Beirut, il governo si è dimesso

L’intero governo del premier Hassan Diab rassegna le dimissioni. L’annuncio ufficiale in tv: le esplosioni al porto di Beirut, sono “il risultato di una corruzione endemica”. Intanto, la Conferenza dei donatori ha stanziato 250 milioni di euro in aiuti, da far arrivare attraverso l’Onu direttamente alla popolazione, e ha chiesto riforme che rispondano ai bisogni della popolazione. Nella capitale, ferita dalla catastrofe di martedì scorso, in tanti si offrono volontari per prestare soccorso. Con noi don Elia Mouannes di una parrocchia vicino al quartiere più colpito

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Repubblica di Cipro mette a disposizione gli aeroporti, i porti e le basi militari in chiave logistica a supporto degli aiuti umanitari e delle attività di protezione civile e ricostruzione nella città di Beirut. Lo ha annunciato il presidente cipriota Nicos Anastasiades a margine del summit in videoconferenza promosso domenica da Francia e Onu, che ha riunito tutti i Paesi che si sono offerti di aiutare il Libano con risorse finanziarie e personale specializzato. E’ emersa la disponibilità di 250 milioni di euro, con l’impegno a consegnarli direttamente a quanti operano sul campo. Del possibile impegno della comunità internazionale e della mobilitazione della gente locale, abbiamo parlato con don Elia Mouannes, parroco di una delle 1126 parrocchie di Beirut:

Don Elia ci racconta che subito nella sua parrocchia si è formato un gruppo che ha prestato soccorso nelle case della zona a ridosso di Karantine, il quartiere raso al suolo. Nelle aree circostanti gli edifici non sono crollati ma dentro le case hanno subito molti danni e il primo impegno, dice don Elia, è rimettere a posto come si può porte e finestre e assicurare da mangiare. Non manca in realtà l’aiuto neanche di volontari che vengono perfino da fuori Beirut. Don Elia descrive una popolazione angosciata, preoccupata sfiduciata, ma anche testimone di grande umanità e di fede. Dopo la grande prova della crisi economica, ora il terrore delle esplosioni e della tensione sociale. Per i cristiani, sottolinea don Elia, è proprio il momento di testimoniare quello in cui credono: parole e gesti di pace alla sequela di Cristo. Don Elia spiega che è normale essere inquieti per le ingiustizie ma l’espressione di questa inquietudine non può essere violenta, non può andare contro il messaggio di Cristo. Don Elia ci racconta come le parole del Papa, all’Angelus domenica, abbiano portato incoraggiamento e poi sottolinea che sempre ai suoi fedeli ricorda quello che Papa Francesco ha detto subito dopo la sua elezione al soglio pontificio e che ripete spesso: bisogna lavorare per costruire ponti e non muri. Poi, un appello alla comunità internazionale perché oltre ad impegnarsi, come è importante, per la ricostruzione materiale, si impegni anche a tenere vivo il messaggio di pacificazione, a evitare strumentalizzazioni, ingerenze, il prevalere di messaggi di odio. E una testimonianza personale: don Elia ci racconta che a 49 anni purtroppo deve affermare che gran parte della sua vita è trascorsa in un territorio in guerra. Ma anche da questa esperienza  è nata forse la sua vocazione sacerdotale, a servizio di Dio e della Chiesa, perché – spiega – Dio ha portato la vera pace nella sua vita.

Tensione e dimissioni

Ad una settimana dalla duplice esplosione che ha colpito il porto della capitale, l’intero  governo si è dimesso. Dopo la dichiarazione ai giornalisti del ministrio della Salute, il discorso del primo ministro Diab alla televisione. “L’esplosione del materiale immagazzinato nel porto della capitale negli ultimi sette anni – ha detto – è stato il risultato di una corruzione endemica. Oggi seguiamo la volontà del popolo nella sua richiesta di consegnare i responsabili del disastro che si nascondono da sette anni, e il suo desiderio di un vero cambiamento”. “Di fronte a questa realtà – ha concluso Diab – annuncio le dimissioni di questo governo”. E’ il secondo governo a cadere in seguito alle proteste contro la classe politica: a ottobre scorso si era dimesso Saad Hariri. L’inchiesta ora passa dalle stanze del governo all’Alta Corte mentre, purtroppo, il bilancio delle vittime si aggrava: 220 i morti e 7000 i feriti.

L’aiuto internazionale e l’invito a riforme

Il mondo deve agire in fretta, con efficacia e totale trasparenza per aiutare il Libano a rialzarsi dalla crisi in cui è piombato dopo la devastante esplosione a Beirut del 4 agosto. E’ questo il messaggio emerso dalla conferenza dei donatori fortemente voluta dal presidente francese Emmanuel Macron, il leader occidentale più attivo sin da subito sul fronte dell’assistenza, e sostenuta dall’Onu che ha riunito via internet i rappresentanti di circa 30 Paesi e istituzioni. I leader, tra i quali il presidente statunitense Donald Trump e il quello del Consiglio europeo Charles Michel, hanno risposto alla chiamata del Papa che anche all’Angelus ieri ha chiesto generosità, e hanno convenuto sul fatto che gli aiuti devono essere consegnati il prima possibile “direttamente” alla popolazione libanese. Questo era uno dei nodi alla vigilia della videoconferenza. Gli aiuti saranno gestiti dall’Onu attraverso le sua agenzie in totale “trasparenza” e consegnati “direttamente” alla popolazione. Inoltre, è stata ribadita la richiesta di un’inchiesta indipendente sul disastro avvenuto al porto di Beirut. Lo hanno ripetuto Macron e Michel, che nei giorni scorsi ne avevano parlato con le autorità libanesi, e lo ha chiesto anche Trump esortando “il governo a condurre un’indagine completa e trasparente, per la quale gli Stati Uniti sono pronti a portare il loro aiuto”. Al governo libanese i leader, Macron e Trump in testa, hanno anche rivolto un appello ad ascoltare i bisogni di chi manifesta legittimamente. “Bisogna fare il possibile affinché non prevalgano il caos e la violenza”, ha detto il presidente francese. Il Fondo monetario internazionale, che ha partecipato alla videoconferenza con il direttore Kristalina Georgieva, si è detto disponibile a “raddoppiare gli sforzi” a patto che il Libano si impegni ad attuare quelle riforme che vengono chieste da ben prima l’esplosione.

Il rischio impennata del Covid-19

Finora, secondo il conteggio della John Hopkins University, in Libano sono stati registrati 6223 casi e 78 morti per il Covid-19. Ieri, un medico che guida la lotta contro il Covid-19 nel Paese, l il dottor Firass Abiad, direttore del Rafik Hariri Hospital di Beirut, ha affermato che in seguito alla devastante esplosione nel porto di Beirut e alle manifestazioni di protesta, in Libano si verificherà probabilmente una nuova impennata di casi di coronavirus. “Purtroppo, questa atmosfera favorisce la trasmissione del virus”, ha affermato.

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Il pensiero forte del Papa “per il popolo in Libano che soffre molto”

Appello e preghiera di Francesco per quanto accade a Beirut: alla tragedia di martedì scorso nella capitale libanese si uniscono altissima tensione sociale e disordini, con altri feriti. Francesco ricorda che il Libano si è fatto “modello del vivere insieme” affermando che “questa convivenza ora è molto fragile”. Sollecita aiuti dalla comunità internazionale, chiede alla Chiesa di essere vicina al suo popolo “nel calvario”, nella povertà evangelica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“In questi giorni il mio pensiero ritorna spesso al Libano”. Così Papa Francesco ha ricordato “la catastrofe di martedì scorso”, affermando che “chiama tutti, a partire dai Libanesi, a collaborare per il bene comune di questo amato Paese”. Il Libano – ha ricordato il Papa –  ha un’identità peculiare, frutto dell’incontro di varie culture, emersa nel corso del tempo come un modello del vivere insieme”.  Nelle parole del Papa emerge la preoccupazione: “Certo, questa convivenza ora è molto fragile, ma prego perché, con l’aiuto di Dio e la leale partecipazione di tutti, essa possa rinascere libera e forte”.  Dunque, l’invito alla “Chiesa in Libano ad essere vicina al popolo nel suo Calvario, come sta facendo in questi giorni, con solidarietà e compassione, con il cuore e le mani aperte alla condivisione”. E a braccio il Papa aggiunge una raccomandazione:  Per favore – dice – rivolgendosi a vescovi,  sacerdoti, religiosi del Libano, vivete nella povertà evangelica, senza lusso, perché “il popolo soffre e soffre molto”. Dunque, l’appello “per un generoso aiuto da parte della comunità internazionale”.

Altissima tensione a Beirut

Un poliziotto è morto in violenze in strada, oltre 200 persone sono rimaste ferite, venti manifestanti sono stati arrestati nei disordini scoppiati ieri nella capitale libanese. Almeno 5000 persone si sono riversate in piazza protestando contro il governo e in tanti sono riusciti ad entrare dentro il ministero degli Esteri e in quello dell’Economia prima di essere evacuati con l’intervento dell’esercito. In serata, altri manifestanti hanno preso d’assalto la super-fortificata sede dell’Associazione delle Banche, vicino a piazza dei Martiri. E altri attivisti si sono diretti alla sede del ministero dell’Energia.

 

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A Beirut tra le macerie, i giovani danno lezione di solidarietà

Mentre si cercano ancora i dispersi nel porto della capitale libanese, si parla di inchiesta internazionale per capire cosa abbia scatenato le due esplosioni che martedì hanno provocato oltre 150 morti, 5000 feriti e 300.000 sfollati. Intanto, un gruppo di giovani scout ha improvvisato un servizio di pulitura e di assistenza alle persone, soprattutto anziane, che sono nelle case danneggiate: portano via frammenti di vetro e lasciano un sorriso. Con noi Ghassam Sayegh, uno degli ispiratori dell’iniziativa

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, è a Beirut oggi: in programma incontri con il presidente Michel Aoun e altre autorità del Paese e una visita sulla scena della disastrosa esplosione di martedì. Sul luogo del disastro, meno di 48 ore dopo, si è recato il presidente francese Emmanuel Macron. Allo choc, al dolore, alla disperante urgenza di portare soccorso ai feriti, si unisce ora l’impegno a gestire le macerie e i bisogni della popolazione.

Tanti Paesi del mondo, a partire dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, ma anche l’Egitto e la Giordania e altri si sono impegnati immediatamente ad inviare aiuti. Le prime stime parlano di danni che ammontano tra i 10 e i 15 miliardi di dollari. Un colpo terrificante per l’economia già prostrata dalla crisi. Ma soprattutto i giovani, che abbiamo visto numerosissimi nelle manifestazioni per chiedere riforme nei mesi scorsi, in questa occasione sono scesi in strada per farsi protagonisti della solidarietà. Ce lo racconta Ghassam Sayegh, che si è unito al piccolo gruppo scout di una zona colpita ma non distrutta di Beirut, che ha cominciato a raggiungere le case di anziani soli della zona:

Seminare la speranza in tanta tristezza

Ghassam racconta che è stata come un’altra onda d’urto di tutt’altro tipo: altri giovani si sono uniti e hanno cominciato a cantare per le strade per chiedere chi avesse bisogno di aiuto. Soprattutto anziani hanno risposto chiedendo innanzitutto che qualcuno li aiutasse a rimuovere calcinacci e vetri. Yassan ricorda che da mesi in Libano i conti bancari sono bloccati in Libano in conseguenza del deafault finanziario. Non si possono convertire soldi libanesi, che peraltro hanno perso l’85 per cento del valore, in dollari. E’ praticamente impossibile acquistare vetri. Questi ragazzi dunque stanno cercando di spazzare calcinacci e frammenti di finestre andate in frantumi e stanno cercando di chiudere del cellophane le finestre. In realtà, per questi anziani che hanno passato la guerra ma che non credevano di vedere scene di questo tipo, disorientati e terrorizzati da esplosioni senza precedenti, cercano di spazzare anche un po’ di tristezza, portando un sorriso di speranza.

L’incognita delle responsabilità

Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, intervenendo in televisione, ha smentito con forza che la tragedia possa essere stata causata dalla deflagrazione di armi o di nitrato di ammonio controllati dal suo partito. Nasrallah ha chiesto che ci sia “un’inchiesta trasparente, giusta, indipendente” condotta dall’esercito nazionale. Anche il presidente Michel Aoun ha parlato attraverso i media, spiegando: “Tre settimane fa mi era stato detto che c’erano sostanze pericolose stoccate al porto. Avevo ordinato ai nostri militari che le spostassero”. Sulle cause non ha escluso nulla e ha sottolineato che “se vi è stata incuria i responsabili vanno individuati dalle nostre autorità”, rifiutando così l’idea di una commissione d’inchiesta internazionale avanzata dal presidente francese Macron che, giunto in visita, ha camminato per le strade. Aoun non ha escluso l’ipotesi di un attentato: “È possibile – ha detto – che a innescare lo scoppio sia stato un intervento esterno, magari un missile o una bomba”.

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I vescovi europei e il Libano

A nome di tutti i vescovi dell’Unione Europea, il cardinale Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Comece, Commissione degli episcopati dell’Ue, condivide il dramma e la tristezza della popolazione di Beirut a seguito delle orribili e mortali esplosioni avvenute nel porto della capitale del Libano, assicura preghiere per le vittime e lancia un forte appello per il Libano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“A nome di tutti i vescovi dell’Unione Europea, condivido il dramma e la tristezza della popolazione di Beirut a seguito delle orribili e mortali esplosioni avvenute   nel porto della capitale del Libano”. Sono parole espresse dal cardinale Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Comece, Commissione degli episcopati dell’Ue, con un comunicato dopo la tragedia delle esplosioni a Beirut, assicurando “le più sentite condoglianze alle famiglie delle vittime e a tutti coloro che hanno perso i propri cari: amici, vicini, colleghi”, elevando “preghiere per le anime dei defunti e per la pronta guarigione dei feriti”.Condividendo le parole di Papa Francesco, i vescovi europei pregano per il Libano “affinché, attraverso la dedizione di tutte le sue componenti sociali, politiche e religiose, possa affrontare questo momento estremamente tragico e doloroso”.

R. – Il Libano è il nostro vicino. Ci sono tanti cristiani, tanti musulmani che vogliono vivere in pace in questo Paese, un Paese che è stato molto prospero e ora è diventato molto povero: la gente ha tante sofferenze … Non dobbiamo dimenticare che il Libano ha accolto tanti profughi, che anche nella Chiesa in Europa ci sono libanesi, così come nei nostri Paesi. Ad esempio, a Cipro, la Chiesa cattolica di Cipro è la Chiesa maronita: sono persone venute dal Libano. Quindi, in un certo senso, fanno parte dell’Europa e noi nelle nostre preghiere, nell’aiuto concreto non dobbiamo dimenticare il Libano.

Eminenza, qual era l’impegno delle Chiese europee anche prima di questa tragedia?

R. – Naturalmente, nella Comece lavoriamo per la pace e lavoriamo anche per le relazioni tra l’Unione Europea e il Libano; ma per quanto riguarda il denaro, l’aiuto concreto è ogni Chiesa nazionale che dà il suo contributo. E sappiamo che ci sono tante Chiese in Europa che sono molto generose.

E’ importante anche un appello alla comunità internazionale a non dimenticare il Libano? Questo piccolo Paese che negli ultimi 30 anni è stato baluardo di pace e di convivenza, sembra un po’ dimenticato, a parte questa tragedia …

R. – Sì, e anche dal punto di vista politico, della sicurezza. Penso che il Libano sia importante per l’Unione Europea, che ha tutto l’interesse ad avere un Libano stabile, stabile dal punto di vista politico e dal punto di vista economico. Dunque, penso che i politici, anche dell’Europa, debbano reagire perché è nell’interesse dei popoli europei che il Libano sia aiutato. Ma noi come cristiani dobbiamo fare di più: non dobbiamo agire per il solo nostro interesse, ma dobbiamo agire con solidarietà e con amore, con carità.

Sembra non sia stato un atto voluto, ma un incidente: un incidente, comunque, dove c’era un deposito con una quantità spropositata di composto chimico utile per l’agricoltura, ma anche per creare esplosivi. In ogni caso, è anche una tragedia ambientale: torna l’appello del Papa a un’attenzione agli equilibri tra uomo e natura…

R. – E’ tanto importante: noi non abbiamo ancora capito questo appello così importante.  Vediamo che il riscaldamento della nostra Terra è più veloce di quello che abbiamo pensato. Vediamo che ci sono incendi in Amazzonia: il 19% in più rispetto all’anno scorso, se non sbaglio. Questo significa che dobbiamo agire, e vuol dire anche che noi dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere. E’ molto importante, perché noi abbiamo una responsabilità nei riguardi di questa Terra, abbiamo una responsabilità nei riguardi delle generazioni future. E si capisce che, dove non c’è più stabilità politica, dove ci sono tanti interessi diversi, come accade attualmente in Libano, la situazione diventa molto pericolosa. Sappiamo che sono tanti i Paesi che si trovano in  situazioni analoghe, dunque bisogna agire a livello internazionale, per garantire che in Paesi a rischio non si verifichino incidenti di questo tipo.

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Il Burkina Faso minacciato dalle violenze

Ennesimo atto terroristico in questi giorni nel nord del Burkina Faso, area del Paese dell’Africa occidentale che, come gran parte del Sahel, continua a stare nella morsa del terrorismo. Il 5 agosto di 60 anni fa, il Paese che allora si chiamava Alto Volta, si rendeva indipendente e il 4 agosto del 1984 prendeva il nome di Burkina Faso. Con noi per ripercorrerne le vicende l’esperto della Società geografica Jean-Leonard Touadi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Almeno sei persone, soprattutto bambini, sono rimaste uccise dall’ordigno esplosivo improvvisato scoppiato nel nord del Paese nella notte tra sabato e domenica scorsi al passaggio del carro che li riportava a casa dopo il pascolo del loro bestiame. Si tratta di uno dei tanti sanguinosi attacchi di jihadisti che dal 2015 hanno ucciso oltre 1000 persone e provocato un milione di sfollati. La violenza jihadista, che è spesso accompagnata da conflitti tra comunità, ha ucciso negli ultimi anni oltre 4.000 persone in Mali, Niger e Burkina Faso, secondo i dati delle Nazioni Unite.

Grave la situazione di tutto il Sahel

Preoccupa sempre di più la situazione in tutto il Sahel e nel Paese che festeggia 60 anni di indipendenza attraversando però il periodo più inquietante della sua storia, come conferma Jean-Leonard Touadi, presidente del Centro relazioni per l’Africa (Cra) della Società geografica:

Traffici e interessi minano l’area

Il professor Touadi ricorda che purtroppo negli ultimi anni quasi quotidianamente si verificano attentati, più spesso al nord e più frequentemente contro militari e forze dell’ordine, ma spesso anche a danni di civili, come l’ultimo . E di recente è successo anche che sia stata interessata la capitale Ouagadougou e anche obiettivi civili. Touadi ricorda che tutto il contesto della regione del Sahel vive un aumento della violenza jihadista, unito a traffici di esseri umani e di armi.

Il problema delle influenze esterne

Spiega che alcuni analisti di recente stanno parlando di “Sahelenistan” e questo perché si associa questa area a quella intorno all’Afghanistan, che purtroppo si è caratterizzata per violenze terroristiche e scontri. Sottolinea inoltre come subito dopo l’indipendenza ci siano stati periodi difficili per il Burkina Faso, nell’avvicendarsi di colpi di Stato o di  scontri tra fazioni, ma afferma che quello attuale è il momento più inquietante perché l’espandersi di influenze esterne segna una escalation di violenze imprevedibile.

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Scompare John Hume, protagonista del processo di pace nordirlandese

John Hume, Premio Nobel per la pace per il suo contributo alla pacificazione in Irlanda del Nord e uno tra i più noti politici nordirlandesi per oltre 30 anni, è morto oggi all’età di 83 anni. Il suo nome si lega agli accordi del 10 aprile 1998, passati alla storia come gli accordi del Venerdì Santo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

John Hume, un cattolico ex insegnante e attivista per i diritti umani, è stato per diversi anni, fino al 2001, il leader del Partito socialdemocratico e laburista (Sdlp), di cui era stato tra i fondatori nel 1970. Nel 1998, l’anno della firma dell’accordo di pace in Irlanda del Nord, è stato insignito del Premio Nobel insieme al dirigente del Partito unionista dell’Ulster, David Trimble. Nel 2004 ha lasciato la politica in seguito ad una malattia. Ne traccia un profilo la giornalista Francesca Lozito, che da anni segue da vicino lo scenario irlandese:

R. – Ha fatto tantissimo per la pace, un lavoro instancabile. Hume era l’uomo che ci credeva e più di tutti aveva una visione: proprio dalla martoriata Derry chiedeva che il Nord Irlanda raggiungesse la pace. Ha lavorato per il dialogo con l’altra componente, quella protestante. Una cosa straordinaria. Hume è stato un uomo della visione, colui che ha trattato con gli Stati Uniti perché potessero essere i mediatori più importanti nel processo di pace in Nord Irlanda. Un uomo grande e umile fino all’ultimo.

Un cattolico profondamente credente …

R. – Finché ha potuto è stato visto in chiesa. Le sue condizioni di salute erano già compromesse durante gli anni delle lunghe ed estenuanti trattative che hanno portato poi alla sigla dell’accordo del Venerdì Santo, nel 1998. Ma fino all’ultimo a Derry lo si poteva trovare nella Cattedrale di Saint Eugene dove pregava e, insieme alla moglie, prendeva parte alla celebrazione della Messa.

Cosa dire della sua visione negli anni più bui della questione nordirlandese?

R. – L’SDLP era il partito in cui Hume militava. Purtroppo l’eredita oggi è flebile; si dice che i due partiti, repubblicani e unionisti, che hanno contribuito al processo di pace sono stati in un certo modo sacrificati per il raggiungimento di questa pace. Il contributo di Hume è stato attivo, militante nel sostenere il raggiungimento della pace in uno scenario difficile: erano gli Anni Settanta e la legislazione del Nord Irlanda risaliva al 1920. Lui ha contribuito ad andare oltre le regole ormai passate rispetto ai tempi che stavano cambiando. Prima del Bloody Sunday, il movimento di protesta, soprattutto quello che stava crescendo nella parte cattolica di Derry, chiedeva diritti civili sulla scia di quanto stava accadendo negli Stati Uniti con i neri americani che protestavano; pensiamo al Reverendo Martin Luther King. Tutta una scia di pacifiche proteste prima che scoppiassero i Troubles, prima che scoppiasse il conflitto in Nord Irlanda. Hume si inserì in quella linea, in quello scenario e vi operò fino alla fine anche durante la difficoltà degli anni dei Troubles lavorò perché si riaffermassero i diritti attraverso una via pacifica. Nei suoi scritti si legge: “… purché le decisioni siano in mano alle persone, e non a qualche appartenenza, in mano non a chi cerca la divisione, ma a chi cerca l’unità”. E Hume aveva anche una visione di unità dell’Europa. Aveva trovato in David Trimble, la parte unionista che contribuì al processo di pace, un alleato ideale. Le loro visioni combaciavano nel cercare la pace tanto che, non potendo pronunciare due discorsi a Stoccolma, Hume lasciò a Trimble la parola. Ma non è stato solo la voce di una parte: è stato la voce sola del popolo del Nord Irlanda.

In questo momento lascia un’eredità che può essere una testimonianza importante: la fase storica è molto differente ma c’è bisogno di uomini di pace …

R. – C’è tanto bisogno di uomini di pace. Ho visto l’eredità di Hume soprattutto nella base, nelle persone che lo hanno amato tanto e che sono sicura ai suoi funerali parteciperanno in tanti. Vedo la sua eredità più che nella politica del Nord Irlanda, nella gente comune, in quelle persone che sono preoccupate per gli effetti che la Brexit può avere sul loro futuro e per gli effetti che la situazione, aggravata anche dalla pandemia, possono avere sulle generazioni successive. Vedo soprattutto lì l’eredità di John Hume e sono sicura che in questi giorni, nelle prossime ore, il tributo più grande sarà proprio quello della gente comune che lo vedeva come uno di loro. Non era sicuramente un notabile, tutt’altro. Era un uomo che si poneva con umiltà. La pace vera la vogliono veramente in tanti ora, soprattutto le giovani generazioni che la chiedono insieme alla pace.

Chiede voti e non rivoluzione la candidata dell’opposizione in Bielorussia

Manifestazioni di piazza a Minsk a pochi giorni dal voto presidenziale fissato il 9 agosto, ma per il quale alcune operazioni di voto postale potrebbero cominciare martedì prossimo. Le opposizioni si sono compattate intorno al nome di Svetlana Tikhanovskaja, al suo esordio in politica dopo che il marito, noto blogger, è stato arrestato. Si tratta di sfidare il presidente Lukashenko, che si candida per il sesto mandato. Intanto, è tensione nei rapporti tra Lukashenko e il presidente russo Putin.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’opposizione vuole “elezioni corrette e non una rivoluzione”. Così la trentasettenne Svetlana Tikhanovskaja ha parlato alla folla che a Minsk si è riunita in questi giorni per esprimerle appoggio. Ha rigettato le accuse che le ha mosso Lukashenko di voler provocare disordini con l’assistenza di Paesi stranieri. Tre giorni fa le autorità bielorusse hanno arrestato 32 persone, affermando che si tratta di mercenari russi, che stavano pianificando attentati alla vigilia delle elezioni. Il governo di Minsk ha accusato Thikhanovsky e un altro dissidente, Mikola Statkevich, di aver agito insieme ai 32 presunti mercenari russi, considerati appartenenti al gruppo Wagner.

La situazione sociale

Secondo l’organizzazione per i diritti umani bielorussa Viasna, almeno 60 mila persone hanno partecipato giovedì a Minsk a quella che viene definita la più grande manifestazione nell’ex repubblica sovietica da 26 anni guidata da Lukashenko. Per capire l’attuale momento politico, ma anche la situazione sociale, abbiamo intervistato l’esperto dell’area ex sovietica, Giuseppe D’Amato:

D’Amato spiega che le opposizioni per questo voto hanno scelto di compattarsi intorno al nome della moglie del noto blogger Sergei Tikhanovskij, che si definisce una casalinga stanca di un Paese difficile e che si candida con altre due donne. L’obiettivo dichiarato – sottolinea D’Amato – è quello di portare presto il Paese a elezioni libere. Lukashenko chiede invece di essere riconfermato per quello che sarebbe il sesto mandato, rivendicando di aver dato e di poter assicurare ancora stabilità al Paese. Certamente, afferma D’Amato, c’è stabilità anche economica, ma è una situazione di economia ferma in cui gli stipendi restano molto bassi e per la popolazione la vita è comunque cara. Per questo si registra, fuori dalle città una forte spinta migratoria in particolare verso la vicina Polonia. Per quanto riguarda il coronavirus, D’Amato riferisce che dalla Bielorussia arrivano conferme che il contagio è stato contenuto, che il presidente stesso ha ammesso di essere risultato positivo al Covid-19, ma di essere stato asintomatico. A proposito della vicenda dei presunti mercenari russi arrestati, D’Amato spiega che si tratta di un episodio che conferma come nella stretta alleanza tra Minsk e Mosca si stia vivendo un momento di “scollamento” per quanto riguarda i rapporti tra Lukashenko e Putin.

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Mai così tante armi in Medio Oriente dalla guerra mondiale

Sempre più significativa è la militarizzazione nell’area mediorientale e nell’Africa settentrionale da dieci anni a questa parte, tanto che si assiste attualmente alla maggiore proliferazione di armi mai registrata dalla fine del secondo conflitto mondiale. E’ quanto emerso dal seminario di studio della Nato Foundation College svoltosi in questi giorni a Roma, insieme con la consapevolezza che la pace si costruisce attraverso impegni concreti. Con noi, i protagonisti del dibattito

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Dalla seconda guerra mondiale e in particolare dalla dissoluzione dell’Urss nel 1991, stiamo vivendo il momento più delicato per il futuro dell’area del Mediterraneo e dell’Unione europea”. E’ la convinzione espressa da Youssef Cherif, vicedirettore del Columbia Global Centers, di Tunisi.

Il moltiplicarsi delle armi in campo è parallelo al moltiplicarsi degli attori non statuali, cioè eserciti e milizie legate a personaggi non governativi, o a gruppi terroristici veri e propri, o a varie organizzazioni criminali, o al soldo di privati, precisamente di aziende da difendere. Tutto questo minaccia fortemente la stabilità della Regione, indebolisce l’azione multilaterale della comunità internazionale e soprattutto offre terreno fertile per l’espandersi di potenze regionali, al di là dei principi del diritto internazionale. Alla conferenza intitolata “Quale futuro per il Medio Oriente?”, alla quale hanno partecipato esponenti dell’Alleanza Atlantica e studiosi internazionali, si è parlato di sovranismo e di radicalismo come di due facce della stessa medaglia. Ne abbiamo parlato con lo studioso di Medio Oriente Gilles kepel, docente presso Atenei a Parigi e a Lugano:

Kepel spiega che “questo misto di islamismo politico, nazionalismo e dimensione militare rappresenta la vera sfida alla pace”. Aggiunge che è davvero difficile immaginare oggi come “ristrutturare un progetto di pace” parlando di “enorme. Ma poi sottolinea che la ricerca della pace può passare attraverso un impegno concreto sul campo e cita quello che definisce lo “straordinario esempio di un cristiano”: il lavoro dell’arcivescovo di Mosul, il padre domenicano Najib Mikhael Moussa. Kepel ricorda che grazie al suo impegno è stata salvata la Biblioteca di Mosul e soprattutto sottolinea la sua capacità di creare dialogo e di portare una parola e un gesto di pace.

L’area più complessa del mondo

Condivide la delicatezza del momento Mitchel Belfer, presidente dell’Euro-Gulf Information Centre, che ha parlato delle “difficoltà di una Nato con rivalità al suo interno”, della distanza degli Stati Uniti – anche per le difficoltà economico-sanitarie legate alla pandemia, per la mancata auspicata autonomia in termini di approvvigionamento energetico da shale oil, per l’impegno della campagna elettorale – e di un’Europa impegnata sul fronte interno della crisi. In questo contesto, a consolidare il potere sono potenze regionali come la Turchia o internazionali come la Russia e la Cina che – è stato sottolineato – hanno leadership che rappresentano interlocutori stabili nel tempo. Del ruolo di Washington e Bruxelles, abbiamo parlato con l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, già Vice Segretario Generale della Nato e Presidente della Nato Defense College Foundation, che sottolinea però innanzitutto la complessità dell’area:

Secondo Minuto Rizzo, l’area mediorientale è “la più complessa del mondo”, sicuramente estremamente strategica, dove avvengono conflitti che “sono perfino più difficili da capire di quanti si registrano ad esempio in Africa”. L’ambasciatore spiega che per gli Stati Uniti il Mediterraneo non è una priorità e viene visto come un contesto chiave per l’Ue, mentre per quanto riguarda in particolare il Golfo, la penisola arabica, lì Washington ha forti interessi. Di fatto, Minuto Rizzo fotografa il progressivo allontanamento degli Stati Uniti dall’area, ricordando che in ogni caso l’unico interessamento corretto da parte di chiunque, dovrebbe essere espresso con lo spirito di cooperazione, perseguendo, piuttosto che grandi intenti, piccoli progetti per volta che creino fiducia.

Le prospettive per l’Alleanza

C’è attesa per il risultato delle presidenziali di novembre negli Stati Uniti, che chiarirà quale sarà la leadership a Washington e, dunque, le scelte statunitensi in tema di Nato. Il generale Giuseppe Morabito, membro del direttivo della Nato Foundation College, ci ha confermato che “le elezioni del 3 novembre dopo quattro anni di presidenza Trump sono un’incognita”, sottolineando che “i margini di manovra sono in linea con lo spirito del tempo”. Morabito ci ha spiegato che “se ci sarà un nuovo presidente, bisognerà vedere quale approccio avrà con la Cina e quale nei confronti degli alleati europei che continuano a ridurre le loro spese per la difesa”. In tutti i casi, “la libertà di azione della Nato dipende da quello che l’Alleanza vorrà diventare”. A questo proposito Morabito ha affermato: “Ad esempio, negli interventi della conferenza mi sembra sia emerso che, nonostante la criticità di molte situazioni presenti nel Mediterraneo, l’area non sia più una priorità come nel passato. Oggi si parla molto di Pacifico, di una Nato che si propone come player globale su questioni totalmente differenti. Ma recentemente abbiamo assistito all’esercitazione del Standing Nato Maritime Group Two (SNMG2) – attualmente sotto il comando italiano – assieme alla Marina tunisina e questo dà l’idea che ci sia ancora la volontà di collaborare con i Paesi della regione nonostante l’indecisione regni sovrana. Bisogna capire se l’Alleanza, dopo il 3 Novembre, saprà cogliere le occasioni che si potrebbero presentare o se prevarranno gli interessi nazionali a discapito della stabilità dell’area”. Una considerazione di fondo: “Il Mare Nostrum continuerà a restare lì in ogni caso: se non ci interesseremo oggi, dovremo comunque farlo in futuro”, ha sottolineato Morabito citando “i flussi migratori incontrollati lo dimostrano quotidianamente”.

Il ruolo della Nato oggi

Alla domanda su cosa possa fare la Nato oggi per la difesa del diritto internazionale di fronte alle pressioni di potenze regionali che si muovono autonomamente, il generale Morabito ha risposto: “Niente, o comunque molto poco. La Nato è un’Alleanza politico-militare, tutto quello che si decide al suo interno è vincolante solo ed esclusivamente per i Paesi membri. Però la domanda mi fornisce lo spunto per rilevare che oggi siamo in una fase d’incertezza su questo punto. Il concetto strategico non si tocca, come confermato anche dal Segretario Generale, ma si sta pensando a operare extra-mandato, anche se non si ancora bene come. Poi incombe la questione delle risorse. Per condurre certe attività serve un budget preciso e condiviso da tutti. Intanto, tutti compresa la Cina continueranno a comportarsi come fanno.” Ma qual è la “linea rossa” che la Turchia che – ricordiamo – è stato Membro – non deve superare per non far perdere credibilità all’Alleanza? La Turchia – spiega Morabito – è un alleato particolare: negli ultimi tempi il presidente Erdogan si è avvicinato al presidente russo Putin, poi lo scorso marzo è tornato a chiedere agli alleati supporto sotto il “cappello” dell’art. 4 del Trattato dell’Alleanza, in seguito al confronto con le truppe siriane a Idlib. E si è scontrato con Macron in seguito alle tensioni per il caso della fregata francese Courbet che ha intercettato la nave battente bandiera della Tanzania scortata da tre navi turche”. Seondo Morabito, “tutti in Europa protestano ma fanno poco o nulla”. Dunque, “con Erdogan non esistono linee rosse: la Turchia è un alleato importante per la Nato”. Morabito si è detto “sicuro che nemmeno lo scempio della Basilica di Santa Sofia riconvertita in Moschea, possa minare la posizione di Ankara nei confronti dell’Alleanza. Non ci si può permettere di non avere un luogo di confronto costante con la Turchia come quello offerto dalla Nato a Brussels.” Il punto è “che Paesi europei come anche l’Italia hanno perso anni in Libia lasciando spazio alla Turchia”. E nelle parole di Morabito una citazione di Albert Einstein: “Il mondo non sarà distrutto dai malvagi ma da coloro che rimangono a guardare senza fare nulla”.

La domanda di giustizia della società civile

A dare voce in tutto questo alla società civile è stata la giornalista freelance Sonia Batarrani che ha trascorso diversi anni in Iraq e che ha raccomandato di non dimenticare la richiesta di associazionismo che viene dal basso. Ha ricordato come agli albori delle primavere arabe si sia avvertita una domanda di giustizia e legalità e di come nel corso del 2019 si sia assistiti a nuove manifestazioni di piazza pacifiche, per esempio in Algeria e in Sudan, ma anche in Iraq. Oltre al proliferano di milizie di varia natura – ha sottolineato – c’è anche il moltiplicarsi di ong e di associazioni per i diritti umani, che si spera rappresentino una voce di speranza, in particolare dei giovani, in una zona del mondo che ancora paga problemi legati ai processi innescati dai conflitti mondiali, dalla decolonizzazione, dalla guerra fredda.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-07/medio-oriente-armi-pace-cristiani-mosul.html

 

Giornata contro la tratta, Czerny: terribile aumento durante il lockdown

Uomini, donne e bambini vittime di lavoro forzato, prostituzione, traffico di organi. Crimini che non si sono fermati con la pandemia e che vanno combattuti a tutti i livelli della società. Il cardinale sottosegretario del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale riflette sull’impegno della Chiesa e sull’urgenza di mettere in discussione comportamenti sociali che alimentano la “domanda” di sfruttamento

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si stima che circa 40 milioni di persone siano vittime nel mondo di tratta. Secondo il Rapporto sul traffico di esseri umani dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc), quasi un terzo sono minori. Inoltre, il 71% del totale è costituito da donne e bambine. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) denuncia che 21 milioni di persone siano vittime di lavoro forzato, spesso collegato anche allo sfruttamento sessuale. C’è poi il drammatico fenomeno del traffico degli organi che sfugge alle stime, ma che resta un innegabile risvolto. Della drammaticità e della pervasività del fenomeno, che interessa tutti i Paesi, di origine, di transito o di destinazione delle vittime, abbiamo parlato con il cardinale Michael Czerny, sottosegretario della Sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale:

 Ascolta l’intervista con il cardinale Michael Czerny:

R. La più grande risposta da parte di tutta la Chiesa si trova nell’impegno delle suore della rete Thalita Khum. E così, per la Sezione rifugiati e migranti del Dicastero, la prima priorità è accompagnare la rete, collaborare, appoggiare, suggerire, facilitare… Facciamo ciò che possiamo perché in tanti Paesi del mondo le suore stanno rispondendo veramente a nome della Chiesa e a nome di Cristo. É importantissimo riconoscere questo lavoro, perché loro non parlano, ma agiscono. Noi allora possiamo parlarne un po’.

Indubbiamente la pandemia ha rappresentato un fattore di complicazione di tutto questo impegno…

R. – Certo. Ha complicato l’impegno delle suore, ma grazie a Dio, grazie all’aiuto dello Spirito Santo, loro hanno trovato sempre i mezzi per continuare a portare avanti il ministero. Non si sono rassegnate a tre mesi o sei mesi di lockdown. No: hanno cambiato mezzi o metodi e hanno continuato. La grande tristezza è che in questi mesi di pandemia si è assistito ad un terribile aumento della tratta e questo deve scandalizzarci. Mentre tutti noi – “i buoni” – siamo rinchiusi in casa, come mai la domanda aumenta e non diminuisce? Questo indica che le radici del problema si trovano nelle case, nel cuore delle persone, dei cittadini, di fratelli e sorelle che ci sono intorno. Questa connessione fra la tratta e la vita apparentemente normale di persone apparentemente normali è un grande scandalo che deve farci riflettere, chiedere perdono a Dio, per cercare la necessaria conversione per ridurre e eliminare la domanda che è il motore della tratta.

Diciamo che i due fronti sono il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale, quindi donne e bambini in tutti e due i casi sono in prima linea, anche insieme con tanti uomini ovviamente…

R. – Esatto. Lei ha menzionato la prostituzione, che include adesso, in modo particolare, tutto lo sfruttamento online e il lavoro forzato; include anche il traffico di organi, un crimine per il quale non ci sono parole, e altri aspetti, come l’uso delle persone per trasportare la droga … Tutti questi sono impegni o “imprese” della tratta.

Eminenza, dal 2013 ricordiamo la Giornata internazionale voluta dall’Onu contro la tratta di esseri umani. Nel 2015 c’è stato un impegno sottoscritto dai governi del mondo a combattere questo che spesso viene definito un fenomeno, ma – lo ricordiamo – è un crimine vero e proprio. In questi anni che cosa è stato fatto e che cosa invece non viene affrontato davvero?

R. – Questa è una buona domanda, uno spunto per approfondire. Voglio dire che alla fine la somma degli sforzi potrebbe essere meno importante dei singoli sforzi specifici, perché sono persone, uomini, donne e bambini, le vittime della tratta, i quali vengono sfruttati e abusati. In questo senso, voglio dire che ciò che è interessante è l’aumento di coscienza, direi mondiale; questo per noi è l’aspetto più importante. E in questi anni si è visto lo sviluppo di consapevolezza. Vediamo anche lo sviluppo di tanti nuovi ministeri della Chiesa per affrontare questa piaga: dalla prevenzione, al riscatto, alla riabilitazione, all’integrazione delle persone. E’ importante per tutti a tutti i livelli, renderci conto di ciò che noi stessi diciamo, appoggiamo e provochiamo con le nostre scelte. Il nostro impegno non deve essere quello di contare i numeri, ma di renderci conto che sono le scelte che io faccio che appoggiano in qualche modo e contribuiscono alla tratta. E non dico di guardare solo agli altri o ai cattivi, ma alle scelte di ognuno. Io, che scelte faccio, ad esempio quando compro un telefonino? Quando faccio un viaggio? Quando mi permetto un piacere? E non entro nel dettaglio.

Eminenza, per il cristiano è scontato o dovrebbe essere scontato che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, quindi il rispetto della persona. In una società che vanta la proliferazione, la rivendicazione di tanti diritti, questo non è più scontato, non è più così condivisibile…

R. – Sì, forse. Io penso che ogni diritto ha qualcosa di vero. Forse tutti non vanno così bene nell’insieme, o forse non tutti i diritti hanno lo stesso livello o valore, ma in genere non sono cattivi in quanto tali. Il punto è la cultura dello scarto, una cultura del piacere non istantaneo o necessario, obbligatorio. Dobbiamo riflettere su alcuni “bisogni”, quando si sente dire “ho bisogno di questo piacere, di questo prodotto, ho bisogno di questo prezzo basso” … Penso che queste compulsioni siano più al cuore del problema della tratta che la proliferazione dei diritti o cosiddetti diritti.

L’esperienza di Thalita Khum in tempo di pandemia

Alla grande risposta della Chiesa alla piag della tratta appartiene dunque l’esperienza di Talitha Kum, rete mondiale della vita consacrata impegnata contro la tratta di persone . Suor Gabriella Bottani, coordinatrice internazionale dell’organizzazione, sottolinea che le condizioni di vulnerabilità stanno aumentando e toccando un maggior numero di persone, soprattutto a causa di situazioni di povertà estrema che, a loro volta, facilitano l’attività dei trafficanti. Tra i principali gruppi colpiti vi sono le donne, i bambini, le minoranze etniche, i cittadini stranieri, soprattutto quelli senza documenti, e le popolazioni indigene. Oltre alla diffusione del virus, il principale fattore che contribuisce a incrementare tale vulnerabilità è la perdita del lavoro. Il mercato del lavoro è un settore chiave per i reclutatori al fine di trascinare le persone nella rete dello sfruttamento. Secondo i dati di Thalita Khum, la violenza domestica contro le donne e i bambini risulta in aumento. Pur non facendo parte del traffico in quanto tale, questa può causarlo indirettamente, perché la violenza domestica può costringere le persone ad accettare qualsiasi via di fuga. In aggiunta, alcune delle misure sociali e sanitarie attuate a livello mondiale per contenere il Covid-19 hanno avuto un impatto sui migranti, soprattutto quelli senza documenti e senza permesso di soggiorno. Tra questi ci sono molte vittime di tratta. La pandemia, peraltro, ha avuto effetti sul lavoro di Thalitha Kum: missionari e volontari si sono rivolti ai social media per continuare la missione mantenendo il contatto umano con le vittime della tratta in modo virtuale, e a tal fine si è resa necessaria una formazione specifica.


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L’appello Caritas: misure urgenti e mirate

Il segretario generale di Caritas Internationalis, Aloysius John, afferma che “in questo momento di diffusione del Covid-19,  le persone vulnerabili sono maggiormente a rischio di divenire vittime della tratta”.  La Confederazione delle 162 Caritas nazionali e la rete anti-tratta cristiana sottolineano come il Covid-19 abbia focalizzato l’attenzione dei governi in ambito sanitario, impedendo tuttavia che potesse essere prestata sufficiente attenzione ai danni collaterali della pandemia globale, specialmente sui migranti e lavoratori informali, ora più esposti alla tratta e allo sfruttamento. Caritas Internationalis e Coatnet chiedono, dunque, misure urgenti e mirate per sostenere quanti lavorano in settori informali, tra cui i collaboratori domestici e gli operai agricoli e edili, tra i quali si trovano i lavoratori più vulnerabili, come ad esempio i migranti privi di documenti.

La denuncia di Save the children

Ben 10 milioni delle vittime di tratta nel mondo, ossia 1 su 4, hanno meno di 18 anni e, in un caso su 20, addirittura le vittime hanno meno di 8 anni. La forma più diffusa di sfruttamento resta quella sessuale (84,5 per cento) che vede principalmente come vittime donne e ragazze. Rispetto al totale, il 95 per cento ha un’età compresa tra i 15 e i 17 anni. Il fenomeno però resta prevalentemente sommerso e, con l’emergenza Covid-19, ha visto trasformare alcuni modelli tipici della tratta e dello sfruttamento dei minori. I gruppi criminali dediti allo sfruttamento sessuale in particolare, sottolinea Save the Children, sono stati ovunque rapidissimi nell’adattare il loro modello operativo attraverso l’uso intensivo della comunicazione online e dello sfruttamento nelle case, “indoor”, e il lockdown ha costretto le istituzioni e le organizzazioni non governative ad affrontare maggiori difficoltà nelle attività di prevenzione e supporto alle vittime. Inoltre, dai dati di Save the children emerge che in Europa, è boom di pedopornografia.

Onu: un percorso di consapevolezza e di intenti

Nel 2010, l’Assemblea Generale ha adottato un Piano Globale d’Azione per la lotta alla tratta di esseri umani e ha esortato i governi di tutti i Paesi a intraprendere azioni coordinate e coerenti per sconfiggere questa piaga. Il Piano esprime la necessità di includere la lotta al traffico nei programmi più ampi delle Nazioni Unite, affinché lo sviluppo e la sicurezza a livello mondiale vengano rafforzati. Una delle principali disposizioni del Piano è la creazione di un fondo fiduciario volontario delle Nazioni Unite, in particolare per donne e bambini. Nel 2013 l’Assemblea Generale ha tenuto un incontro di alto livello per la valutazione del Piano Globale d’Azione. I Paesi Membri hanno adottato la risoluzione A/RES/68/192, designando il 30 luglio come ricorrenza per la Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani. La risoluzione l’importanza di questa ricorrenza “nel far conoscere la situazione delle vittime della tratta di esseri umani e nella promozione e protezione dei loro diritti”. E, a settembre 2015, i governi di tutto il mondo hanno aderito all’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile accogliendo anche gli obiettivi e i target che riguardano la tratta. Si chiede di porre fine al più presto al traffico e alla violenza sui bambini, di mettere in atto misure atte a eliminare qualsiasi forma di violenza e di sfruttamento di donne e bambini. Un altro importante avvenimento è stato il Summit per i Rifugiati e i Migranti che ha portato alla Dichiarazione di New York che contiene 19 “promesse” di cui tre sono volte ad azioni concrete contro la tratta di esseri umani.

15 anni fa il disarmo dell’Ira

Il 28 luglio 2005, l’Irish Republican Army, l’Esercito repubblicano irlandese, decide di cessare ogni attività militare nell’Irlanda del Nord avviando parallelamente e gradualmente lo smantellamento del suo arsenale. E’ una tappa decisiva del difficile processo di pacificazione dopo il sanguinoso confronto tra nazionalisti repubblicani e unionisti fedeli alla corona britannica passato alla storia come “Troubles”

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Un confronto, quello tra le due fazioni, che si trascina da anni ed anni e che si palesa nel 1921, quando le 26 contee dell’Irlanda del sud, a stragrande maggioranza cattolica, si dichiarano Stato libero. Seguono due anni di guerra civile. Le contee del nord (Ulster), a maggioranza protestante, restano fedeli al Regno Unito.

Le tappe principali

Negli anni Sessanta i cattolici si mobilitano per i diritti civili, segue il conseguente invio dei militari di Londra nell’Ulster per riportare la pace e sedare disordini e violenze. Poi avviene il riarmo dell’Ira all’inizio degli anni Settanta, il Bloody Sunday del 30 gennaio 1972, quando a Derry (Londonderry per Westminster), 14 cattolici vengono uccisi dalle truppe di Londra. Arriva poi il tempo dello scioglimento del parlamento di Stormont di fronte all’aumento degli attentati, l’attentato che nel 1979 uccide Lord Mountbatten, cugino della regina Elisabetta e ultimo vicerè dell’India, il sacrificio di Bobby Sands, membro dell’Ira detenuto nel carcere di Maze, eletto al parlamento di Westminster, che preferisce morire dopo più di due mesi di sciopero della fame. Poi la svolta dell’inizio degli anni Novanta, con l’inizio dei negoziati che riuniscono per la prima volta i partiti unionisti e il governo irlandese, e la storica intesa del 1993 sul futuro politico della Regione, tra il premier britannico John Major e il premier irlandese Albert Reynolds. L’Ira proclamerà un primo cessate il fuoco nel 1994, seguito in ottobre dalle milizie protestanti. Poi un periodo di alti e bassi di quasi un decennio, con le prime istituzioni autonomiste, l’Assemblea dell’Irlanda del Nord, la bomba che compie una strage a Omagh da parte della ‘Real Ira’, scheggia terrorista che non accetta l’accordo di pace, l’insediamento del governo condiviso fra cattolici e protestanti, le mancate soluzioni del disarmo, le perquisizioni negli uffici dello Sinn Fein nell’Assemblea di Belfast alla ricerca di prove di spionaggio a favore del terrorismo, l’apertura da parte del premier Blair e del premier irlandese Bertie Ahern. Fino al 28 luglio 2005, quando viene annunciato lo storico disarmo e l’impegno ad una soluzione politica per l’Irlanda del Nord. Il risultato di quella giornata ha reso possibile la formazione a Belfast, già nel 2007, di un governo regionale presieduto dal leader degli unionisti, reverendo Ian Paisley, e dal vice Martin McGuinness, ex dirigente dell’Ira.

L’uccisione della reporter e la “nuova Ira”

Il 18 aprile 2019 a Derry in un momento in cui le forze di polizia si fronteggiano con militanti della Oglaigh na hEireann, ovvero la “nuova” Ira, gli spari di militanti della formazione nazionalista colpiscono la reporter Lyra McKee. Aveva 29 anni, era nata a Belfast, era considerata tra i più autorevoli osservatori della situazione in Irlanda del Nord, scriveva per diverse riviste.  Per la sua uccisione, la polizia ha arrestato due giovani di 18 e 19 anni residenti a Derry. E’ il momento più tragico al quale ha legato finora il suo nome la New Ira, gruppo formato nel 2012 unendo diverse realtà nazionaliste armate ancora attive. In altre occasioni ha provocato diversi attacchi ma senza vittime. Questo gruppo armato è piccolo, ma letale. Le origini della New Ira  risalgono all’assemblea straordinaria che i vertici dell’Ira organizzarono nel 1997, sei mesi prima dell’accordo di pace, in un piccolo villaggio del Donegal. Le decisioni di Gerry Adams non furono approvate all’unanimità. Alcuni se ne andarono in segno di protesta, sentendosi traditi. Erano contrari alla linea della leadership del Sinn Féin e volevano dichiaratamente continuare a battersi con la forza per la riunificazione dell’isola.

Per ricordare il significato della decisione dell’Ira, 15 anni fa, e per sapere quale sia la sensibilità oggi tra le persone sul territorio, abbiamo parlato con la collega Francesca Lozito che da anni segue le vicende in Irlanda del Nord:

Lozito spiega che nel 2005, dopo gli Accordi del Venerdì Santo, si è compiuto un passo che è stato decisivo per la pacificazione. Ricorda i protagonisti a livello regionale ma anche internazionale di tutto il lungo processo di dialogo e poi sottolinea quanto tra la popolazione sia stato importante il lavoro delle chiese locali in tuti questi anni fino ai nostri giorni, sottolineando che viene definito sul territorio “l’ecumenismo del quotidiano”. La giornalista Lozito inoltre spiega che il processo della Brexit, che tanta tensione ha portato nel Regno Unito, paradossalmente in Irlanda ha giocato a favore del dialogo e della collaborazione tra le parti, perché è stato un fattore di unificazione della popolazione irlandese. Problematiche quali la disoccupazione e il carovita hanno prevalso, tra le priorità.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-07/irlanda-dialogo-brexit-nordirlanda.html