievi e il corpo docente delle due scuole. Poi presso la Pontificia Università Urbaniana avrà luogo la conferenza, presieduta da monsignor Zani. Interverranno, oltre ai prefetti delle due scuole, il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin; il rettore della Pontificia Università Urbaniana, Vincenzo Buonomo; l’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, Francesco Di Nitto; il prorettore all’Autonomia organizzativa, innovazione amministrativa e programmazione delle risorse dell’Università La Sapienza di Roma, Marco Mancini.
Fausta Speranza – Napoli Scampia
Esiste un legame profondo tra povertà e disabilità perché l’una troppo spesso provoca o aiuta l’altra: è quanto ha ribadito, all’incontro “Noi, non loro”, organizzato a Napoli dalla Conferenza Episcopale italiana, Vincenzo Falabella, presidente della Fish – Federazione Italiana per il Superamento dell’handicap. È stata la sua, una delle tante voci emerse in questa terza edizione del congresso, voluta in particolare al Polo universitario di Scampia della Federico II.
“Viviamo in Italia un’opportunità unica per una svolta decisiva in tema di disabilità, e la Chiesa è sempre fondamentale come presenza di stimolo per le istituzioni e in termini di collaborazione fattiva sul territorio”, ha detto invece il ministro italiano per le Disabilità, Alessandra Locatelli, intervenuta all’incontro promosso dal Servizio per la pastorale delle persone con disabilità della CEI di cui è responsabile Suor Veronica Donatello.
Locatelli ha parlato di centralità della persona, affermando che è arrivato il momento della concretezza. Pochi giorni fa, il 15 aprile scorso, è stato votato l’ultimo decreto attuativo della legge del 2021 che, ha spiegato il ministro, “prevede linguaggio, risorse e strumenti nuovi di inclusione per tutte le età e che porrà l’Italia all’avanguardia in Europa e nel mondo se riuscirà ad attuare quanto previsto”. “Sia in Europa, sia nel mondo – ha quindi aggiunto – c’è grande attenzione per la nuova normativa italiana di cui si è interessato anche il Commissario straordinario per i diritti umani dell’Onu, Volker Turk”.
Resta da capire, è stata la raccomandazione di don Carmine Arice, padre generale della Piccola Casa Cottolengo, se ci saranno le risorse economiche per mettere in pratica tutto questo. In particolare, è l’interrogativo, per quanto riguarda gli anziani. “Nel 2050 – spiega Arice – l’Italia avrà il maggior numero di anziani rispetto a tutti gli altri Paesi del mondo e non tutti, purtroppo, autosufficienti”.
A chiarire che è necessario affrontare l’aspetto disabilità in tutti i momenti dell’esistenza, dall’età evolutiva a quella adulta, è il sottotitolo del convegno “In ogni stagione della vita”. Della peculiarità e delle sfide dell’adolescenza ha parlato don Samuele Ferrari, docente del Seminario Arcivescovile di Milano, incaricato di catechetica e pastorale giovanile, che l’ha definita usando le parole di Chesterton: “L’età della vita meno comprensibile”, sottolineando poi l’importanza di individuare il dono e il talento di ciascun giovane che, a volte, si confondono con i desideri. In ogni caso, “quello che ogni giovane esprime va accolto e curato con attenzione speciale, e in particolare se vive disabilità”. Questo per altro, quando accade – ha ricordato don Samuele – permette tante forme di integrazione, come “ragazzi con forme di autismo che collaborano fattivamente con catechisti, giovani con disabilità impegnati a vario titolo in strutture sportive della parrocchia”. Anche da don Samuele è poi arrivata una raccomandazione, ossia che si tratta di “un cammino continuo da fare insieme, innanzitutto insieme con Gesù, e con l’impegno a imparare e ad ascoltare sempre perché ci sono sempre nuove scoperte da fare”. Da parte sua, il fondatore dell’Associazione Meter, don Fortunato Di Noto, ha messo in luce i rischi delle “trappole digitali”: siti e persone che sfruttano la solitudine di adolescenti e in particolare ragazzi con difficoltà per abusi di tipo sessuale.
Tra gli interventi, c’è stato quello di Maria Rosaria Duraccio, direttore dell’Ufficio per la pastorale delle persone con disabilità della Diocesi di Vallo della Lucania:
Duraccio ha confermato di guardare alla nuova legge come ad una bella opportunità, perché “offre una visione nuova, quella della persona con il suo progetto di vita, mentre fino ad oggi il fulcro degli interventi si è focalizzato sulle disabilità”. Inoltre, ha spiegato che la nuova normativa può aiutare anche le stesse persone con disabilità a guardare diversamente al proprio spazio nella comunità: “Uno spazio di opportunità e non solo di problemi che deve far sentire tutti protagonisti e non vittime”.
All’incontro sono emersi straordinari racconti, da nord a sud Italia, di case famiglie dove vivono persone con disabilità senza genitori, come la Casa Amoris Laetitia nella Diocesi di Bergamo, o esperienze particolari di parrocchie che, ad esempio, assicurano strumentazioni per la partecipazione alle attività delle comunità per non vedenti o non udenti, o ancora associazioni sportive, come Gli insuperabili di Caserta. Oltre alla riflessione, dunque, si tratta di valorizzare la creatività che spesso – ha affermato l’arcivescovo di Napoli, Domenico Battaglia – può essere stimolata dai protagonisti stessi. Monsignor Battaglia, infatti, ha raccontato quanto la sua Diocesi riceva “in termini di stimoli e idee da un ragazzo affetto da una forma di autismo che collabora da anni con il team della segreteria”.
Al convegno, le esperienze narrate si intrecciano a rapporti che fotografano le necessità e video che raccontano i progetti Cei. A prendervi parte, in presenza o in collegamento video, oltre all’arcivescovo di Napoli monsignor Domenico Battaglia, sono stati l’arcivescovo di Cagliari e Segretario Generale della Cei, mons. Giuseppe Baturi e l’arcivescovo di Ascoli Piceno e Vice presidente della Cei, monsignor Giampiero Palmieri. Diverse le autorità civili presenti, oltre al ministro Locatelli e al vice ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Maria Teresa Bellucci, sono intervenuti il Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II Matteo Lorito; il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi; il prefetto Michele Di Bari e la stessa suor Veronica Donatello, responsabile del Servizio nazionale per la pastorale delle Persone con disabilità.
Domani, domenica 21, alle 11, l’incontro si concluderà con la Messa presieduta dall’arcivescovo Battaglia.
Un libro per riconoscere la parità degli Stati e il primato della politica
Fausta Speranza – Città del Vaticano
“Oggi si pensa che la politica in generale, ma soprattutto la politica internazionale, sia valida se si basa su quello che è chiamato il principio di realismo, ma è falso”. Ne è sicuro l’ambasciatore Pasquale Ferrara, attualmente direttore generale per gli Affari Politici e di Sicurezza del ministero degli Affari Esteri italiano, che affianca al servizio diplomatico l’attività accademica e di ricerca sulla teoria e la pratica delle relazioni internazionali. “Il principio di realismo – spiega – nasce dal presupposto che il mondo è popolato sostanzialmente da avversari, se non da nemici, e che bisogna anticipare le mosse”. Tanto che si è coniato il motto antichissimo: “Se vuoi la pace prepara la guerra”. In realtà preparando la guerra si ottiene solo la guerra. Un esempio storico fra gli altri è la Prima Guerra mondiale probabilmente scoppiata per una corsa agli armamenti navali tra Germania e Gran Bretagna.
Proprio su questo punto Ferrara si sofferma con Vatican News per parlare dell’orizzonte diverso indicato dal suo libro Cercando un paese innocente. La pace possibile in un mondo in frantumi, edito da Città Nuova:
Professor Ferrara, nel suo libro lei introduce la parola innocenza. Perché?
Perché l’innocenza è qualche cosa che ispira fiducia. La “moneta” mancante oggi nelle relazioni internazionali è proprio la fiducia che serve coltivare se si vuole la pace. Non significa innocenza nel senso di ingenuità, ma piuttosto di assenza di secondi fini; capacità di tener fede alla parola data; rifiuto di intenti aggressivi. Credo che la categoria dell’innocenza possa diventare anche una categoria politica.
Abbiamo costruito negli ultimi 60 anni una “architettura di pace”: non si possono negare tanti passi avanti in tema di diritti, di riconoscimento del principio di multilateralismo e via dicendo… Ora ci sembra che questa architettura stia dondolando, addirittura sgretolandosi? Che succede?
In realtà non siamo stati in grado di relegare davvero la guerra agli archivi della storia. Il sistema del multilateralismo, in particolare la “costruzione” delle Nazioni Unite, si basa sul principio della sicurezza collettiva, cioè fare in modo che le questioni vengano risolte all’interno di un organismo di compensazione, rappresentato in particolare dal Consiglio di Sicurezza. Ci eravamo illusi che con la fine della guerra fredda questi organismi potessero funzionare al meglio. In realtà, constatiamo – non solo a seguito dell’aggressione russa contro l’Ucraina ma già da prima – la paralisi proprio del maggior organismo che dovrebbe garantire la sicurezza internazionale: il Consiglio di Sicurezza non è più in grado di prendere decisioni perché esiste, come sappiamo bene, l’istituto del veto da parte di cinque membri permanenti. La globalizzazione sostanzialmente ha rappresentato il tentativo di estensione del modello liberal democratico a vaste aree del pianeta e questo processo è stato visto da molti Paesi, soprattutto dell’Africa, dell’America Latina, o alcuni dell’Asia, come il tentativo di imporre un modello che è il modello occidentale: da parte occidentale viene percepito come “ordine” ma da altre parti del mondo viene percepito come “disordine”, e lo è se consideriamo le mancate risposte ai bisogni di molte aree del pianeta.
Ci siamo illusi che con l’economia si risolvessero le questioni?
Esattamente. Non dobbiamo dare credito alla tesi del cosiddetto “scontro di civiltà” ma sicuramente c’è stata una sottovalutazione della pari dignità degli Stati. La vera cultura liberale inclusiva delle Nazioni Unite dovrebbe significare che tutti gli Stati indipendentemente dalla loro posizione geografica e dalla loro forza – sia in termini economici, sia in termini demografici, sia in termini militari – debbano avere pari dignità, un posto nella governance globale. Questo in realtà non è avvenuto. Conosciamo benissimo le disparità a livello economico, macroeconomico, ma anche le diseguaglianze in termini microeconomici di sicurezza umana delle persone. Queste disparità si sono acuite grandemente nel corso degli ultimi 20-30 anni. In questo senso, tutta la costruzione successiva alla seconda guerra mondiale presenta elementi di grande crisi di legittimità.
Anche da parte dei cittadini occidentali è maturato scetticismo nei confronti degli organismi ritenuti “sovranazionali”, come l’Unione Europea o le Nazioni Unite, sebbene siano organi estremamente diversi. Si parla di un eccessivo peso dell’economia sulla politica. È d’accordo?
Sicuramente c’è da recuperare la voce della politica. Ma bisogna ricordarsi che la dimensione economica può anche essere uno spazio politico. Mettere insieme il carbone e l’acciaio durante la seconda guerra mondiale era un fatto economico che però ha avuto un grandissimo valore politico: si trattava precisamente delle risorse che erano servite perché Germania e Francia si facessero la guerra per oltre mezzo secolo. Quindi questa sicuramente è stata una strada economica per un patto di pace politico. È un altro discorso, invece, se si dà spazio all’ideologia del mercato: ci si pone su un piano diverso rispetto a quello dell’integrazione economica. Su questo piano le liberalizzazioni spesso sono state fatte senza tener conto delle necessità dei cittadini e soprattutto senza tener conto anche degli aspetti che fanno parte di quello che i francesi chiamano “l’eccezione culturale”, che significa tener conto che alcune decisioni non possono presupporre omogeneità in un continente variegato come quello europeo. Inoltre pensiamo alle riforme economiche, per esempio l’adozione dell’euro rappresenta una grande impresa politica: ha a che fare con la moneta e la moneta sin dall’antichità è il simbolo della sovranità. Il fatto di condividere l’euro tra diversi Paesi Ue è anche un segnale politico forte.
Parlando di desiderio di pace, non vorremmo un pacifismo cieco ma vorremmo sentire una decisa volontà dei cittadini, di tutti, a difendere o ricostruire la pace. C’è questa volontà?
Credo che a dispetto di un certo discredito per l’espressione del pacifismo, anche per un uso a volte improprio o talvolta strumentale che ne è stato fatto da una parte o dall’altra, anche se non da tutti, il cuore del concetto sia la preservazione della pace e credo che resti un aspetto fondamentale. Spesso interpretiamo la storia dell’umanità, e soprattutto la storia degli ultimi due secoli, come un susseguirsi di guerre. In realtà credo che soffriamo un po’ di una distorsione prospettica, perché la gran parte delle epoche ha conosciuto lunghissimi periodi di pace. La guerra è un vulnus e perciò la avvertiamo come qualcosa di importante, di centrale, ma la vera centralità è rappresentata dalla normalità della condizione di pace. Quindi se noi vediamo le cose in quest’altra prospettiva, recuperiamo anche l’idea di pace come un fatto che ha a che fare con la stessa struttura della politica.
Parliamo dunque di politica di pace?
Una cosa è una politica di pace che sicuramente è importante, perché mira a raggiungere condizioni di stabilizzazione dopo conflitti di varia natura, e ce n’è bisogno anche se è molto impegnativo, e un conto è la pace come politica, che significa guardare tutte le politiche – anche le politiche sociali o economiche, le politiche migratorie – dalla prospettiva della pace. Non si limita a mettere fine a conflitti, ma tende a fare in modo che si creino le condizioni per cui i conflitti non abbiano a scoppiare. Serve un cambiamento di approccio molto concreto.
Significa parlare di “realismo utopico”, come lei fa nel suo libro?
Sì, nel senso che noi spesso siamo abituati a ritenere lo status quo, cioè ad esempio la condizione attuale di “disordine”, la guerra, come qualcosa destinato a durare e riteniamo che sia molto difficile cambiare gli equilibri mondiali. In realtà, se guardiamo alla storia, gli equilibri sono cambiati tante volte: in alcuni momenti lo status quo che sembrava granitico si è sgretolato prima del previsto, accade qualcosa che nessuno aveva previsto come la caduta del muro di Berlino. Dunque, se noi utilizziamo questa categoria del “realismo utopico” guardiamo alla situazione del presente perfettamente consapevoli che non è destinato a durare per sempre. Contrariamente al “realismo classico”, che esalta sostanzialmente le virtù della forza negli equilibri di potenza, il “realismo utopico” mira a gestire il cambiamento attraverso meccanismi di collaborazione: il multilateralismo è in crisi sicuramente ma è l’unico strumento che abbiamo per poter affrontare problemi globali come, per esempio, il cambiamento climatico.
L’importanza del ruolo delle religioni: non è soltanto un contributo di belle parole …
No, affatto. Pensiamo al ruolo che le religioni stanno avendo oggi nel generare una cultura che si muove nella direzione di una politica planetaria, non più di una politica semplicemente mondiale, ma planetaria che cioè tiene conto della vita sul pianeta. Nelle religioni c’è quest’idea della famiglia umana universale e parte di questa famiglia sono anche tutte le componenti non umane perché contribuiscono alla sussistenza dell’umanità su questa terra. Quindi il tema è allargare gli orizzonti e le religioni possono contribuire proprio a questa operazione di ampliamento dello sguardo.
A volte nell’ambito della politica internazionale si è guardato alle religioni come “parte del problema” dei conflitti…
Perché se strumentalizzate possono essere utili ad alimentare i fondamentalismi che rendono i conflitti intrattabili. Oggi siamo nelle condizioni di poter dire che le religioni stanno diventando parte della soluzione in molti conflitti, in molti ambiti. Rileggendo le due grandi encicliche di Papa Francesco – Laudato si’ e Fratelli tutti – ci si rende conto di quanto sia andata in profondità questa consapevolezza che le religioni hanno una responsabilità per il destino dell’umanità e anche per le sorti del pianeta. Questa visione olistica – che non ha niente a che fare con la vecchia idea del panteismo, naturalmente – nasce dall’idea dell’unità del genere umano e della unitarietà della vita sul pianeta, che ci è consegnato perché sopravviva e ci faccia sopravvivere. Non ci è consegnato per scopi predatori.
Quanto è cruciale la questione dell’identità e delle culture?
Sì, il tema delle identità è tornato in auge: sono importanti, purché non si cristallizzino. Alcuni antropologi spiegano che siamo abituati a pensare l’identità associandola alle radici, che rappresentano l’humus da cui si trae linfa vitale, come letterature o culture popolari, ma si può pensare alle identità anche come a una grande corrente fluviale: lo stesso fiume mantiene dignità di fiume e al tempo stesso non è mai identico a se stesso, anzi si alimenta di contributi, di immissioni diverse e in un certo modo cambia continuamente. E lo scrittore Amin Maalouf fa una distinzione utilissima tra identità e appartenenze riconoscendo che l’identità di ognuno è fatta di mille appartenenze: siamo quello che siamo perché apparteniamo a una famiglia, una società, un Paese, magari siamo legati a un associazionismo sportivo… Questo insieme di appartenenze, che è diverso per ciascuno di noi, crea la nostra identità. Questo stesso meccanismo è riportabile anche sul piano dei popoli, delle nazioni, degli Stati, che sono comunque il risultato di diversi influssi e di molteplici appartenenze. Se l’identità è un insieme di fattori, in quell’insieme è più facile incontrarsi anche tra identità diverse.
Ma quanto è importante ancorarci al concetto di cittadinanza quando parliamo di identità?
La cittadinanza è fondamentale, perché altrimenti siamo una semplice convivenza, una coesistenza pacifica tra individui, se va bene. La cittadinanza è qualcosa che implica non tanto una partecipazione, che è una parola abusata, ma un’assunzione di responsabilità. Certamente va declinata più in termini di demos, di un popolo che esercita alcuni diritti e doveri, piuttosto che in termini più granitici e meno inclusivi di ethnos. In un mondo che possiamo anche immaginare non più governato dalla globalizzazione, ma che sicuramente rimarrà caratterizzato dalla mondialità.
Nel suo libro parla in un certo senso di “abuso” di geopolitica. Ci spiega?
La geopolitica ovviamente è una scienza nobile e intesa in senso corretto aiuta molto a capire i meccanismi internazionali. Il tema è che talvolta la geopolitica viene utilizzata come una sorta di pretesto per giustificare scelte politiche. Dobbiamo rivalutare la centralità della politica, perché se ci limitiamo a determinanti geografiche togliamo qualsiasi ruolo alla capacità di governo del mondo e di governo dei processi. La geopolitica è troppo spesso legata al cosiddetto hard power, quindi al potere militare, al potere economico, al potere demografico e quindi alla fine ha poco a che fare con la pace. Se si enfatizza la geopolitica, si finisce inevitabilmente sul piano delle politiche di potenza e quindi si sancisce l’impotenza della politica. Senza diventare dogmatici, occorre rivendicare l’autonomia decisionale della politica anche in politica estera. Bisogna sempre rimettere al centro le scelte coraggiose.
Fausta Speranza – Città del Vaticano
Nel nord del Kosovo è iniziata ieri la rimozione delle barricate e dei blocchi stradali eretti tre settimane fa dalla locale popolazione serba per protesta contro l’arresto ritenuto ingiustificato di alcuni serbi e contro l’invio al nord a maggioranza serba di ingenti forze di polizia da parte della dirigenza di Pristina. La prima barricata ad essere stata rimossa è stata quella al posto di Merdare, il valico di frontiera più importante fra Kosovo e Serbia. Il presidente serbo Vučić, al termine dell’incontro giovedì con i serbi del Kosovo, che ha portato all’intesa e alla distensione, ha chiarito che sarebbero servite 24-48 ore perché la situazione si potesse normalizzare, con l’eliminazione dei numerosi blocchi e barricate in varie zone del nord del Kosovo. Dietro alle proteste per gli arresti c’era la questione delle targhe kosovare richieste a tutti i residenti, anche serbi, come spiega Giuseppe Morabito, generale dell’esercito in riserva e membro del Direttorato della Nato Defence College Foundation:
La questione delle targhe di per sé non è così grave – afferma Morabito – ma il punto è che in una situazione di latente tensione qualunque cosa può fungere da scintilla. A sbloccare la situazione di paralisi nei trasporti e nelle comunicazioni, in un’atmosfera di alta tensione – spiega il generale – è stato un incontro che Vučić ha avuto nella serata di giovedì con i rappresentanti dei serbi del Kosovo. L’incontro si è tenuto a Raska, località del sud della Serbia a pochi chilometri dalla frontiera con il Kosovo, con Vučić che è intervenuto in prima persona per evitare una escalation della tensione con conseguenze imprevedibili. La primo ministro serba Ana Brnabić aveva parlato nei giorni precedenti di situazione sull’orlo di un nuovo conflitto armato nei Balcani. Sempre nella serata di giovedì era stato rilasciato Dejan Pantic, il primo serbo ad essere arrestato il 10 dicembre scorso, posto sotto sorveglianza domiciliare e che potrà difendersi a piede libero. Morabito ricorda che l’intesa si basa sulle garanzie date da Unione europea e Stati Uniti su alcuni punti fondamentali e di grande rilevanza per la popolazione serba del Kosovo. Come ha detto stamane alla tv privata serba Pink Petar Petkovic, capo dell’Ufficio governativo serbo per il Kosovo, Ue e Usa garantiscono tra l’altro che non ci saranno altri arresti di serbi, compresi quelli coinvolti nelle proteste con blocchi stradali e barricate. Non vi potrà essere alcuna lista di serbi da arrestare, anche se i serbi non credono fino in fondo che ciò non avverrà e non sono certi che le garanzie internazionali verranno rispettate. Il generale Morabito ricorda che in Kosovo c’è il contingente Nato mentre la fase di pacificazione in Bosnia Erzegovina è stata affidata alla cura dell’Unione europea. Il Kosovo – spiega il generale – è l’area più problematica dei Balcani e succede in continuazione che ci siano momenti di confronto acceso e poi di distensione. In questo momento, vista la drammatica contingenza della guerra in Ucraina, Morabito concorda con quanto sostengono diversi analisti e cioè che a scatenare le proteste, a soffiare sul fuoco, possa essere stata la pressione estera di chi è interessato a tenere occupata la Nato sul fronte Balcani.
Morabito, che insegna Studi strategici in un’Università privata di Pristina, spiega che in Kosovo i giovani sono moltissimi, soprattutto sono per la maggior parte nati dopo la conclusione del conflitto nei Balcani. Hanno tutti – assicura – il desiderio forte di vivere in pace, di costruirsi un futuro. Tanti – dice – guardano all’estero per approfondire gli studi oppure per avere maggiori opportunità di lavoro. Non hanno vissuto anagraficamente la guerra – afferma – e non vogliono che la storia torni indietro.
“La diplomazia ha prevalso nella riduzione delle tensioni nel nord del Kosovo”, ha affermato l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell, sottolineando che la violenza non può mai essere una soluzione e ribadendo che “ora c’è bisogno di progressi urgenti nel dialogo”.
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