35 anni fa il maxiprocesso per crimini di mafia

Il 10 febbraio 1986 si apriva a Palermo il più grande procedimento penale mai celebrato al mondo: inaugurava una nuova stagione di impegno contro la criminalità organizzata in Sicilia. I giudici Falcone e Borsellino restano tra i protagonisti d’eccezione che hanno cambiato la mentalità corrente contro “Cosa nostra” e che ancora oggi ispirano giovani magistrati mentre le mafie cavalcavano la globalizzazione, come racconta Gianfranco D’Anna, che da cronista seguì tutto l’iter processuale

Fausta Speranza – Città del Vaticano

475 imputati, poi scesi a 460 nel corso del processo, 200 avvocati difensori. Le accuse: crimini di mafia  – ma il nome esatto dell’organizzazione criminale è “Cosa nostra” – tra cui omicidio, traffico di stupefacenti, estorsione, associazione mafiosa. Numeri che suggerirono l’espressione giornalistica di maxiprocesso che generalmente indica solo il processo di primo grado, durato fino al 16 dicembre 1987. Tale processo si concluse con 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. Dopo un secondo articolato iter processuale queste condanne furono poi quasi tutte confermate in terzo grado dalla Cassazione. La data della sentenza finale della Corte di Cassazione è il 30 gennaio 1992.

I fatti e la storia

Secondo quanto emerso dagli atti giudiziari, all’inizio degli anni ottanta a Palermo imperversava il duro scontro tra due fazioni del gruppo mafioso denominato Cosa nostra: la fazione dei Corleonesi e quella guidata da Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, (di cui faceva parte anche Tommaso Buscetta, scappato in Brasile) si contendevano il dominio sul territorio, al punto che tra il 1981 e il 1983 vennero commessi circa 600 omicidi.

Anche numerosi uomini delle istituzioni italiane, che avevano tentato di combattere la mafia attraverso nuove leggi, indagini e azioni di Polizia, caddero sotto i colpi dell’organizzazione criminale; tra questi, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il segretario provinciale democristiano Michele Reina, il commissario Boris Giuliano, il giornalista Mario Francese, il candidato a giudice istruttore di Palermo Cesare Terranova, il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, il procuratore Gaetano Costa, il segretario regionale siciliano  Pio La Torre.

L’impegno di Rocco Chinnici

Il primo a pensare che presso l’Ufficio istruzione del tribunale di Palermo potesse essere istituita una squadra di giudici istruttori che avrebbero lavorato in gruppo fu il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Nel luglio 1982 le indagini del capitano dei carabinieri Tito Baldo Honorati e del commissario Ninni Cassarà  avevano dato origine al cosiddetto “Rapporto dei 162”, la prima grossa inchiesta sulla fazione dei Corleonesi che inquadrava sia i gruppi “perdenti” che i “vincenti” della guerra di mafia allora in corso, che viene considerata l’embrione dell’ipotesi investigativa alla base del Maxiprocesso. Il rapporto venne trasmesso al procuratore capo Vincenzo Pajno (che lo assegnò ai sostituti Vincenzo Geraci e Alberto Di Pisa e all’Ufficio istruzione, dove Chinnici lo affidò ai giudici Giovanni Falcone e Domenico Signorino, che nel giro di qualche mese iniziarono a lavorare fianco a fianco con i colleghi della Procura Agata Consoli e Giuseppe Ayala, titolari delle delicate inchieste sull’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa e altre.

Il pool antimafia

Quando nel 1983 Cosa nostra uccise anche Chinnici e il giudice chiamato a sostituirlo, Antonino Caponnetto, decise di mantenere e ampliare l’organizzazione dell’ufficio voluta dal predecessore. Caponnetto, considerando anche il lavoro fatto contro il terrorismo, decise di istituire presso l’ufficio istruzione un vero pool antimafia, ossia un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente dei reati di stampo mafioso. Caponnetto scelse Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Questi avrebbero svolto tutte le indagini su Cosa nostra, coadiuvati dal sostituto procuratore Giuseppe Ayala e tre colleghi, il cui compito era inoltre quello di portare a processo come pubblici ministeri i risultati delle indagini del pool e ottenere le condanne.

Lo slancio che scosse le coscienze

Nella sua requisitoria il pubblico ministero Domenico Signorino, il 30 marzo 1987, disse: “Questo è un processo come tutti gli altri, per quanto smisurato. Ciò che vi chiedo non è la condanna della mafia, già scritta nella storia e nella coscienza dei cittadini, ma la condanna dei mafiosi che sono raggiunti da certi elementi di responsabilità”.

Per capire innanzitutto l’atmosfera al momento dell’apertura del maxi processo a Palermo, abbiamo intervistato il vicedirettore della rai Radio televisione italiana Gianfranco D’Anna, che all’epoca era l’inviato nella cosiddetta sala bunker dell’emittente di Stato:

Gianfranco D’Anna racconta di una giornata plumbea che rispecchiava l’atmosfera di grandi incognite. Da una parte, molte aspettative, dall’altra tanti timori per una presa di posizione contro un’organizzazione criminale che permeava settori impensabili del vivere civile. Si avvertiva – racconta – uno slancio senza precedenti da parte di un gruppo di magistrati che reagivano alla violenza inaudita per le strade e contro alte figure di uomini di Stato. D’Anna conferma che, da allora, l’idea che la gente aveva dei poteri che controllavano il territorio facendo favori ma seminando violenza, cambiò decisamente. Ci fu una presa d’atto di consapevolezza che poi, però, solo alla morte di Falcone e Borsellino, divenne davvero mobilitazione popolare. D’Anna sottolinea come siano cambiati i mezzi tecnologici da allora, rciordando che tutti i riscontri non potevano certo allora avvalersi del supporto di algoritmi: erano piuttosto frutto di un lavoro certosino manuale.

Pentitismo e dissociazione civile

D’Anna racconta come i due giudici siciliani abbiano fatto leva sui cosiddetti pentiti ricordando che Falcone non amava che si parlasse di pentitismo: voleva parlare di dissociazione. D’Anna spiega che allora non si trattava di vera e propria dissociazione in quanto i cosiddetti pentiti che collaborarono con la giustizia facevano parte di una fazione perdente che voleva colpire l’altra fazione. Ma D’Anna afferma che il tutto però ha dato vita a un processo di dissociazione più ampio e capillare che ha coinvolto la società civile. Gianfranco D’Anna riflette anche sul cambiamento dei media: senza il web e  i social 35 anni fa il giornalismo era diverso. D’Anna mette in guardia sui rischi di perdere l’informazione seria in quello che definisce lo “tsunami” informativo dato dalla rete e che corre sui social media.

La testimonianza indelebile di Falcone e Borsellino

D’Anna spiega che il primo motivo di speranza è dato dal fatto che l’impegno anche di tipo proprio investigativo che hanno messo in campo il pool antimafia e in particolare il giudice Falcone rimane tutt’oggi come esempio e viene insegnato nelle accdemie investigative. E poi D’Anna si commuove ricordando l’intervista che realizzò con il giudice Falcone a poco meno di un anno dalla sua barbara uccisione, avvenuta il 23 maggio 1992 nei pressi di Capaci con una bomba composta da 500 chilogrammi di tritolo, e che costò la vita anche alla moglie il magistrato Francesca Morvillo, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Quell’intervista è rimasta storica, è il documento più conosciuto e apprezzato tra studenti. In quella intervista, Falcone difende l’idea di speranza, pur nell’evidenza del susseguirsi di atti criminali e di colpi al cuore delle istituzioni e di fronte alla presa d’atto di gangli di corruzione a tanti livelli che non aiutavano il cambiamento. Falcone afferma che la mafia è un’invenzione degli uomini e come tutte le cose degli uomini ha un inizio e una fine.

Globalizzazione e mafie

Se il colpo inferto a Cosa nostra a partire dal maxiprocesso è stato indubbio, oggi purtroppo si deve ancora parlare di organizzazioni criminali e di mafie che purtroppo hanno saputo cavalcare la globalizzazione, ricorda D’Anna. In particolare, le cronache raccontano del potere acquisito dalla n’drangheta calabrese in traffici di stupefacenti e non solo, che vanno dall’America Latina al Nord Europa. E la caratteristica denunciata dalle forze inquirenti di recente è sempre di più la capacità di pervasività in settori della burocrazia e dei servizi, la mafia dai cosiddetti “colletti bianchi”. D’Anna ricorda quanto sia “fondamentale” oggi l’appello che il Papa ripete contro la corruzione, che è il primo pertugio attraverso cui si insinuano e si rafforzano anche le moderne mafie.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-02/mafia-criminalita-palermo-cosa-nostra-falcone-borsellino.html

Il Mediterraneo potenziale modello di “economia blu”

Dal bacino del Mare Nostrum la speranza di una rinnovata cooperazione in tema ambientale. E’ quanto emerge dalla Dichiarazione sulla “economia blu” dell’Unione per il Mediterraneo. Non mancano nell’area i problemi di divisioni e instabilità, ma dal punto di vista delle risorse le potenzialità di rilanciare l’economia ci sono, come conferma l’esperto di politiche dell’energia Andrea Carlo Bollino

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si torna a scommettere sul Mare Nostrum. I ministri dei 42 Paesi che fanno parte dell’Unione per il Mediterraneo hanno adottato nei giorni scorsi una nuova “Dichiarazione sull’economia blu”, dopo la prima firmata sei anni fa. Secondo la nota resa pubblica a conclusione della riunione che si è tenuta in modalità virtuale, i Paesi del bacino mediterraneo tornano a “impegnarsi con forza a cooperare strettamente e ad affrontare le sfide comuni nei settori chiave dell’economia blu”. La dichiarazione, sottoscritta sotto la presidenza congiunta dell’Unione europea e del Regno di Giordania, è frutto del percorso che “ha coinvolto oltre 100 esperti e rappresentanti di organismi internazionali”.

Sostenibilità e economia

La sostenibilità è importante in un’area che è cruciale sul piano politico ma decisamente esposta agli effetti negativi dei cambiamenti climatici con “temperature che aumentano a una velocità superiore del 20 per cento rispetto alla media mondiale con ricadute evidenti sull’ambiente marino”. Per questo i ministri hanno concordato di lavorare insieme per “facilitare la transizione a una economia blu sostenibile, riducendo le pressioni sull’ambiente e investendo su modelli imprenditoriali sostenibili, nell’ambito del turismo, della pesca, dell’energia, dei trasporti”. Per il commissario europeo per l’ambiente, gli oceani e la pesca Virginijus Sinkevičius gli impegni presi sono “un passo decisivo verso la gestione sostenibile del Mediterraneo  e un contributo alle ambizioni del Green deal europeo”. Tra le attività da citare ricordiamo l’acquacoltura, il turismo costiero, le biotecnologie marine, l’energia degli oceani, l’estrazione mineraria nei fondali marini.

Delle problematiche aperte e delle possibili strategie abbiamo parlato con Andrea Carlo Bollino, docente di economia dell’energia all’Università Luiss e membro del T20, il gruppo di Think Thank creato in supporto del G20 a presidenza italiana:

Il professor Bollino ricorda i temi e le problematiche aperte se si parla di Mare nostrum: innanzitutto quella dell’inquinamento che mette a rischio la pesca per gli effetti negativi sulle specie acquatiche. Un inquinamento dovuto a diversi fattori tra cui gli scarichi dei rifiuti e l’uso dei combustibili per i trasporti in mare. E a questo proposito Bollino spiega che l’Unione europea, in particolare con il piano Green Deal contenuto nell’ambito del Next generation Eu, sta portando avanti piani concreti per alternative ai combustibili fossili. Le alternative esistono – sottolinea Bollino – e già sono una realtà ad esempio nel Mare del Nord. Il punto è che tutto ciò può contribuire seriamente – assicura l’esperto di politiche dell’energia – a preservare posti di lavoro e crearne di nuovi.   Bollino ricorda  che il tutto si riflette anche sul turismo e anche in questo caso diventa un potenziale fattore di sviluppo e di impiego.

Quando l’economia è blu

Bollino poi afferma che in questo caso l’espressione “economia blu” indica l’attenzione a tutto ciò che riguarda l’acqua, in primis mari e oceani, ma che tra gli scienziati la differenziazione tra l’espressione “economia verde” e “economia blu” è in genere correlata alle potenzialità delle nuove fonti di energie legate a “idrogeno verde” o a “idrogeno blu”, che si accomunano per essere alternative ai combustibili fossili ma si distinguono per alcune caratteristiche proprie.

 

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-02/mediterraneo-unione-energia-ambiente-mare-oceani.html

In Myanmar tra colpo di Stato e Covid-19

Dall’Onu giungono appelli per il rilascio dei leader e giornalisti arrestati in Myanmar e si discute di possibili pressioni da parte della comunità internazionale. Intanto, è importante non dimenticare che la popolazione soffre per la pandemia che mette a dura prova i sistemi sanitari e peggiora le condizioni economiche, come spiega Cecilia Brighi dell’associazione Italia-Birmania Insieme

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il partito della Lega nazionale per la democrazia del Myanmar ha chiesto il rilascio di Aung San Suu Kyi e di altri leader detenuti, tutti arrestati nel corso del colpo di stato messo a segno dai militari lunedì.

L’appello dell’Onu

Anche l’Alto Commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet ha chiesto la liberazione immediata di leader politici, difensori dei diritti umani, giornalisti, attivisti e altre persone arbitrariamente detenute nel Paese, a seguito della destituzione del governo civile.  “Vi sono profondi timori di una violenta repressione delle voci dissenzienti”, ha affermato. “Faccio eco all’appello del Segretario generale – ha aggiunto Bachelet  – affinché la leadership militare rispetti l’esito delle elezioni ed esorto la comunità internazionale a essere solidale con il popolo del Myanmar”. Dunque, la richiesta precisa: “Tutti gli Stati con influenza prendano provvedimenti per prevenire lo sgretolamento dei fragili progressi democratici e dei diritti umani realizzati dal Myanmar durante la sua transizione dal governo militare”.  Anche Tom Andrews, Relatore speciale Onu sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, ha invitato la comunità internazionale a reagire: “Un’azione decisiva è imperativa, compresa l’imposizione di forti sanzioni mirate e un embargo sulle armi fino al momento in cui la democrazia non sarà ripristinata”, ha affermato in un comunicato.

La preoccupazione nella società civile  

Dopo l’arresto – sembra ai domiciliari – della leader della Lega nazionale per la democrazia, Aung San Suu Kyi, e di altri parlamentari e giornalisti, c’è apprensione per esponenti di altri settori della società civile e preoccupazione per la popolazione colpita dalla pandemia. Ne abbiamo parlato con Cecilia Brighi, da anni impegnata come segretario generale nell’Associazione Italia-Birmania Insieme:

Cecilia Brighi spiega che c’è apprensione tra la gente con cui è in contatto per via dell’associazione Italia-Birmania Insieme,  impegnata a promuovere attività di informazione e formazione dei giovani e delle donne birmane; favorire scambi culturali tra i due Paesi.  Brighi spiega che si è passati dalla prospettiva che la Lega avesse una forte maggioranza parlamentare – visto lo schiacciante consenso ricevuto alle elezioni di novembre – alla realtà del ritorno con pieni poteri dell’esercito. Le persone sono disorientate e preoccupate anche perché – spiega Brighi – ci sono aree del Paese con forti tensioni sociali e perché tutto è complicato in questo momento dalla pandemia. Brighi, pur auspicando un’azione dell’Onu e della comunità internazionale a favore del rispetto dei diritti umani nel Paese, esprime anche il timore che eventuali sanzioni possano avere ricadute proprio sulla popolazione che – racconta – è già provata dalla pandemia. Parla di speranza quando ricorda l’eco nel Paese, nella comunità cristiana in particolare, del viaggio apostolico di Papa Francesco a novembre 2017. E infine sottolinea l’impegno della Chiesa locale a favore dei bisogni della popolazione e per un forte messaggio di pace e riconciliazione.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-02/myanmar-birmania-onu-appello-colpo-di-stato.html

Colpo di Stato in Myanmar: arrestata Aung San Suu Kyi

Il capo delle forze armate assume tutti i poteri nel Paese denominato Myanmar, ex Birmania, e la leader del partito di maggioranza viene arrestata. In un comunicato, il segretario generale dell’Onu, Antònio Guterres, condanna “fermamente” l’arresto di Aung San Suu Kyi e di altri leader politici e parla di duro colpo per le riforme democratiche

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’annuncio in TV: stato di emergenza per un anno. Il primo atto è stato arrestare il capo del governo di fatto, Aung San Suu Kyi,  leader della Lega nazionale per la democrazia (LND) che a novembre ha vinto in modo schiacciante le elezioni legislative. I militari da diverse settimane parlavano di irregolarità.  La leader, che ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1991, ma che a livello internazionale è stata moto criticata per la questione della minoranza denominata rohingya, resta molto amata nel Paese proprio per la sua battaglia politica di anni contro il potere assoluto della giunta militare che – di fatto, dopo aver governato per mezzo secolo – è stata sciolta già dopo le prime elezioni vinte dalla Lega nel 2011. Ma, tra alterne vicende, l’esercito, ha mantenuto il controllo su tre ministeri chiave: quello dell’Interno, quello della Difesa e quello dei Confini. Ora il capo delle forze armate, generale Min Aung Hlaing, ha assunto tutti i pieni poteri alla vigilia della prima seduta del primo parlamento, uscito dalle elezioni di novembre, vinte dal partito di Aug San Suu Kyi. E il generale Myint Swe, che era uno dei vice presidenti, è diventato presidente ad interim.  Tra le prime decisioni adottate c’è la chiusura di tutte le banche del Paese, da oggi fino a nuovo ordine; sospesi anche i servizi di prelievo automatici.

Dalla Lega nazionale per la democrazia giunge l’appello a un intervento diplomatico internazionale. Ne abbiamo parlato con Luciano Bozzo, docente di relazioni internazionali all’Università di Firenze:

Il professor Bozzo spiega che  il margine di azione diplomatica internazionale è difficile da pensare al momento e non facile. Certamente si possono sempre trovare vie di pressione per sostenere il dialogo. Sottolinea però il valore di questo appello spiegando che si tratta di parole che invocano diplomazia e dunque suonano come l’alternativa che si vuole a qualunque azione di forza. Purtroppo, in situazioni come queste è alto il rischio di una conflittualità – sottolinea – che può sfociarein guerra civile. Dunque, è importante che la Lega si appelli a interventi sul piano diplomatico. A proposito del peso del Paese nella penisola indocinese, Bozzo ricorda che si tratta di un Paese non grande ma in una posizione particolare proprio tra due Paesi grandi e di peso come Cina e India.

L’appello per la pace del Papa

Nel suo viaggio apostolico in Myanmar e Bangladesh dal 26 novembre al 2 dicembre 2017 Papa Francesco ha parlato di pacificazione sottolineando che la pace nazionale passa attraverso il  rispetto dei diritti umani.

Gli Stati Uniti “continuano ad affermare il loro forte appoggio alle istituzioni democratiche”  e “in coordinamento con i nostri partener nell’area, chiediamo alle forze armate e a tutte le altre” parti in causa “di aderire alle norme democratiche e di rilasciare i detenuti”. Lo afferma la Casa Bianca, sottolineando che il presidente, Joe Biden, è stato informato sugli eventi, incluso l’arresto di Aung San Suu Kyi.   Gli Usa, “allarmati” dalle informazioni che arrivano,  si oppongono a ogni tentativo di alterare il risultato delle recenti elezioni o impedire una democratica transizione”.

La questione della minoranza nello Stato di Rakhine

Nel 2016 è scoppiata la questione della minoranza musulmana in fuga verso il Bangladesh in condizioni disumane. Parliamo di una minoranza che vive nello stato di Rakhine nota come rohingya  al confine con il Bangladesh. La loro origine è molto discussa: alcuni li ritengono indigeni dello Stato di Rakhine, mentre altri sostengono che siano immigrati musulmani che, in origine, vivevano in Bangladesh. Si sarebbero spostati in Birmania durante il periodo del dominio britannico.  Secondo la legge sulla cittadinanza risalente al 1982, i Rohingya non fanno parte delle 135 etnie riconosciute dallo stato e non hanno pertanto diritto alla cittadinanza birmana. Prima delle repressioni del 2016/2017 vivevano nel Paese circa un milione di persone; a dicembre 2017 circa 625 mila  di loro si sono rifugiati in campi profughi in Bangladesh. Secondo i rapporti delle Nazioni Unite, sono una delle minoranze più perseguitate nel mondo.

Proprio in quegli anni San Suu Kyi è stata fortemente criticata a livello internazionale quale leader di fatto nel Paese anche se nel ruolo di ministro degli Esteri. E’ stato lungo il suo silenzio iniziale poi interrotto a settembre 2017 quando  ha detto che il suo Paese era pronto a una “verifica internazionale” su come il governo avesse gestito la crisi della minoranza musulmana nel Paese buddista e a verificare lo status dei 410.000 rifugiati in Bangladesh. Subito la Missione internazionale d’inchiesta sul Myanmar del Consiglio Onu dei diritti umani ha chiesto un accesso illimitato al Paese ed un’estensione del proprio mandato per poter stabilire in un rapporto “fatti e circostanze” delle violazioni dei diritti umani ed abusi nel Paese, in particolare nello Stato Rakhine.

La crisi di fine anni Ottanta

Fino al 1989 il Paese si chiamava Birmania, poi si decise per il nome Myanmar. Alla fine degli anni Ottanta entrò in una grave crisi economica alla quale seguì il caos totale e un colpo di Stato. Migliaia di persone morirono durante gli scontri. La giunta militare al potere fece numerose modifiche alla Costituzione che era stata approvata nel 1974 e annunciò nel 1989 le elezioni per l’anno successivo, vinte poi dai partiti di opposizione tra cui la Lega Nazionale per la Democrazia, guidata da Aung San Suu Kyi e U Tin U. Il risultato del voto non fu però rispettato: la giunta militare non permise a San Suu Kyi e al suo partito di governare e lei rimase agli arresti domiciliari per anni. Il Paese diventò Unione di Myanmar, abbreviato in Myanmar. La giunta corresse anche i nomi di molti altri posti, spiegando di voler prendere le distanze dai nomi in vigore nel periodo coloniale britannico, durato più di un secolo a partire dal 1824.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-02/birmania-myanmar-colpo-di-stato-militari-potere-lega-san-suu-kyi.html

Davos: l’urgenza di una nuova visione sul lavoro

Vecchie e nuove povertà al centro della sfida per rilanciare l’economia al centro del Forum in Svizzera. La digitalizzazione e l’intelligenza artificiale sono promesse per il futuro su cui investire tutelando l’ambiente, ma non si possono lasciare indietro i lavoratori poco specializzati. Gli strumenti per trasformare il mondo dell’impiego senza stritolare le fasce più deboli ci sono, secondo l’economista Paolo Guerrieri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il futuro del lavoro poco specializzato è sempre più minacciato dalla digitalizzazione, mentre il mondo corre per la rivoluzione dell’intelligenza artificiale. In mancanza di correttivi seri, la prospettiva – è quanto emerso dal Forum di Davos –  può essere quella di sempre maggiori disuguaglianze. Inoltre, non si può dimenticare il momento storico segnato dalla pandemia, una battaglia ancora da vincere.

Potenzialità e sfide delle nuove tecnologie

Al Forum è stata lanciata la Global AI Action Alliance (Gaia), una sorta di alleanza per l’intelligenza artificiale, una rivoluzione che, è stato sottolineato, può contribuire all’economia globale con oltre 15mila miliardi di dollari entro il 2030, migliorando così le vite di miliardi di persone. Il rischio, se non si procederà responsabilmente, è già sotto gli occhi di tutti: fake e algoritmi sempre più pervasivi al punto di manipolare consumi e scelte politiche. Di fronte alla sfida colossale di accelerare l’adozione dell’intelligenza artificiale “nell’interesse pubblico globale”, l’Alleanza Gaia riunisce oltre 100 aziende, governi, organizzazioni della società civile e mondo accademico. Sono poi i dati e le enormi opportunità che offrono, dal contrasto alla pandemia fino al mercato del lavoro, ad aver occupato un buon numero di dibattiti alla Davos virtuale: l’organizzazione ha lanciato iniziative per l’emancipazione della società sul fronte dei dati e nell’approccio con una nuova mentalità alla protezione della privacy, che ad oggi viene ‘regalata’ dai cittadini in cambio di accesso alle piattaforme online.

Il rischio di sempre nuove disuguaglianze

Nell’emergenza della pandemia – come ha detto tra l’altro ieri il cardinale Turkson intervenendo al World Economic Forum –  la necessità del vaccino per tutti deve farci riflettere sull’urgenza di pensare la globalizzazione come un’attenzione globale.

A quello dell’intelligenza artificiale è intrecciato il tema del lavoro che resta e deve restare il primo terreno di azione per un possibile rilancio, così come auspicato in questa edizione 2021 del Forum di Davos. Un’iniziativa che si tiene dal 1970 e che quest’anno per la prima volta si è svolta in modalità digitale. La situazione è sempre peggiore per il lavoro scarsamente specializzato, travolto dai processi imperanti dell’automazione.

La ferita permanente

Da parte sua, il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurrìa, ha dichiarato che “la risposta non possono che essere politiche macroeconomiche di stimolo, meccanismi di sostegno all’occupazione come il kurzarbeit tedesco, e la formazione dei lavoratori”.  Jonas Prising, Ceo di Manpower ha chiesto che la politica prenda davvero sul serio la ‘bomba sociale’ che rischia di innescarsi con l’impatto della digitalizzazione su professioni a scarsa specializzazione nell’ambito del commercio, del turismo, dei servizi. Gurrìa ha ricordato che “la quota dei lavoratori altamente specializzati è balzata in vent’anni, nell’area Ocse, del 35 per cento mentre i lavoratori a bassa preparazione, nei settori indicati prima, “hanno visto perdite di posti di lavoro, le retribuzioni stagnare o addirittura ridursi”. Il rischio della pandemia, ha detto Gurrìa, è che creino una “ferita permanente” allontanando a lungo i lavoratori dall’impiego e allontanando quindi ulteriormente la loro capacità di rientrare nel mondo del lavoro.

Il rischio delle disuguaglianze

Il mondo non può permettersi di vedere aumentare le già dolorosissime e potenzialmente esplosive disuguaglianze. L’urgenza di rivolgere un’attenzione diversa alle persone viene dalla Chiesa ma, a ben guardare, viene anche da considerazioni politico-economiche, come ci spiega l’economista, docente in diversi atenei internazionali, Paolo Guerrieri:

Guerrieri conferma la tendenza a mortificare posti di lavoro e lavoratori non specializzati, con tutti i rischi di ulteriori polarizzazioni sociali. Spiega che, se nella prima ondata di pandemia, la crisi e l’accelerazione tecnologica hanno contribuito a tagliare molti posti dell’industria manufatturiera, in questa seconda ondata i rischi sono molto alti anche per il settore dei servizi. E a pagarne il prezzo sarebbe tutta la società.

Non mancano gli strumenti per un’azione concreta

L’economista Guerrieri spiega anche che gli strumenti di contrasto, per esempio cominciando dalla formazione, ci sono. Finora è stato messo in campo troppo poco. E avverte: siamo in ritardo. Va fatto di più. Il punto è che ci sono situazioni o Paesi che dimostrano che le formule ci sono e sarebbero applicabili. E’ una questione di volontà e di applicazione. Guerrieri cita l’esempio di un Paese in cui molto è stato fatto per i lavoratori poco specializzati: è il Canada, in particolare nella regione dell’Ontario. Da tempo sono state prese misure per riqualificare lavoratori destinati a perdere l’impiego per via della digitalizzazione. A proposito degli interventi di questa settimana, Guerrieri poi ricorda quello del presidente cinese Xi Jinping e della cancelliera tedesca Merkel, sottolineando che, dopo la fase dell’amministrazione Trump, si parla di ripresa del multilateralismo, anche se restano sempre questioni da chiarire in base ai temi trattati. Guerrieri sottolinea che al momento l’approccio auspicato sia dalla Merkel che da Xi è quello di evitare la contrapposizione di due blocchi e una guerra commerciale. Un approccio condiso anche dal nuovo presidente degli Stati Uniti Biden

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-01/davos-economia-politica-digitalizzazione-lavoro-poveri.html

Usa e Russia confermano il New Start sulle armi nucleari

Il Trattato sugli arsenali nucleari verrà esteso: la conferma dalla prima telefonata tra Biden e Putin. Dopo 10 anni, quello che resta l’unico accordo in vigore tra Usa e Russia in materia, scadrebbe il 5 febbraio prossimo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

C’è l’impegno a confermare fino al 2026 il New Strategic Arms Reduction Treaty (New START) sugli arsenali nucleari, che è stato siglato nel 2010 e scadrebbe il 5 febbraio 2021. E’ stato il presidente statunitense Joe Biden a proporlo all’omologo russo Vladimir Putin, nella prima telefonata tra i due leader dal cambio di amministrazione a Washington. Putin ha fatto sapere di aver presentato alla Duma di Stato un disegno di legge sulla proroga di cinque anni e dunque fino a febbraio 2026. In una nota esplicativa allegata e pubblicata sul sito della Duma si legge che “il 26 gennaio 2021 Russia e Stati Uniti hanno raggiunto un accordo sull’estensione del trattato”. Della telefonata di Biden il Cremlino riferisce sottolineando che Putin si è detto favorevole a una “normalizzazione” delle relazioni con gli Stati Uniti.

I limiti previsti  

L’accordo New Start prevede una serie di limiti agli armamenti nucleari per entrambe le parti, sintetizzabili in una riduzione a massimo 1.550 testate atomiche strategiche, solo la metà delle quali da mantenere pronte all’uso (limite di 700 vettori nucleari tra missili balistici intercontinentali (ICBM), sottomarini nucleari lanciamissili (SLBM) e bombardieri pesanti contemporaneamente operativi). Il New Start è l’ultimo trattato sulla riduzione delle armi nucleari firmato da Stati Uniti e Russia ancora in vigore dopo l’uscita statunitense decisa da Trump nel 2019 dall’intesa Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty (Inf). Si parla del trattato che era stato siglato a Washington l’8 dicembre 1987 da Ronald Reagan e Michail Gorbačëv, a seguito del vertice di Reykjavík dell’11 ottobre 1986 tenutosi tra i due capi di Stato di USA e URSS.

Per capire il significato della decisione abbiamo parlato con il professore emerito di Diritto internazionale alla Luiss, Natalino Ronzitti:

Il professor Ronzitti sottolinea l’importanza di non aver fatto decadere un trattato significativo sul piano bilaterale. Poi spiega che c’è anche l’altro Trattato INF da rinegoziare, ricordando che in quel caso Trump aveva ritirato Washington dall’intesa accusando la Russia di violazioni con l’acquisto di missili. Sul piano multilaterale, dunque, al di là dei rapporti tra Stati Uniti e Russia solamente, Ronzitti ricorda che è stato raggiunto il Trattato di Non Proliferazione (Tnp) ma spiega anche che ancora non è stato ratificato proprio da quei Paesi che sono detentori di armi nucleari o che si sospetta le abbiano. Dunque, nonostante il Trattato raggiunto sotto il cappello dell’Onu, c’è ancora molto da fare a livello internazionale per arrivare ad una reale messa al bando delle armi nucleari. E sottolinea infine che bisogna tener conto dell’evoluzione dei contesti e dei Paesi, Paesi che, infatti, qualche anno fa non sarebbero stati in grado di dotarsi di armamenti nucleari possono esserlo invece oggi o nell’immediato futuro.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-01/stati-uniti-russia-trattato-armi-nucleari-new-start.html

Le possibili risposte globali alla pandemia: in discussione a Davos

L’economia si intreccia con l’emergenza sanitaria nel Forum nella cittadina svizzera, diventato un summit annuale fisso dei leader mondiali. Il tema di questa edizione virtuale è il rilancio dopo la pandemia e il segretario generale dell’Onu, Guterres, raccomanda di non sottovalutare il rischio concreto che aumentino le diseguaglianze. Intervista con l’economista Franco Bruni

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il Forum di Davos, che dal 1970 raccoglie il gotha dell’economia e della politica mondiali, si è aperto lunedì con l’intervento del segretario generale dell’Onu, António Guterres, e il discorso del presidente cinese, Xi Jinping. Nel secondo giorno di lavori, che proseguiranno fino al 29 gennaio, hanno preso la parola alcuni leader europei.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2021-01/forum-economia-davos-politica-leader-multilateralismo.html

Dio è vicino: l’omelia del Papa nella seconda Domenica della Parola

Nessuna distanza da Dio e dagli altri: è il messaggio centrale dell’omelia del Papa pronunciata da monsignor Rino Fisichella. A causa della sciatalgia, Francesco non ha presieduto la Messa in occasione della seconda Domenica della Parola di Dio. Forte l’invito a leggere il Vangelo, a scoprire “l’antidoto alla paura di restare soli di fronte alla vita”, a “non restare distanti da Dio e dagli altri”, ricordando che “nessuno è ai margini nel cuore di Dio”

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Dalla nostra umanità Dio mai si staccherà e mai di essa si stancherà”: è questo il senso della vicinanza di cui ci ha parlato Gesù. Lo spiega il Papa in questa domenica, 24 gennaio, la terza del tempo ordinario, in cui Gesù annuncia il Regno di Dio. Francesco ha voluto che diventasse la Domenica della Parola, istituendola con la Letterain forma di Motu proprio del 30 settembre 2019. L’omelia è pronunciata da monsignor Fisichella che innanzitutto dice: “mi fa particolarmente piacere, ed è un onore, dare lettura dell’omelia che il Santo Padre avrebbe tenuto in questa occasione”

Nel cuore di Dio

L’omelia di Francesco si apre con il messaggio che Gesù ripeteva di continuo: “Dio non sta, come siamo spesso tentati di pensare, lassù nei cieli lontano, separato dalla condizione umana, ma è con noi”. Il Suo regno è infatti sceso in terra:

Da allora Dio è vicinissimo. Prima di ogni altra cosa va creduto e annunciato che Dio si è avvicinato a noi, che siamo stati graziati, “misericordiati”. Prima di ogni nostra parola su Dio c’è la sua Parola per noi, che continua a dirci: “Non temere, sono con te. Ti sono vicino e ti starò vicino”. 

Dunque, non può che essere questa la “costante della vita e dell’annuncio cristiano”: la Parola di Dio che “ci permette di toccare con mano questa vicinanza, perché –

dice il Deuteronomio – non è lontana da noi, ma è vicina al nostro cuore. E la definizione che emerge dall’omelia di Francesco letta da monsignor Fisichella è molto significativa:

La Parola di Dio “è l’antidoto alla paura di restare soli di fronte alla vita”….“ci ricorda che siamo nel suo cuore, preziosi ai suoi occhi, custoditi nelle palme delle sue mani”.

La Parola che converte

C’è poi una sollecitazione importante:

La Parola di Dio infonde questa pace, ma non lascia in pace. È Parola di consolazione, ma anche di conversione. «Convertitevi», dice infatti Gesù subito dopo aver proclamato la vicinanza di Dio.

Il Papa parla di “salutari ribaltamenti esistenziali” ai quali siamo chiamati e precisa:

(… ) con la sua vicinanza è finito il tempo in cui si prendono le distanze da Dio e dagli altri, è finito il tempo in cui ciascuno pensa a sé e va avanti per conto proprio. Questo non è cristiano, perché chi fa esperienza della vicinanza di Dio non può distanziare il prossimo, non può allontanarlo nell’indifferenza.

La vicinanza di Dio  chiede vicinanza agli altri

Si scopre che “la vita non è il tempo per guardarsi dagli altri e proteggere sé stessi, ma l’occasione per andare incontro agli altri nel nome del Dio vicino”. Così “la Parola, seminata nel terreno del nostro cuore, ci porta a “seminare speranza attraverso la vicinanza”. Proprio come fa Dio con noi.

La riflessione si sofferma sulla scelta di Gesù di parlare ai pescatori della Galilea:

Erano persone semplici, che vivevano del frutto delle loro mani lavorando duramente notte e giorno. Non erano esperti nelle Scritture e non spiccavano certo per scienza e cultura.

E si ricorda che “abitavano una regione composita, con vari popoli, etnie e culti” in una “periferia”:

Era il luogo più lontano dalla purezza religiosa di Gerusalemme, il più distante dal cuore del Paese. Ma Gesù comincia da lì, non dal centro ma dalla periferia, e lo fa per dire anche a noi che nessuno è ai margini del cuore di Dio.

L’annuncio a tutti che parte dalla periferia

L’omelia ricorda che “Giovanni accoglieva la gente nel deserto, dove si recavano solo quelli che potevano lasciare i luoghi in cui vivevano”:

Gesù, invece, parla di Dio nel cuore della società, a tutti, lì dove sono. E non parla in orari e tempi stabiliti: parla «passando lungo il mare» a dei pescatori «mentre gettavano le reti». Si rivolge alle persone nei luoghi e nei momenti più ordinari.

Ed ecco la “forza universale della Parola di Dio, che raggiunge tutti ed ogni ambito di vita”. Ma la Parola ha anche una forza particolare, “incide cioè su ciascuno in

modo diretto, personale. I discepoli non dimenticheranno mai le parole ascoltate quel giorno sulle rive del lago, vicini alla barca, ai familiari e ai colleghi, parole che segneranno per sempre la loro vita”.

Gesù dice loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». Non li attira con discorsi alti e inarrivabili, ma parla alle loro vite: a dei pescatori di pesci dice che saranno pescatori di uomini. Se avesse detto loro: “Venite dietro a me, vi farò Apostoli: sarete inviati nel mondo e annuncerete il Vangelo con la forza dello Spirito, verrete uccisi ma diventerete santi”, possiamo immaginare che Pietro e Andrea gli avrebbero risposto: ‘Grazie, ma preferiamo le nostre reti e le nostre barche’. Gesù invece li chiama a partire dalla loro vita: «Siete pescatori, diventerete pescatori di uomini». Trafitti da questa frase, scopriranno passo dopo passo che vivere pescando pesci era poca cosa, ma che prendere il largo sulla Parola di Gesù è il segreto della gioia.

Non rinunciare alla Parola di Dio ma leggerla ogni giorno

L’invito è a non rinunciare alla Parola di Dio che – viene sottolineato – ci ricorda che “così il Signore fa con noi: ci cerca dove siamo, ci ama come siamo e con pazienza accompagna i nostri passi”. Proprio come quei pescatori, “attende anche noi sulle rive della vita”:

Con la sua Parola vuole farci cambiare rotta, perché smettiamo di vivacchiare e prendiamo il largo dietro a Lui.

E dunque la definizione della Parola di Dio:

La lettera d’amore scritta per noi da Colui che ci conosce come nessun altro.

La certezza è che “leggendola, sentiamo nuovamente la sua voce, scorgiamo il suo volto, riceviamo il suo Spirito”. E se  la Parola ci fa vicini a Dio, siamo chiamati a non tenerla lontana:

Portiamola sempre con noi, in tasca, nel telefono; diamole un posto degno nelle nostre case. Mettiamo il Vangelo in un luogo dove ci ricordiamo di aprirlo quotidianamente, magari all’inizio e alla fine della giornata, così che tra tante parole che arrivano alle nostre orecchie giunga al cuore qualche versetto della Parola di Dio.

La proposta di “spegnere la televisione e di aprire la Bibbia; di chiudere il cellulare e di aprire il Vangelo” contiene una promessa:

Ci farà sentire il Signore vicino e ci infonderà coraggio nel cammino della vita.

 

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-01/papa-francesco-messa-domenica-parola-vangelo.html

Da Perugia alla Siria un Ponte di solidarietà

Questo tempo di Natale che tutti, per via della pandemia, abbiamo definito particolare, è stato straordinario per una famiglia siriana e per le famiglie che da due mesi l’hanno accolta in provincia di Perugia. Un’esperienza che si richiama a quella dei “corridoi umanitari” e che, come ci raccontano i promotori, ha provocato “un’esplosione di generosità”

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si chiama “Il Ponte” l’associazione nata mesi fa per rendere concreta la proposta di assicurare una casa ad una famiglia della Siria, da oltre nove anni in una situazione di conflitto e distruzione. L’idea è proprio quella di gettare un ponte di solidarietà, ma c’è anche il richiamo a Pontevalleceppi, la località in provincia di Perugia, in Umbria, dove tutto si svolge. L’idea iniziale è stata della famiglia Rossi, subito abbracciata dalla famiglia Lombardi. Ma loro vogliono che si parli soprattutto della realizzazione che vede la partecipazione di tanti. L’esperienza, infatti, è realmente comunitaria, come emerge da alcune delle persone che abbiamo intervistato, a partire dal parroco di Pontevalleceppi, don Domenico Lucchiari:

Don Domenico racconta che la famiglia siriana, arrivata a fine ottobre, si è recata in chiesa più di una volta e spiega che sono cristiani ortodossi. Non potendo dialogare con loro per via della diversa lingua, le persone della parrocchia hanno cercato di assicurare quella che don Domenico definisce “una corona di tenerezza”. Spiega che in particolare si è impegnato il gruppo che è nato chiamandosi Laudato si’ Don Domenico racconta che alcuni parrocchiani sono andati a trovarli e a portare loro i tanti regali che la gente ha offerto, insieme con Massimo Pieroni, della Caritas, che si è occupato delle prime necessità. Il sacerdote sottolinea la priorità di trovare un lavoro, una fonte di reddito per i genitori mentre i figli – dice – sono già stati introdotti nei rispettivi percorsi scolastici. E poi – afferma – passo dopo passo, saranno presto a pieno titolo una delle famiglie del territorio.

Importante il contributo dei volontari della Comunità di Sant’Egidio, il primo dei quali è Luciano Morini:

Morini racconta come ha sostenuto le famiglie di Giampaolo Rossi e Mario Lombardi grazie all’esperienza fatta da Sant’Egidio con i corridoi umanitari, sottolineando che però, negli altri casi, a farsene carico sono stati Comuni, o parrocchie, o altre istituzioni, mentre in questo caso tutto è nato dall’acquisto di una casa fatto da parte di privati. Luciano Morirni sottolinea l’importanza dell’integrazione, soffermandosi sul valore di costruire insieme un percorso, che è fatto in primis di conoscenza della lingua, che nelle altre forme di arrivo non viene incoraggiata o aiutata.  E poi – dice – c’è il contesto sociale, di una piccola comunità che è un elemento chiave del successo dell’iniziativa dei corridoi umanitari. E’ una goccia nel mare – riconosce Morini – e i numeri non possono essere grandi anche per via della normativa in materia ma – sottolinea – dimostrano che è possibile un’altra forma di accoglienza senza i traffici di esseri umani.

Il richiamo ai Corridoi umanitari

La Comunità di Sant’Egidio è protagonista insieme con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e la Cei-Caritas, del programma dei cosiddetti Corridoi umanitari avviato nel 2016 grazie al coinvolgimento dello Stato italiano. E’ un programma completamente autofinanziato, che permette il rilascio di visti per profughi dalla Siria, e di recente anche dall’Etiopia, in condizioni di maggiore vulnerabilità. Sono accolti a spese delle associazioni firmatarie in strutture o case e viene avviato per loro un percorso di integrazione. I Corridoi umanitari sono iniziati in Italia ma alcuni sono ora in via di realizzazione anche in Francia, in Belgio e Andorra. Finora hanno mosso 2600 persone, salvandole da situazioni di invivibilità. Offrono garanzie utili anche per chi accoglie perché  il rilascio dei visti umanitari prevede i necessari controlli da parte delle autorità. I principali obiettivi sono evitare i viaggi dei profughi con i barconi della morte nel Mediterraneo; contrastare il disumano business degli scafisti e dei trafficanti di uomini, donne e bambini; concedere a persone in condizioni di vulnerabilità (ad es. vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, donne sole, anziani, malati, persone con disabilità) un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario, e successiva presentazione della domanda di asilo.

Giampaolo Rossi, giurista che, con sua moglie e i suoi figli, per primo ha messo in campo risorse, energia e entusiasmo per l’esperienza nei pressi di Perugia, dove vive, avrebbe voluto non comparire ma lo abbiamo convinto a parlarci dell’iniziativa da giurista quale è, proprio in considerazione del quadro giuridico dei Corridoi umanitari:

Il professor Rossi ci spiega che all’inizio la primissima risposta alla sua iniziativa è stata di scetticismo e di perplessa contrarietà. Sono arrivati – spiega – commenti sulle difficoltà e suggerimenti di fare offerte in denaro per varie associazioni. Sconvolgeva – afferma – l’idea di un coinvolgimento da vicino. Ma Rossi racconta che in modo davvero sorprendente le stesse persone che avevano cercato di dissuaderlo, poi, non appena la macchina si è messa in moto hanno immediatamente trovato il modo di contribuire. Ci confida il rammarico di aver pensato che le parole avessero perso di senso: può accadere di parlare di fratellanza, ma di rifiutare l’idea che uno straniero sia fratello. Ma poi riferisce di un’esplosione di generosità di fronte a persone vere e concrete e un’iniziativa possibile. Rossi sottolinea che è importante, dunque, riscoprire il valore delle parole spiegando che è proprio quello che insegna Papa Francesco con tutto il suo apostolato. Da giurista, Rossi distingue in un certo senso i ruoli, sottolineando le responsabilità degli Stati e delle società civili. Si sofferma sull’importanza di un ruolo promotore da parte della società civile, per poi ribadire la possibilità a livello giuridico che l’Unione europea faccia propria l’iniziativa dei Corridoi umanitari. La solidarietà messa in moto dal basso può istituzionalizzarsi – spiega – dando l’occasione all’Europa di dare una risposta ai flussi di persone e un’alternativa di civiltà allo sfruttamento dei trafficanti, peraltro anche rispondendo alla questione della denatalità nel vecchio continente.

La fede e la solidarietà impressa nel dna

Ha seguito tutto dall’inizio dando un contributo sul piano spirituale che tutti definiscono importantissimo Don Saulo Scarabattoli: 

Noi vediamo un frutto, l’accoglienza, ma – dice don Saulo – c’è una radice ed è certamente la fede delle famiglie che hanno avuto l’idea. Poi – spiega – vediamo altri frutti in persone che magari non hanno la fede così esplicita, ma hanno sensibilità umana, una sorta di fede nella fraternità. Tutti – sostiene – hanno impresso nel dna naturale la sensibilità per aiutare persone in difficoltà. Si tratta di riconoscere quell’impronta. Don Saulo ribadisce: la fede è la sorgente di tutto questo e quelli che l’hanno esplicita sono portatori per gli altri. E il sacerdote sottolinea quanto sia sorprendente che intorno alle prime due famiglie si siano moltiplicati, come fuochi, gli interventi, l’entusiasmo, la distribuzione dei compiti. Don Saulo racconta che nel gruppo social di interconnessione brulicano messaggi e – dice – è meraviglioso vedere una luce che si diffonde dal basso. Il bene – afferma – è davvero contagioso. E poi don Saulo sottolinea come la famiglia accolta sia diventata un’occasione di arricchimento per chi accoglie: accogliere arricchisce, sottolinea.  E richiama l’attenzione proprio sul concetto di ponte: sul ponte lo scambio è da una parte all’altra, ma anche viceversa. E dunque sottolinea che, se sul piano delle cose materiali ora è chiaro chi doni e chi riceva, invece sul piano spirituale – dice – non si riesce più a distinguere. Lo scambio – assicura – è reciproco.

Il sorriso della famiglia siriana

La famiglia siriana, attraverso il figlio che parla inglese, ci ha dato appuntamento presto per un incontro dal vivo, che vorrebbero avvenisse anche nella lingua italiana, che stanno cercando di imparare. Le emozioni per loro sono state e sono tante. Per il momento raccontiamo qualcosa dei loro sorrisi molto dolci nelle fotografie della nuova casa, e del calore con cui dicono e ripetono “grazie”, la prima parola che hanno imparato. Precisamente provengono da Homs, che è stata protagonista delle cronache nel 2012 per il massacrante assedio e per la drammatica offensiva sferrata, da febbraio a luglio, dall’esercito di Damasco perché la città era considerata la roccaforte dei ribelli. Zahir dei suoi diciannove anni ne ha vissuti oltre nove nel terrore e l’orrore della guerra, la piccola Maryam di 10 anni finora non aveva conosciuto altro. La mamma e il papà chiedono preghiere: per tutti i posti nel mondo dove non c’è pace.

https://nemo.vaticannews.va/editor.html/content/vaticannews/it/mondo/news/2021-01/corridoi-umanitari-siria-perugia-famiglia.html

Il Papa: evitare ogni forma di violenza in Centrafrica

Dopo l’Angelus, nuovo appello di Francesco per il Paese africano al centro di gravi tensioni post-elettorali: va respinto l’odio e sostenuto un “dialogo fraterno e rispettoso”

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo aver concluso la recita dell’Angelus nel giorno dell’Epifania, Papa Francesco ha assicurato di seguire “con attenzione e preoccupazione gli eventi nella Repubblica centrafricana”.

Si sono recentemente svolte delle elezioni con le quali il popolo ha manifestato il desiderio di proseguire sulla via della pace. Invito perciò tutte le parti a un dialogo fraterno e rispettoso, a respingere l’odio ed evitare ogni forma di violenza.

La Repubblica Centrafricana è uno dei Paesi più poveri e instabili di tutta l’Africa, nonostante sia ricca di risorse, come i diamanti e l’uranio. Secondo l’ONU, metà della popolazione del Paese è dipendente dagli aiuti umanitari e un quinto è sfollata.

Il difficile voto

Domenica 27 dicembre 2020 nella Repubblica Centrafricana si è votato per rinnovare il parlamento ed eleggere il presidente, nonostante i timori di attacchi e l’aumento delle violenze tra governo e ribelli. Dall’inizio di dicembre scorso, la situazione nel Paese è diventata molto tesa. Un sodalizio di gruppi armati, la Coalizione dei patrioti per il cambiamento (Cpc), ha intensificato gli attacchi dopo la decisione della Corte costituzionale di escludere dai candidati l’ex presidente François Bozizé, appoggiato dai ribelli e avversario dell’attuale presidente, Faustin Archange Touadéra, in cerca del secondo mandato. Il governo centrafricano e l’Onu si sono opposti alla richiesta dei ribelli di rinviare le elezioni. Il presidente Touadéra ha accettato l’aiuto di Paesi stranieri per cercare di mantenere il controllo sul territorio nazionale.

Un appello all’unità, alla responsabilità e alla pace per un Paese che ha sofferto tanto: è stato quello levato dai vescovi della Repubblica Centrafricana a pochi giorni dalle elezioni presidenziali.

Il principale sfidante di Touadéra è Anicet-Georges Dologuélé, ex primo ministro appoggiato da Bozizé. Proprio la competizione tra Touadéra e Bozizé ha alimentato di recente le tensioni nel Paese.

La crisi tra il 2013 e il 2016

Bozizé era arrivato al potere nel 2003 con un colpo di stato, e negli anni successivi aveva vinto due elezioni considerate da molti non regolari a causa di brogli: tra il 2008 e il 2013 il suo primo ministro era stato Touadéra. Nel 2013 Bozizé aveva lasciato il paese dopo che Séléka, una coalizione di forze provenienti per lo più della minoranza musulmana, era riuscita a prendere il controllo di numerose città, tra cui la capitale. Touadéra era diventato presidente con le elezioni che si erano tenute tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016.

Gli ultimi sviluppi

Due settimane fa il Cpc ha preso il controllo di Bambari, la quarta città per grandezza della Repubblica Centrafricana, e ha minacciato di arrivare fino a Bangui, la capitale. Il governo ha parlato di “tentato colpo di stato” e Russia, Francia e Rwanda sono intervenute in sostegno del presidente Touadéra. Bambari è poi tornata sotto il controllo del governo, grazie all’intervento dell’esercito centrafricano e delle forze Onu. Solo qualche giorno fa la città  di Bangassou, nel sud,  è caduta nelle mani dei ribelli, “molti dei quali mercenari e gente del Niger; la mattinata è stata frenetica. Artiglieria pesante dalle 5 del mattino e trenta tra morti e feriti  di cui diversi sono bambini”. A riferirlo è stato monsignor Juan José Aguirre Muñoz, vescovo di Bangassou,  in una dichiarazione all’agenzia Fides. Di fronte alla crescente insicurezza, il vescovo ha raccolto un gruppo di orfani per tenerli al sicuro. Dopo aver cercato di resistere all’offensiva dei ribelli, i soldati governativi  hanno abbandonato la loro posizione e sono rientrati nella base,  ha spiegato il capo dell’ufficio regionale della missione Onu.

La coalizione Cpc è formata da sei gruppi, alcuni dei quali in passato sono stati anche avversari. Secondo l’organizzazione per la difesa dei diritti umani Human Rights Watch, negli ultimi cinque anni i gruppi ribelli che di recente hanno formato la Cpc si sono resi responsabili di numerosi crimini di guerra, tra cui uccisioni deliberate di civili e stupri di donne e ragazze. Pochi giorni prima del voto, Lewis Mudge, direttore del programma sull’Africa centrale di Human Rights Watch, ha detto: «La nuova coalizione di ribelli sta forzando migliaia di persone a lasciare le loro case. Il governo nazionale e le Nazioni Unite dovrebbero mobilitarsi per proteggere i civili in questa escalation della crisi».

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2021-01/papa-appello-repubblica-centrafricana-pace-elezioni.html