Dopo Kabul Usa inaffidabili in Asia: cambia il contesto intorno al caso Corea del Nord

Test missilistici ma non balistici dalla Corea del Nord

Pyongyang sperimenta missili a lungo raggio in grado di colpire fino in Giappone, mentre Tokyo, Washington e Seul tornano a incontrarsi per previsti colloqui regionali. Ci sono da considerare vecchi equilibri di potere e nuovi contesti che si vengono a creare in Asia dopo il ritiro Usa dall’Afghanistan. I media cinesi invitano a non fidarsi dell’appoggio statunitense, come spiega l’esperto di geopolitica Alessandro Pio

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Corea del Nord ha fatto sapere di aver testato “con successo” un nuovo missile da crociera a lungo raggio. “I missili hanno volato per 1500 chilometri prima di colpire gli obiettivi e cadere nelle acque territoriali del Paese durante i test tenuti sabato e domenica”, riferisce l’agenzia di stampa Kcna. Assente il leader nordcoreano Kim Jong-un che non avrebbe seguito dal vivo i lanci del nuovo missile cruise, avvenuti a pochi giorni dalla parata militare notturna a Pyongyang per festeggiare i 73 anni della fondazione dello Stato. A visionare le operazioni militari è stato il generale Pak Jong-chon, componente del presidium del politburo del partito dei lavoratori insieme con altri alti funzionari. “Questa è un’altra grande manifestazione delle enormi capacità della scienza e della tecnologia della difesa e dell’industria delle armi del nostro paese”, ha commentato Pak, sottolineando “la necessità di fare tutto il possibile per aumentare le capacità militare, nel raggiungimento di grandi obiettivi, garantendo la deterrenza bellica a lungo termine”. I vettori “hanno viaggiato per 7.580 secondi lungo un’orbita di volo ovale e modello-8 nell’aria sopra la terra e le acque territoriali” in Corea del Nord e “colpito obiettivi a 1.500 km di distanza – ha precisato Kcna -. Test dettagliati di parti di missili, di spinta a terra del motore, di volo, di controllo e guida, di potenza della testata, sono stati condotti con successo”, conclude la nota. L’ultimo lancio segna il terzo importante test missilistico di cui si abbia notizia fatto da Pyongyang nel 2021. Lo scorso 21 marzo, due missili da crociera sono stati lanciati al largo della costa occidentale, secondo i militari di Seul, mentre quattro giorni dopo è stata la volta di due vettori balistici nel mare nei pressi del Giappone, ritenuti una versione aggiornata del tipo iskander kn-23.

Al limite delle sanzioni Onu

Il missile è considerato dagli osservatori parte di una provocazione nel mezzo dello stallo negoziale sul dossier denucleare con gli Stati Uniti, in quanto non costituisce una violazione delle varie sanzioni dell’Onu decise negli anni in risposta ai piani balistici e nucleari di Pyongyang. Al nord, infatti, è vietato l’uso di tecnologia balistica, ma i missili da crociera non sono soggetti alle sanzioni in quanto considerati meno pericolosi di quelli balistici. In ogni caso Washington considera i test missilistici una minaccia per i vicini.  “Gli Stati Uniti continueranno a monitorare la situazione e si consulteranno con alleati e partner”, è quanto dichiara il comando Indo-Pacifico statunitense dal Pentagono. Resta “ferreo” – si ribadisce – l’impegno degli Stati Uniti “nella difesa dei vicini del Nord, la Corea del Sud e il Giappone”.

I test ricorrono cambia il contesto

I lanci di missili annunciati nel fine settimana sono solo uno dei tanti episodi simili che da anni ricorrono. Pyongyang torna a interpellare il mondo e si può argomentare su quanto sia significativa la sfida lanciata, ma serve sempre analizzare il contesto in cui avvengono, come sottolinea Alessandro Pio, esperto di Asia, consigliere dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi):

Innanzitutto Pio si sofferma sul tipo di missile spiegando che al di là del fatto che non si tratta di missile balistico, è però un missile a lunga gittata che dimostra che la tecnologia a disposizione della Corea del Nord avanza. Gli esperti hanno osservato – spiega – che sembra trattarsi di missili da crociera a lungo raggio simili ai tomahawk degli Stati Uniti e agli hyunmoo-3c della Corea del Sud. I missili balistici hanno una gittata molto più lunga e si muovono più velocemente di quelli da crociera di pari dimensioni, ma i missili da crociera sono ancora minacciosi poiché, pur potendo trasportare testate nucleari, volano in linea relativamente dritta e a bassa quota, risultando più difficili da rilevare. In questo caso, – avverte Pio –  la differenza può essere raggiungere il Giappone invece di arrivare massimo entro la Corea del Sud. Chiarito questo, il professor Pio ricorda che oggi e domani si incontrano in Giappone rappresentanti di Tokyo, Seul e Washington. Il lancio può avere forse l’obiettivo di richiamare l’attenzione. Ma il professor Pio si sofferma su un dato: non si può più riflettere solo considerando questi attori in gioco e bisogna considerare nuovi contesti. Quanto accaduto in Afghanistan subito dopo il ritiro delle forze statunitensi – avverte – ha alimentato una certa propaganda che vuole squalificare il peso di Washington in Asia. Nel mondo sta cambiando il ruolo delle grandi potenze e se Seul o Tokyo guardano con maggiore o minore preoccupazione alla Corea del Nord può essere significativo capire soprattutto a chi possono pensare di fare riferimento o con quale altro Paese debbano fare i conti.

La preoccupazione della Corea del Sud

Da Seul si fa sapere che è in corso “un’analisi approfondita” dei nuovi missili cruise: il comando congiunto di Stato Maggiore della Corea del Sud ha precisato che l’esame in corso avviene in stretta collaborazione con le autorità di intelligence statunitensi. La difesa sudcoreana, guardando al passato, ha divulgato informazioni sui test di lancio di missili balistici in tempo reale, ma non per i vettori cruise. Le due foto del vettore, pubblicate dal giornale Rodong Sinmun, la ‘voce’ del partito dei lavoratori, hanno mostrato un missile in uscita da uno dei cinque tubi su un veicolo di lancio. L’altra foto mostra un missile in volo orizzontale.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-09/corea-nord-seul-tokyo-washington-onu-missili.html

Visione del mondo e dialogo: a 20 anni dall’11 settembre

Dall’esportazione della democrazia alla protezione dei valori democratici a casa propria: tanto della percezione è cambiato nei 20 anni trascorsi dall’11 settembre 2001. Gli Usa sono una potenza, ma non più egemonica, e la cultura occidentale fa i conti con un relativismo che mina i suoi valori fondanti, mentre l’estremismo tende a rafforzarsi nel mondo. L’Occidente può e deve difendere l’idea di dialogo, ma servono riflessioni importanti, come spiega lo storico Eugenio Capozzi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’11 settembre 2001 gli Stati Uniti vivono il primo attacco sul loro suolo dai tempi di Pearl Harbour. Il nine eleven, come lo chiamano gli anglosassoni, rappresenta l’attentato più sanguinoso nella storia statunitense e un trauma che si è ripercosso sugli equilibri globali, fino a oggi. Sotto la regia dell’organizzazione terroristica Al Qaeda, nell’arco di poche ore, quattro voli commerciali diretti in California dall’Est del Paese vengono sequestrati e dirottati per colpire altrettanti bersagli in due metropoli: la torre nord e sud del complesso di edifici World Trade Center, le cosiddette Torri gemelle, a New York; il Pentagono e Capitol Hill, la sede del Congresso Usa, a Washington. L’ultimo bersaglio sarà l’unico a essere mancato.

Si sono contate 2.977 vittime, con l’aggiunta dei 19 attentatori divisi fra i quattro aerei. In totale sono morte 2.606 persone solo fra le due Torri Gemelle, 246 passeggeri ospitati dai quattro voli (inclusi gli equipaggi) e 125 persone al Pentagono. Fra i soccorritori intervenuti a New York, il prezzo più alto è stato pagato dai vigili del fuoco del New York City Fire Department: 343 i pompieri caduti durante le operazioni di salvataggio dei cittadini.

20 anni dopo è cambiata la visione sul mondo

In due decenni è venuta a mancare una visione degli Stati Uniti, e dunque in qualche modo dell’Occidente, come forza geopolitica con l’ambizione di plasmare il resto del mondo. Anche la risposta agli attacchi, la guerra all’Afghanistan per colpire i covi delle forze terroristiche che avevano ideato la tragedia del nine eleven, era stata una reazione di stampo egemonico.

Oggi, la concezione da considerare sembra quella che è emersa dal discorso del presidente Usa, Joe Biden in occasione, del 31 agosto scorso, data del formale ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan. La nuova dottrina illustrata è quella di una potenza che si considera ancora tale, ma non più egemone. Emerge, sulla spinta anche della domanda della società civile, l’idea che l’amministrazione di Washington debba difendere soprattutto gli interessi degli statunitensi, concepiti in maniera molto più “ristretta”, interna. Esportare valori e costruire nazioni – secondo il discorso di Joe Biden – non è più la missione della politica estera di Washington.

Del processo culturale di questi anni e degli interrogativi che emergono oggi parla il professor Eugenio Capozzi, docente di Storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli:

La data dell’11 settembre resta una data spartiacque, per la gravità di quanto successo e per il grande coinvolgimento emotivo. Da storico, Capozzi lo ricorda, spiegando però che il cambiamento da analizzare è sempre qualcosa che si identifica con avvenimenti di un giorno, ma fa parte di un processo più ampio. Capozzi infatti parla di un cambiamento che si sintetizza nell’evento traumatico, ma che deve essere spiegato con un processo in realtà graduale. Capozzi delinea un cambiamento che parte dall’idea di unipolarismo che ispirava gli Stati Uniti e arriva alla concezione del multilateralismo tutta ancora da definire.

Una doverosa presa di coscienza

Lo storico indica una via di riflessione: quella di cercare di capire quale presa di coscienza sia chiamato a compiere l’Occidente e non solo gli Stati Uniti. Parla di concetti fondamentali come i diritti umani e la democrazia per sottolineare che i 20 anni dalle Torri Gemelle e quanto accaduto ad agosto scorso, all’indomani del ritiro dall’Afghanistan, dimostrano che non è più credibile un’idea di liberalismo estendibile, di democrazia globalizzata. In passato si è creduto che potesse realizzarsi con le guerre e come processo di “naturale” contaminazione. Non funziona così – avverte Capozzi – e il punto è che dobbiamo fare i conti con la moltiplicazione dei conflitti, – quella che Papa Francesco definisce la “terza guerra mondiale a pezzi” –  con il riaccendersi dei fondamentalismi e con profonde criticità all’interno delle democrazie occidentali. Da parte sua, Capozzi mette l’accento sulla necessità di capire quanto il relativismo imperante – la “dittatura del relativismo” secondo le parole di Benedetto XVI – abbia minato in realtà la certezza del fondamento di alcuni valori. Lo storico distingue tra secolarizzazione e secolarismo, in sostanza per chiarire che l’attacco all’Occidente non arriva solo dall’esterno, ma anche dall’interno se pensiamo di far fuori completamente l’origine trascendente di alcuni valori. Signfica infatti svuotare, divorare il fondamento religioso di alcuni valori, come i diritti umani e poi pensare che quei diritti mantengano lo stesso peso. Capozzi riconosce che l’Occidente può avere gli anticorpi per fermare certe derive ideologiche, perchè una sana secolarizzazione vuol dire distinguere i ruoli tra legge e trascendente senza negare l’uno o l’altro. Significa difendere un patto che distingua i ruoli. Il secolarismo è proprio il contrario: l’uno che ingloba l’altro. Il fondamentalismo islamico vuole far sì che la propria dimensione religiosa inglobi la legge, ma in Occidente il rischio è che la legge, lo scientismo, la dittatura del relativismo divorino il trascendente, avverte Capozzi. In ogni caso, diventa deriva ideologica che mina i valori umani alle fondamenta.

Il Survivor tree: simbolo di civiltà in grado di risorgere sotto le ceneri

Al Memorial Park, sorto a Ground Zero, a New York, si trova il cosiddetto Survivor Tree, l’unico albero che è riuscito a sopravvivere agli attacchi del World Trade Center. Capozzi sottolinea che è un simbolo potente, non solo della forza della vita, ma anche delle potenzialità delle vere civiltà. Una civiltà si vede proprio dalla sua capacità, seppure colpita, di mantenere vivo e vitale qualcosa sotto le ceneri. Ed è quello che può aiutare, ad esempio, l’Occidente a capire il bisogno di tornare alle proprie radici, che si ritroverebbero vitali.

Il Survivor Tree è simbolo di tutto ciò. Nell’ottobre del 2001, l’albero di pero è stato scoperto e liberato dai cumuli di macerie fumanti nella piazza del World Trade Center: era bruciato, carbonizzato, con un solo ramo vitale e con pochissime speranze di sopravvivere. L’albero era stato originariamente piantato nel 1970 nel complesso World Trade Center vicino a Church Street. E’ stato curato ed è cresciuto fino a una altezza di circa 30 metri, sopravvivendo perfino all’uragano Irene che lo ha sradicato nel 2010. Oggi è circondato da un recinto, con supporti che tengono il tronco e rami in posizione, finché non avrà una propria stabilità e le radici non avranno attecchito a sufficienza.

Nine eleven: il racconto di quel giorno

L’11 settembre 2001 a New York è una mattina di sole e di attività. Un primo aereo, un Boeing 767 dell’American Airlines, viene dirottato con 76 passeggeri a bordo su Lower Manhattan e plana verso il World Trade center, il complesso di edifici che ospitava le Twin Towers. Centra la facciata della torre nord alle 8:46, le 14:46 in Italia. Iniziano le evacuazioni e i soccorsi, ma nell’arco di 17 minuti un secondo Boeing 767, della United Airlines, si schianta sulla torre sud con 51 passeggeri a bordo. Nell’arco di meno di due ore crolleranno entrambe le Tower, uccidendo chi era rimasto bloccato nei piani più alti degli edifici, i soccorritori all’opera negli edifici e anche persone che si trovavano nei pressi. Alle 9:37, poco dopo lo schianto del secondo aereo, il mondo attonito guarda a Washington: un Boeing 757 di American Airlines precipita sulla facciata ovest del Pentagono, sede del quartier generale del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d’America. Pochi minuti dopo, un altro Boeing avrebbe dovuto abbattersi sul Campidoglio, la sede del Congresso, ma alcuni dei 33 passeggeri si ribellano nel tentativo di manomettere il piano dei terroristi, e l’aereo precipita a sua volta alle 10:03 in Pennsylvania, a 200 chilometri in linea d’aria dall’obiettivo che avrebbe dovuto colpire.

La risposta agli attacchi

L’attentato ha scatenato la reazione immediata di Washington, con la guerra in Afghanistan per sradicare il regime dei talebani vicini ad Al Qaeda e neutralizzare il capo, Bin Laden. L’intervento statunitense ha rovesciato il regime talebano, tornato alla ribalta esattamente due decenni dopo con l’addio delle truppe Usa al Paese proprio nello scorso agosto 2021 e il ritorno dei talebani a Kabul. Ma bisogna citare anche il conflitto in Iraq: nel 2003, nel vivo della cosiddetta “Guerra al terrore” indetta dall’allora presidente George W. Bush, gli Stati Uniti guidano una coalizione internazionale contro l’Iraq di Saddam Hussein.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-09/11-settembre-stati-uniti-torri-gemelle-pentagono-survivor-tree.html

La salute è globale e il vaccino è un diritto

Colmare il divario tra Paesi ricchi e Paesi poveri: dalla riunione ministeriale del G20 Salute a Roma emerge una road map per assicurare nell’immediato vaccini anti-Covid per tutti e l’impegno a consolidare la collaborazione in nome dell’approccio One Health, che racchiude in un concetto olistico salute umana, animale e ambientale

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’immunizzazione totale, cioè vaccini anti-Covid per tutti, è il primo degli obiettivi emersi a conclusione della riunione ministeriale del G20 dedicata alla salute, che si è svolta ieri e oggi a Roma. Gli incontri, presieduti dal ministro Roberto Speranza – l’Italia è presidente di turno del G20 – si sono tenuti ai Musei capitolini del Campidoglio, con la partecipazione dei capi delegazione dei Paesi del G20.

Farsi carico dei Paesi più fragili

“Il livello di diseguaglianza è troppo alto e non sostenibile, sbagliato sul piano valoriale e su quello sanitario perchè se lasciamo una parte del mondo senza vaccini avremo nuove varianti”. Così il ministro della Salute Roberto Speranza nella conferenza stampa conclusiva in cui è stato ribadito che “nessuno deve restare indietro ed il messaggio del Patto di Roma è che i Paesi più forti G20 devono farsi carico di aiutare quelli più fragili nella campagna di vaccinazione, e va fatto subito”. L’obiettivo, sempre più urgente, è garantire l’accesso ai vaccini anti-Covid a tutti i Paesi nel mondo, soprattutto a quelli più fragili. Finora non è stato così, ma oggi “ci sono le condizioni” per raggiungere questo traguardo. L’incontro ha sancito le premesse per un accordo globale, ribattezzato ‘Patto di Roma’, che porti ad una immunizzazione mondiale poiché l’emergenza sanitaria “non sarà esaurita finché non ne saremo fuori tutti”.   “Ci sono le condizioni – ha spiegato il ministro della Salute Roberto Speranza –  per costruire il Patto di Roma, che garantirà i vaccini anche nei Paesi più fragili. Oggi ci sono diseguaglianze molto forti con i paesi più ricchi che hanno ormai percentuali di vaccinazione molto significative e continuano a procedere, e ci sono Paesi che invece sono indietro”. Da qui l’impegno  di “costruire condizioni per cui il vaccino sia un diritto di tutti e non un privilegio di pochi”.

E ricostruire i sistemi di assistenza

Il G20 Salute ha fatto il punto anche sulla più ampia prospettiva di ricostruire i sistemi di assistenza post-pandemia. Il punto – ha chiarito Speranza – è “provare ad allargare la forza dei  servizi sanitari nazionali, investire di più su di essi e provare a segnare un cambio di passo molto significativo che consenta di difendere l’approccio di universalità del Servizio sanitario nazionale, cioè l’idea che se una persona sta male va curata indipendentemente dalla propria condizione economica e dal posto in cui è nata o dal colore della pelle. Il Patto di Roma tiene questo punto come punto essenziale”. In questo quadro  il G20 è un’occasione “per rafforzare le relazioni internazionali e rilanciare i valori universalistici della salute”. Si devono studiare modalità per assicurare l’accesso più largo possibile ai vaccini a partire dai meccanismi di collaborazione esistenti, tra cui quello delle donazioni di dosi per far fronte alle esigenze più immediate perché “nessuno venga lasciato indietro”. Ma al G20 si è discusso anche di un’altra criticità collegata alla pandemia, ovvero la necessità di un’azione globale per la salute mentale. La pandemia ha infatti avuto effetti sulla salute mentale delle persone a causa dell’isolamento sociale, la perdita di familiari e l’incertezza sull’impatto economico e il mantenimento dei posti di lavoro.

Salute globale

Le sfide poste dalla pandemia hanno reso di importanza strategica questo appuntamento di recente istituzione. Si parla di “salute globale” e l’espressione è entrata con forza in tutte le riunioni di alto livello e nel dialogo con la membership e i gruppi di ascolto, a cominciare dal Global Health Summit svoltosi a Roma a fine maggio sotto la direzione del presidente del Consiglio, Mario Draghi, e della presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen.

One Health

Di fondo si intende rafforzare l’approccio One Health, che racchiude in un concetto olistico salute umana, animale e ambientale. Approccio One Health e necessità di una maggiore collaborazione per prevenire e contrastare la pandemia. Sono le priorità indicate da Qu Dongyu, Direttore Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), nel corso della riunione dei Ministri della Salute del G20 a Roma. Qu ha parlato sia per conto della FAO che come Presidente dell’Alleanza tripartita per One Health, un consorzio che include anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità Animale (OIE). L’Alleanza invoca azioni che riconoscano come la salute dell’uomo sia legata alla salute degli animali e dell’ambiente – l’Approccio One Health.    “Il mondo – ha sottolineato Qu, come riporta la Fao in una nota – ha l’occasione di rafforzare i metodi collettivi e collaborativi per prevenire pandemie future attraverso un approccio One Health universale e inclusivo”. Ci troviamo a “una svolta storica per avviare le azioni che serviranno per prevenire pandemie future”, ha precisato, puntando sia a ottenere maggior consenso e sostegno da parte del G20 – i cui membri rappresentano i due terzi della popolazione mondiale e l’85 per cento dell’attività economica a valore aggiunto (PIL) – sia a ribadire l’urgente bisogno di maggiori investimenti, soprattutto a livello nazionale.  “Devono essere evidenziati i legami fra sistemi agroalimentari e salute ambientale, crisi climatica, degrado dell’ecosistema e perdita di biodiversità”, ha concluso Qu.

People, Planet Prosperity

Le tre priorità della Presidenza italiana del G20 – People, Planet, Prosperity –  indicano come il  benessere di ognuno non possa prescindere dall’ambiente in cui viviamo. E le priorità ritornano nella contemporanea presidenza italiana del COP-26, la Conferenza sull’ambiente in programma a novembre a Glasgow in Scozia, per la quale l’Italia è co-Chair con il Regno Unito. La Ministeriale Salute di settembre e’ dunque una tappa del percorso che la Presidenza italiana ha intrapreso con i membri del G20, i Paesi ospiti e le Organizzazioni Internazionali, a cominciare dal Tripartito OMS, FAO, OIE insieme ad UNEP. Il Global Health Summit di maggio ha raccolto nella Dichiarazione di Roma i principi cui si ispira la battaglia contro il Covid-19. Lungo tale percorso, i ministri della Salute torneranno a riunirsi con i colleghi delle Finanze a fine ottobre per affrontare la questione fondamentale di come migliorare l’architettura globale della sanità, con al centro l’OMS, e assicurarle un maggior livello di sostegno finanziario con l’obbiettivo di superare in modo definitivo l’attuale pandemia e mettersi in condizione di affrontare al meglio quelle del futuro.

L’obiettivo dell’Ue

“Una forte Unione della Salute garantirà che l’Ue sia meglio attrezzata per affrontare le crisi future”. Così ha scritto su Twitter la commissaria Ue alla salute, Stella Kyriakides, per poi spiegare che c’è bisogno di una sorveglianza unica globale per le malattie emergenti, comprese pandemie “silenziose” come l’Amr, cioè  la resistenza antimicrobica che i microbi batterici possono sviluppare naturalmente. L’Ue punta ad un’azione congiunta a livello di G20 che – sottolinea la commissaria –  insieme può fare la differenza”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-09/g20-salute-vaccino-pandemia-paesi-ricchi-poveri-oms-ue-italia.html

Torna in Brasile “Il grido degli esclusi”

È dedicata al valore della persona e alle realtà concrete della terra, della casa, del lavoro, la 27esima edizione della manifestazione organizzata ogni anno nella festa dell’indipendenza. Il titolo richiama alle tante sofferenze vissute dalla popolazione brasiliana, tra emergenza sanitaria e crisi economica, in definitiva al bisogno di riscoprire il rispetto per la persona, come sottolinea il rettore del Pontificio Collegio brasiliano a Roma

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“La vita prima di tutto”: è questo il tema scelto per la 27.ma edizione della manifestazione intitolata: “Il grido degli esclusi”, in programma ogni anno in Brasile il 7 settembre, in concomitanza con la Festa nazionale dell’indipendenza. Si tratta di un’iniziativa popolare che vede il sostegno della Pastorale sociale della Conferenza episcopale brasiliana, del Consiglio delle Chiese cristiane del Paese e di movimenti ed organizzazioni impegnate per la giustizia e la vita. Il sottotitolo dell’edizione 2021 è: “Nella lotta per la partecipazione popolare, la salute, il cibo, la casa, il lavoro e il reddito ora”.

Il grido per chiedere i vaccini

Il Brasile vive crisi sociale, disoccupazione, sottoccupazione e lavoro informale, povertà, miseria e fame, tessuto sociale dilaniato, tensioni tra i poteri della Repubblica, mentre la pandemia da Covid-19  ha raggiunto un numero di morti record, secondo solo agli Stati Uniti. E in questa situazione il primo “grido” è per chiedere vaccini per tutti, come spiega  padre José Otácio Oliveira Guedes, rettore del Pontifício Colégio Pio-Brasileiro di Roma:

Padre Oliveira Guedes ribadisce l’importanza di guardare ai reali problemi delle persone e sottolinea l’urgenza di assicurare vaccini per tutti. Parla di criteri economici che non rispettano valori fondamentali come la centralità della persona. E cita Papa Francesco per ricordare quanto sia illuminante il suo avvertimento in tema di “cultura dello scarto”, che significa – spiega – il contrario del valore della centralità della persona. Richiama il concetto di giustizia ricordando che “non c’è pace senza giustizia”, come sottolineò Papa Paolo VI. Al doveroso senso di giustizia  si aggiunge per un credente – ricorda il rettore – lo spessore del messaggio cristiano, che non può che rafforzare nello slancio a difendere la vita, intesa come valore dall’inizio alla fine dell’esistenza ma anche intesa come anni di vita da rispettare per qualunque persona, cercando di assicurare ad ognuno diritti fondamentali come lavorare, avere una abitazione.

Negli insegnamenti di Papa Francesco

Il Grido degli esclusi del 2021 – spiega padre José Alfredo Gonçalves, vicepresidente della Pastorale per i migranti, che fa parte del Coordinamento nazionale dell’iniziativa – rinvia alle tre parole che Papa Francesco ha usato negli appuntamenti con i movimenti sociali: terra, casa e lavoro. Senza un tetto sopra la testa, senza il pane quotidiano, infatti, è impossibile garantire ad una persona la dignità di base, asse portante della Dottrina sociale della Chiesa, in assenza del quale si chiudono le porte per la vita sociale e i diritti di una cittadinanza dignitosa e giusta.

Il valore della solidarietà

Il sacerdote, poi, ricorda “le tante comunità, parrocchie, entità, associazioni e organizzazioni che sono diventate l’ultima àncora di salvezza per la folla dei senza terra, senza tetto e senza lavoro”. Quello offerto da “una mano solidale è un pane benedetto, non c’è dubbio, ma anche pane maledetto, perché innaffiato con le lacrime amare della vergogna” di chi lo riceve, spiega. Di qui, l’appello conclusivo del sacerdote affinché, il prossimo 7 settembre, i brasiliani denuncino le sofferenze del Paese e chiedano alle autorità “misure inclusive per tutti, affinché ogni cittadino possa essere protagonista del proprio destino”.

Avviato nel 1995, il “Grido degli esclusi” lotta da anni per una maggior trasparenza dei mezzi di comunicazione sociale in Brasile, per sensibilizzare la popolazione sul problema della violenza sociale, sviluppare la partecipazione politica dei lavoratori e sostenere l’ampliamento dei diritti dei cittadini, in un’ottica di inclusione sociale. Nel tempo, questa iniziativa ha contribuito ad un cambiamento culturale della società, tanto che oggi è visto, sia dai movimenti pastorali che dalle organizzazioni sociali, come un’occasione concreta di confronto.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-09/brasile-vaccini-pandemia-casa-lavoro-diritti-poveri.html

Urgente preparare il voto in Libia: appello dell’Onu al governo

Per Tripoli si avvicina l’appuntamento elettorale di dicembre e l’esecutivo di unità nazionale è chiamato a finalizzare in tempo il necessario quadro costituzionale. E’ quanto raccomanda l’inviato delle Nazioni Unite al vertice dei Paesi confinanti. Non manca solo la legge elettorale, ma anche un vero spirito di pacificazione e di collaborazione, come spiega la storica dei Paesi del Mediterraneo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Jan Kubis, ha esortato le autorità del Paese a “non perdere tempo” e a compiere gli ultimi passi utili per permettere lo svolgimento delle elezioni presidenziali e legislative previste il 24 dicembre prossimo. Lo ha fatto da Algeri, dove si svolge un vertice al quale partecipano i Paesi confinanti con la Libia. “Il governo di unità nazionale ha trovato le risorse necessarie per l’organizzazione delle elezioni, ma serve anche un quadro giuridico il prima possibile”, ha spiegato Kubis. La data è vicina e manca anche una legge elettorale come spiega Michela Mercuri, docente di Storia contemporanea dei Paesi del Mediterraneo, che sulle prospettive non si dice ottimista:

Mercuri si sofferma sulle difficoltà di un Paese che non ha ancora unificato le due “anime” che si sono combattute fino a pochi mesi fa e che non ha ancora neanche affrontato i problemi reali della popolazione che si ritrova più povera di prima del conflitto. Spiega le tappe che ancora servono per arrivare a un voto sottolineando che l’allarme dell’Onu è giustificato perché il tempo è davvero poco. La studiosa sottolinea la preoccupazione anche dei Paesi confinanti che infatti si sono ritrovati in questo vertice ad Algeri, citando i singoli Paesi e i vari motivi di apprensione per l’instabilità che si vive ancora in Libia.

Il vertice regionale sotto l’egida dell’Onu

La riunione dei ministri degli Esteri di Tunisia, Egitto, Sudan, Niger, Ciad è in programma il 31 agosto e il 1 settembre ad Algeri. Tra gli altri partecipanti ci sono il ministro congolese degli Esteri, Jean-Claude Gakosso, in rappresentanza del presidente Denis Sassou-Nguesso che guida il Comitato di alto livello dell’Unione africana sulla Libia; il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit; oltre al rappresentante del Segretario generale dell’Onu in Libia, Jan Kubiš. Si discute, tra le altre questioni, delle prossime elezioni e delle sfide della sicurezza nella regione.

Le intenzioni del governo libico e la posta in gioco

“Questo incontro – si legge in una nota del ministero degli Esteri di Tripoli – è un’opportunità per tenere maggiori consultazioni e coordinamento sugli ultimi sviluppi in Libia, i mezzi per sostenere l’iniziativa di stabilità libica, lanciata dal ministro degli Esteri libico Najila al-Mangoush, durante la 2a Conferenza di Berlino, per porre fine a qualsiasi ingerenza negli affari interni della Libia, nell’ambito di un processo per lo svolgimento di una conferenza internazionale, presieduta e organizzata dalla Libia, alla quale parteciperanno tutti gli attori regionali e internazionali del dossier libico”. “Questa conferenza – si aggiunge nel comunicato – mira a raggiungere sicurezza e stabilità su tutto il suolo libico, a unificare le istituzioni sovrane dello Stato, in particolare quelle militari e di sicurezza, per arrivare alle elezioni nel calendario preciso”. Il voto previsto tra meno di quattro mesi è stato definito il primo risultato concreto del dialogo inter-libico. Si tratta di evitare l’internazionalizzazione del conflitto e di risparmiare ai libici un’eventuale divisione in due parti: a est la Cirenaica, che concentra quasi tutte le ricchezze del Paese, e a ovest la Tripolitania. Sul piano economico, si prevede per la ricostruzione della Libia un costo stimato dalla Banca mondiale di 200 miliardi di dollari con una durata dei lavori di 10 anni.

Le tappe del processo di pacificazione

La sottoscrizione dell’accordo di cessate il fuoco a Ginevra il 23 ottobre 2020, l’inizio della riunificazione delle istituzioni statali e la creazione di un governo di unità nazionale nel marzo 2021 sono state le tappe centrali di un processo di pacificazione dopo anni di scontri. Tre anni dopo la caduta di Muammar Gheddafi nel 2011, la Libia è diventata teatro di un conflitto tra il governo basato nell’Ovest del Paese e riconosciuto dall’Onu e le forze fedeli all’autoproclamato “maresciallo” Khalifa Haftar, uomo forte dell’Est. Nel giugno del 2020, la sconfitta alla “battaglia di Tripoli” delle truppe di Haftar, sostenute da Emirati Arabi Uniti (Eau), Egitto, Russia e Francia da parte delle milizie armate dalla Turchia e dal Qatar è stato il primo punto di svolta. Ha portato le due parti, sotto le pressioni internazionali, a un cessate il fuoco, a formare il Governo di transizione d’unità nazionale e a raggiungere l’accordo sull’organizzazione di elezioni libere.

Sul piano diplomatico, il 23 giugno 2021 si è tenuta la seconda Conferenza di Berlino sulla Libia dopo la prima a fine gennaio 2020. Un processo lanciato dalla Germania per sostenere gli sforzi di mediazione delle Nazioni Unite a favore di una conclusione del conflitto libico. Tre temi principali sono stati toccati: la messa in atto della tabella di marcia adottata dal Forum di dialogo politico libico in vista delle elezioni, l’adozione rapida di un quadro giuridico per queste ultime e l’entrata in vigore integrale dell’accordo di cessate il fuoco, compreso il ritiro dei combattenti stranieri.

Sullo sfondo l’emergenza migranti

Le condizioni di vita dei migranti, già catastrofiche, sembra sia sino purtroppo aggravate in seguito al cessate il fuoco. Nel rapporto pubblicato il 15 luglio 2021 da Amnesty International, emerge che le persone migranti originarie dell’Africa subsahariana sono confrontate con “una recrudescenza delle violenze e dei rapimenti da parte dei trafficanti”. Questi ultimi, perdendo i loro introiti legati alla guerra, si sono rifatti sui migranti, in particolare sulle donne, fa notare il documento.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-08/libia-onu-governo-elezioni-conflitto-processo-di-pacificazione.html

Clima e salute: bisogna ripensare i sistemi sociali

Cambiamenti climatici e salute: il legame è diretto e chiaro dopo il rapporto dell’Onu in vista della conferenza Cop 26 a novembre. Non è rimasto più tempo da perdere per limitare il riscaldamento globale ed evitare cambiamenti disastrosi alla vita sul nostro pianeta. Ma non bastano singole azioni: è il momento di ripensare sistemi naturali e sistemi sociali, come avverte l’esperto di ambiente e salute Giorgio Banchieri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Cambiamenti climatici 2021 – Le basi fisico-scientifiche”: è questo il titolo del Rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) dell’Onu, pubblicato il 9 agosto, in vista della prossima conferenza mondiale sul clima che si terrà a novembre a Glasgow, in Scozia.  Non e’ rimasto piu’ tempo da perdere per limitare il riscaldamento globale ed evitare cambiamenti disastrosi alla vita sul nostro pianeta: è quanto ha sottolineato lo studio che rappresenta solo la prima di tre parti del Sesto Rapporto di Valutazione pronto per il prossimo anno.

Mentre l’Ue rilancia il suo progetto di neutralità climatica entro il 2050, bisogna ripensare il legame tra sistemi naturali e sistemi sociali, in sostanza mettere seriamente in discussione i meccanismi di sviluppo, come sottolinea Giorgio Banchieri, esperto di Scienze Sociali ed Economiche, docente alle Università Sapienza e Luiss e  Segretario nazionale dell’Associazione Italiana per la Qualità dell’Assistenza Sanitaria e Sociale:

Banchieri mette innanzitutto in luce una realtà: in questa fase epocale l’essere umano sta dilapidando le risorse del pianeta come mai prima. Ricorda che tutti i principali indicatori delle componenti del sistema climatico stanno cambiando ad una velocità mai osservata per secoli. I cambiamenti climatici riguardano ogni area della Terra e tutto il sistema climatico, ma tutto può cambiare in positivo se con un’azione globale complessiva limiteremo costantemente e in modo deciso le emissioni di Co2.  A fare la differenza – spiega l’esperto – sarà la capacità del mondo di limitare il riscaldamento globale a +1,5 C rispetto all’era preindustriale, obiettivo ideale dell’Accordo di Parigi, di dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2030 e portarle a uno zero netto entro il 2050. La qualità dell’aria migliorerebbe – sottolinea – in pochi anni, anche se l’impatto sulla temperatura del pianeta, sarebbe visibile solo dopo molti decenni. Negli ultimi anni l’aumento delle emissioni di origine antropica associate ai principali gas serra ha portato la temperatura globale media nel decennio 2011-2020 a 1.09 gradi centigradi superiore a quella del periodo 1850-1900.  In relazione alla salute dei mari ciò significa che il livello continuera’ a salire inevitabilmente, tra 28 e 55 centimetri entro la fine del secolo. A lunghissimo termine, si alzera’ tra i due e i tre metri nei prossimi 2000 anni se il riscaldamento globale restera’ a 1,5 gradi come proposto dall’accordo di Parigi, ma potrebbe superare i 20 metri con un innalzamento di 5 gradi.

Eventi estremi senza precedenti

Banchieri ricorda che si parla di ondate di calore, siccità, nubifragi o inondazioni di portata e frequenza, anche in contemporanea, eccezionali. L’esperto richiama l’attenzione innanzitutto sull’acqua, sottolineando che tutti gli esperti concordano su alcune evidenze scientifiche:  i cambiamenti climatici hanno un diretto impatto sul ciclo dell’acqua che significa variazioni nei valori dell’umidità, nei venti, nella neve e nel ghiaccio, nelle aree costiere e negli oceani. Inoltre le variazioni del clima stanno influenzando gli andamenti delle precipitazioni: alle alte latitudini è probabile che le precipitazioni aumentino, mentre ci si attende che diminuiscano in gran parte delle regioni subtropicali. Sono attesi – aggiunge – anche cambiamenti nelle precipitazioni monsoniche, con variazioni nelle diverse aree.

Si possono fare degli esempi in particolare,  rileva Banchieri citando il fenomeno della Corrente del Golfo che collochiamo in una precisa posizione geografica ma che interessa per le sue implicazioni acque e coste fino alle sponde occidentali dell’Europa. Basta solo immaginare dunque le conseguenze di un’alterazione delle temperature, delle dinamiche ittiche, dell’inquinamento etc etc.

Le zoonosi

Da Ebola al West Nile Virus alla Mers, l’elenco delle zoonosi, le infezioni che “saltano” dagli animali all’uomo, era già lungo prima che arrivasse il Sars-Cov2, e se non si inizierà a proteggere l’ambiente si allungherà ulteriormente negli anni a venire. Banchieri evidenzia tutto ciò ricordando che circa il 60 per cento delle infezioni umane ha un’origine animale e che di tutte le malattie infettive emergenti il 75 per cento ha fatto un salto di specie da un altro animale all’uomo. Non si può trascurare il fatto che ci sono zone – spiega Banchieri – che in qualche modo sono “intatte” ora rispetto alla presenza dell’uomo ma che potrebbero entrare in contatto in modo anche molto pericoloso. Un solo esempio: zone dell’Artide e dell’Antartide ripcoperte di ghiacci e non toccate dall’uomo che con il surriscaldamento potrebbero, sciogliendosi i ghiacci, “restituire” all’atmosfera batteri o virus congelati da milioni di anni e dunque per i quali l’uomo non ha difese immunitarie.

E’ necessaria una nuova visione di sviluppo

Secondo Banchieri, sono evidenti alcune tendenze  che stanno spingendo verso un aumento delle zoonosi: la maggiore richiesta di proteine animali; l’aumento dell’agricoltura intensiva e non sostenibile; lo sfruttamento sempre maggiore della fauna selvatica; l’utilizzo massiccio delle risorse naturali attraverso l’urbanizzazione e l’industria estrattiva; l’aumento dei viaggi e dei trasporti; la crisi climatica. Il punto – ribadisce – è sempre quello di un approccio   che miri a conciliare la salute per le persone, gli animali e l’ambiente, quando si pianifica lo sviluppo. Banchieri concorda sulle vie di azione indicate dagli esperti dell’Onu: per contrastare il riscaldamento del clima sono necessarie riduzioni della concentrazione di CO2 e di altri gas serra di grossa entità, che vanno sostenute nel tempo fino a una totale decarbonizzazione. Sottolinea però che tutto questo deve avvenire nell’ambito di un  più generale e più profondo ripensamento dei meccanismi di sviluppo. Si deve fare una serissima riflessione – raccomanda – per certi versi in Occidente e  nei Paesi più industrializzati e, per altri versi, nei Paesi meno sviluppati.

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30 anni fa l’episodio simbolo dell’esodo degli albanesi in Italia, e non solo

L’8 agosto 1991 avveniva il più grande sbarco di migranti mai giunto in Italia con un’unica nave. Un momento chiave della ribellione del popolo albanese, in particolare dei giovani, a 40 anni di regime totalitario, ma anche una tappa significativa della storia recente delle migrazioni nel Mediterraneo, come sottolinea lo storico Eugenio Capozzi. E un’esperienza umana fuori dell’ordinario, come raccontano Bruno Mitrugno allora direttore Caritas e Stefania Baldassarre allora volontaria

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Mentre l’Italia viveva il clima vacanziero di piena estate, l’8 agosto 1991, 20.000 albanesi arrivarono al porto di Bari, mettendo in crisi procedure e strutture deputate alle emergenze della regione Puglia e non solo. All’origine un disperato atto di forza: il 7 agosto 1991, la nave mercantile Vlora,  di ritorno da Cuba carica di zucchero di canna, durante le operazioni di sbarco nel porto di Durazzo, in Albania, era stata assalita da una folla di migliaia di persone che avevano costretto il comandante, Halim Milaqi, a salpare per l’Italia e attraccare dunque a Bari il giorno seguente. L’ingresso in porto non fu dei più facili. Il comandante forzò il blocco comunicando di avere feriti gravi a bordo e di non poter dare il “macchine indietro”, il comando di retrocessione, a causa del grande carico. La nave fu quindi fatta attraccare al cosiddetto Molo Carboni, il più distante dalla città. Durante l’entrata al porto molti si gettarono dalla nave ancora in movimento e nuotarono fino alla banchina cercando di scappare.

Si è trattato di una tappa di un processo storico particolare vissuto dall’Albania che Papa Giovanni Paolo II in quegli anni ha seguito da vicino. Durante la sua storica visita in Albania, il 25 aprile 1993, in Piazza Skanderbeg a Tirana, si rivolse agli albanesi che si erano lasciati alle spalle la dittatura comunista con queste parole: “Popolo albanese, vai avanti coraggiosamente verso i percorsi della solidarietà”.

L’antefatto a marzo a Brindisi

A marzo 1991, nel giro di tre notti erano già arrivati migliaia e migliaia di albanesi a Brindisi. In quel momento si è vissuta davvero la sorpresa di un’Europa che  si era lasciata alle spalle la disperazione dei profughi della Seconda guerra mondiale e che guardava in faccia altra disperazione. Tra la sorpresa di tutti,  centinaia di persone vagavano nella città deserta per ferie, come racconta Stefania Baldassare, che oggi è la direttrice del Centro di assistenza straordinaria (cas) denominato Casa del Sole che ospita richiedenti asilo. Allora era tra i giovani che si prestarono come volontari e oggi racconta quella che definisce “una scena dantesca”:

Baldassarre ricorda di essere arrivata al porto di Brindisi per supportare la Caritas. Era notte  – spiega – e c’era questo barcone con moltissimi profughi assiepati che disperatamente chiedevano acqua. Questa è la prima immagine, ma quella che è rimasta più impressa è quella dell’indomani mattina quando dalla sua casa, su un piano alto che si affacciava sul porto di Brindisi, le è apparsa una seconda scena.  Praticamente – sottolinea – non era più a colori, ma era in bianco e nero. Il primo pensiero va alle raffigurazioni dell’inferno dantesco. Le persone vagavano soli e per la città – non c’era nessun italiano – erano tutti impolverati.

In questa immagine in bianco e nero, che è rimasta scolpita nella mente della giovane volontaria, c’è poi un epilogo felice: tutto si risolse brillantemente, perché i brindisini furono meravigliosi. C’era stata grandissima sorpresa, non era stato ovviamente organizzato nulla in termini di accoglienza, però poi la mattina si era mossa la macchina  della solidarietà perché la gente – ricorda – apriva le sue case, le sue abitazioni, li faceva entrare e li faceva mangiare, li faceva lavare e dava loro quel primo aiuto iniziale fondamentale per farli sentire esseri umani. Loro raccontavano lo stupore di trovare un posto non blindato, non armato dove avevano potuto attraccare e sottolineavano che la città li aveva accolti a braccia aperte. Allora l’economia in Italia era buona – sottolinea Baldassarre – e forse in generale c’era meno diffidenza. Oggi certamente la crisi pesa. Allora così non era e quindi – dice – c’era davvero tanta generosità

Un fenomeno durato un decennio

Un anno dopo, nel 1992, ha cominciato a diminuire il numero dei boat people nell’Adriatico, ma il fenomeno degli arrivi non si è mai davvero fermato fino al 1999, con un nuovo picco nel 1997, come racconta uno dei protagonisti dello sforzo di assistenza in quegli anni in Puglia, Bruno Mitrugno allora direttore operativo della Caritas di Brindisi:

Mitrugno ricorda che c’erano state migliaia e migliaia di persone che in pochi giorni erano sbarcate nel porto di Brindisi a bordo di carrette del mare e poi sottolinea che generalmente si segna il 1992 come la conclusione dei grandi sbarchi, però il fenomeno è arrivato fino alla fine degli anni ’90. Era un flusso meno eclatante.  Per esempio, nel 1997 in seguito a una nuova grossa crisi economica dell’Albania, c’era stato un nuovo continuo movimento. Drammatico poi fu l’ episodio dell’affondamento della Catherine Riders con centinaia di profughi a bordo, il Venerdì Santo del ’96: una motovedetta della Marina Militare italiana cercando di spronare i profughi a ritornare al porto di Valona provocò di fatto l’affondamento dell’imbarcazione. E Mitrugno ricorda ancora l’impegno dell’allora direttore della Caritas italiana, don Elvio Damoli, arrivato a Brindisi per sostenere la carità e il volontariato cittadino. Mitrugno cita anche il 1999 quando ci fu la guerra in Kosovo e quindi migliaia migliaia di persone anche albanesi sbarcarono sulle coste pugliesi fingendosi kosovari.

L’allora direttore della Caritas spiega anche di non aver dimenticato alcuni racconti dalla gente arrivata e quelli di alcuni religiosi incontrati in Albania dove poi la Caritas italiana si è impegnata a lungo per portare aiuto alle persone nel loro Paese. Ne cita uno: quello di una suora che affermò di aver portato per anni durante il regime l’ostia consacrata in tasca ad alcune persone a casa, disobbedendo alle proibizioni.  Sui racconti riguardanti la criminalità albanese, Mitrugno dice che c’è stata come c’è sempre in ogni Paese e si è fatta sentire in Italia perché ha trovato l’alleanza con la criminalità italiana.

Lo slancio forte della solidarietà

Dei tantissimi gesti di solidarietà che sono stati compiuto dalla gente in quei giorni, Bruno Mitrugno racconta di una vecchina che cucinava tutto il giorno uova fritte, di una catena continua di beni raccolti e distribuiti con il tam tam del passa parola e poi lo slancio che arrivò dai contrabbandieri. In quegli anni era consistente il fenomeno del contrabbando delle sigarette e racconta di aver visto molti di loro interrompere i traffici per mettersi a disposizione nella distribuzione di cibo e beni di prima necessità, che la gente portava a ridosso della zona degli attracchi.

Molte di queste persone arrivavano sulla scia del sogno italiano che avevano  visualizzato anche seguendo la TV italiana, quindi l’idea di ricchezza facile. In realtà, da parte del governo italiano la risposta fu decisa perché c’era tanta paura di  arrivi di massa da tutta l’Albania. E Mitrugno ricorda che, di fronte alla freddezza delle autorità locali che sotto l’input delle scelte nazionali temevano di incoraggiare altre partenze assistendo i profughi, l’allora vescovo di Brindisi, monsignor Settimio Todisco, andò dal prefetto annunciando che se non venivano aperte le scuole per l’accoglienza lui avrebbe aperto tutti i santuari e le chiese della Diocesi.

Il caso albanese nella storia recente delle migrazioni

La vicenda della Vlora è ricordata come l’episodio più significativo dell’ondata di immigrazione che si è avuta in Italia negli anni Novanta ma anche come l’inizio di un processo “virtuoso” nella storia recente dei flussi migratori che riguardano l’Europa, come sottolinea lo storico Eugenio Capozzi:

Capozzi sottolinea che al di là dei momenti drammatici – come l’affondamento dell’imbarcazione nel 1997 o altri casi di sofferenze – il caso dell’Albania rappresenta storicamente un esempio positivo di sviluppo, iniziato con un esodo ma poi evoluto in un cammino fatto di aiuti esterni e di stimoli interni che ha portato  ad un livello di buono sviluppo della società e dell’economia. Lo storico tra l’altro sottolinea che non si può dimenticare che per secoli le vicende del territorio dell’Albania si sono intrecciate anche culturalmente con quelle dell’Italia e dell’Europa e questo certamente ha avuto un peso. Così come ha avuto un peso particolare il rapporto molto ravvicinato di scambi con l’Italia.

La risposta dell’Italia oltre l’emergenza

Dopo il primo significativo arrivo di albanesi in primavera, l’Italia aveva promesso all’Albania significativi aiuti umanitari che però a inizio agosto la popolazione non aveva ancora ricevuto. Dopo la seconda più massiccia ondata a inizio agosto, gli albanesi sbarcati – ad eccezione di alcuni sfuggiti in città alle forze dell’ordine – furono portati tutti nello “Stadio della Vittoria” di Bari e lasciati in condizioni poi giudicate da tanti disumane. In quindicimila furono ricondotti in patria. Allora l’Italia inviò un cospicuo contingente dell’esercito che si impegnò nella distribuzione di generi alimentari e nel controllo delle coste. Solo nella prima fase dell’operazione i soldati italiani consegnarono 186.000 tonnellate di viveri e medicinali in 27 centri dislocati in ogni regione per essere poi distribuiti anche nei villaggi più sperduti.

L’intervento della comunità internazionale

A livello di istituzioni internazionali si avviarono diversi interventi di sostegno all’Albania: l’accesso al Programma PHARE, l’ammissione alla Banca Mondiale, alla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, all’OSCE, UNDP e Unhcr, ed al Fondo Monetario Internazionale. La guida fu affidata all’Italia, con l’operazione “Pellicano”, che inizialmente avrebbe dovuto avere una durata di tre mesi, ma che fu successivamente prolungata fino al 1993. Grazie a diversi fattori, l’Albania ha intrapreso la via che l’ha portata ad una significativa anche se relativa ripresa economica e, nel 2014, allo status di candidato all’ingresso nell’Unione Europea.

La fuga sull’onda lunga del crollo del muro di Berlino

Nella Repubblica Popolare Socialista d’Albania, Enver Hoxha aveva governato per quattro decenni con il pugno di ferro. Tra il 1945 e il 1990 furono condannati a morte mediante fucilazione, impiccagione o altro circa 5.000 uomini e 450 donne. Inoltre furono incarcerate 34.135 persone, di cui  1.000 risultano morte in carcere per i continui maltrattamenti. Ancora oggi molte famiglie cercano i resti dei loro cari. La crisi economica era causata  da una gestione conservatrice della cosa pubblica ed ulteriormente aggravata dall’operato dei direttori delle aziende statali e collettive, che, per vendicarsi della perdita del potere, avevano iniziato a sabotare e distruggere il sistema economico.

Nel 1989 iniziarono le prime rivolte a Scutari (Shkodra), la gente chiedeva la demolizione della statua di Stalin. La rivolta si diffuse nelle altre città. Il regime introdusse alcune liberalizzazioni, compresa la libertà di viaggiare all’estero, prima negata quasi a tutti. A marzo 1991, tre mesi prima il massiccio sbarco, in Albania si erano svolte le prime elezioni pluraliste dopo 40 di regime totalitarista ma non si intravedeva ancora il reale superamento del comunismo e il Paese era allo stremo. In un momento in cui la sensazione diffusa era che poco fosse veramente cambiato, elemento costantemente presente rimaneva la voglia di emigrare per raggiungere una condizione di benessere e per vedere quel mondo sconosciuto e tanto ammirato tramite la TV italiana. Un fattore significativo infatti è collegato all’aspetto ideologico-generazionale che ha influenzato il grande esodo del marzo 1991 e quello successivo del mese di agosto: il netto rifiuto della propaganda del regime e di tutti i suoi contenuti, considerati interamente falsi, con il conseguente cambio di opinione riguardo i Paesi capitalisti, costantemente demonizzati nel corso della dittatura, e divenuti ora un mito.

Il processo elettorale

Le elezioni del marzo 1991 lasciarono i comunisti ancora al potere, ma uno sciopero generale e la pressione continua dell’opposizione cittadina intendeva rivendicare un governo di coalizione che includesse anche non-comunisti. Nelle elezioni successive, le consultazioni elettorali nel 1992, il Partito Democratico d’Albania di Sali Berisha uscì vittorioso e Ramiz Alia fu costretto a cedere allo stesso Berisha la presidenza della Repubblica.

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In Tunisia misure d’emergenza

Il presidente Saied sospende il parlamento e licenzia il primo ministro Mechichi dopo una giornata di manifestazioni popolari contro il sistema politico in atto. Proteste dal leader di Ennhadha. Sullo sfondo l’emergenza sanitaria e la crisi economica che nel decennio dopo la Primavera araba ha fatto scendere e non alzare il livello di sviluppo del Paese, come spiega la studiosa Francesca Maria Corrao

 Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il presidente tunisino Kais Saied ha annunciato, ieri nella tarda serata della giornata in cui si festeggiava la repubblica, la sospensione del parlamento e il licenziamento del primo ministro Hichem Mechichi. Nove i provvedimenti ufficializzati dal presidente di fronte a migliaia di persone scese in strada per contestare al governo la gestione della crisi e quella dell’emergenza sanitaria.  Saied ha invocato l’articolo 80 della Costituzione che prevede misure d’emergenza in caso di “pericolo grave e malfunzionamento delle istituzioni”. Ha deciso l’allontanamento del primo ministro e il congelamento del parlamento per un mese. Dopo poche ore, l’esercito, inviato a garantire la sicurezza della sede del Parlamento, ha vietato l’accesso al presidente dell’Assemblea,  Ghannouchi, anche leader del partito islamico Ennhadha, alla  vicepresidente  Chaouachi e ad altri deputati di Ennahdha e della coalizione islamista Al Karama. Le cronache della Tv di Stato si sono chiuse  con il presidente tra la folla in festa nel centro di Tunisi.

Le decisioni del presidente e le critiche a Saied

Tra le misure d’emergenza, che gli oppositori hanno definito un “colpo di Stato”, c’e’ la sospensione di tutte le immunità dei parlamentari. Saied ha comunicato che designerà un nuovo primo ministro, tutti i membri del governo e presiederà il Consiglio dei ministri, ma non ha parlato di sospensione della Costituzione. “Abbiamo preso questa decisione – ha spiegato Saied, parlando alla televisione – fino a quando non tornerà la calma e non metteremo lo Stato in sicurezza”. Tutta la zona attorno agli edifici governativi è attualmente blindata e protetta dalle forze di sicurezza. “Chiunque pensa di fare ricorso alle armi – ha dichiarato Saied – e chiunque sparerà anche un solo colpo, sappia che le forze armate risponderanno sparando”. Lo speaker dell’assemblea, Ghannouchi, ha parlato espressamente di “colpo di Stato contro la rivoluzione e la costituzione” e ha chiamato il popolo a “difendere la rivoluzione”. Dieci anni fa, la protesta di massa in Tunisia aveva innescato la cosiddetta Primavera Araba e la rivolta di migliaia di persone in tutta la regione.

Covid e povertà

Non è chiaro quanto sia politica la connotazione delle proteste popolari, afferma la professoressa Francesca Maria Corrao, docente di Lingua e cultura araba alla Luiss:

La studiosa ricorda che nel centro del Paese dove più si annida la povertà da circa un anno è riesploso il malcontento. Si tratta della parte di popolazione che più subisce da sempre le diseguaglianze e che più soffre la crisi economica che  – afferma Corrao – si riassume in un dato: l’indice di sviluppo del Paese è passato dal 3 all’1 per cento. In questi dieci anni dalla cosiddetta Primavera araba non c’è stato un vero rinnovamento a livello sociale anche a causa di mali endemici come la corruzione, sottolinea Corrao.

L’aspetto istituzionale

Non è chiaro che cosa accada al resto dei componenti del governo dopo il licenziamento del primo ministro o cosa avverrà delle attuali rappresentanze in parlamento dopo il mese di sospenzione. Corrao ricorda che effettivamente l’articolo 80 invocato da Saied prevede interventi di questo tipo in caso di emergenza ma spiega che ad essere messa in discussione al momento è proprio la definizione di situazione di emergenza denunciata dal presidente. Corrao in ogni caso ricorda che l’attuale presidente è stato votato a grande maggioranza con il manifestato mandato di arginare le forze politiche che avevano il potere e dunque spiega che questo può significare che davvero avrà il sostegno di una parte della popolazione. Nello stesso tempo la studiosa sottolinea che in piazza è evidente anche l’espressione di quanti in realtà restano legati ad altre forze politiche. In sostanza –  ricorda –  si continua ad assistere  ad una polarizzazione di fondo tra forze laiciste e non, ma a determinare lo scontento popolare non sono questo tipo di dinamiche ma quelle economiche in cui si accentuano le diseguaglianze.  E – aggiunge la studiosa – al momento c’è anche un blocco di fondi da parte del Fondo Momentario Internazionale e preoccupano anche gli alti costi di tanti prodotti che vengono importati.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-07/parlamento-presidente-governo-tunisia-opposizione.html

Esposto al pubblico il cippo ritrovato al Mausoleo di Augusto

Nell’ambito dei lavori di restauro del Mausoleo di Piazza Augusto Imperatore è stato rinvenuto un cippo di travertino con una scritta leggibile: si tratta di un cippo del pomerio, il “limite” sacro, civile e militare della città voluto da Claudio nel 49 d.C. Un raro reperto archeologico che riporta alle scelte di inclusione fatte dall’imperatore erudito, come sottolinea il direttore dei Musei Capitolini, Claudio Parisi Presicce

Fausta Speranza – Città del Vaticano

E’ stato presentato alla stampa all’Ara Pacis, oggi venerdì 16 luglio, il cippo dell’epoca dell’imperatore Claudio riportato alla luce circa un mese e mezzo fa nel corso degli scavi per la realizzazione del progetto di riqualificazione di piazza Augusto Imperatore a Roma. Presente il sindaco Virginia Raggi che ha sottolineato che nel corso del tempo, sono stati rinvenuti solo altri dieci cippi relativi all’epoca di Claudio e il più recente, fino ad oggi, è stato ritrovato nel 1909, dunque oltre 100 anni fa. Il cippo è da oggi visitabile in uno degli spazi dell’Ara Pacis ma al momento del completamento dei lavori sarà collocato all’interno del Mausoleo di Augusto.

Un rinvenimento d’eccezione

ll pomerio era il limite sacro che separava la città in senso stretto (urbs) dal territorio esterno (ager): uno spazio di terreno, lungo le mura, consacrato e delimitato con cippi di pietra, dove era vietato arare, abitare o erigere costruzioni e che era proibito attraversare in armi. Proprio per la sua importanza e per i suoi significati, veniva modificato molto raramente. Seneca, parlando dell’ampliamento effettuato da Claudio, menziona Silla come unico precedente. Tacito cita anche Giulio Cesare. Altre fonti ricordano ampliamenti di Augusto, Nerone,Traiano e Aureliano.

L’attestazione epigrafica e letteraria

L’impaginazione e la disposizione del testo conservato ricalcano quelle degli altri esemplari noti. Non si conserva il numerale seriale, che in tre casi compare sul fianco sinistro del cippo, e la parola pomerium, in due casi riscontrata sulla sommità. L’intervento sul pomerio effettuato da Claudio è l’unico attestato sia a livello epigrafico sia a livello letterario. Non solo. È l’unico menzionato nella lex de imperio Vespasiani, come precedente, nonché quello che apre il dibattito sui nomi degli autori di eventuali ampliamenti del pomerio. I rinvenimenti epigrafici, poi, testimoniano due interventi condotti da Vespasiano e Tito, nel 75 d.C., e da Adriano nel 121 d.C., che però sono completamente ignorati dalle fonti letterarie.

Ritrovato in loco

Il cippo di travertino rappresenta un tesoro archeologico di rilievo anche perché è stato ritrovato ancora infisso nel terreno, testimonianza precisa dello sviluppo dell’Urbe e del suo ampliamento. Grazie all’iscrizione, può essere ricondotto con assoluta certezza all’imperatore Claudio e, dunque, all’ampliamento del pomerio da questi effettuato nel 49 d.C., stabilendo il nuovo “limite” considerato all’epoca  sacro, civile e militare della città. L’eccezionalità del ritrovamento di questo cippo offre nuovi spunti di riflessione sul pomerio e anche sull’esistenza o meno dello ius proferendi pomerii, sulle valenze che allo “spazio” attribuivano i romani.

L’iscrizione

L’iscrizione non è completa ma a mancare sono solo le prime delle nove righe: si tratta proprio di quelle che invece risultano leggibili nei  frammenti degli altri cippi ritrovati. Dunque, è importante proprio che siano le altre righe ad essere visibili. La serialità del testo ufficiale inciso sui cippi permette di ricostruire la parte mancante. Claudio, secondo la formula di rito, viene ricordato con i suoi titoli e le sue cariche e rivendica l’ampliamento del pomerio, non menzionando territori conquistati, ma sottolineando l’allargamento dei confini del popolo romano. Ciò significa quindi allargamento del confine fisico, ma può indicare anche l’ingrandimento del corpo civico, con l’estensione della cittadinanza romana alle élites (primores) della Gallia. L’espressione è volutamente ambigua. In ogni caso, l’ampliamento del pomerio indica un allargamento della visione dell’Urbe. Claudio interviene sullo spazio della città attraverso un’azione che ha una forte valenza religiosa, politica e simbolica.

Sotto il segno dell’inclusione

L’autore dei cambiamenti si pone come “nuovo fondatore” della città. Ed è proprio questo che, con l’andamento segnato dai suoi cippi, fa Claudio, dopo la conquista della Britannia: rivendica l’ampliamento dei confini del popolo romano, in una visione articolata, che pur segnando il territorio non guarda solo ad esso, ma consente di comprendere sguardi politici, filosofia, strategia, perfino ambizioni, come spiega il direttore dei Musei Capitolini, Claudio Parisi Presicce:

Parisi Presicce ricorda che l’imperatore scrittore, storico e linguista, Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, così come definito anche in questa iscrizione, è stato il quarto imperatore romano appartenente alla dinastia Giulio-Claudia e il primo a nascere fuori dal territorio che corrisponderebbe oggi alla penisola italiana. È passato alla storia – spiega – come un abile amministratore, un grande patrono dell’edilizia pubblica, e un imperatore espansionista in politica estera: sotto il suo comando Roma ha conquistato la Britannia. Proprio l’espansione della cittadinanza romana – afferma – è stato uno dei motivi di critica e di forte dibattito all’interno del senato. Il cippo ritrovato e presentato è proprio un reperto del cosiddetto pomerio, il confine che Claudio ha voluto ampliare con risvolti non solo di tipo territoriale ma anche sociale: delimitava infatti gli ambiti della vita pubblica di Roma, della ritualità religiosa, dell’esercizio della magistratura, del potere militare.

Per il pubblico

Il direttore dei Musei Capitolini spiega ancora che il cippo, ritrovato in occasione di un approfondimento per la messa in opera del nuovo sistema fognario della piazza, da oggi si può ammirare nella Sala Paladino del Museo dell’Ara Pacis, dove si trova il calco della statua dell’imperatore Claudio, assicurando così la conservazione e consentendo al contempo la fruizione da parte del pubblico. La collocazione definitiva sarà – afferma – negli spazi museali del Mausoleo di Augusto non prima di un anno e mezzo.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-07/roma-archeologia-mausoleo-di-augusto-direttore-musei-capitolini.html

Multinazionali e minimum tax: primi decisivi passi

Dal G20 l’importante accordo sulla tassazione minima globale per le multinazionali. La strada per il varo dell’intesa, che al momento ha ottenuto il placet di 131 Paesi, è comunque lunga. All’Eurogruppo si è deciso di rimandare l’imposta sul digitale in Europa per procedere in modo congiunto con gli Stati Uniti. Il livello globale d’altra parte è quello migliore per assicurare regole nuove per modelli di business rivoluzionari, come sottolinea il presidente di Confassociazioni Angelo Deiana

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Sintonia tra Bruxelles e Washington nel segno del multilateralismo: al mattino di ieri 12 luglio, il G20 – che comprende i Paesi che rappresentano oltre il 90 per cento del Pil mondiale – si è chiuso con la raggiunta intesa per una tassa minima che le multinazionali dovranno pagare e una ripartizione degli utili fra i Paesi dove operano. Si parla di risultato storico anche perché in tutto, oltre a quelli del G20, sono 131 i Paesi che si dicono d’accordo. Washington è tra questi. Dei 7 Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (Ocse) che non hanno firmato l’intesa solo tre sono dell’Ue: Ungheria, Estonia e Irlanda e si lavora per convincerli. In Irlanda la tassazione è fissa al 12,5 per cento, si dovrebbe arrivare a una minimum tax del 15 per cento.

Strategie congiunte tra Ue e Usa

Intanto, nell’ambito dell’Eurogruppo, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e la presidente della Bce, Christine Lagarde, hanno incontrato sempre ieri, a pranzo, la segretaria al Tesoro Usa, Janet Yellen. Yellen rappresenta l’amministrazione Biden che è in linea con Bruxelles, ma ci sono resistenze al Congresso e dunque la von der Leyen ha spiegato che per procedere uniti si rimanda all’autunno la proposta di prelievo sul digitale. Sospesa, dunque, l’introduzione della tassa digitale ai colossi del web: la resistenza era dovuta al timore di un doppio prelievo con la tassazione minima globale, anche se l’Ue aveva pensato a un meccanismo per evitarla. La segretaria Usa al Tesoro dunque, è riuscita a ottenere il congelamento della Digital Tax alla quale stava lavorando la Commissione europea. Atteso per il 20 luglio, il piano è stato rinviato al prossimo autunno per evitare di intralciare la finalizzazione dell’accordo a livello globale. Si tratta di un rinvio ma a Bruxelles non si vuole abbandonare definitivamente lo strumento, nella convinzione che non ci sia alcun rischio di sovrapposizione con la global tax che ha ottenuto il via libera del G20 e dell’Ocse. Anche perché i proventi dovrebbero servire per finanziare una parte del debito comune contratto con il Next Generation EU. Le pressioni Usa si sono fatte sentire anche sui governi che hanno già introdotto una Digital Tax a livello nazionale, come l’Italia e la Francia. Ma i rispettivi governi non hanno alcuna intenzione di cancellarla, almeno fino a quando non sarà in vigore l’imposta globale.

Deiana: una questione molto complessa

Ma al di là dei tempi e delle priorità del contesto europeo e di quello globale, la questione è molto complessa, come spiega Angelo Deiana, presidente di Confassociazioni, la più importante Confederazione di associazioni dei servizi all’impresa e delle professioni innovative:

Deiana sottolinea, innanzitutto, l’importanza di aver avviato un processo che costituisce la base per stabilire misure fiscali su misura per le multinazionali che sfuggono a normative del passato. Mette in luce la complessità di tutto l’orizzonte tematico ricordando che le multinazionali non possono avere doppia imposizione di tasse e, dunque, bisogna comprendere dove fanno più utili e in quale Paese vanno tassati, per poi spiegare che in realtà la questione va ben oltre: si tratta di forme di business nuove che chiedono forme di pensiero nuove. L’idea di una minimum tax – che in Europa è stata definita Digital tax perché si tratta di aziende che viaggiano soprattutto nel digitale – teoricamente dovrebbe semplificare. Ma Deiana sottolinea che non è facile stabilire il tetto: si parla di aziende che fatturano oltre i 20 miliardi di euro o dollari ma è impensabile che chi fatturi 19 miliardi resti completamente esente. Inoltre, aggiunge, nel momento in cui si stabiisce una tassa minima bisogna rendersi conto che l’adeguamento sarà molto più facile per Paesi che prevedono tasse basse, mentre per chi viaggia con tassazioni più elevate potrebbe avere serie ripercussioni.

Urgente una legislazione all’altezza delle innovazioni

Deiana ribadisce come lo sforzo dell’Ue e dell’Ocse sia impegnativo e importante perché la sfida è davvero cruciale. Si tratta infatti di ragionare su prospettive nuove con regole nuove. Non si può pensare di affrontare l’orizzonte digitale, in cui la territorialità ha un peso completamente diverso dal passato, con regole antiquate. Deiana, dunque, mette in luce proprio l’urgenza di mettere in campo uno sforzo innovativo: bisogna capire, ribadisce, come tassare utili che sfuggono sostanzialmente ai criteri di territorialità ma che nello stesso tempo potrebbero poi rientrare – per contesti legislativi ancora in vigore – in meccanismi di incentivi fiscali che finirebbero per ridimensionare tante cose. Deiana tra l’altro chiarisce un punto significativo: alcune delle multinazionali in realtà non producono precisamente un livello alto di utili, piuttosto mettono in atto meccanismi di investimenti in strutture e logistica che creano di fatto “imperi” che attirano investitori in Borsa. E dunque è lì che creano “fatturati”. Anche per questo è difficile capire come assicurare forme di tassazione adeguate.

La minimum tax deve essere davvero globale

Il presidente di Confassociazioni ricorda l’impegno dell’Unione europea che da tempo studia una cosiddetta web tax o digital tax, ma poi chiarisce che l’impegno di Bruxelles è importante in quanto forma di stimolo, di pressione, per gli altri Paesi, perché si potrà davvero arrivare a concepire nuovi sistemi di fiscalizzazione solo a livello di Ocse. Anche lo stesso G20, secondo Deiana, può avere più un ruolo politico propulsivo che fattivo. E spiega che non solo l’ambito Ocse è importante perché coinvolge direttamente i suoi 38 Paesi membri e i 70 Paesi che non ne fanno parte ma che intrattengono con l’Ocse stretti rapporti, ma anche perché l’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa ha già avviato un processo importante in tema di trasparenza fiscale, anche se non è certo un processo compiuto: restano ancora alcuni cosiddetti paradisi fiscali. Dunque, è convinzione di Deiana, l’Ocse è la sede migliore per far maturare questo processo.

da Vatican NEWS del 13 luglio 021