Al G7 ministri in presenza per parlare di unità dell’Occidente

In vista del vertice dei leader a giugno, a Londra si confrontano i ministri degli Esteri del G7. Si prepara il terreno per una presa di posizione comune di fronte a sfide già note, aggravate dal peso delle conseguenze della pandemia, ma gli equilibri internazionali sono mutati, come spiega l’internazionalista Alessandro Colombo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Far fronte comune “fra società aperte e democratiche” e “dimostrare unità in un tempo nel quale è necessario contrastare le sfide che condividiamo, le minacce che si moltiplicano”. E’ l’invito rivolto dalla presidenza britannica del G7 all’apertura della prima sessione della riunione dei ministri degli Esteri dei 7 Paesi considerati più industrializzati e del capo della diplomazia Ue. L’incontro avviene un mese prima del vertice dei leader in Cornovaglia. Ad esprimerlo è stato il ministro degli Esteri britannico, Dominic Raab, nel suo messaggio di benvenuto alla Lancaster House di Londra.

Il vertice, in corso sino al 5 maggio prossimo, vede riuniti – di persona, non da remoto – i rappresentanti di Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, con l’Unione Europea presente in qualità di osservatore. Come Paese ospitante, Londra ha invitato altri ospiti all’incontro: Australia, India, Sud Africa, Repubblica di Corea e Brunei in qualità di presidente dell’ASEAN.

Delle tematiche da affrontare dopo un anno di emergenza pandemia abbiamo parlato con Alessandro Colombo, docente di Relazioni internazionali all’Università degli Studi di Milano:

Colombo ricorda che la pandemia ha concentrato l’attenzione di tutti e che ora nel primo vertice in presenza si cerca di recuperare praticamente sul tavolo il quadro delle questioni rimaste in sospeso. Il punto – spiega l’esperto di relazioni internazionali – è che il mondo non è affatto lo stesso, sono mutati alcuni equilibri determinanti e le società sono anche terribilmente appesantite dalle conseguenze della pandemia. Colombo cita questioni come la situazione in Siria e in Libia come alcuni degli scenari internazionali, che chiedono considerazione, ma sottolinea anche che difficilmente ci si potrà pronunciare andando oltre un confronto verbale. Si capisce – fa notare Colombo –  che c’è la tendenza a compattare il fronte dei Paesi democratici, che non significa esattamente e automaticamente parlare di multilateralismo.

In vista del vertice dei capi di Stato e di governo

Colombo parla di quanto sottolineato ieri dal segretario di Stato americano: “E’ necessario cercare di forgiare un’alleanza globale di Paesi amanti della libertà, non per tenere a freno la Cina, ma per assicurarsi che rispetti le regole”. Sottolinea che questo spiega l’approccio dell’attuale presidenza statunitense in tema di multilateralismo, inteso non solo come comunità internazionale, ma anche e soprattutto come alleanza tra democrazie. Il segretario di Stato americano, Tony Blinken, partecipa alla riunione dei ministri degli Esteri e dello sviluppo del G7 per gettare le basi in vista del vertice dei leader del G7 che si terrà a giugno in Cornovaglia, dove il presidente Usa, Joe Biden, ha annunciato l’intenzione di recarsi nel suo primo viaggio all’estero. Blinken ha detto che gli Stati Uniti non hanno “nessun alleato più stretto” e “nessun partner più stretto” del Regno Unito. Colombo ricorda che proprio l’alleanza con Washington era uno dei primi obiettivi del nuovo corso britannico fuori dall’Ue.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-05/londra-g7-stati-uniti-ministri-esteri-multilateralismo.html

Cento anni fa nasceva l’Irlanda del Nord

Nel 1921 si formava come entità politica lo Stato libero d’Irlanda, che ha visto poi sei contee settentrionali scegliere di rimanere sotto il Regno Unito. Un territorio che risente di vecchie e nuove difficoltà sociali, come sottolinea la giornalista Francesca Lozito, e che vive il processo ancora in parte in fieri della Brexit, come spiega Bepi Pezzulli esperto di giurisdizione commerciale

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il 3 maggio si ricordano i 100 anni dalla fondazione dell’Irlanda del Nord, territorio rimasto legato al Regno Unito al momento della nascita a sud dell’isola di una Repubblica indipendente. Prima di quell’anno, la storia dell’Irlanda del Nord coincide di volta in volta con quella delle varie tribù irlandesi e poi con quella del Regno Unito. È composta da sei contee delle nove che formano la regione dell’Ulster. La colonizzazione inglese in questa regione ha portato alla diffusione dell’anglicanesimo, mentre l’isola era stata – ed è rimasta nella Repubblica d’Irlanda – a grande maggioranza cattolica.

L’appello di Elisabetta II a difendere la riconciliazione

Un appello a difendere la pace, frutto “del coraggio e della visione di leader” lungimiranti, ma soprattutto “merito del popolo nordirlandese e precondizione di un futuro migliore”. Sono parole della regina Elisabetta II nell’anniversario della nascita dell’Irlanda del Nord. Un territorio “ricco d’identità, di retroterra e di aspirazioni”, ha detto la sovrana, riconoscendo le diversità, spesso conflittuali, di una realtà dove le tensioni sono tornate a impennarsi negli ultimi mesi. Sono alimentate dalle prospettive dei contraccolpi della Brexit e dalle difficoltà della pandemia. La regina ha elogiato sia quei leader ai quali sono stati “giustamente attribuiti la visione e il coraggio” che nel 1998, con gli storici accordi di pace del Venerdì Santo, permisero di “mettere la riconciliazione davanti alle divisioni”, sia la popolazione in generale. “Il mantenimento della pace è prima di tutto un merito del popolo (nordirlandese), sulle cui spalle il futuro riposa”, ha detto infatti Elisabetta II, invitando a cogliere l’occasione del 100esimo anniversario per “riflettere su una storia complessa” alla luce delle ragioni del “nostro stare insieme nella diversità” e rievocando in spirito di “amicizia” la visita compiuta a suo tempo assieme al principe consorte Filippo, scomparso di recente, per suggellare la pace del ’98.

La crisi dopo la Prima Guerra Mondiale

Nel 1918, al termine del primo conflitto mondiale, si acuirono le tensioni tra Irlanda e Regno Unito. Alle elezioni per il rinnovo del Parlamento, il nuovo partito irlandese ottenne 23 dei 30 seggi destinati ai rappresentanti dell’isola. Ma questi si rifiutarono di entrare nel Parlamento inglese di Westminster e ne formarono uno ritenuto da Londra fuorilegge, il Dàil Eireann. Questo proclamò l’indipendenza, che però non fu riconosciuta da nessun Paese. Iniziò la guerra d’indipendenza irlandese. Dopo anni di scontri, nel 1921 i rappresentanti del governo britannico ed i rappresentanti del parlamento ‘fuorilegge’ irlandese negoziarono la pace. In ambito internazionale fu riconosciuto uno Stato irlandese con il nome di Stato Libero d’Irlanda (in gaelico Saorstát Éireann, in inglese “Irish Free State”). Il nuovo Stato libero avrebbe dovuto coprire in teoria l’intera isola, ma le due parti concordarono che l’Irlanda del Nord, che era già diventata un’entità autonoma, potesse scegliere se rimanere sotto il Regno Unito: fu proprio questa la decisione di Belfast. Il Dáil Éireann approvò il trattato di pace.

I “troubles”

E’ scoppiata una guerra civile lunga trent’anni e nella quale sono morte 3.700 persone. L’Irlanda del Nord è stata al centro del drammatico confronto tra cosiddetti unionisti e lealisti passato alla storia delle cronache britanniche come “troubles”, concluso appunto con l’Accordo del venerdì Santo, il 10 aprile del 1998. Da allora si sono vissuti 23 anni di pace, mnetre dall’8 maggio 2007 si è insediato il nuovo Parlamento di Stormont.

Manifestazioni e proteste nel post Brexit

Dal 2 aprile per le strade di Belfast si sono registrati subbugli e e scontri tra folle violente di giovani. Si protesta per il disagio sociale. C’è tensione anche in vista dell’applicazione della Brexit. Il governo britannico viene accusato da alcuni di aver violato i suoi impegni con l’Irlanda del Nord. A gennaio un accordo sulla pesca è entrato in vigore provvisoriamente insieme al resto dell’accordo commerciale, prima del controllo da parte del Parlamento europeo e del loro consenso formale. Il governo britannico ha deciso di estendere i periodi di grazia sui controlli alla frontiera sulle merci in movimento tra il Regno Unito e l’Irlanda del Nord, una mossa criticata dalla Commissione Ue in quanto violazione dell’accordo di recesso e diritto internazionale. In tutto questo, ci sono le difficoltà per la pandemia e c’è in vista il voto. C’è molto malcontento come spiega la giornalista Francesca Lozito che da anni segue le vicende nordirlandesi:

Lozito innanzitutto sottolinea i problemi legati alla carenza di posti di lavoro e anche a un livello non alto di scolarizzazione di molti giovani. E poi ricorda che molti si sentono traditi da Londra. Secondo Lozito, infatti, la gente ha pensato che non ci sarebbero stati controlli doganali, “niente scartoffie”, ma poi di fatto le possibilità di lavoro hanno risentito di condizioni di incertezze. Lozito cita scioperi di aziende del settore navale. Ai fini pratici l’Irlanda del Nord è ancora nell’Ue, con un confine doganale tra di essa e il resto del Regno Unito. I lealisti soprattutto si sentono abbandonati. Un altro elemento di scontentezza al momento attuale – afferma Lozito – è dato dal ritardo nelle vaccinazioni in Irlanda del Nord rispetto al Regno Unito.

Un’economia segnata dalla Brexit e dalla pandemia

L’Irlanda del Nord è stata la regione più ricca dell’isola e Belfast ha rappresentato un porto privilegiato per i traffici con Scozia ed Inghilterra. Oggi vive la fase di transizione in seguito alla Brexit, come spiega Bepi Pezzulli, esperto di giurisdizione commerciale:

Ascolta l’intervista con Bepi Pezzulli:

Pezzulli ricorda che al momento della Brexit stabilire i nuovi controlli sulle merci e sull’immigrazione nel posto più ovvio, al confine tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda, avrebbe fatto naufragare l’accordo del Venerdì Santo. Quindi il premier di Londra, Boris Johnson, ha trovato una soluzione: si è fissato il nuovo confine nel mare d’Irlanda tra la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord. Sembra solo una questione formale, ma per alcuni aspetti l’Irlanda del Nord è ancora nell’Ue, con un confine doganale tra di essa e il resto del Regno Unito. Questo rappresenta una situazione che in qualche modo è in evoluzione, in via di una più precisa definizione. Ma di fatto – afferma Bepi Pezzulli – la Brexit, che sembrava impossibile da realizzare, è diventata una realtà e ha portato con sé riscontri positivi nei dati macroeconomici.

da Vatican NEWS del 3 maggio 2021

 

La speranza di giovani musicisti che sfida la pandemia

La creatività di 60 giovani artisti di 24 città del mondo vince i lockdown: hanno organizzato il Nextus Festival, iniziativa on line che li vede suonare insieme nei fine settimana fino al 9 maggio in concerti che sono qualcosa di più di semplici dirette streaming. Un motivo di rinnovata fiducia in tempi difficili, come spiega il soprano Danae Eleni

Fausta Speranza – Città del Vaticano

60 artisti, 28 nazionalità, 24 città di diversi continenti: sono i numeri del Nextus Festival, che, dal 17 aprile al 9 maggio 2021, offre in ogni weekend musica on line. Un’iniziativa diversa da tante altre perché non si tratta di concerti registrati riproposti in streaming ma di un evento realizzato insieme.

La musica scommessa di speranza

In contatto da San Francisco a Istanbul, da Varsavia a Trieste, giovani musicisti durante il blocco causato dalla pandemia hanno deciso di creare qualcosa di unico: una sinergia internazionale che supera le differenze di lingua e cultura per offrire qualcosa dell’universalità della musica. Il prezzo dei biglietti varia a seconda del numero di eventi che si vuole seguire. E’ un prezzo basso e simbolico che può aiutare giovani musicisti in un momento difficilissimo in cui sono state chiuse le sale di concerti così come i teatri. Abbiamo intervistato una delle concertiste il soprano Danae Eleni, che vive a Varsavia e parla diverse lingue tra cui l’italiano:

Innanzitutto Danae sottolinea il significato del nome scelto: Nextus Festival significa in italiano Il Festival vicino a noi. Danae, che è di nazionalità inglese, di origine greca, nata in Bahrein e che attualmente vive in Polonia, sottolinea il valore del carattere internazionale dell’iniziativa, spiegando che a parte alcune differenze tutti i giovani musicisti del mondo si sono ritrovati ad attraversare le stesse difficoltà per le chusure imposte dalla lotta al coronavirus. Il soprano afferma subito con semplicità che questa esperienza le ha dato speranza. In un tempo di difficoltà lavorative per tutto il comparto artistico – sottolinea – riuscire a realizzare questa proposta  attraverso la bellezza della musica assicura un piccolo introito agli artisti ma soprattutto dà l’opportunità di non stare fermi davvero. E in particolare – spiega – emerge tutto il valore universale della musica: non c’è problema di comprensione ma solo tanta bellezza che contagia portando speranza.

Un progetto da far sopravvivere oltre la pandemia

Danae spiega lo spessore assolutamente internazionale dell’iniziativa sottolineando come rappresenti anche una porta aperta, una eccezionale occasione di contatto, di scoperta di giovani colleghi in varie parti del mondo. E in questo senso spiega che la speranza è anche quella di vedere frutti di questi incontri anche dopo che l’emergenza pandemia sarà passata. Un frutto di bene tra tanto dolore e difficoltà per tutti. Nell’impossibilità di citare tutti gli artisti, ricorda alcuni di loro che sono anche impegnati personalmente a curare l’ufficio stampa e l’organizzazione del Festival: Olga Rodon dalla Spagna, Benjamin Hewat-Craw dalla Germania, Susanne Hehenberger dall’Austria, Myroslava Khomik dagli Stati Uniti. Gli stessi artisti infatti hanno ideato e curano tutto lo svolgimento degli eventi.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-04/musica-festival-pandemia-giovani-speranza-paesi-del-mondo.html

70 anni fa la scommessa di pace in Europa: nasceva la Ceca

All’indomani della disastrosa seconda guerra mondiale, leader illuminati del vecchio continente firmavano il trattato che vincolava tra loro sei Paesi in tema di produzione di materie prime essenziali all’industria bellica: per escludere altre guerre nasceva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Non è stato solo un accordo economico ma l’atto fondativo di una struttura istituzionale, come sottolinea l’economista Paolo Guerrieri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il 18 aprile 1951 si firmava il Trattato di Parigi che istituiva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) su iniziativa dei politici francesi Jean Monnet e Robert Schuman, del  cancelliere tedesco Konrad Adenauer e del primo ministro italiano Alcide De Gasperi. Lo scopo dichiarato era di mettere in comune le produzioni di due materie prime importanti  in un’Europa di sei Paesi: Belgio, Francia, Germania ovest, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Dopo la storica Dichiarazione di intenti unitari di Robert Schuman nel 1950, la nascita della Ceca veniva avviata come il passo iniziale di un processo federale europeo. Si è trattato di un passo decisivo e coraggioso come spiega l’economista, docente in diversi atenei internazionali, Paolo Guerrieri:

Si apriva l’orizzonte di integrazione europea

Guerrieri ricorda che la proposta della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, ideata da Jean Monnet e annunciata da Robert Schuman, allora ministro degli Esteri francese, fu rapidamente accettata da tutti i Paesi che ratificarono il Trattato in meno di un anno. Entrò in vigore il 23 luglio 1952. Di fatto, la Ceca è stata l’istituzione che ha precorso la strada del Trattato di Roma del 1957, con il quale è stata costituita la Comunità economica europea, divenuta Unione europea nel 1992. Ma soprattutto Guerrieri sottolinea che, proprio in  occasione della firma della Ceca nel 1951, tra gli Stati membri, vennero sottoscritti anche una serie di protocolli collaterali sui privilegi e le immunità della Comunità che si stava creando, sullo statuto della Corte di Giustizia e del Consiglio d’Europa. Si è trattato  -afferma Guerrieri – di dar vita in nuce a forme istituzionali fondamentali per quella che sarebbe divenuta l’attuale Unione europea.

Una scelta economica come strategia politica

La scelta del settore carbo-siderurgico – afferma Guerrieri –  era giustificata da molti fattori: innanzitutto la posizione dei principali giacimenti delle risorse, situati in una zona di confine piuttosto ampia tra Francia e Germania, (bacino della Ruhr, Alsazia e Lorena) zona tra l’altro oggetto di numerosi e sanguinosi conflitti in passato e di lunga contesa. Inoltre l’oggetto dell’accordo era una risorsa fondamentale per la produzione di armamenti e materiale bellico, che impediva un riarmo segreto quindi a entrambe le nazioni coinvolte. Dietro l’aspetto puramente economico, dunque, – ribadisce l’economista – si nascondeva la volontà di riunire i vecchi nemici ancora sconvolti dagli orrori della seconda guerra mondiale, controllando la produzione del carbone e dell’acciaio che erano le materie prime dell’industria bellica. In sostanza, avveniva quello che fino ad allora sarebbe stato impensabile: il rinvio della politica specifica di ciascuno stato alla comunità nascente, con una parziale abdicazione della propria sovranità in quel limitato settore. E Guerrieri mette in luce proprio questo fattore estremamente signficativo: da tale specificità nasce la struttura della comunità come organismo sovranazionale.

Le adesioni e i vincoli

Il trattato instaurò un mercato comune del carbone e dell’acciaio – spiega Guerrieri – abolendo le barriere doganali e le restrizioni quantitative che frenavano la libera circolazione di queste merci; soppresse nello stesso modo furono tutte le misure discriminatorie, aiuti o sovvenzioni che erano accordati dai vari Stati alla propria produzione nazionale. Il principio di libera concorrenza permetteva il mantenimento dei prezzi più bassi possibili, pur garantendo agli Stati il controllo sugli approvvigionamenti. Il mercato venne aperto il 18 febbraio 1953 per il carbone ed il 1º maggio dello stesso anno per l’acciaio. Oltre a Francia e Germania, erano interessati pure gli Stati del Benelux, anch’essi produttori di carbone ed acciaio, oltre che Stati confinanti delle due nazioni principali e ovviamente interessati dalla risoluzione di conflitti franco-tedeschi. Secondo Gurrieri, è innegabile che in quella fase storica è stata la Germania che era uscita sconfitta dalla guerra e che aveva puntato moltissimo sull’industria siderurgica a fare il salto più coraggioso, anche se in realtà si trattava di una grande novità per tutti.

Il no del Regno Unito

Al momento dei colloqui preparatori e poi ancora un anno dopo, al momento dell’entrata in vigore, Londra oppose il proprio rifiuto di partecipare. Guerrieri si sofferma su quella scelta ricordando che poi nel 1973, dopo anni che definisce di “anticamera”, il Regno Unito entrò a far parte dell’avventura di integrazione europea, anche se mantenne sempre uno status sui generis. Poi già negli anni Ottanta – puntualizza Guerrieri – all’epoca del governo di Margareth Thatcher è cominciato un processo di revisione critica della decisione, che nel 2016 è sfociato nel referendum sulla Brexit.

L’obiettivo dell’Italia

L’economista Guerrieri prendendo in considerazione in particolare l’Italia, ricorda come il Paese non fosse particolarmente interessato alla produzione di due materie prime in cui non si distingueva affatto, e inoltre il Paese era assai distante dalla zona interessata dall’Accordo, confinando soltanto con uno degli Stati membri, la Francia, ma in una regione completamente differente. Ma – chiarisce Guerrieri – Alcide De Gasperi, riteneva la futura Ceca un ottimo sbocco per rinvigorire la disastrata economia italiana e reinserire il Paese nelle situazioni politiche ed economiche internazionali, distaccandosi totalmente da altri Stati, fra tutti il Regno Unito, che rifiutavano in toto il progetto non ritenendolo conforme agli interessi e alle aspettative nazionali. Ciò – prosegue – diversificò la struttura della nuova comunità e di quelle che nasceranno di lì a poco nel 1957 (Euratom e Cee): non precisamente comunità internazionali, ma comunità dotate di poteri propri e propria assemblea munita di poteri consultivi e di controllo politico, pur se nel settore particolare di ciascuna.

Celebrazioni all’insegna dell’impegno per il futuro

Oggi i ministri degli Esteri e i sottosegretari per gli Affari Europei dei sei Paesi fondatori dell’Ue hanno celebrato i 70 anni del Trattato Ceca, indicando anche le priorità sugli sforzi comuni per contrastare i cambiamenti climatici e mettere la transizione ecologica al centro dell’economia europea. Nella dichiarazione finale i sei Paesi hanno chiesto un green deal europeo ambizioso per il clima, equo e inclusivo per tutti gli Stati membri e che metta l’Europa al centro della diplomazia internazionale per il clima e l’energia pulita.

In questi giorni l’avvio della Conferenza sul futuro dell’Europa

Lunedì alle 13.00, in conferenza stampa da Bruxelles, i copresidenti del comitato esecutivo presenteranno la nuova piattaforma digitale della Conferenza sul futuro dell’Europa, avviata dalle istituzioni Ue il 10 marzo 2021 per progettare un’Europa all’altezza dei tempi. La piattaforma digitale è in sostanza uno spazio multilingue online per raccogliere i contributi dei cittadini che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha assicurato che “saranno ascoltati per poi agire”.

 

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-04/ceca-carbone-acciaio-accordo-paesi-europei-unione-europea.html

Violenze, sfollati, traffici illeciti in Mozambico

Aumenta il numero di profughi nella Repubblica dell’Africa meridionale protagonista del famoso accordo di pace nel 1992. A destabilizzare è la violenza – quotidiana a parte gli episodi più gravi come l’attentato del 24 marzo – provocata da gruppi armati nel nord del Paese. Jihadismo e interessi per nuovi giacimenti di gas si intrecciano, come spiega Luca Mainoldi, dell’agenzia Fides

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Migliaia di civili cercano rifugio a Nangade, Mueda, Montepuez, località a nord del Mozambico. L’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), impegnata a cercare di prestare assistenza, conferma che si tratta per la maggior parte di donne e bambini. Certamente l’ultima ondata di queste settimane risente dell’attacco nella città costiera di Palma che, il 24 marzo scorso, ha provocato almeno 12 vittime, tutte decapitate. Ha costretto alla fuga almeno 11.000 persone, con altre migliaia che sono rimaste intrappolate all’interno dell’area, secondo quanto dichiarato dal portavoce dell’Unhcr Babar Baloch. Da Palma si è cominciato a fuggire, ma di fronte al dilagare delle violenze è diventata anche una cittadina di accoglienza come altre della costa. Palma conta almeno 100.000 abitanti, di cui la metà sono profughi. Negli ultimi tre anni di terrore si sono registrati 700.000 sfollati e 2.500 morti. Nel 2019 il viaggio apostolico di Papa Francesco in Mozambico.

Protagonisti di violenze

Nell’ultimo rapporto di Amnesty International, il Mozambico compare accanto all’Etiopia, dove si combatte nella regione del Tigray, e la Nigeria dove da anni si registrano le efferate violenze del gruppo terroristico Boko Haram. A rivendicare gli attacchi e gli attentati in Mozambico sono gruppi che si rifanno agli Al Shabaab, tristemente noti in Somalia, ma anche al sedicente Stato islamico. Della matrice terroristica che opera nel nord del Mozambico e degli interessi economici legati alla scoperta di giacimenti di gas naturale e di traffici di stupefacenti ci parla Luca Mainoldi, giornalista dell’agenzia Fides:

Luca Mainoldi ricorda innanzitutto la condizione generale di povertà e malcontento, spiegando che dal 1975 è al governo lo stesso partito e che la popolazione denuncia stagnazione e corruzione. Il giornalista esperto di Africa sottolinea che al nord, in prevalenza musulmano, le condizioni sono di maggiore indigenza. In questo contesto hanno preso sempre più piede, da tre anni e in particolare negli ultimi dodici mesi, miliziani che rivendicano un’appartenenza al gruppo degli Al Shabaab e  collegati con la rete del sedicente Stato islamico. Mainoldi spiega che può trattarsi anche di propaganda ma che in ogni caso l’ultimo attentato il 24 marzo a Palma ha dimostrato una sorta di salto di qualità nell’organizzazione.

Interessi e traffici oltre i confini

Il giornalista poi apre due orizzonti di comprensione delle forti tensioni: il primo è quello dei nuovi giacimenti di gas naturale e di petrolio che – spiega – sono stati ritrovati in mare al largo delle coste del nord; il secondo è quello dei traffici di stupefacenti che – afferma – vengono denunciati sia al sud che al nord. Spiega che al sud si tratta soprattutto di carichi di cocaina che dal Brasile transitano in Mozambico per dirigersi in Europa, mentre al nord si tratta per lo più di eroina che dal sudovest asiatico arriva sul territorio mozambicano per dirigersi sempre al Vecchio Continente. Si tratta di contesti in cui sembrano prendere sempre più potere gruppi criminali, al di là della matrice dichiarata.

La necessità di ulteriori finanziamenti ai progetti Unhcr

L’Unhcr denuncia anche che ad oltre 1.000 persone che, in fuga dal Mozambico, cercavano di entrare in Tanzania non è stato permesso di attraversare il confine. L’Unhcr ha chiesto ai Paesi vicini al Mozambico di garantire accesso a coloro che fuggono dalla violenza e sta mettendo in atto misure per far fronte a nuovi arrivi. In questo contesto, “sono assolutamente necessarie più risorse poiché la mancanza di fondi sta ostacolando la nostra risposta umanitaria”, ha detto il portavoce. Poco meno del 40% dell’appello delle Nazioni Unite di 19,2 milioni di dollari per la crisi è finanziato.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-04/mozambico-africa-pace-violenza-droga-terrorismo-gas-naturale.html

Pio XII e l’idea di mondo occidentale

Va ristudiato il contributo che gli anni del Pontificato che ha attraversato la seconda guerra mondiale hanno offerto per l’elaborazione di un approccio peculiare alla realtà sociopolitica internazionale e al concetto di democrazia. Per questo è nato il progetto Occidentes che coinvolge quattro Università, come raccontano gli storici don Roberto Regoli della Gregoriana e Paolo Valvo della Cattolica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Non è facile parlare oggi di Occidente senza cadere in formule stereotipate, semplicistiche, retoriche e ideologiche. Ci si accorge che per poterlo fare serve una storicizzazione del concetto di Occidente. Tutto riporta al dramma del secolo scorso: il conflitto mondiale e poi il mondo diviso dalla cortina di ferro che ha portato a una divisione tra un’Europa dell’Ovest sotto l’ombrello di protezione statunitense, nel cui contesto ha preso il via il processo d’integrazione europea, e un’Europa dell’Est egemonizzata dall’Unione Sovietica.

La Chiesa che ha resistito a un pensiero omologante

Negli anni del pontificato di Pio XII, dal 1939 al 1958, si distingue, tra visioni omologanti, quella della Chiesa cattolica che, nelle sue varie articolazioni, assicura una significativa pluralità di approcci, in Europa come nelle Americhe, contribuendo a mantenere viva la dialettica tra idee e modelli differenti di “Occidente”. Ne abbiamo parlato con don Roberto Regoli, direttore del Dipartimento di Storia della Chiesa dell’Università Gregoriana:

Lo storico ci spiega che l’idea di Occidente, non diversamente dall’idea di Europa (che della prima ha parzialmente condiviso la traiettoria), è stata oggetto fin dall’antichità delle più diverse interpretazioni, che hanno tentato di definirne estensione e limiti tanto sul piano territoriale quanto su quello culturale, in un crescendo di complessità soprattutto a partire dalla scoperta del Nuovo Mondo americano. Se all’inizio del XX secolo il ricorso sempre più frequente al concetto di “Occidente” è stato funzionale a legittimare l’ideale passaggio di testimone dall’Europa agli Stati Uniti come guida morale di quello che per comodità si può chiamare “mondo occidentale”, all’indomani della seconda guerra mondiale i processi di interconnessione economica, politica, culturale e sociale che hanno attraversato quello stesso mondo hanno contribuito a plasmare un’idea di Occidente come entità organica, animata dai medesimi valori di fondo (come la forma democratica dello Stato e un modello di sviluppo economico di tipo capitalistico), alimentando un immaginario che è andato rafforzandosi nei decenni della Guerra Fredda. Negli stessi anni va citata la nascita dello Stato d’Israele, sottolineando che nel 1948 ridefinisce una volta di più i confini territoriali dell’Occidente, creando un avamposto di grande valore simbolico in una delle sorgenti storiche e ideali della cultura europea, Gerusalemme. Un evento non senza tensioni con le comunità cristiane presenti da millenni nel Medio Oriente che aiuta a capire come l’Occidente non sia un concetto territoriale.

La peculiarità del mondo cattolico

Don Regoli ricorda l’insistenza su un’idea di democrazia sostanziale e di partecipazione che a partire dal pontificato di Pio XII ha cominciato a caratterizzare la riflessione e l’azione del mondo cattolico, citando le diverse esperienze di “democrazie cristiane”. In particolare spiega che si può parlare di una visione di tipo personalista da cui è derivata, in seguito, anche l’apertura alla dimensione della libertà religiosa e dei diritti dell’uomo in sede conciliare. Da un altro punto di vista, aggiunge, si può sottolineare l’atteggiamento critico nei confronti del sistema capitalistico, che ancora durante il pontificato pacelliano – in continuità con l’elaborazione dottrinale dei pontificati precedenti – ha portato a coltivare in alcuni casi, specialmente in America Latina, il disegno di una “terza via” tra capitalismo e collettivismo, destinato a lasciare spazio a tentativi più realistici di umanizzare l’economia di mercato. Peraltro, nell’emisfero occidentale il rapporto con il mondo statunitense, in particolare con le ambizioni globalizzanti e la radice protestantica della sua cultura liberale, viene vissuto dalla Santa Sede, che con gli Stati Uniti condivide l’impegno contro la diffusione del comunismo, non senza momenti di tensione dialettica in quanto entrambi rivendicano il ruolo di interprete autentico delle istanze della civilizzazione occidentale.

Le sovrapposizioni che non aiutano

Don Regoli ci spiega che l’impossibilità di una piena identificazione tra Occidente cristiano e Occidente capitalistico risalta con ancora maggior evidenza in America Latina, dove l’influenza culturale, politica e anche religiosa degli Stati Uniti stimola – come reazione da parte di settori rilevanti del cattolicesimo locale – la ricerca di nessi ideali con altri modelli di civiltà occidentale, diversi da quello statunitense: in proposito vanno sottolineati i richiami esercitati dal franchismo e dall’Estado Novo salazarista rispettivamente sull’America ispanica e sul Brasile. Per altro verso, nel subcontinente prende corpo negli anni di Pio XII anche un ideale “neo-bolivariano” di integrazione continentale, che trova nei prodromi del processo d’integrazione europea un importante termine di paragone. Anche la risposta di Pio XII alle complesse sfide pastorali e sociali della regione, sottolinea don Regoli, sembra unire alla collaborazione tra le Chiese locali e il cattolicesimo statunitense un approccio teso a valorizzare la specificità del subcontinente: di questo approccio sono espressione la nascita del Consejo Episcopal Latinoamericano (CELAM), la cui Conferenza Generale si riunisce per la prima volta a Rio de Janeiro nel 1955, e la fondazione della Commissione per l’America Latina (1958). A questo proposito don Regoli ricorda che la collaborazione più volte invocata nei pontificati precedenti tornerà di attualità sullo sfondo dell’Alliance for Progress lanciata nel 1961 da John F. Kennedy.

La singolarità dei regimi autoritari in Spagna e Portogallo

In un contesto largamente dominato dalla dinamica bipolare, un significativo elemento di continuità con l’assetto prebellico è rappresentato dai regimi autoritari di Spagna e Portogallo, come ricorda, affrontando altri punti nodali, l’altro storico impegnato in prima linea nel progetto Occidentes, Paolo Valvo, ricercatore di Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano:

Valvo ricorda che nelle intenzioni i regimi in Spagna e in Portogallo continuano a incarnare quell’ideale di “Stato corporativo cattolico” su cui negli anni Trenta hanno riflettuto non pochi cattolici occidentali, inclusi quelli che dopo il 1945 sono diventati protagonisti della ricostruzione democratica nei rispettivi Paesi.  Valvo spiega che in questo contesto si ragiona soprattutto in termini di idealità, senza però tralasciare di fare i conti con i risvolti repressivi di tali regimi e con l’attitudine mostrata in proposito dal mondo cattolico di riferimento.  Valvo sottolinea che si tratta di una molteplicità di aspetti da considerare e che proprio per questo è utile che ci sia lo scambio e il contributo tra diversi studiosi, non solo di diversi atenei e Paesi ma anche di diverse displipline. Un comune obiettivo di ricerca storica, infatti, riunisce le competenze scientifiche di quattro atenei: Università Cattolica del Sacro Cuore, Pontificia Università Gregoriana, Universidad de Navarra, Universidade Católica Portuguesa. A questo proposito Valvo sottolinea che il progetto si avvale di un ampio spettro di prospettive metodologiche – dalla global history alla storia economica e sociale, dalla storia delle relazioni internazionali alla storia del pensiero – e si sofferma sull’importanza di una sinergia tra i rispettivi sforzi di ricerca, spiegando che c’è apertura fin da ora anche al contributo futuro di altri studiosi. E’ evidente come il fatto che il lavoro dei singoli ricercatori sia inserito in un orizzonte internazionale rappresenti un valore aggiunto. Valvo spiega che i risultati dello studio e della collaborazione tra atenei diversi e Paesi diversi saranno comunicati in via preferenziale attraverso seminari di approfondimento periodici, anche a distanza, e attraverso pubblicazioni scientifiche (monografie, articoli in rivista e volumi collettanei), privilegiando dove possibile l’open access. Per ogni ambito tematico è prevista inoltre l’organizzazione di un convegno internazionale che potrà svolgersi presso una delle Università partecipanti.

L’apertura degli archivi vaticani che rende possibili le ricerche

Valvo ricorda che il 2 marzo 2020 l’Archivio vaticano ha messo a disposizione degli studiosi le carte del periodo di Pio XII, offrendo così un’occasione preziosa per quanti intendano approfondire criticamente le idee di “Occidente” e di “civiltà” che il cattolicesimo occidentale – europeo, nordamericano e latinoamericano – ha consapevolmente o inconsapevolmente veicolato lungo il pontificato di Papa Pacelli, nei più diversi ambiti. Il punto è che diventa preziosa la possibilità di fare rete tra istituzioni accademiche riconosciute nel panorama internazionale che, nel quadro di una collaborazione stabile e nel rispetto della più ampia libertà di ricerca scientifica, possano condividere e integrare le rispettive competenze per aprire itinerari di studio originali e interdisciplinari.

da Vatican NEWS del 13 aprile 2021

 

Resta viva la lezione di fede e di amore di padre Giorgio Abram

E’ intenso, in quanti lo hanno conosciuto il ricordo di padre Giorgio Abram, medico missionario in Ghana per 45 anni, vittima del Covid-19. La sua competenza e la sua straordinaria umanità emergono in un’intervista realizzata nel 2014 che riproponiamo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A un mese dalla morte in Ghana, padre Giorgio Abram, simbolo della lotta alla lebbra e del dialogo interreligioso vissuto nei fatti, viene ricordato in questi giorni con momenti di preghiera nel Paese africano dove ha vissuto per oltre 45 anni e in Italia, in particolare a Trento, nella comunità della parrocchia di Cristo Re, alla quale era molto legato per motivi familiari. Frate francescano conventuale, missionario, ma anche medico, è stato portato via dal Covid-19 il 6 marzo scorso all’età di 77 anni. Due mesi fa era venuto in Italia per salutare il fratello, padre Giuliano, anche lui conventuale e anche lui vittima della pandemia. Tornato in Ghana, ha contratto il coronavirus ed è stato assistito in un ospedale militare italiano, ma non ha superato l’ennesima crisi.

Grande competenza sul piano sanitario e straordinaria disponibilità umana

Laureato in medicina, ha dedicato tutta la sua vita alla lotta contro la lebbra e ad altre patologie della pelle, in particolare alla malattia definita “ulcera del Buruli”, che colpisce soprattutto i bambini. Nel 1977 ha fondato la Ialo, organizzazione internazionale per il coordinamento del lavoro di lotta contro la lebbra, impegnata prima in Ghana, poi nei Paesi limitrofi e anche in Vietnam. La competenza del missionario è stata riconosciuta a livello internazionale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Nel 2014, abbiamo incontrato il religioso a Tagoradi, il centro da lui avviato nella provincia occidentale del Ghana per la cura della lebbra e non solo. Riproponiamo l’intervista  realizzata allora con padre Giorgio Abram, nell’ambito del reportage televisivo intitolato “Il Ghana tra vecchie e nuove schiavitù” andato in onda su Tv 2000, ricordando la sua affabilità discreta, il suo entusiasmo di fede,  tutto l’amore che la popolazione del luogo esprimeva nei suoi confronti:

Padre Abram ci ha parlato del suo impegno in tema di lebbra, un morbo che grazie proprio anche allo studio e al suo impegno non fa più paura nello Stato africano. Padre Abram ci ha spiegato nell’intervista che,  quando Ialo veniva istituita nel 1977, si registravano 50 mila casi all’anno e che la mortalità era molto alta, per poi sottolineare che si è passati ai poco più di ottocento casi censiti negli ultimi anni e peraltro guariti. Ha raccontato qualcosa del suo impegno a scoprire terapie efficaci, a ristrutturare centri di riabilitazione, ad avviare corsi per medici e infermieri per la cura del morbo e a fondare due ospedali. Le sue sono parole di profondo amore per il prossimo, sono la testimonianza di un impegno missionario vissuto curando persone di altre fedi o convinzioni religiose di cui ha raccontato curiosità e fragilità. E poi c’è la gioia espressa per l’arrivo di Papa Francesco, per la scelta preferenziale nei confronti delle periferie del mondo, al centro della scelta di vita esemplare del missionario padre Giorgio, che lascia frutti importanti in Ghana e nella Chiesa.

In un libro alcuni racconti

Nel 2015 padre Abram ha dato alle stampe il libro “Quattro gatti senza storia” con sottotitolo “Riflessioni semiserie di un missionario” (Edizioni Messaggero, Padova): 54 racconti brevi dai quali emergeva tutta la sua carica di umanità, con tratti di acuta ironia, e la profonda fede che hanno contraddistinto una vita donata senza mezze misure ai più poveri.

da Vatican NEWS del 12 aprile 2021

 

 

Sette anni fa in Siria l’eccidio di padre Frans van der Lugt

E’ vivo il ricordo del gesuita olandese, padre Frans van der Lugt, massacrato in Siria il 7 aprile del 2014. Aveva 75 anni e da oltre 50 viveva nel Paese del Vicino Oriente che in quel momento, oltre alla guerra scoppiata nel 2011, soffriva l’efferata violenza dei miliziani del sedicente Stato islamico. Le parole del Papa nei giorni dell’uccisione

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Rapito, picchiato e ucciso davanti alla residenza della Compagnia di Gesù della città siriana di Homs. Padre Frans van der Lugt viveva in Siria dal 1966. Psicoterapeuta di formazione, uomo e religioso del dialogo, aveva avviato il progetto Al Ard (“la terra”), un centro di spiritualità per ragazzi con handicap mentali.

Resta vivo l’impegno del gesuita

Oggi quattro confratelli vivono nella casa in cui padre Frans è stato assassinato il 7 aprile 2014 e dove è sepolto. Strade ed edifici intorno alla comunità sono stati in questi anni seriamente danneggiati, ma i gesuiti hanno organizzato vari incontri e corsi seguiti da decine di giovani e di adulti. E molte persone vanno a pregare sulla  tomba di padre Frans conosciuto e apprezzato da cristiani e da musulmani.

L’appello del Papa

In Siria, il religioso olandese aveva vissuto in un monastero nella città vecchia di Homs, denunciando spesso la mancanza di medicinali, viveri e aiuti per la comunità sotto assedio e chiedendo con urgenza un accordo per intervenire in favore dei civili malati, stremati, affamati. All’udienza generale del 9 aprile 2014, Papa Francesco lo ricordava con queste parole:

“Ad Homs, in Siria, è stato assassinato il Rev.do P. Frans van der Lugt, un mio confratello gesuita olandese di 75 anni, arrivato in Siria circa 50 anni fa, che ha sempre fatto del bene a tutti, con gratuità e amore, e perciò era amato e stimato da cristiani e musulmani. La sua brutale uccisione mi ha riempito di profondo dolore e mi ha fatto pensare ancora a tanta gente che soffre e muore in quel martoriato Paese, la mia amata Siria, già da troppo tempo preda di un sanguinoso conflitto, che continua a mietere morte e distruzione. Penso anche alle numerose persone rapite, cristiani e musulmani, siriani e di altri Paesi, tra le quali ci sono Vescovi e Sacerdoti”.

Dopo il ricordo, l’appello:

“Di cuore vi invito tutti ad unirvi alla mia preghiera per la pace in Siria e nella regione, e lancio un accorato appello ai responsabili siriani e alla comunità internazionale: per favore, tacciano le armi, si metta fine alla violenza! Non più guerra! Non più distruzione! Si rispetti il diritto umanitario, si abbia cura della popolazione bisognosa di assistenza umanitaria e si giunga alla desiderata pace attraverso il dialogo e la riconciliazione. Alla nostra Madre Maria, Regina della pace, chiediamole che ci dia questo dono per la Siria”.

Il dramma di anni di atrocità dell’Is tra Siria e Iraq

Sarebbe lungo l’elenco di persone che sono rimaste vittime della brutalità dei miliziani del sedicente Stato islamico (Is),  negli anni in cui erano risusciti ad ottenere il controllo di un vasto territorio tra la Siria e l’Iraq. Nell’ambito della guerra scoppiata in Siria dieci anni fa, il cosiddetto Califfato si colloca tra il 2014 e il 2018 circa, quando ne è stata decretata la sconfitta. Restano sacche di miliziani, ma i territori sono stati tutti riconquistati.  In quegli anni, mentre in Europa imperversavano anche gli atti di terrorismo rivendicati da uomini affiliati all’Is, la violenza non ha risparmiato nessuno e spesso è stata tragicamente e disumanamente esibita – ci sono stati per esempio 18 militari dell’esercito siriano e stranieri trucidati davanti alle telecamere – ma in particolare i terroristi dell’Is si sono accaniti contro le minoranze.

Persecuzioni contro i cristiani

Nel 2014 un’intera diocesi cristiana nella Piana di Ninive è stata sradicata dai miliziani dell’Is. In una notte di agosto, l’arcivescovo, 34 sacerdoti, 50 suore e più di 45 mila fedeli sono stati costretti a lasciare tutto per rifugiarsi in Kurdistan. In questi anni sono stati migliaia i cristiani fuggiti dalle zone di guerra, particolarmente dalle province di Aleppo, Homs, Daraa e Hassakeh. Nell’impossibilità di ricordare tutte le vittime, citiamo l’arcivescovo greco ortodosso di Aleppo, Boulos Yazigi e quello siro ortodosso, Mar Gregorios Yohanna Ibrahim, che sono stati rapiti nell’aprile 2013 nell’area compresa tra Aleppo e il confine con la Turchia e mai più rintracciati. I due presuli erano partiti con l’intento di andare a trattare la liberazione di due sacerdoti, l’armeno cattolico Michael Kayyal e il greco-ortodosso Maher Mahfouz, rapiti in precedenza da gruppi jihadisti. Nei mesi e negli anni successivi, intorno al caso sono state fatte filtrare a più riprese indiscrezioni e annunci su una loro prossima liberazione, che poi si sono sempre rivelati infondati.

Contro gli yazidi

Sempre su territorio iracheno sotto il controllo dell’Is, il 3 agosto del 2014 cominciavano le prime azioni di massacro della minoranza yazida. Interi villaggi nell’area attorno alla cittadina di Sinjar sono stati distrutti, uomini e donne anziane nella maggior parte dei casi sono state uccise sul posto, mentre bambine e ragazze venivano rapite per essere usate come schiave del sesso nei centri roccaforte dei miliziani.  Si calcola che sono scomparse almeno 500 persone di quella che è una comunità storicamente molto antica, ma non numerosa. Si tratta in tutto di 150 mila yazidi dislocati in due aree dell’Iraq: la prima è proprio quella dei monti del Jebel Sinjar, al confine con la Siria, la seconda comprende i distretti di Badinan o Shaykhān e Dohuk, nel nord-ovest del Paese.

Anche oggi non mancano episodi di violenza

Secondo quanto ha reso noto ieri l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria,  miliziani legati al sedicente Stato islamico hanno rapito in questi giorni 19 persone – otto poliziotti e undici civili – in provincia di Hama. In risposta, l’aviazione russa ha intensificato nelle ultime 72 ore gli attacchi aerei nella Siria centrale e orientale contro postazioni di ribelli. I raid aerei russi si sono concentrati da sabato scorso a ieri nelle regioni di Hama e Dayr az Zor, nell’area della Badiya, la zona stepposa e desertica a ovest dell’Eufrate e dove si concentra la presenza dell’Isis in Siria.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2021-04/gesuita-siria-uccisione-papa-francesco-dialogo-pace.html

Dal 6 aprile 1994 in Rwanda i cento giorni del dramma

A 27 anni dal genocidio, il Paese nel cuore dell’Africa orientale ha ricostruito il tessuto sociale con atti di perdono particolarissimi. Intanto, si combatte il negazionismo e restano forti le tensioni etniche nei territori vicini, come spiega l’africanista Anna Bono

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La sera del 6 aprile 1994 un razzo proveniente da una delle tante colline di Kigali colpì l’aereo in cui viaggiavano Juvénal Habyarimana e Cyprien Ntaryamira, rispettivamente i presidenti di Ruanda e Burundi, entrambi di etnia hutu. Probabilmente non si saprà mai l’identità del responsabile di tale attacco. Un’ipotesi attribuisce agli estremisti hutu, contrari ai negoziati di pace con le forze ribelli tutsi e ostili agli accordi di power sharing firmati ad Arusha, le responsabilità dell’abbattimento dell’aereo su cui viaggiavano i due capi di Stato. Opposta a questa, la ricostruzione secondo cui il missile terra-aria che colpì l’aereo di Habyarimana fu lanciato dai ribelli tutsi delle forze  FPR, Front Patriotique Rwandais, agli ordini di Paul Kagame. Di certo c’è che l’abbattimento del velivolo è stata la scintilla che ha fatto scoppiare l’ultimo genocidio del ventesimo secolo.

L’accorato appello di Giovanni Paolo II

Al Regina Coeli del 10 aprile 1994, Giovanni Paolo II lanciava un rinnovato accorato appello perché cessasse la spirale di morte e di violenza che insanguinava il Rwanda. Queste le parole del Papa riconosciuto Santo:

“Le tragiche notizie che giungono dal Rwanda suscitano nell’animo di tutti noi una grande sofferenza. Un nuovo indicibile dramma: l’assassinio dei Capi di Stato di Rwanda e Burundi e del seguito; il Capo del Governo Rwandese e la sua famiglia e del seguito; il Capo del Governo Rwandese e la sua famiglia trucidati; sacerdoti, religiosi e religiose uccisi. Ovunque odio, vendette, sangue fraterno versato. In nome di Cristo, vi supplico, deponete le armi, non rendete vano il prezzo della Redenzione, aprite il cuore all’imperativo di pace del Risorto! Rivolgo il mio appello a tutti i responsabili, anche della Comunità Internazionale, perché non desistano dal cercare ogni via che possa porre argine a tanta distruzione e morte.”

100 giorni di violenze inaudite

Almeno 900.000 morti tra tutsi e hutu. Molti di questi sono stati massacrati a colpi di machete, spranghe e coltelli. Dell’etnia tutsi, la più colpita, sopravvissero in 300.000. La mattanza è durata cento giorni. Le milizie paramilitari interahamwe e impuzamugambi, esponenti dell’esercito nazionale, amministratori locali e semplici cittadini di etnia hutu, accompagnati dalla feroce propaganda di Radio Milles Collines che invitava a sterminare quelli che definiva gli “scarafaggi”, hanno ucciso sistematicamente membri delle comunità tutsi e altri delle comunità hutu considerati moderati massacrandoli a colpi di machete e armi da fuoco.

Le “mancanze che hanno deturpato il volto della Chiesa”

Il 20 marzo 2017, incontrando in Vaticano Paul Kagame, Papa Francesco ha  espresso “l’implorazione di perdono a Dio per i peccati e le mancanze della Chiesa e dei suoi membri” negli anni Novanta, mancanze che “hanno deturpato il volto della Chiesa”. Così si legge nel bollettino della Sala Stampa vaticana di quel giorno: “Durante i cordiali colloqui sono state ricordate le buone relazioni esistenti tra la Santa Sede e il Rwanda. Si è apprezzato il notevole cammino di ripresa per la stabilizzazione sociale, politica ed economica del Paese. È stata rilevata la collaborazione tra lo Stato e la Chiesa locale nell’opera di riconciliazione nazionale e di consolidamento della pace a beneficio dell’intera Nazione. In tale contesto il Papa ha manifestato il profondo dolore suo, della Santa Sede e della Chiesa per il genocidio contro i Tutsi, ha espresso solidarietà alle vittime e a quanti continuano a soffrire le conseguenze di quei tragici avvenimenti e, in linea con il gesto compiuto da San Giovanni Paolo II durante il Grande Giubileo del 2000, ha rinnovato l’implorazione di perdono a Dio per i peccati e le mancanze della Chiesa e dei suoi membri, tra i quali sacerdoti, religiosi e religiose che hanno ceduto all’odio e alla violenza, tradendo la propria missione evangelica. Il Papa ha altresì auspicato che tale umile riconoscimento delle mancanze commesse in quella circostanza, le quali, purtroppo, hanno deturpato il volto della Chiesa, contribuisca, anche alla luce del recente Anno Santo della Misericordia e del Comunicato pubblicato dall’Episcopato rwandese in occasione della sua chiusura, a ‘purificare la memoria’ e a promuovere con speranza e rinnovata fiducia un futuro di pace, testimoniando che è concretamente possibile vivere e lavorare insieme quando si pone al centro la dignità della persona umana e il bene comune.”

Il ruolo delle forze di pace

All’inizio degli scontri sono stati uccisi anche dieci caschi blu belga. Nonostante i segnali di allarme lanciati dal generale canadese, Roméo Dallaire, a capo della missione UNAMIR (UN Assistance Mission for Rwanda), il mandato delle Nazioni Unite non è stato rafforzato. L’uccisione del contingente di militari belgi e del primo ministro Agathe Uwilingiyimana a opera di miliziani hutu ha rappresentato un evento traumatico per l’organizzazione internazionale, che decise il ridimensionamento del numero di caschi blu presenti nel Paese, da 2.500 a 270. La violenza si è fermata solo a metà luglio quando i soldati dell’attuale presidente, Paul Kagame, sono entrati nella spettrale capitale Kigali.

La lunga presidenza Kagame

Da quel momento Kagame, rieletto per tre mandati, ha guidato il Paese. Nel 2017 per potersi candidare al terzo mandato ha ottenuto un emendamento alla Costituzione e ha poi raccolto – caso unico al mondo – il 99 per cento dei consensi. Kagame continua ad essere accusato di autoritarismo rispetto alla popolazione e di brutalità nei confronti dei suoi oppositori, alcuni dei quali sono stati imprigionati o uccisi. Come ogni anno, il presidente Paul Kagame e sua moglie hanno commemorato tutte le vittime durante una cerimonia a Gisozi.

Il cammino sociale

Il Rwanda ha fatto molti progressi, in particolare legati al ruolo della donna, della salute, dell’insegnamento e dell’economia.  Il sistema sanitario e quello scolastico sono in gran parte gratuiti. Della ricostruzione del tessuto sociale abbiamo parlato con l’africanista Anna Bono:

L’esperta Anna Bono sottolinea che a livello sociale molto è stato fatto per promuovere pace sociale anche con il sussidio di vari organismi internazionali che hanno organizzato perfino incontri a livello personale tra carnefici e familiari delle vittime. E questo è accaduto mentre il Paese ha conosciuto anni di crescita economica. Bono ricorda che anche in Rwanda non mancano le difficoltà per la pandemia e le ripercussioni economiche, ma che in generale è anche il Paese considerato dagli investitori stranieri come lo Stato con il più basso livello di corruzione in Africa.

Il rischio negazionismo

La professoressa Bono sottolinea che le immagini di centinaia di cadaveri abbandonati per la strada, gettati nei corsi d’acqua o bruciati nelle chiese rimangono impresse nella memoria dei sopravvissuti e di chi ha seguito gli sviluppi dello sterminio, anche perché sono state pochissime le famiglie che non hanno avuto vittime o che non sono state coinvolte in fatti di sangue.  Ma spiega che, di fronte alla nascita di correnti di negazionismo, il parlamento ruandese ha emanato leggi che criminalizzano qualunque forma di revisione storica che neghi l’accaduto. Bono sottolinea che il negazionismo potrebbe essere il primo passo per riaccendere tensioni etniche che – avverte – hanno radici antiche sul territorio africano e che il colonialismo in alcuni casi, ad esempio con l’ufficializzazione delle divisioni etniche tra hutu, tutsi, ha accentuato. Bono ricorda che oltre due milioni di profughi di etnia hutu si sono riversati, al momento delle violenze, nella vicina Repubblica Democratica del Congo e restano ancora oggi al centro di tensioni che preoccupano la comunità internazionale.

Gli archivi

Il 26 marzo scorso una commissione di storici voluta dal governo francese ha concluso che la Francia ha avuto pesanti responsabilità, come ha sottolineato anche Vincento Duclert, uno degli autori del rapporto. Non sono mai state riscontrate responsabilità dirette sui massacri ma si parla di sostegno al regime dittatoriale dell’allora presidente Juvénal Habyarimana.  Dunque, il 7 aprile, riconosciuta dall’Onu come Giornata Mondiale della Memoria in onore delle vittime del genocidio in Rwanda, Parigi, per la prima volta quest’anno, ha aperto al grande pubblico importanti archivi relativi alla situazione in Rwanda. Una sorta di memoriale con numerosi documenti, in particolare telegrammi e note confidenziali. Parigi è stata accusata di aver garantito copertura politica al regime di Habyarimana, di aver addestrato e armato l’esercito rwandese e le milizie hutu, di aver dato appoggio al Gouvernement Intérimaire Rwandais (GIR) costituito in seguito alla morte del presidente e considerato pienamente responsabile del genocidio. L’accusa, inoltre, è di aver supportato le Forces Armées Rwandaises di fronte all’avanzata dei ribelli dell’FPR, nonché di aver offerto protezione agli autori materiali dei massacri, attraverso la costituzione di una ‘zona sicura’ al confine con lo Zaire di Mobutu. Si tratta di tutte accuse respinte da Parigi che però hanno compromesso le relazioni tra la Francia e il governo ruandese di Paul Kagame, ex leader dell’FPR. Solo recentemente, Parigi e Kigali hanno intrapreso un processo di riavvicinamento.  E proprio in questi giorni Kagame ha espresso parole di apprezzamento per i passi in avanti voluti dal presidente Macron.

 

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-04/rwanda-genocidio-hutu-tutsi-societa-riconciliazione-anniversario.html

Pasqua di speranza e difficoltà in Libano

Il giorno di Pasqua è stato preceduto, nel Paese dei cedri, da manifestazioni di protesta a Beirut e a Sidone. Il vicario generale del Patriarca, padre Hanna, sottolinea come i giovani, che sentono la vicinanza di Papa Francesco, rappresentino la speranza del Libano. E il rettore del Santuario di Harissa racconta del milione di persone che dall’estero, ogni giorno, seguono on line il rosario serale

Fausta Speranza – Città del Vaticano
Riprendono le proteste popolari contro la corruzione e il malgoverno in Libano. I media di Beirut hanno riferito, nei giorni scorsi, di un sit-in  di fronte alla sede del ministero dell’economia nel centro della capitale e di un altro organizzato a Sidone, a sud di Beirut, di fronte alla sede dell’ospedale pubblico per protestare contro la carenza dei servizi medici di base nel contesto della pandemia.

E’ crisi da oltre un anno

Nel Libano, stretto da più di un anno e mezzo nella morsa della peggiore crisi economica e politica degli ultimi 30 anni, la lira locale ha perso il 90 per cento del suo valore. Non sembra proprio siano all’orizzonte prospettive di vedere formato, in tempi brevi, l’atteso nuovo governo.

I giovani conservano l’incoraggiamento di Papa Francesco

Delle problematiche del Paese e del ruolo dei giovani abbiamo parlato con monsignor Hanna Alwan, vicario del Patriarca dei Maroniti, cardinale Bechara Boutros  Raï:

La preghiera si rinnova

“Tra tante difficoltà la gente prega di più”, ci ha detto padre Khalil Alwan, rettore del santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa:

Padre Alwan ricorda che i libanesi soffrono di una crisi economica e sociale che da tempo non dà tregua alla maggior parte della popolazione e che è stata aggravata dalla pandemia. Poi sottolinea che tante persone e tanti giovani continuano ad unirsi al rosario on line che tutte le sere alle 19.15, ora locale, e alle 18.15 ora italiana, viene recitato e trasmesso sui social. L’esperienza è dura e il momento è davvero drammatico, ma, proprio per questo, si è intensificata la preghiera e in tanti si uniscono, dice il rettore. Si sente di vivere da tempo un periodo intenso di passione e, dunque, si attende davvero la Risurrezione del Signore, perchè – aggiunge – si riaccenda la speranza umana per una rinascita del Paese. Padre Alwan spiega che viene sentito molto l’appuntamento di preghiera serale che da ottobre 2019 è stato condiviso sui social. Sempre più persone si uniscono a questo appuntamento e almeno un milione di fedeli si collegano ogni giorno dall’estero. Molti altri si sono aggiunti per le celebrazioni del Triduo pasquale. La preghiera in Libano è più viva che mai.

 

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-04/pasqua-beirut-libano.html