I 60 anni dell’Ocse per la cooperazione e lo sviluppo

Nel sessantesimo anniversario dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), resta il grande valore di un organismo che ha costruito percorsi di dialogo in anni decisivi e che continua ad assicurare analisi e strategie di confronto, come ricorda l’esperto di organizzazioni internazionali Francesco Cherubini

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Sono 37, oggi, gli Stati membri dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), che ha preso questo nome con la firma dell’accordo istitutivo il 14 dicembre 1960 a Parigi, dove è rimasta la sua sede. In realtà era nata nel 1948 come Organizzazione per la cooperazione economica europea e con l’obiettivo di amministrare il Piano Marshall. Da sempre si fonda sul principio di riunire un gruppo di Paesi che condividano gli stessi valori di libertà e democrazia e lo stesso intento di lavorare per la collaborazione internazionale. Principi che hanno modellato  la ricostruzione post-bellica e che hanno poi contribuito allo sviluppo dei Paesi membri e in qualche modo anche dei Paesi terzi che l’hanno avuta come punto di riferimento.

Modello di cooperazione

L’Ocse ha sviluppato un modello originale di cooperazione internazionale, efficace, meno istituzionalizzato e burocratizzato, che consente, a un’organizzazione con una limitata membership, di mettere intorno a un tavolo l’intera comunità internazionale su questioni sulle quali ha una riconosciuta leadership. Ad esempio per tutte, le questioni fiscali. Anche l’organizzazione parigina subisce, in ogni caso, le mutanti condizioni internazionali.

Nuove adesioni in prospettiva

Solo 10 anni fa l’Ocse ipotizzava l’entrata della Russia. Oggi l’allargamento è orientato – e limitato – verso i Paesi che ne condividono i suoi valori. Con la futura adesione di Brasile, Argentina e Perù, l’Organizzazione allargherà il suo perimetro inglobando l’America Latina; con l’entrata di Romania, Croazia e Bulgaria completerà l’adesione dei Paesi dell’Ue. Ma l’istituzione deve puntare a ridefinire un dialogo proficuo con le grandi economie del mondo – Cina, India, Russia – cresciute al di fuori di essa. Regole comuni, che consentano uno sviluppo armonioso delle relazioni internazionali e del benessere dei popoli, sono nell’interesse di tutti.

Per una riflessione sull’impegno di ieri e di domani, abbiamo intervistato  Francesco Cherubini, docente di International organizations and human rights presso la Luiss:

Cherubini sottolinea che l’Ocse oggi è un’organizzazione multilaterale strutturata sul principio del confronto e dello scambio di esperienze, con un impegno importante fondato sull’evidenza dei dati e sulla reciproca collaborazione. E spiega che, se davvero con la presidenza Biden a inizio del prossimo anno gli Stati Uniti torneranno a credere nel multilateralismo, per l’Ocse, che già ha in prospettiva ulteriori adesioni, si può giocare davvero un ruolo molto importante, sempre in termini di piattaforma privilegiata di dialogo e di confronto. Ricorda che certamente il suo mandato è cambiato, si è rimodellato, con la nascita dell’allora Comunità economica europea (CEE), ma che negli anni i due organismi hanno convissuto mettendo a frutto anche in questo caso la modalità fondativa del dialogo, sulle scelte di politica economica e sulle analisi dell’impatto sociale. In particolare, con la fine della guerra fredda, l’impegno dell’Ocse, che era stato fortemente ridimensionato dallo sviluppo dell’Europa unita, è stato rilanciato. E’ stato importante infatti  il suo andare proprio oltre i confini dei Paesi che si trovavano sotto la CEE prima e poi sotto la Ue.  Tutti impegni – ribadisce Cherubini – che hanno portato un indubbio beneficio nel miglioramento delle politiche pubbliche dei membri dell’Organizzazione e un utile termine di confronto per i Paesi non membri. Si devono ricordare le iniziative nel campo della tutela degli investimenti, nelle politiche industriali, nel coordinamento delle politiche fiscali, nella lotta contro l’evasione, nel contrasto alla corruzione, nelle politiche per l’ambiente e nel monitoraggio dell’efficacia delle politiche educative. Cherubini afferma poi che certamente l’Ocse resta un’organizzazione di riferimento per l’intera comunità internazionale, sottolineando in particolare anche il valore della mole straordinaria di analisi e di dati che produce, dati utilissimi per governi, parlamenti, esponenti del mondo accademico e della società civile. Anche quando leggiamo documenti prodotti dal G7, dal G20 , dall’Apec, l’organismo per la Cooperazione Economica Asiatico, ritroviamo riferimenti a studi dell’Ocse. Secondo la valutazione di Cherubini, si tratta di dati che sono facilmente fruibili e che hanno grande efficacia anche in confronto con quelli di altri organismi internazionali.

L’orizzonte attuale

Oggi – spiega Cherubini – vediamo che tutte le energie nell’ambito Ocse sono dirette a consentire agli Stati membri e alla comunità internazionale di prendere le migliori decisioni per affrontare gli effetti della crisi economica e sociale causata dalla pandemia.  Per non dimenticare le altre sfide globali,  quelle dei cambiamenti climatici, delle migrazioni, della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale.

I 15 anni di José Ángel Gurría Treviño

Il compito di guidare l’Ocse nelle sfide dei prossimi anni spetterà a un nuovo Segretario generale. Termina nel 2021, infatti, il mandato dell’economista e diplomatico messicano José Ángel Gurría Treviño  che in 15 anni ha consolidato sulla scena internazionale il ruolo dell’Organizzazione. Nei prossimi mesi 10 candidati, tra i quali un capo di Stato, due ex Commissari europei e vari ministri, si disputeranno la sua posizione.

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Non solo economia: l’Ue a 27 può essere più incisiva

Domenica 13 dicembre termine ultimo per i negoziati sulla Brexit: incertezza sulle relazioni commerciali future tra Londra e Bruxelles. Intanto, l’Unione europea guarda all’uscita del Regno Unito come ad una possibilità di rilancio. Il primo obiettivo sarebbe superare il voto all’unanimità, difeso fino all’ultimo dai britannici, come spiega l’esperto di giurisdizione europea Giampaolo Rossi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A fine dicembre scade il periodo di transizione della Brexit: a meno di un sorprendente annuncio in questa domenica di metà dicembre, indicata come ultimo giorno dei colloqui su un possibile accordo commerciale, si procederà ad una effettiva uscita del Regno Unito “no deal”. In un caso e nell’altro, l’Ue potrà ripartire per scrivere un capitolo nuovo senza il Regno Unito che per tanti versi frenava. Al vertice di questa settimana, l’Ue ha assunto due decisioni importantissime: una sul Next Generation Eu, e l’altra sulla coraggiosa riduzione delle emissioni di gas serra del 55 per cento entro il 2030. In definitiva, con la risposta alla crisi sanitaria, l’Europa ha ritrovato slancio politico, mettendo in campo 1800 miliardi di euro destinati a progetti e riforme a favore della salute e del welfare dei cittadini e avviando davvero il green deal. Ma la decisione è stata possibile solo grazie a compromessi su aspetti non direttamente legati ai fondi e al bilancio che erano il punto centrale all’ordine del giorno. Ad esempio, la promessa di maggiore libertà fiscale all’Olanda e un posticipo per la verifica sullo stato di diritto per Polonia e Ungheria. E’, dunque, nei processi decisionali che l’Ue può fare progressi, come sostiene il giurista Giampaolo Rossi, esperto di istituzioni europee:

Rossi ricorda il commento di Ursula von der Leyen al termine del Consiglio Europeo dei giorni scorsi: “L’Europa avanza!”. Secondo Rossi, sono frasi che danno conto del superamento di una grande preoccupazione: quella di un’impasse decisionale per il veto di Polonia e Ungheria, superato all’ultimo grazie alla mediazione della presidenza tedesca. Il giurista sottolinea che la posta in gioco era decisiva perchè “il recovery fund e le altre misure che completano il progetto Next Generation Eu costituiscono un salto di qualità dell’Unione, un cambiamento di natura che ne garantisce la sopravvivenza e può avere grandi sviluppi”. Rossi, dunque, sottolinea che l’Europa, facendo proprie le necessità degli Stati membri e delle loro popolazioni derivanti dalla crisi sanitaria e economica, “supera il limite originario fondato solo sulla creazione del mercato comune e appare non più come il gendarme delle regole ma come la sede che può risolvere i problemi dei cittadini”: quelli che ogni Paese, ogni governo, non sarebbe in grado di risolvere. Basti pensare alla pandemia ma non solo.

Il nodo dell’unanimità

Rossi ricorda che l’esercizio del potere di veto sull’approvazione del bilancio, ventilato fino alla vigilia del vertice di questa settimana da Polonia e Ungheria, avrebbe impedito al progetto di prendere vita. E, dunque, sottolinea che “l’ordinamento dell’Unione non può andare avanti così, avendo sempre la spada di Damocle di quel potere di veto che l’Inghilterra, prima di andarsene, ci ha lasciato in eredità”. Tra l’altro Rossi ribadisce che questo potere viene spesso usato come una sorta di arma di ricatto per ottenere vantaggi, anche se discutibili. Cita l’esempio delle politiche fiscali favorevoli strappate dall’Olanda. A proposito del dibattito sullo stato di diritto Rossi però ha un chiarimento da fare: posto che la questione non avrebbe dovuto bloccare appunto un negoziato sul fondo di rilancio, il giurista afferma però che il quesito in discussione era un quesito mal posto dal punto di vista giuridico. La questione che non è da poco – spiega – andrebbe affrontata in altre sedi e non inserita in questo modo nel voto del Consiglio. Proprio per questo, Rossi ribadisce l’importanza di superare l’unanimità: per evitare di vincolare il voto di alcune decisioni a possibili “ricatti” su altre questioni.

L’ipotesi del federalismo

La strada – spiega – può essere quella verso la forma di Stato federale. E già ci sono tantissimi progetti elaborati da gruppi di studiosi e anche da sedi istituzionali. Ma Rossi ricorda che è una strada molto difficile e lunga perché la riforma dovrebbe essere approvata da tutti i Paesi membri e ratificata dai loro Parlamenti. Secondo il parere del giurista, gli interessi contrari sono ancora troppo forti.

L’alternativa a “cerchi concentrici”

Secondo Rossi, il modo di procedere dovrebbe essere quello delle “acquisizioni puntuali e progressive”. Ricorda che fin dall’inizio Robert Schuman aveva avvertito che l’Unione europea si doveva formare per gradi progressivi. Il giurista è convinto che le occasioni e le possibilità non manchino, proprio per le stesse ragioni che rendono necessaria l’Europa unita. Si matura di volta in volta la consapevolezza che i singoli Stati non sono in grado di risolvere i problemi più gravi delle loro popolazioni. Ora lo si constata per la crisi sanitaria ed economica. Ma – aggiunge Rossi – è così anche per i problemi del clima, dell’immigrazione, della difesa armata. Dunque, il punto focale, secondo Rossi, è che non si può pretendere che tutti i Paesi europei marcino con la stessa velocità, ma non si può ammettere che l’Unione marci con la velocità dell’ultimo vagone. Né, del resto, – avverte – sarebbe bene espellere dall’Unione i più “lenti”, che verrebbero assorbiti da altre zone di influenza. Di qui la formula di una Europa a cerchi concentrici, da realizzarsi man mano che si affrontano singole questioni. La formula circola sempre più frequentemente.

Diverse velocità sono già in atto

Rossi ricorda che non si tratta di una formula inedita. Al contrario – ricorda – è quella già in atto nell’Eurozona, per effetto delle decisioni che sono state via via adottate. Cita la pluralità di sistemi che uniscono da 17 Paesi, che condividono tutti gli accordi, fino ad altri che uniscono 24, 26 o 28 Paesi che aderiscono o meno all’euro, al patto di stabilità, all’accordo sulla libera circolazione o a quelli adottati con grande fantasia istituzionale, come quella del fondo di diritto lussemburghese, creato per dar corpo al Piano Juncher di politica economica e attratto nella giurisdizione della Corte di giustizia europea con un vero e proprio virtuosismo istituzionale. Si sta creando – afferma Rossi – così un nucleo forte e stabile, che dovrebbe prendere nel tempo più consistenza, superando anche la diarchia franco-tedesca. E il giurista è convinto che la successiva approvazione di un nuovo Trattato che ne tragga anche le conseguenze istituzionali – o meglio di più Trattati, per ogni singola fascia – non sarebbe difficile perchè ratificherebbe una realtà già in essere.

Le potenzialità

Rossi esprime la convinzione che se ci si prefigura questo modello, la politica dei singoli passi successivi può perdere il carattere occasionale e puntiforme che ancora la caratterizza e può portare, nel giro di pochi anni, a un risultato organico, con tutte le grandi implicazioni utili all’intera umanità evocate dal Messaggio di Papa Francesco al Parlamento europeo del 25 novembre 2014. E peraltro – aggiunge – potrebbe rispondere agli obiettivi indicati nel discorso di insediamento di Ursula von der Leyen.

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Clima: vecchie e nuove sfide a 5 anni dall’Accordo di Parigi

Il 12 dicembre 2015 ben 196 Stati sottoscrivevano gli impegni contro gli effetti dei cambiamenti climatici, aprendo a una visione storica di solidarietà ambientale: lo sottolinea l’esperto di economia dell’energia, Andrea Carlo Bollino, spiegando che non basta parlare solo di idrocarburi, ma bisogna guardare anche alle nuove tecnologie. L’Onu chiede che tutti gli Stati dichiarino l’emergenza climatica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’Accordo di Parigi è un’intesa tra gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) e riguarda la riduzione di emissione di gas serra e la finanza a partire dall’anno 2020. Il contenuto dell’accordo è stato negoziato dai rappresentanti di 196 Stati alla XXI Conferenza delle Parti dell’Unfccc a Le Bourget, vicino Parigi, in Francia, e sottoscritto il 12 dicembre 2015.

L’obiettivo centrale dell’Accordo

Nel lungo periodo si vuole contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto della soglia di 2 °C oltre i livelli pre-industriali, e limitare tale incremento a 1.5 °C, poiché questo ridurrebbe sostanzialmente i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici.

Il legame forte con la povertà

L’obiettivo riportato dai documenti è anche quello di “rafforzare la risposta globale alla minaccia dei cambiamenti climatici, in un contesto di sviluppo sostenibile e di sforzi per sradicare la povertà”. L’accordo mira infatti ad “aumentare la capacità di affrontare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici e ad aiutare i Paesi in via di sviluppo a sostenere i costi dell’adattamento”.

Le strategie

L’accordo prevede l’istituzione di un quadro di maggiore trasparenza per l’azione e il supporto, con una flessibilità che tenga conto delle diverse capacità delle Parti. Lo scopo è “fornire una chiara comprensione dell’azione contro il cambiamento climatico” con attenzione a diversi aspetti tra cui “la chiarezza e il monitoraggio dei progressi verso la realizzazione dei contributi a livello nazionale di ciascuna delle Parti”. Tra le altre cose, si prevede la verifica ogni cinque anni, dal 2023, per valutare i progressi verso il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo. L’intesa, inoltre, riconosce l’importanza di evitare e ridurre al minimo le perdite e i danni collegati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici e la necessità di promuovere la cooperazione per migliorare la comprensione, l’azione e il sostegno in diversi campi, come i sistemi di allarme rapido, la preparazione alle emergenze, l’assicurazione contro i rischi, la resilienza delle comunità, dei mezzi di sussistenza e degli ecosistemi. I governi hanno stabilito che lavoreranno per definire una chiara roadmap mirata alla creazione di finanziamenti per il clima di 100 miliardi di dollari entro il 2020 e, ancora prima del 2025, stabilire un nuovo obiettivo più consistente.

L’Onu rilancia l’impegno

Per fare il punto, oggi, su tutti questi aspetti, le Nazioni Unite hanno organizzato il Climate Ambition summit virtuale. Nel fare un bilancio sull’azione dei Paesi contro il ‘climate change’ e stabilire nuovi impegni in vista della Cop26 di Glasgow in programma dal primo al 12 novembre del 2021, il   segretario generale delle Nazioni Unite, Antònio Guterres, ha esortato ogni Paese a dichiarare lo “stato di emergenza climatica”. Al vertice Guterres ha spiegato che lo stato di emergenza dovrebbe rimanere in vigore fino a quando non verrà raggiunta la neutralità climatica, vale a dire fino a quando non verranno più introdotti nell’atmosfera gas serra aggiuntivi. “Qualcuno può forse negare che ci troviamo di fronte a una drammatica emergenza?”, ha detto il segretario generale dell’Onu. Guterres ha anche sottolineato che gli impegni assunti per raggiungere gli obiettivi fissati a Parigi nel 2015 sono insufficienti e, in alcuni casi, ignorati. Se la comunità internazionale non cambierà atteggiamento, ha aggiunto, la Terra potrebbe avviarsi in questo secolo verso un “catastrofico” aumento delle temperature di 3 gradi. Secondo quanto riferito da Guterres, che ha invitato le altre nazioni a fare altrettanto, sono già 38 gli stati che hanno dichiarato l’emergenza climatica. L’Unione europea Ha fatto la sua dichiarazione nel novembre del 2019. Il vertice è co-organizzato da Onu, Gran Bretagna e Francia, in partnership con Cile e Italia.

Delle sfide più attuali abbiamo parlato con Carlo Andrea Bollino, docente di economia internazionale e di economia dell’energia in diversi atenei tra cui l’Università Luiss:

Il professor Bollino innanzitutto ricorda l’importanza dell’Accordo di Parigi, non tanto per gli obiettivi precisi fissati in sé, quanto per l’orizzonte nuovo che ha aperto: cinque anni fa – sottolinea – è stato preso un impegno comune in un’ottica di solidarietà ambientale. Al di là dei propositi espressi prima da vari governi, si è trattato di una rivoluzionaria importante visione della questione dell’ambiente e dei cambiamenti climatici. Ricorda i precedenti accordi di Kyoto per sottolineare la differenza proprio in questo senso. Bollino ricorda che il mondo si sta dirigendo verso un aumento del riscaldamento pari a 3 gradi. La ripresa post Covid, dunque, – raccomanda – dovrà essere “seriamente” green se si vuole evitare il peggio. Per mantenere la speranza di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi, le emissioni dovrebbero essere ridotte del 7,6 per cento all’anno, ogni anno dal 2020 al 2030, secondo le Nazioni Unite. Mentre sono aumentate in media dell’1,5 per cento all’anno nell’ultimo decennio, raggiungendo un record nel 2019 (59,1 gigatonnellate, o miliardi di tonnellate, ovvero + 2,6 per cento in più rispetto al 2018). Le nuove promesse che arrivano dalla Cina, dal Giappone o dal futuro presidente statunitense – spiega Bollino – potrebbero consentire, se mantenute, di limitare il riscaldamento a +2,1 gradi nel 2100. Comunque sempre peggio rispetto agli obiettivi di Parigi. Sempre secondo i dati concreti, il decennio 2011-2020 sarà il più caldo in assoluto, con i sei anni più caldi a partire dal 2015, secondo l’Organizzazione mondiale della meteorologia (World Meteorological Organization-Wmo), mentre sulle Alpi, in base a uno studio del Cnr, nei prossimi 20-30 anni rischiano di sparire i ghiacciai sotto i 3500 metri.

L’Europa si conferma leader sui temi ambientali

Al Consiglio europeo di questi giorni è stata presa un’altra decisione coraggiosa che – sottolinea Bollino – aumenta le ambizioni dell’Ue nel cammino verso la neutralità climatica: si alza infatti dal 40 al 55 per cento la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra entro il 2030. Una tappa fondamentale per arrivare al taglio totale entro il 2050. A bloccare la decisione, per tutta la notte tra il 10 e l’11 dicembre e nei mesi precedenti a questo accordo definito storico, è stata la Polonia, la cui economia dipende massicciamente dal carbone.

Non solo idrocarburi

Bollino ricorda che la speranza di tutti, in questo anniversario dell’Accordo di Parigi, è che gli Stati Uniti si possano presto riallineare all’Europa. Il presidente eletto, Joe Biden, ha promesso in campagna elettorale che Washington tornerà presto a impegnarsi dopo che Donald Trump aveva rinnegato la firma decisa nel 2015 da Obama. Bollino non mette in dubbio le intenzioni di Biden, ma avverte che non sarà facile per la prossima presidenza Usa, come per altri Paesi, trovare le risorse utili per modificare alcuni termini della produzione industriale. L’esperto di economia dell’energia sottolinea che la scelta green può essere una scelta vincente anche per l’economia reale, ma il punto è che, come sempre, prima di avere la produttività servono investimenti e purtroppo in questa fase di crisi sanitario-sociale non è facile avere la disponibilità degli investimenti che sarebbero necessari e cioè quadruplicati rispetto a quelli ipotizzabili senza scelte verdi. Bollino sottolinea anche che è l’unica via percorribile e che gli Stati Uniti, come altri Paesi, devono avere nell’orizzonte la svolta verde. Poi Bollino sottolinea che nel quadro internazionale non si può dimenticare Paesi come la Cina che si presenta impegnata contro l’uso degli idrocarburi, ma che lo fa producendo tecnologie che presentano incognite preoccupanti per l’ambiente. Bollino fa l’esempio delle batterie per auto elettriche, che, se devono essere prodotte consumando troppo litio, vanno a provocare comunque un danno all’ecosistema. Il litio infatti come il cobalto si estrae da miniere non senza rischi per gli equilibri della popolazione locale. Il punto è – raccomanda Bollino – avere strategie a 360 gradi, che non trascurino i tanti aspetti da considerare nella fondamentale partita da vincere a difesa della vivibilità dell’ambiente.

Effetto lockdown limitato

L’effetto Covid con i lockdown e la riduzione generale delle attività porterà quest’anno a un calo delle emissioni globali del 7 per cento, dato che non si registrava dalla Seconda Guerra mondiale. Nel 2009 la grande crisi portò a una riduzione dell’1,3 per cento. Secondo le proiezioni di quest’anno, le emissioni di Co2 diminuiranno di 2,4 miliardi di tonnellate rispetto all’anno scorso. Stime dei ricercatori del Global Carbon Project, pubblicate dalla rivista Earth System Science Data, secondo cui però “il trend si invertirà subito appena finirà la pandemia”. “E gli esperti concordano: un anno soltanto non cambia nulla in termini di riscaldamento globale. E bisogna capire – sottolinea Bollino – quanto grande sarà il “rimbalzo”, se farà tornare le emissioni ai livelli del 2019 o se andranno più in alto. Negli Usa la diminuzione è risultata del 12 per cento, in Europa dell’11 per cento, in India del 9 per cento mentre in Cina si fermerà all’1,7 per cento. Il periodo di massima diminuzione della produzione di Co2 è stato lo scorso aprile, con -17 per cento.

Aggiornato il 13 dicembre ore 9:00

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Via libera al piano di rilancio Ue: fondi e “debito europeo”

Il vertice ricompatta le posizioni dei 27 Stati membri dell’Unione europea grazie a un compromesso che supera il veto di Polonia e Ungheria. Si tratta di misure inedite per l’entità, ma soprattutto per il principio di solidarietà applicato anche con un meccanismo di “debito europeo”, come spiega Enzo Moavero Milanesi, politico, giurista e accademico

Fausta Speranza – Città del Vaticano

I leader Ue hanno raggiunto l’accordo sul Next Generation Eu, cioè il cosiddetto piano di rilancio – da 750 miliardi di euro che fa parte di un pacchetto da 1.800 miliardi – trovando un compromesso con Polonia e Ungheria sul bilancio per i prossimi sette anni. Un difficile percorso iniziato con l’accordo di luglio scorso tra i Ventisette, che nei mesi successivi aveva affrontato, prima il negoziato con il Parlamento Europeo (che rivendicava i fondi per la ricerca promessi), poi per il veto di Varsavia e Budapest che si opponevano alla normativa che lega i fondi Ue al rispetto dello Stato di diritto. Dell’importanza di questi provvedimenti abbiamo parlato con il professor Enzo Moavero Milanesi, che è stato giudice di primo grado presso la Corte di giustizia Ue, direttore generale del Bureau of European Policy Advisors, e ministro per gli Affari esteri e in particolare europei in Italia:

Il professor Moavero Milanesi sottolinea innanzitutto i motivi di eccezionalità di questi provvedimenti. Si tratta – spiega – di una decisione che mette in moto finalmente davvero quella solidarietà prevista nei trattati fondativi della costruzione europea. La solidarietà si esprime nel fatto che si mettono in campo ingenti somme – quattro volte un normale bilancio – e che si mettono a disposizione in modo ripartito a seconda delle necessità dei vari Paesi, dovute ovvviamente in relazione alla crisi sanitario-economica derivante dalla pandemia. Si tratta di soldi che solo in minima parte sono erogati a prestito e comunque ad un tasso – sottolinea – ben inferiore a quello che per esempio l’Italia paga normalmente sui mercati. Per non dimenticare che il grosso dei fondi viene stanziato diciamo “a fondo perduto” senza dover essere restituito.

Un’occasione preziosa

Moavero Milanesi mette anche in luce l’importanza di un provvedimento di questo genere per un Paese come l’Italia, ma anche la Spagna e altri, che avevano, anche prima del coronavirus, criticità di bilancio. Il punto – sottolinea – è che Paesi come l’Italia non possono e non devono perdere la partita fondamentale alla quale sono chiamati: far davvero fruttare questi soldi con investimenti che rilancino l’economia. L’opportunità c’è – chiarisce – ed è ottima e non va persa. C’è poi un altro aspetto fondamentale che Moavero Milanesi rimarca: il salto concettuale che è stato fatto approvando il principio di un debito europeo che ammortizza in qualche modo quelli nazionali. Stati membri più forti, come la Germania, si erano sempre opposti – ricorda – mentre Paesi come l’Italia lo invocano da almeno 20 anni. Anche in questo caso lo studioso raccomanda che venga utilizzato nel modo migliore. In generale il provvedimento Next generation Eu vuole appunto essere a favore delle prossime generazioni e Moavero Milanesi ne sottolinea la potenziale efficacia ma raccomandando che Paesi come l’Italia, che in passato hanno fatto del debito pubblico proprio un’arma contro le future generazioni,  non spendano male i soldi a disposizione compromettendo i giovani di domani piuttosto che sostenendo l’economia del futuro.

Il compromesso

Un nuovo stallo sarebbe stato catastrofico per la credibilità stessa dell’Unione. Decisivo è stato il compromesso strappato dalla presidenza tedesca, mercoledì, agli altri 24 Paesi. La più critica era l’Olanda. Moavero Milanesi spiega che in sostanza il compromesso consiste in un allungamento dei tempi. La Commissione può sospendere l’erogazione di fondi Ue in caso di violazione da parte di uno Stato dei principi fondamentali dello Stato di diritto, ma è stata aggiunta la clausola secondo la quale, nel caso in cui uno Stato membro faccia ricorso davanti alla Corte di giustizia Ue, la Commissione dovrà sospendere l’eventuale stop ai fondi fino al verdetto della Corte. Un modo per prendere tempo, prezioso soprattutto per il primo ministro ungherese Viktor Orbán che nella primavera del 2022 deve affrontare le elezioni nazionali. Tra gli altri punti, la garanzia che sarà applicata in modo equo e senza discriminazioni, e solo al bilancio 2021-27 (non dunque ai fondi provenienti dal bilancio precedente), e infine che per uno stop sia necessario un  comprovato nesso tra la violazione in questione e l’impatto sugli interessi finanziari dell’Ue.

Via libera al Meccanismo europeo di stabilità (Mes)

I leader Ue “accolgono con favore” l’accordo raggiunto all’Eurogruppo sulla riforma del Mes e l’introduzione del paracadute finanziario (backstop) per il fondo salva-banche, che considerano “un passo fondamentale che spiana la strada al rafforzamento dell’Unione monetaria e dell’Unione bancaria”: lo scrivono i leader Ue nelle conclusioni dell’Eurosummit. I leader inoltre “invitano l’Eurogruppo a preparare, su base consensuale, un calendario di lavoro vincolante su tutti gli elementi che mancano per completare l’Unione bancaria”.

Climate change

Trovato anche l’accordo sul testo relativo alla lotta ai cambiamenti climatici. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, scrive su Twitter. “L’Europa è la leader nella lotta contro i cambiamenti climatici. Abbiamo deciso di tagliare le emissioni di almeno il 55 per cento entro il 2030”.

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Resa dei conti finale sulla Brexit

Regno Unito e Ue fissano il termine ultimo: si negozia fino al 13 dicembre. E’ la decisione annunciata dopo la cena del premier britannico Johnson con la presidente della Commissione Ue, von der Leyen, a Bruxelles. Restano i nodi della pesca e della governance. Secondo l’esperto di giurisdizione commerciale Bepi Pezzulli non è ipotizzabile un allungamento del periodo di transizione

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Per il premier del Regno Unito, Boris Johnson, cena di lavoro a Bruxelles con la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Dopo giorni di negoziati serrati, si tenta fino all’ultimo di raggiungere un accordo che eviti la Brexit no deal, cioè la scadenza a fine dicembre dell’anno di transizione, senza un nuovo accordo commerciale. Il colloquio di ieri sera ha rilanciato la possibilità di un accordo ma fissando la data di domenica come termine ultimo. Di fatto è stato ribadito soltanto il passo in avanti sul confine irlandese mentre restano questioni irrisolte, come conferma, nella nostra intervista, l’esperto di giurisdizione commerciale Bepi Pezzulli:

Pezzulli sottolinea che Johnson ha confermato che il governo britannico eliminerà alcune norme proposte a settembre in violazione del Withdrawal Agreement, che avevano fatto irrigidire le posizione dell’Unione e che costituivano, fra l’altro, una violazione delle leggi internazionali. Ad annunciarlo erano stati martedì Michael Gove, ministro britannico dell’Ufficio di Gabinetto, assieme al vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič. Le norme in particolare – spiega Pezzulli – mettevano in discussione gli accordi presi tra il Regno Unito e l’Ue a proposito della situazione dell’Irlanda del Nord, che dovrebbe rimanere allineata alle leggi europee in materia di dazi e circolazione di beni e servizi altrimenti si richiuderebbe il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord.

Superata l’impasse sul confine irlandese

Pezzulli spiega che sono state definite alcune “soluzioni” interpretative condivise dell’accordo di recesso sottoscritto l’anno scorso tali da convincere il governo di Londra a ritirare le parti più controverse di due disegni di legge interni – in primis l’Internal Market Bill, riproposto giusto lunedì sera dalla Camera dei Comuni in una versione integrale considerata inaccettabile dai 27 – con cui Londra minacciava di rivendicare il potere di modificare unilateralmente i patti, in violazione del diritto internazionale, pur di blindare la sua sovranità sull’Irlanda del Nord in caso di no deal commerciale. Bruxelles – ricorda – ha difeso il principio per cui l’assenza di barriere fisiche è tutelata dagli storici accordi di pace del Venerdì Santo 1998.

Nodi cruciali

Pezzulli ricorda che restano due questioni aperte: quella della pesca, delle zone territoriali accessibili per gli altri Paesi Ue – in particolare è interessata la Francia – e poi il cosiddetto level playing field, cioè la richiesta da parte dei 27 di leggi che, in caso di accordo commerciale, siano armonizzate ai principi basilari dell’Ue, per esempio in tema di ambiente. Johnson ha chiarito – sottolinea Pezzulli – che Londra non ammette deroghe affermando: “Non possono impedirci di controllare le nostre leggi e le nostre acque”. Ma anche Bruxelles spiega che non può pensare che ci siano leggi troppo distanti che provocherebbero sperequazioni tra le istanze commerciali.

La proposta del sindaco di Londra

In giornata il sindaco di Londra, Sadiq Khan, aveva parlato della possibilità di prolungare il periodo di transizione definendola “la soluzione più sensata e più giusta”. Ma Pezzulli spiega che in realtà non è un’ipotesi al vaglio. L’uscita del Regno Unito dall’Ue è avvenuta ed è trascorso il periodo di transizione, ora l’unica possibilità, secondo il giurista, è trovare un accordo in extremis prima della fine di dicembre, oppure pensare di raggiungere un accordo in un altro momento in futuro. Pezzulli sottolinea che per un negoziato c’è sempre la possibilità, ovviamente, anche dopo l’uscita no deal.

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In Romania il passo indietro del primo ministro

“Non mi attacco alle poltrone”: così Orban, che ha rimesso il suo mandato dopo il risultato delle legislative. A dispetto delle previsioni dei sondaggi, a spoglio quasi concluso, il 29 per cento dei consensi è stato conquistato dal Partito socialdemocratico (Psd) anche se le maggiori chance di formare il governo le ha il centrodestra potendo contare su un maggiore spettro di alleanze. Secondo l’analista Antonello Biagini, siamo ancora una volta di fronte a maggioranze fragili e a voti di protesta, come in altri Paesi, mentre preoccupa la bassa affluenza alle urne

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In un discorso televisivo, il primo ministro romeno uscente Ludovic Orban, conservatore europeista, ha annunciato le sue dimissioni dopo che il suo Partito liberale (Pnl) alle elezioni legislative di ieri ha ottenuto meno del 25 per cento dei consensi. Oltre il 29 per cento è stato raggiunto dal Partito socialdemocratico (Psd) che in Romania è su posizioni antieuropeiste e sovraniste. Si tratta di un risultato imprevisto. Un altro dato sorprendente è rappresentato dall’astensione: soltanto il 31.84 per cento si è presentato a votare, la percentuale più bassa mai registrata.

In ogni caso, nonostante che siano in testa nello spoglio, i socialdemocratici quasi sicuramente resteranno tagliati fuori dalle alleanze in vista del nuovo esecutivo. I liberali di Orban, appoggiati dal presidente Klaus Iohannis, possono contare  sull’appoggio di USR-Plus, formazione moderata di centrodestra alla quale è andato il 15.04 per cento, e degli altri due soli partiti che sono andati oltre lo sbarramento del 5 per cento: il partito nazionalista dell’Aur (8.26 per cento),  nato un anno fa, e l’UDMR, il partito della minoranza ungherese, che con il suo 7.42 per cento è pronto a collaborare in un’alleanza di governo.

Per una riflessione sul voto abbiamo intervistato Antonello Biagini, docente di Relazioni Internazionali all’Università Sapienza di Roma:

Cresce la sfiducia dei romeni

Per quanto riguarda l’orizzonte politico che questo voto apre, il professor Biagini ricorda che il partito liberale alla guida del governo, anche se non avrà la maggioranza potrà contare un’altra volta sulle alleanze. Si tratta di una situazione – spiega Biagini – che si ripropone in realtà da tempo in molti Paesi europei. E c’è poi la forte affermazione del partito di estrema destra e, anche in questo caso, Biagini sottolinea l’analogia con altri risultati elettorali degli ultimi anni in altri contesti. In particolare, a proposito della affermazione dei socialdemocratici quale primo partito, lo studioso ricorda che è soltanto un recupero rispetto alle perdite degli ultimi decenni e che conferma lo scontento di quanti, pur senza voler tornare al regime comunista, vogliono però esprimere il loro disappunto per alcune promesse fatte dalla democrazie e non mantenute, come – cita Biagini – tante opere infrastrutturali. Certamente al momento c’è il fattore Covid-19 che complica la situazione già difficile della crisi economica, anche perché non c’è stata una vera gestione inizialmente della crisi, ricorda il docente. Anche per la estrema destra si deve parlare di voto di protesta, con caratteristiche che – dice Biagini – ci riportano a formazioni simili in Polonia e in Ungheria. Ma quello che davvero preoccupa – afferma – è il dato della bassa affluenza, perché in qualche modo esprime un triste scollamento dai meccanismi democratici, una sorta di crescente sfiducia.  Nello spoglio delle schede non sono ancora conteggiati i voti dei romeni all’estero, storicamente vicini ai partiti di centrodestra.

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Si cerca il dialogo in Siria mentre il Paese è allo stremo

A Ginevra settimana di colloqui inter-siriani mediati dall’Onu per la modifica alla costituzione del Paese: si dovrebbe faticosamente aprire la via a nuove elezioni, mentre si confermano divergenze sul piano interno e tra le potenze internazionali coinvolte. Per la popolazione la situazione peggiora: oltre l’80 per cento è caduta in povertà, come denuncia il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico nel Paese

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’inviato speciale degli Stati Uniti per la Siria, Joel Rayburn, ha incontrato ieri ed oggi le autorità turche ad Ankara per discutere degli sviluppi del conflitto siriano, in particolare degli sforzi per una de-escalation nella regione nordoccidentale di Idlib, ancora contesa tra le forze di Bashar al Assad, appoggiate da Russia e Iran, e milizie locali legate   alla Turchia. La delegazione, guidata da Rayburn, ha avuto colloqui con il portavoce e consigliere del Recep Tayyip Erdoğan, Ibrahim Kalin, e il viceministro degli Esteri, Sedat Onal.

Per capire il margine di confronto possibile e le implicazioni, abbiamo intervistato Daniele De Luca, docente di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università del Salento:

Lo studioso ricorda quanto sia difficile avvicinare le posizioni delle parti dopo dieci anni di conflitto in cui all’esercito di Assad si sono opposti inizialmente forze di opposizione improvvisate e poi miliziani legati a gruppi e sottogruppi diversi tra loro. M soprattutto mette in luce che negli ultimi anni per gli sviluppi sul terreno hanno avuto un ruolo preponderante Russia, Iran, Turchia, mentre progressivamente già a partire dalla presidenza Obama, si è ridotta l’influenza degli Stati Uniti. De Luca spiega che il confronto di questi giorni ha riguardato i possibili futuri sviluppi del dialogo intra-siriano, in particolare per arrivare a una commissione costituzionale e ad un percorso per eventuali future elezioni. Questo è l’obiettivo ma – ribadisce – il cammino appare proprio difficile.  Il governo di Erdoğan ha   ribadito la richiesta di ritirare definitivamente il sostegno ai curdi-siriani che si ritrovano sotto la sigla Ypg/Ypj, che sono considerati  “terroristi”, ma è solo uno di punti in discussione.

La questione profughi

De Luca ricorda che, nell’agenda dei colloqui, c’è la situazione dei profughi siriani, sottolineando che non se ne parla però abbastanza. Si tratta di oltre 3,6 milioni di rifugiati siriani presenti in Turchia e di oltre un milione presenti sul piccolo territorio del Libano. De Luca ricorda che la presenza in Turchia è motivo di “contrattazione” con l’Unione europea: Ankara torna spesso a ipotizzare di aprire i confini verso i Paesi Ue.

Le possibili attese per il cambio di presidenza Usa

Per quanto riguarda sia il percorso interno di pacificazione sia il rientro dei profughi, in prospettiva ci si chiede quale potrebbe essere in futuro il contributo di Washington visto che dal 20 gennaio la presidenza pasa a Joe Biden.  De Luca sottolinea che il presidente eletto non ha ancora esplicitato le sue intenzioni. In tema di politica estera, infatti, in campagna elettorale e poi subito dopo al momento della vittoria, Biden si è limitato a parlare di rinnovate relazioni con l’Unione europea. Questo potrebbe significare anche un approccio diverso nei confronti del Medio Oriente ma – spiega De Luca – è tutto da vedere. In tema di Medio Oriente non si può non considerare – afferma – che qualcosa si è messo in moto dopo l’accordo commerciale tra Israele e Emirati Arabi Uniti, e poi con il Bahrein, con il Sudan e sembra anche tra poco con l’Oman. Si tratta del cosiddetto accordo di Abramo che De Luca definisce positivo per tutta l’area ma difficilmente in grado di provocare a breve conseguenze positive per la Siria.

La denuncia del cardinale Zenari

“La Siria è sempre più povera e disperata, dopo dieci anni di guerra è un Paese ammalato”. Sono parole del nunzio apostolico in Siria, il cardinale Mario Zenari che, in un video dell’ong Avsi, racconta di “lunghe code di persone che attendono di comperare il pane presso i panifici a prezzo sovvenzionato dal governo” e di “tanti feriti di guerra e malati che portano le conseguenze di 10 anni di esplosivi e bombe di ogni genere che hanno inquinato l’ambiente”. Sulla Siria – sottolinea il nunzio – “grava inoltre la coltre di silenzio che,  come diceva Papa Francesco a gennaio scorso, rischia di coprire la sofferenza di dieci anni di guerra”.  “Sono morte molte persone in Siria, difficile calcolarne il numero, dire quanti feriti, quante case, quartieri e villaggi sono stati distrutti. Stiamo assistendo alla morte della speranza. La gente è esacerbata. Pensava che una volta finite le bombe, cominciasse la ripresa economica, la ricostruzione”. Nulla di tutto ciò.

L’iniziativa “Ospedale aperti” continua

Quattro anni fa il cardinale Zenari ha lanciato il progetto “Ospedali Aperti” con l’obiettivo di assicurare cure mediche gratuite anche ai più poveri grazie al coinvolgimento di tre nosocomi cattolici no profit, due a Damasco e uno ad Aleppo, all’aiuto di diversi donatori, tra cui la Cei, la Fondazione Policlinico universitario Gemelli e il dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, e al supporto tecnico di Avsi. “Alla fine di questo 2020 – spiega Zenari – avremo assistito circa 40.000, o forse più, malati poveri. Il progetto si protrarrà ancora nel 2021, e speriamo di rispondere ai bisogni di 50.00 malati poveri”.  Tantissime le persone ferite dalla guerra, anche interiormente, come i bambini, traumatizzate dalle bombe, dalle esplosioni. “Ogni giorno – ricorda il porporato – centinaia di migliaia di esplosivi sono stati riversati sul territorio e questi hanno inquinato, ferito l’ambiente, l’aria e il suolo”. Un degrado che sta alla base dell’incidenza di tante gravi patologie, soprattutto oncologiche, che colpiscono i siriani, in particolare minori. C’è anche l’obiettivo di cercare di ricucire il tessuto sociale accettando qualsiasi ammalato di al di là di ogni appartenenza etnico-religiosa.

L’emergenza Covid-19

In Siria le conseguenze della diffusione del virus rischiano di essere catastrofiche a causa della mancanza di posti letto ospedalieri, reparti di isolamento e terapia intensiva, fattori che aumentano considerevolmente il tasso di mortalità del virus. Se a metà ottobre i casi erano poco sotto i 5000, alla fine di novembre erano saliti a oltre 7.500. Numeri impossibili da confermare a causa del conflitto e della situazione di isolamento in cui si trova il Paese, con molte zone che non sono sotto il controllo governativo.

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Da Beirut don Elia chiede autentico rinnovamento per il Libano

Distruzione e crisi economica: la situazione in Libano resta molto difficile. La denuncia dell’Onu è confermata da Beirut da don Elia Mouannes, mentre è in corso una nuova conferenza dei donatori. Le necessità sanitarie si uniscono all’esigenza profonda di un “autentico rinnovamento” socio-politico. Poi il racconto dell’impegno della Chiesa ricordando l’importanza dell’invito del Papa a farsi povera tra i poveri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A quattro mesi dall’esplosione nel porto di Beirut, che il 4 agosto scorso ha provocato oltre 220 vittime, 6000 feriti e 300.000 sfollati, la popolazione libanese e i familiari delle vittime continuano a cercare risposte a quanto accaduto e a patire le tragiche conseguenze esasperate da oltre un anno di default finanziario e dalla diffusione del Covid-19. E’ il quadro che emerge nella videoconferenza organizzata dal presidente francese Macron  per fare il punto sugli aiuti internazionali. Alla conferenza hanno preso parte oltre all’Unione Europea, anche gli Stati Uniti, il Canada e i Paesi arabi del Golfo.

Le parole di Guterres

“La pandemia in Libano – ha sottolineato Guterres – ha aggravato una situazione economica e finanziaria fragile. La povertà continua ad aumentare e i servizi sanitari e le scuole sono allo stremo. Pochi hanno accesso alla fornitura di acqua ed elettricità. Per molti, il cibo è diventato una sfida quotidiana”. “La frustrazione sociale rimane, ha aggiunto, mentre l’opinione pubblica attende i risultati di un’indagine trasparente, imparziale e credibile sulle cause dell’esplosione”.Inoltre, ha proseguito il capo dell’Onu, ”il popolo libanese attende da troppo tempo la formazione di un nuovo governo, che dovrà avere la capacità di attuare le riforme necessarie per guidare il Libano sulla strada della ripresa”.

L’appello Onu sul piano politico

Il 10 agosto, sei giorni dopo le esplosioni a Beirut  – ha ricordato Guterres – il governo libanese guidato da Hassan Diab si è dimesso. Il diplomatico Moustapha Adib, chiamato a formare un nuovo governo, non ha raggiunto un accordo sull’assegnazione dei portafogli ministeriali. Dunque, Saad Hariri, capo del governo libanese dal 2016 al 2019, è stato nuovamente incaricato di formare il governo, ma finora le consultazioni non hanno sortito un risultato. Guterres ha dunque invitato la comunità internazionale a chiedere ”con una sola voce, alla leadership libanese, di mettere da parte interessi politici e formare un governo che risponda alle esigenze del popolo”. Infine Guterres ha chiesto ai Paesi donatori di sostenere il programma di riforme, ripresa e ricostruzione messo a punto dalla Banca mondiale, dall’Unione europea e dalle Nazioni Unite. ”Con un approccio di pianificazione urbana sostenibile e una rapida ripresa socio-economica, ha concluso, la rivitalizzazione di Beirut, come cuore pulsante del Libano, può iniziare”,

L’impegno e la testimonianza della Chiesa

Subito dopo l’esplosione, Papa Francesco ha inviato, tramite il Dicastero vaticano per lo Sviluppo umano integrale, un primo aiuto di 250.000 euro. La Conferenza episcopale italiana ha deciso di destinare al Libano un milione di euro, dai fondi dell’8 per mille. L’ufficio del Regno Unito di Aiuto alla Chiesa che Soffre ha annunciato un pacchetto di aiuti di 5 milioni di euro per la ricostruzione di edifici e chiese della capitale. Sono alcuni esempi di contributi che Don Elia Mouannes, parroco della Parrocchia di San Michele Anahor a Beirut, definisce “preziosi”, raccontando nel concreto alcune situazioni di bisogno:

Don Elia cita l’esempio di persone che non riescono a pagare cure necessarie, come un intervento alla testa per una ragazza rimasta ferita il 4 agosto o la rimozione di un tumore  diagnosticato ad un ragazzo. Si tratta di storie e di persone concrete che bussano alla parrochia di don Elia o alla Diocesi, o in generale al patriarcato maronita. Il parroco spiega che, ad ogni livello, anche quello della Caritas locale, si cerca di prestare aiuto, sottolineando però che in molti casi la differenza economica tra il poco che può assicurare il sistema sanitario nazionale e le richieste delle strutture è davvero alto, in particolare se valutato in moneta locale per la popolazione. Spiega che in questo momento poche centinaia di dollari, con la forte svalutazione della lira libanese, che ha perso l’80 per cento del valore che aveva prima del marzo 2019, diventa un cifra proibitiva.

Andare oltre l’aiuto economicoDon Elia sottolinea anche che non si può pensare ai problemi del Libano solo in termini di necessità di soldi. Senz’altro – ribadisce – è necessario l’aiuto che potrà essere confermato dalla videoconferenza internazionale in corso, ma non si può dimenticare che al Libano serve un autentico rinnovamento del sistema. A questo proposito, don Elia racconta della sfiducia della gente che teme fortemente che i soldi che potranno arrivare si possano perdere nei meandri della burocrazia e di percorsi di corruttela e possano non arrivare a rispondere alle necessità più concrete.

L’auspicio e la speranza

Don Elia esprime l’umano auspicio che davvero da questo tempo di estrema difficoltà possa venire la spinta per un cambiamento di sistema in Libano. E poi parla di speranza cristiana, raccontando la personale particolare preghiera per questo Avvento che può portarci la grazia di accogliere il Salvatore. E ricorda che nella sua preghiera e nella preghiera dei suoi confratelli, c’è il richiamo alle parole di Papa Francesco che ha chiesto alla Chiesa libanese di essere povera tra i poveri. Per don Elia – dice – cercare di rispondere alla chiamata di Papa Francesco in questo senso, in questo momento concreto, è motivo di gioia spirituale.

Nella cronaca dal Libano un nuovo scandalo

I media parlano oggi dell’incriminazione di otto militari in pensione per “arricchimento illecito”. Tra gli accusati di corruzione c’è l’ex capo dell’esercito Jean Kahwaji, che ha ricoperto l’incarico dal 2008 al 2017, e diversi ex capi dell’intelligence militare. Un procuratore ha avviato un procedimento per il loro presunto “arricchimento illecito” avvenuto “utilizzando le loro posizioni ufficiali per raccogliere vaste ricchezze”. E’ stata menzionata anche una banca che diversi anni fa avrebbe permesso a Kahwaji e ai membri della sua famiglia di depositare somme fino a 1,2 milioni di dollari sui loro conti senza giustificarne l’origine. Gli imputati saranno interrogati il 10 dicembre.

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Il “rito congolese” esempio di inculturazione per altre culture

Messaggio del Papa alla presentazione del libro sul Messale Romano per lo Zaire

Con un videomessaggio il Papa ha fatto sentire la sua voce alla presentazione del libro a cura di Suor Rita Mboshu Kongo dedicato al Messale Romano per le Diocesi dello Zaire, edito dalla Lev. Un volume che ha la prefazione di Francesco che parla di “modello per altre culture”. Sono intervenuti il cardinale Tomasi e il liturgista padre Silvestrini, mettendo in luce la profondità dell’esperienza ecclesiale dell’inculturazione

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si intitola precisamente “Papa Francesco e il Messale Romano per le diocesi dello Zaire” e contiene i contributi di cinque autori. La prefazione del Papa arricchisce il testo e spiega il valore dell’inculturazione della liturgia, facendo riferimento al Concilio Vaticano II.  Ed è quello che ha ribadito il Papa nel suo video messaggio salutando quanti si sono ritrovati per la presentazione, in presenza o in collegamento online, e tornando a felicitarsi per un testo e soprattutto un’esperienza ecclesiale che può essere modello per altre culture a partire da quelle dei popoli amazzonici.

E proprio di “frutto meraviglioso di impegno costante e di dialogo” ha parlato il cardinale Silvano Maria Tomasi, già nunzio in Etiopia e poi Osservatore permanente della Santa Sede presso L’Onu a Ginevra. Il  porporato ha sottolineato – nella presentazione avvenuta martedì 1 dicembre nella sede del Dicastero per la Comunicazione – come il libro sia “un’opera della Chiesa locale in comunione con la Chiesa universale”, spiegando che di un lungo impegno si è trattato, con momenti di intenso lavoro e colloqui internazionali tra esperti. Ma quello che davvero sembra importante, nelle parole del cardinale Tomasi, è lo spirito, frutto del Concilio Vaticano II, che lo anima: “lo spirito della Chiesa inclusiva di Papa Francesco”:

Una Chiesa – ha ribadito il cardinale Tomasi – che guarda ad altre culture, proprio come si legge nel sottotitolo che il Papa ha richiamato nel suo videomessaggio: “Un rito promettente per altre culture”:

Il porporato si è soffermato sul significato e il peso dei vari capitoli ricordando, tra l’altro, la centralità della celebrazione secondo il rito zairese avvenuta con Papa Francesco il 1 dicembre 2019 nella Basilica vaticana. Un momento di entusiasmo di fede in cui – spiega – sono emersi i “tratti gioiosi” del rito e di una “spiritualità che prorompe” e che palesa anche il suo “forte radicamento alla trascendenza”. “Non è solo questione di colore o di movimenti”, ha affermato il cardinale Tomasi, spiegando che “si va più in profondità, si tocca l’anima della gente, la forza della vita che prorompe”.

Il significato della data del 1 dicembre

Una celebrazione – ha ricordato il moderatore dell’incontro padre Jean Pierre Bojoko responsabile della sezione francese Africa di Radio Vaticana – voluta il 1 dicembre perché in questo giorno nel Martirologio romano si legge l’elogio della religiosa congolose Maria Clementina (al secolo Alphonsine) Anuarite Nengapeta della Congregazione delle Suore della Sacra Famiglia di Wamba, dichiarata martire e proclamata beata da Giovanni Paolo II nel 1985. Dunque, proprio il 1 dicembre di un anno dopo, è stata organizzata la presentazione del volume.

Alcuni esempi di particolarità

Padre Bruno Silvestrini, liturgista-Custode del Sacrario apostolico, ha sottolineato innanzitutto il legame profondo con il Messale Romano di cui – ha ricordato – in questo periodo abbiamo ricevuto la terza edizione:

E poi a Padre Bruno è stato affidato il compito, nel dibattito, di citare e spiegare alcune delle particolarità:

Padre Bruno ha citato innanzitutto la specificità al momento delle invocazioni: non solo solo per i santi, come avviene in modo consueto, ma si fa appello anche agli antenati e questo perché – ha spiegato – ricordarli è importante nella sensibilità umana e spirituale del popolo di Dio che forma la chiesa congolese. Poi Padre Bruno ha ricordato che sono ammessi anche per i ministranti e per il celebrante, in alcuni momenti precisi, movimenti ritmici. E ha citato la gioia che accompagna in questo rito il canto di Gloria. Poi il liturgista ha fatto altri esempi, come quello dell’ascolto seduti della proclamazione del Vangelo e dell’incensazione ad ogni celebrazione del Libro del Vangelo. Alcune particolarità – ha spiegato – si ritrovano nel rito ambrosiano.

Anche padre Bruno ha parlato di “profondità” da cogliere, sottolineando alcuni elementi che a suo avviso sono centrali nella spiritualità africana, come la solidarietà, la fraternità, la condivisione che possono richiamarci – ha detto – al valore proprio della comunità dei credenti: “quello di essere una grande famiglia che vive l’Amore”.

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Ultimatum in Etiopia

Il governo etiope invita la comunità internazionale ad astenersi da “non graditi e illegittimi atti d’ingerenza” e annuncia l’offensiva finale nel conflitto in atto nella regione del Tigray, scoppiato lo scorso 4 novembre. L’Unicef parla di emergenza umanitaria e dalla confinante Eritrea, i vescovi lanciano un forte appello al dialogo. “Una situazione di destabilizzazione dell’area potrebbe rafforzare il peso dei terroristi”, avverte nella nostra intervista l’africanista Anna Bono

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il primo ministro, Abiy Ahmed, ha ordinato all’esercito federale di lanciare “l’offensiva finale” contro le forze separatiste della regione autonoma del Tigray, dove da settimane è in corso un conflitto armato. “L’esercito – ha dichiarato Ahmed, Nobel per la Pace 2019 – ha ricevuto l’ordine di intervenire sul capoluogo Mekele (Macallè)  contro le forze armate ribelli tigrine che fanno capo al Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tpfl). “Si farà di tutto – assicura il capo del governo sul suo profilo Facebook – per proteggere i civili” e “perché la città di Mekele non subisca gravi danni”. Ieri il primo ministro etiope aveva fatto sapere di non accettare ingerenze nella gestione del braccio di ferro con la regione del Tigray.

Ascolta il servizio

L’esercito federale è alle porte di Makallè, capitale della regione più a nord dell’Etiopia. Abitata da 500.000 persone è sede del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf), partito di governo locale. E’ scaduto l’ultimatum di 72 ore per la resa intimato domenica dalle autorità di Addis Abeba, ma il leader locale risponde che la sua gente è “pronta a morire” in difesa del proprio territorio. Il conflitto è maturato nei mesi scorsi, da quando, a settembre, il partito al governo del Tigray (Tigray People’s Liberation Front) ha organizzato le elezioni nella regione, contro il parere del governo federale. Centinaia, finora, le vittime degli scontri e migliaia gli sfollati, rifugiatisi nel vicino Sudan.

Per capire l’origine e la gravità di questo conflitto, abbiamo intervistato l’africanista Anna Bono:

La professoressa Bono inizia la sua analisi ricordando le origini del conflitto: a settembre nella regione del Tigray si sono svolte le elezioni che il governo federale aveva chiesto di sospendere per via dell’emergenza pandemia. Una scusa, secondo il gruppo etnico dei tigrini perchè in realtà non si vuole concedere autonomia al potere locale. Bono spiega che trattandosi di una  federazione di nove regioni in realtà la questione non nasce intorno all’autonomia locale ma ha un altro significato. Fino all’arrivo al governo del primo ministro Ahmed il gruppo del Tigray ha tenuto il controllo del potere centrale e dunque di questo si tratta: la contesa nasce intorno a questa posta in gioco.

L’emergenza umanitaria

Bono si sofferma sull’allarme lanciato dall’Unicef per 2,3 milioni di bambini a rischio nella regione, per poi spiegare che normalmente si tratta di territori che si reggono sull’assistenza delle organizzazioni internazionali e dunque è particolarmente grave che di fronte all’imminenza dell’offensiva e già in presenza di settimane di scontri, il personale di queste organizzazioni si sia dovuto allontare. La studiosa ricorda anche che si trattava delle uniche fonti di informazioni per il mondo occidentale.

Un conflitto polveriera

E’ evidente – sottolinea Bono – la ripercussione immediata sull’equilibrio del Sudan che già dal 4 novembre ha ricevuto migliaia di persone in fuga dal Tigray, così come sono immediate le preocccuapazioni per le possibili implicazioni dell’Eritrea che è stata in conflitto con l’Etiopia e che confina con il  TIgray. E poi c’è un’altra indicazione importante nelle parole di Bono: bisogna guardare alla Somalia perché il Paese riesce a tenere testa agli attacchi e alle ingerenze degli jihadisti perché ha il pieno appoggio dell’Unione africana, che ha la sua sede principale ad Addis Abeba, e dell’Etiopia. Una situazione di destabilizzazione dell’area potrebbe rafforzare il peso dei terroristi.

Il tentativo dell’Onu

Alla riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu i Paesi africani hanno fatto un passo indietro spiegando di voler concedere più tempo agli sforzi diplomatici dell’Unione africana. In molti hanno espresso la preoccupazione per una crisi umanitaria e la destabilizzazione del Corno d’Africa.

L’appello dei vescovi eritrei

Dalla vicina Eritrea arriva l’appello della Conferenza episcopale: i presuli esprimono profonda tristezza e ricordano che “in guerra perdono tutti”. Ribadiscono che “la guerra è contro la vita e contro lo sviluppo” perché “uccide, mutila, distrugge e semina odio tra la gente”. Nella nota dei vescovi si legge inoltre che la guerra non ha un vero significato ed è sempre ingiusta”, perché “distrugge i quattro pilastri della pace, ossia verità, giustizia, amore e libertà”.

Non c’è pace senza verità e giustizia

La verità è essenziale alla riconciliazione, spiegano i presuli, perché “all’interno della società non assicura solo i diritti individuali, ma salvaguarda il bene comune proteggendo i diritti degli altri come fondamento della pace”. Al contempo, “la giustizia garantisce i diritti di tutti, incentivando il progresso per costruire la pace”, mentre “l’amore infonde empatia per i bisogni del prossimo, creando reciprocità”. Infine, la libertà “permette alle persone di contribuire allo sviluppo della pace”. In quest’ottica, i presuli “in nome di Dio e per il bene dei popoli”, chiedono “l’immediata cessazione delle ostilità” ed invitano le parti in causa “a risolvere il conflitto attraverso il dialogo”. La dichiarazione dei vescovi si conclude con l’esortazione rivolta a “clero, religiosi e fedeli” affinché “si impegnino nella preghiera” per la pace.

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