Bartolomeo I: con il Papa per una data comune della Pasqua tra cattolici e ortodossi

Il Patriarca ortodosso ecumenico parla dell’obiettivo condiviso con Francesco da raggiungere a 17 secoli di distanza dal Concilio di Nicea del 325. Sulla guerra in Ucraina ribadisce: non può esserci pace senza giustizia

Fausta Speranza – Istanbul

Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I ha ricevuto ieri, nella sede del Patriarcato a Istanbul, il gruppo di sacerdoti e giornalisti che per iniziativa dell’Opera Romana pellegrinaggi si trovano da alcuni giorni in Turchia in visita ai luoghi santi sulle orme di San Paolo, per rilanciare l’esperienza dei pellegrinaggi dopo le chiusure per la pandemia. Nell’intervento di benvenuto, il Patriarca ha rivolto anzitutto un caro pensiero al Papa, “fratello” nella fede, incontrato pochi giorni fa in Bahrein, inviando al contempo un affettuoso saluto al presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella e parole di augurio al nuovo governo italiano e al mondo politico, accompagnandole da un incoraggiamento a lavorare per il bene comune.

A Cipro per i funerali dell’arcivescovo Chrysostomos

Bartolomeo I ha annunciato poi di volersi recare domani a Cipro per partecipare alle esequie dell’arcivescovo ortodosso Chrysostomos II, scomparso dopo lunga malattia il 7 novembre scorso, un viaggio particolarmente significativo durante il quale, ha detto, incontrerà il rappresentante del Papa, il cardinale Kurt Koch,  presidente del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani.

Una sola data per la Pasqua cattolica e ortodossa

Il Patriarca ecumenico si è poi soffermato sull’impegno portato avanti con Papa Francesco in vista dell’anniversario del Concilio di Nicea, convocato dall’imperatore Costantino nel 325.

Sua Santità, cosa può dirci di questo impegno comune?

Il Concilio ecumenico (di Nicea – ndr) è stato molto importante per fissare il contenuto della nostra fede cristiana, ma anche per fissare la data della Pasqua, come e quando debba essere celebrata. Purtroppo non la celebriamo insieme da molti anni, da molti secoli. Allora, nel quadro di questo anniversario, oggetto degli sforzi condivisi con il Papa è quello di trovare una soluzione a ciò. Forse non è ora il momento di dare i particolari, ma voglio sottolineare che da parte ortodossa e da parte cattolica c’è questa buona intenzione di fissare finalmente una data comune per la celebrazione della Risurrezione di Cristo. Speriamo di ottenere questa volta un buon risultato.

Come vede le speranze di pace di fronte alla guerra devastante che ha colpito in Ucraina?

Non si può giustificare questa guerra in nessuna maniera. Ne ho parlato ultimamente anche mentre ero in Inghilterra. Ho parlato in maniera dura, ma dovevo farlo in nome della nostra fede cristiana e non solo. Mi pare che tutti gli uomini che abbiano una visione giusta delle cose non possano non condannare questa guerra. Il Papa stesso vuole sensibilizzare tutto il mondo alla pace. In un suo messaggio, il primo gennaio di alcuni anni fa, il Papa ha detto che non si può avere la pace senza la giustizia. E una parola molto giusta, questa: non possiamo avere pace senza giustizia. Questo è sempre valido e nelle mie omelie ripeto questi messaggi del Papa, di tutti i Papi, riguardanti il primo gennaio che è il giorno di preghiera per la pace. Sono messaggi molto importanti e molto saggio è il loro contenuto.

Da parte mia, vi auguro un buon ritorno e di non dimenticare la Turchia, l’Anatolia, dove ci sono tante memorie del nostro passato cristiano, soprattutto dei primi secoli del cristianesimo, dei Concili ecumenici…  Io mi trovavo con la gerarchia cattolica del nostro Paese poche settimane fa a Efeso, dove il nunzio apostolico ad Ankara e i vescovi cattolici hanno concelebrato la Messa nella cattedrale del terzo Concilio ecumenico, occasione in cui mi hanno chiesto di tenere l’omelia. A quel tempo risalgono non solo il Concilio di Calcedonia, i luoghi dei Concili ecumenici, Costantinopoli, ma il monachesimo, l’arte sacra, la teologia, i padri della Cappadocia… Abbiamo tanti luoghi sacri che ogni tanto bisogna tornare a venerare, da cui prendere ispirazione riandando ai secoli passati, in cui pregare e conoscere meglio il popolo turco, che è molto ospitale. Tutti gli stranieri che vengono qui ricavano questa impressione.

Il Patriarcato ecumenico si è distinto da anni in tema di tutela dell’ambiente. Di fronte al processo di digitalizzazione, non c’è il rischio che si esternalizzi l’etica consegnandola in un certo senso alle macchine? Cosa ne pensa?

Noi rispettiamo la scienza, rispettiamo la tecnologia. Il Concilio panortodosso di Creta del 2016 ha detto che la scienza, la tecnologia, la ricerca scientifica sono un dono di Dio, ma d’altra parte riconosciamo che ci sono delle derive. Noi mettiamo al centro di tutto la persona umana, la dignità della persona umana. Naturalmente nelle scuole si usa molto la tecnologia moderna, digitale, ma questo nuovo metodo non può sostituire il metodo antico dell’insegnamento basato sui valori spirituali, sull’etica. Lo ripeto: al centro di tutto c’è la dignità della persona umana, attorno alla quale dobbiamo fare le nostre scelte, rispettando la libertà della persona umana.

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Turchia, il nome di un martire cristiano per una moschea

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La memoria di Habib-I Niccar, ucciso nel primo secolo dopo Cristo, è incisa nel luogo di culto islamico ad Antiochia di Oronte. Un ricordo intatto e venerato a distanza di secoli, guerre e persecuzioni, un ponte che unisce due fedi

Fausta Speranza – Antiochia di Oronte

Habib-I Niccar è il nome di un uomo ucciso negli anni delle persecuzioni contro i gruppi che si riunivano, a sud della regione anatolica nell’attuale Turchia, intorno agli apostoli Barnaba e Paolo. Si tratta dei gruppi definiti per la prima volta con l’appellativo, che all’epoca suonava dispregiativo, di cristiani. Siamo nel primo secolo dopo Cristo e ne passerà dunque di tempo prima del 638, anno in cui sulla stessa località del martirio di Habibi-I Niccar sorge la moschea più particolare della città di Antiochia e non solo. La prima particolarità è che il luogo di culto islamico viene intitolato proprio a quel cristiano martire, il cui nome significa in sostanza “caro falegname”.

L’Imam Fetullah che giuda la moschea di Habib-I Niccar in Turchia

La memoria che unisce

La moschea di Habib-I Niccar si trova nel cuore dell’attuale Antiochia di Oronte, crocevia di diverse civiltà, terra di passaggio degli scambi commerciali e terra di conquista, dai tempi degli ittiti fino all’Impero ottomano. Nel 969 nel periodo bizantino la costruzione diventa una chiesa ma poi nel 1269 torna ad essere una moschea. L’imam Fetullah – che oggi guida il luogo di culto isalmico – ci spiega che mai ha cambiato nome e che Habib-I Niccar resta il primo santo vissuto prima di Maometto a essere considerato e riconosciuto. L’imam ci conduce all’interno della moschea e poi ci mostra altre preziose particolarità: una scritta in turco con i nomi di Paolo e Giovanni, che – assicura – sono citati in quanto apostoli di Gesù, con vicino due sarcofagi.

L’interno della moschea di Habib-I Niccar in Turchia

E c’è poi un’altra caratteristica, tipica più di una chiesa che di una moschea: si scendono dei gradini e si trova una cripta. Secondo l’imam Fetullah, si tratta di particolarità storiche che raccontano di un dialogo e di una vicinanza tra esponenti di diverse fedi che a livello popolare si è sempre vissuto e si vive ancora. Tra la gente che anima le strade dei negozi e tra gli stessi negozianti – dice l’imam Fetullah – è impossibile distinguere oggi musulmani o ebrei o cristiani. Se temi come la convivenza tra religioni e la libertà religiosa conservano tutta la loro complessità e delicatezza e richiedono considerazioni approfondite, la storia di questa moschea e il racconto appassionato dell’imam Fetullah rappresentano uno dei doni di questa terra da cui è partita con San Paolo l’evangelizzazione ai gentili e al mondo.

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Opera Romana, nuovi pellegrinaggi sulle orme di San Paolo

Ritrovare lo slancio dei primi cristiani in Asia minore: è l’obiettivo dell’ente del Vicariato di Roma che accompagna i pellegrini sui luoghi dello Spirito nel mondo. Si tratta di riscoprire gli itinerari dell’apostolo delle genti a partire da Antiochia di Oronte, a sud della regione anatolica, dove padre Domenico Bertogli parla della piccola comunità cattolica in cui vive da 35 anni

Fausta Speranza – Antiochia di Oronte

Con Don Remo Chiavarini, amministratore delegato dell’Opera Romana Pellegrinaggi, siamo da ieri in Turchia: 25 persone tra sacerdoti e giornalisti, per ridisegnare percorsi nuovi di pellegrinaggio. C’è il desiderio di rilanciare i percorsi su questa terra che, per lo straordinario valore dello slancio di evangelizzazione di San Paolo, rappresenta una seconda Terra Santa.

Antiochia crocevia di culture

Si parte da Antiochia di Oronte, uno di quei centri urbani che appartiene a quell’arco ideale di civiltà che ha segnato la storia dell’umanità dalla Mesopotamia all’Anatolia, al Levante. Oggi si chiama Atay Antachia. E’ la città in cui, secondo il capitolo 11 degli Atti degli Apostoli, per la prima volta si è usata l’espressione “cristiani”, cioè seguaci di Cristo. Ce lo ricorda Padre Domenico Bertogli, che ci ha accolto nella piccola chiesa intorno alla quale si raccoglie la comunità cattolica che oggi conta circa 100 fedeli su 1100 cristiani.

Luoghi di eccezione

Da visitare c’è la grotta di San Pietro che, anche se non corrisponde davvero al posto dove si riunivano Barnaba, Paolo e Pietro, racconta comunque la storia tramandata nei secoli delle riunioni e delle preghiere degli apostoli con le comunità sorte dalla predicazione ai gentili, a quelli che senza essere ebrei volevano abbracciare il credo di Gesù. Sembrava a qualcuno difficile poterli ammettere e ci fu un confronto serio, fino alla apertura incoraggiata proprio dall’apostolo delle genti, Paolo. Barnaba aveva richiamato Paolo da Tarso proprio per seguire gli sviluppi. Il resto è storia degli Atti degli Apostoli, a cominciare dai tre straordinari viaggi di San Paolo che partirono dalla seconda delle località da non mancare: il porto di Seleucia di Pieria. Merita una visita anche il museo della città che conserva una ricca collezione di mosaici provenienti da ville romane. In questo caso il richiamo non è alla fede ma a un momento di quel bagaglio storico e culturale che questa terra conserva. E’ storia di ittiti, persiani, macedoni, regni ellenistici, prima di arrivare ai romani e alle loro ville, e che prosegue con i Bizantini, i crociati, le Repubbliche marinare di Venezia e di Genova, le ondate migratorie che hanno portato i Selgiuchidi, i mongoli, e poi la dominazione degli Ottomani. Storie di guerre ma anche di compenetrazioni di civiltà. Fino alle vicende di circa 100 anni fa, della prima guerra mondiale, quando su queste stesse terre, l’Anatolia e la Tracia orientale, teatro di occupazioni e persecuzioni, sono stati cancellati gli ultimi segni più evidenti di presenze cristiane.

Tra le pietre vive

Non si può dire che sia rimasto molto delle pietre che hanno ospitato altri nomi illustri di Antiochia, come san Luca o San Giovanni Crisostomo che ne erano originari. Ma ci sono le pietre vive di cui ci parla Padre Bertogli, raccontandoci che qui si vive la liturgia delle fede proprio come accadeva ai primi cristiani, in una casa-chiesa. Si tratta, infatti, di un’abitazione di stampo tradizionale dove una stanza divenuta cappella è stata arricchita di dipinti, tra i quali spicca  la cartina della parabola geografica percorsa da Paolo. Non è solo questione di spazi. Padre Bertogli ci spiega la lunga avventura che ha portato alla possibilità di preservare la chiesa: non è stato facile – spiega – ottenere i titoli di proprietà. Dopo anni di richieste, l’obiettivo è stato raggiunto nel 2006. Si tratta di vicende che ci proiettano in una realtà di minoranza, che vive tutte le difficoltà del caso ma anche tanta grazia. Padre Bertogli con semplicità ci parla dei 26 battesimi che ha celebrato per persone provenienti da famiglie non cattoliche in 35 anni di presenza ad Antiochia. Le sue parole si fanno Comunione viva e la sua testimonianza trasforma quello che potrebbe sembrare un viaggio in un pellegrinaggio: la dimensione storica-aricheologica, infatti, è solo l’ausilio per ritrovare la dimensione spirituale e l’incontro con questi luoghi non è più solo una visita, ma un’esperienza di fede.

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Netanyahu torna a governare con l’appoggio di Sionismo religioso

Il partito dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, Likud, vince le elezioni politiche di Israele del 1° novembre. La sua maggioranza di 65 seggi alla Knesset su 120 si regge sull’appoggio del partito Sionismo religioso, che diventa terza forza politica del Paese, e di Shas e Giudaismo della Torah unita. Ci si aspetta l’incarico di governo dopo la presentazione ufficiale dei risultati mercoledì prossimo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il partito Likud di Netanyahu ottiene 32 seggi, seguito dal partito Yesh Atid del premier uscente Yair Lapid, che ne ottiene 24, e dal partito Sionismo religioso, definito di estrema destra, che ne registra 15, diventando la terza forza politica del Paese. Si tratta dei risultati definitivi ma non ufficiali: saranno presentati pubblicamente solo mercoledì. Non più tardi della fine della settimana prossima Netanyahu dovrebbe avere l’incarico formale da parte dello stesso presidente Herzog al termine del giro di consultazioni del capo dello Stato con i partiti. Già ieri pomeriggio il premier israeliano Yair Lapid ha ammesso la sconfitta  e si è congratulato con l’ex primo ministro Netanyahu per la vittoria, dando istruzioni al suo ufficio per preparare la transizione di potere.

La prospettiva di governo

La coalizione in grado di governare, dopo cinque elezioni in poco più di tre anni, sarà dunque formata dal partito di Netanyahu, Likud, con il Sionismo religioso e i due partiti Shas e Giudaismo della Torah unita, che ottengono rispettivamente undici e sette seggi. La coalizione si presenta con quattro seggi in più rispetto alla quota minima di maggioranza. L’elemento nuovo, che potrebbe portare incognite, risiede nel peso che ottiene il partito Sionismo religioso guidato da Itamar Ben Gvir che secondo la stampa locale si è pronunciato finora contro la soluzione a due Stati, a favore dell’annessione della Cisgiordania e per l’autorizzazione alle preghiere ebraiche sul Monte del Tempio a Gerusalemme (la Spianata delle Moschee per i musulmani), in violazione dello Status quo.

Le altre formazioni

Per la prima volta dalla sua nascita nel 1992, il partito della sinistra israeliana, Meretz, – secondo le proiezioni dei media – non entra alla Knesset non avendo passato per circa 3800 voti la soglia di sbarramento del 3,25 per cento.  Al momento, secondo i dati diffusi dalla Commissione elettorale, il ‘Campo istituzionale’ di Benny Gantz  centrista è il quarto partito in ordine di grandezza con 12 seggi.  Israel Beitenu, il partito che si definisce laico di Avigdor Lieberman,  ottiene sei seggi, mentre due liste arabe – gli islamici di Raam e il partito di sinistra Hadash-Taal – conquistano entrambe cinque seggi. Ultima percentuale da riferire è quella dell’affluenza pari al 70,6 per cento.

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Si fermano le armi in Tigray: verso la pace in Etiopia

L’Unione Africana commenta l’annuncio dell’accordo per il “cessate il fuoco” tra il governo dell’Etiopia e il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) parlando di “una nuova alba”. È un primo passo fondamentale ma dopo lo stop ai combattimenti si deve proseguire il negoziato di pace, sottolinea il professore emerito GianLuigi Rossi, mettendo in luce che manca ancora anche la definizione dei tempi di attuazione

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Firmato a Pretoria, in Sudafrica, l’Accordo di pace tra il governo dell’Etiopia e il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) per porre fine a due anni di conflitto nel territorio a nord del Paese africano. Nel comunicato congiunto diffuso ieri pomeriggio si legge che, oltre alla cessazione delle ostilità, il governo etiope e i ribelli hanno concordato di “rafforzare” la cooperazione con le agenzie umanitarie e un programma di “disarmo, smobilitazione e reintegrazione per i combattenti del Tplf”. “L’Unione europea è pronta a sostenere i prossimi passi”, ha scritto su Twitter il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel.

L’impegno sui due fronti

Un’intesa per la quale il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha espresso “forte” impegno nella sua attuazione. “La nostra determinazione a fare la pace rimane incrollabile e il nostro impegno a collaborare all’attuazione dell’accordo è altrettanto forte”, ha dichiarato Abiy in un “messaggio di gratitudine” ai mediatori dell’Unione Africana (Ua), pubblicato su il suo account Twitter. Da parte sua, il capo della delegazione del Tigray, Getachew Reda, ha sottolineato: “Solo la nostra determinazione collettiva impedirà ai eventuali perturbatori, anche nelle nostre stesse fila, di distruggere la pace”.

Si tratta di un ‘cessate il fuoco’ e non di un vero accordo di pace, sottolinea il professore emerito Gian Luigi Rossi, esperto di Storia dei Trattati internazionali e di Storia delle Istituzioni afro-asiatiche:

Secondo Rossi, l’indubbio successo raggiunto non può rappresentare la fine del processo di pace, ma il suo inizio. Spiega che indubbiamente si deve accogliere con favore l’accordo sulla cessazione delle ostilità in Etiopia ricordando l’importanza di questo grande Paese  e anche sottolineando il peso  all’interno di una regione strategica come il Tigray, una delle dieci regioni.

L’importante ruolo dell’Unione Africana

Rossi mette in luce in particolare il ruolo importante dell’Unione Africana nel processo di mediazione in questione e anche quello del Sudafrica che ha ospitato i colloqui. Aggiunge poi che troppo spesso si dimentica il potenziale dell’Unione Africana in termini di prevenzione delle guerre o appunto di operato per la risoluzione di conflitti. Tra l’altro – ricorda Rossi – in Tigray accanto all’esercito del governo centrale hanno operato le truppe della vicina Eritrea. Il negoziato dunque è stato complesso.

L’essenziale fase dell’attuazione

Dopo le felicitazioni per lo stop delle armi – chiarisce Rossi –  bisogna assicurare la decisiva fase di attuazione. È importante, dice, consolidare il primo passo verso una pace e una riconciliazione durature ed è anche prioritario garantire l’assistenza umanitaria e ripristinare i servizi di base. Ma soprattutto mette in luce l’assenza al momento di una indicazione di tempi per l’attuazione dell’accordo. Si tratta, afferma, di “un aspetto fondamentale”. Sarà determinante anche la pacificazione a livello sociale e per questo il professore auspica un intervento preciso sul terreno delle Nazioni Unite.

La prospettiva di pace

Il testo si accompagna ad una “Dichiarazione congiunta” che configura una sorta di road map politica. In otto pagine si parla, infatti, di salvaguardia della sovranità e di integrità territoriale dell’Etiopia, di rispetto della sua Costituzione e dell’unità del suo esercito nazionale. Si sottoscrive “un programma di disarmo e smobilitazione” delle forze tigriane che tenga conto della situazione della sicurezza sul terreno”Si evocano misure transitorie per “il ritorno all’ordine costituzionale” nel Tigray che quindi tornerebbe ad essere una regione/Stato dell’Etiopia federale.  È evidente che occorrerà ripristinare i servizi pubblici e riparare le infrastrutture e per questo si chiede “il sostegno della popolazione per un’attuazione flessibile di questo nuovo capitolo nella storia del Paese”.

L’appoggio dell’Onu

In una dichiarazione ufficiale, Stéphane Dujarric, portavoce del segretario generale dell’Onu António Guterres, ha sottolineato che “l’accordo è un primo passo fondamentale verso la fine del devastante conflitto di due anni in cui sono andate perdute vite e mezzi di sussistenza di così tanti etiopi. Il segretario generale esorta tutti gli etiopi e la comunità internazionale a sostenere il passo coraggioso compiuto dal governo federale dell’Etiopia e dalla leadership tigrina. Il Segretario generale si impegna a sostenere le parti nell’attuazione delle disposizioni dell’accordo e le esorta a continuare i negoziati sulle questioni in sospeso in uno spirito di riconciliazione, al fine di raggiungere una soluzione politica duratura, mettere a tacere le armi e a portare il Paese di nuovo sulla via della pace e della stabilità. Il segretario generale elogia l’Unione Africana e il suo Gruppo di Alto Livello per la facilitazione dei colloqui di pace e la Repubblica del Sudafrica per aver ospitato i colloqui di pace. Le Nazioni Unite sono pronte ad assistere le prossime fasi del processo guidato dall’Unione Africana e continueranno a mobilitare l’assistenza tanto necessaria per alleviare le sofferenze nelle aree colpite”.

L’allarme dell’Oms

Poche ore prima dell’annuncio dell’intesa, il capo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, aveva rivelato che “un gran numero di sfollati sta arrivando o si sta spostando verso la capitale regionale del Tigray, con bisogni in aumento di giorno in giorno” e che “migliaia di persone sono state uccise, con accuse di gravi violazioni dei diritti umani, compresi possibili crimini di guerra, commesse da entrambe le parti”.

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L’appello dell’Ue per il Libano: no al vuoto istituzionale

In Libano il parlamento trovi l’accordo per eleggere un presidente: è l’appello dell’Alto rappresentante della politica estera Ue, Borrell, che ricorda la scadenza del mandato di Aoun e le emergenze socioeconomiche che vive il Paese dei cedri al terzo anno di grave crisi. Intanto si aggrava la preoccupazione per il diffondersi del colera

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’Alto rappresentante della politica estera Ue, Josep Borrell in una nota, ricorda che il 31 ottobre è scaduto il mandato del presidente del Libano Aoun e che dalle ultime elezioni generali di maggio non è nato alcun governo. Dopo quattro turni inconcludenti di votazioni parlamentari, non è stato eletto alcun candidato e la presidenza del Paese dei cedri è ora vacante. Borrell chiede, dunque, che si colmi il vuoto istituzionale eleggendo un capo di Stato. L’Ue mantiene l’impegno di continuare ad assistere il Libano e la sua popolazione affinché si possano avviare verso la ripresa e la stabilità che meritano. Allo stesso tempo, l’Ue esorta la leadership libanese ad assumersi le proprie responsabilità e ad agire”.

Crisi sociale ed economica

Questo vuoto politico si verifica mentre il Libano sta affrontando un deterioramento della situazione socio-economica. La volatilità istituzionale, unita all’instabilità economica, comporterebbe gravi rischi per il Libano e la sua popolazione. L’Ue invita ancora una volta la leadership libanese a organizzare le elezioni presidenziali e a formare un governo con la massima urgenza”.

Tra finanziamenti e sanzioni

“Nel luglio 2022, l’Ue ha rinnovato un quadro di sanzioni che consente di imporre misure restrittive a persone o entità che bloccano l’uscita dalla crisi libanese”, ricorda Borrell. “Per facilitare l’erogazione dei finanziamenti internazionali aggiuntivi e invertire la tendenza al deterioramento dell’economia libanese, è necessario raggiungere un accordo di erogazione con il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e intraprendere, senza ulteriori ritardi, le riforme fondamentali attese da tempo.

Allarme colera

In Libano si aggrava l’epidemia di colera con 17 decessi e quasi 400 contagi nell’arco di tre settimane. Lo riferisce il ministero della sanità di Beirut, che ha oggi annunciato la donazione da parte della Francia di 13.000 dosi del vaccino per contrastare la malattia scomparsa in Libano nel 1993. L’Onu afferma che nella vicina Siria, Paese martoriato da più di 11 anni di guerra, l’epidemia manifestatasi a settembre ha ucciso finora almeno 75 persone con oltre 20.000 casi sospetti. I contagi in Libano si sono registrati dal 5 ottobre nei campi profughi siriani, luoghi dove le condizioni igienico-sanitarie sono particolarmente precarie. Nella conferenza stampa odierna a Beirut, il ministro della sanità Firas Abyad ha messo in guardia dai rischi che il colera possa diventare una malattia endemica nel Paese, afflitto da tre anni dalla peggiore crisi finanziaria della sua storia.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-11/libano-presidente-elezioni-colera-siria-borrell.html

Il pensiero del Papa al viaggio in Bahrein e l’appello alla pace

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Un Viaggio all’insegna del dialogo”: così il Papa, dopo la preghiera mariana dell’Angelus, ha parlato dell’impegno apostolico nel Regno del Bahrein, dove si recherà tra due giorni e dove si tratterrà fino a domenica 6 novembre. E ha espresso ringraziamenti:

Già da ora desidero salutare e ringraziare di cuore il Re, le Autorità, i fratelli e le sorelle nella fede, e tutta la popolazione del Paese, specialmente quanti da tempo stanno lavorando alla preparazione di questa visita.

L’auspicato abbraccio tra Oriente e Occidente

Papa Francesco ha spiegato che parteciperà a un Forum che rappresenta “un’occasione proficua”:

Parteciperò infatti a un Forum che tematizza l’imprescindibile necessità che Oriente e Occidente si vengano maggiormente incontro per il bene della convivenza umana; avrò l’opportunità di intrattenermi con rappresentanti religiosi, in particolare islamici. Chiedo a tutti di accompagnarmi con la preghiera, perché ogni incontro e avvenimento sia un’occasione proficua per sostenere, in nome di Dio, la causa della fraternità e della pace, di cui i nostri tempi hanno estremo e urgente bisogno.

L’appello alla pace per l’Ucraina

Parlando di fraternità e di pace, Papa Francesco ha rinnovato per l’ennesima volta il suo invito a pregare per la martoriata Ucraina:

E cari fratelli e sorelle, per favore, non dimentichiamoci della martoriata Ucraina: preghiamo per la pace, preghiamo perché in Ucraina ci sia la pace.

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Ancora naufragi nel Mare Nostrum di decine di migranti

Si ripete la tragedia nel Mar Mediterraneo: una imbarcazione salpata dalla Turchia si è inabissata nello stretto di Kafireas, poche ore dopo che le guardie costiere greche erano intervenute per cercare di salvare le persone su un’altra imbarcazione alla deriva. Si parla di decine e decine di migranti irregolari dispersi mentre altrettanti chiedono da giorni di poter salpare in porto sicuro dalle navi che li hanno soccorsi nella traversata

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Una barca a vela su cui stavano viaggiando circa 68 migranti, salpata dalla Turchia, è naufragata nelle prime ore di questa mattina nello stretto di Kafireas, tra le isole di Andros e Evia. Lo riferisce la Guardia costiera greca, impegnata nelle operazioni di ricerca e salvataggio dei migranti. Nove uomini, che si erano inizialmente messi in salvo su un isolotto, sono stati soccorsi dalle autorità greche, ma, in base ai racconti dei sopravvissuti, sull’imbarcazione avrebbero viaggiato almeno 68 persone. L’operazione di soccorso è iniziata dopo che i passeggeri del natante avevano lanciato una richiesta di soccorso alla linea di emergenza greca del 112, ostacolata, però, dalle condizioni meteorologiche avverse, in particolare da venti di oltre 30-40 nodi di velocità.

Nazionalità e lidi diversi per un solo dramma

Secondo quanto riferito dalla televisione greca Ert, l’imbarcazione sarebbe salpata dalla città costiera turca di Izmir e la maggior parte dei passeggeri sarebbe originaria dell’Afghanistan, dell’Iran e dell’Egitto. Intanto proseguono le ricerche di almeno otto persone dopo un altro naufragio avvenuto ieri pomeriggio, al largo dell’isola greca di Samos. Per ora la Guardia costiera ha soccorso quattro sopravvissuti che hanno raccontato di avere viaggiato in dodici sulla barca naufragata. Nei primi otto mesi dell’anno, la Guardia costiera greca ha dichiarato di avere soccorso circa 1.500 persone: un numero in evidente aumento rispetto a quello dell’anno scorso, quando meno di 600 persone sono state messe in salvo dalle autorità greche. Mentre a inizio mese due distinti naufragi a largo delle isole greche di Lesbo e di Citera hanno portato alla morte di almeno 27 persone.

Dalla Spagna giunge notizia del recupero dei corpi senza vita di due migranti la scorsa notte in acque di Almeria, città del sud: lo riportano l’agenzia di stampa Efe e il giornale locale Diario de Almeria. Secondo fonti di polizia, le due persone sarebbero annegate dopo aver viaggiato su un’imbarcazione di fortuna insieme con altri migranti. A detta di testimoni consultati dagli inquirenti, uno scafista li avrebbe costretti a sbarcare rapidamente, e in condizioni insicure, dopo essersi accorto che le forze dell’ordine lo stavano inseguendo.

Navi in attesa

Tre navi umanitarie sono da giorni in acque internazionali con 985 migranti soccorsi complessivamente, in attesa di un porto. La Humanity 1 (179 soccorsi), la Ocean Viking (234) e la Geo Barents (572). I portavoce di Medici senza frontiere, che gestisce la Geo Barents, spiegano che dalla nave sono state inviate quattro richieste per un ‘place of safety’ a Malta ed una all’Italia senza ottenere risposta.

A Lampedusa si rinnova l’emergenza

Sono 1.221 i migranti alloggiati all’hotspot di Lampedusa. Nonostante i quotidiani sforzi della Prefettura di Agrigento per trasferire gli ospiti della struttura di prima accoglienza a Porto Empedocle, i padiglioni di contrada Imbriacola – che possono ospitare 350 persone – restano nel caos. Si attende di trasferire, con il traghetto di linea, 110 migranti.

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Lula da Silva torna alla presidenza del Brasile

Dopo il ballottaggio che gli riconosce la vittoria sul presidente uscente Bolsonaro, con un margine di 2 milioni di voti, Lula nel primo discorso ha dichiarato che la missione principale del suo mandato è combattere la fame in Brasile. Il professor Morlino, docente alla Luiss ed esperto di America Latina: “Nel Paese così profonde le diseguaglianze economiche, paragonabili al Sudafrica, che rendono comprensibile la polarizzazione palesatasi nel voto”

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dal ballottaggio presidenziale che si è svolto ieri, esce vincitore il leader della sinistra, Luiz Inacio Lula da Silva che diventerà, dal 1° gennaio 2023, capo dello Stato brasiliano per la terza volta. Lula ha battuto l’attuale presidente Jair Bolsonaro (Pl, destra).  Il Tribunale superiore elettorale ha ufficializzato la vittoria: col 98,86 per cento del totale delle sezioni scrutinate, Lula ha ottenuto il 50,83 per cento dei voti (59.596.247), contro il 49,17 per cento di Bolsonaro (57.675.427).

Il primo discorso programmatico di Lula

“Se siamo il terzo produttore di cibo al mondo e il primo di carne, abbiamo il dovere di garantire che ogni brasiliano possa fare tre pasti e non dormire per strada”. Così Lula, nel suo primo discorso dopo il voto, parla di ruota dell’economia che tornerà a girare, di “salario giusto” e di “democrazia reale, concreta, con crescita economica ripartita in tutta la popolazione perché – dice – così la democrazia deve funzionare, non per perpetuare le diseguaglianze”. Critica “razzismo e pregiudizio”, annuncia libertà per tutte le religioni e politiche per l’inclusione delle donne, promette di governare per 215 milioni di brasiliani, affermando che “non ci sono due Paesi ma una sola grande nazione”. Di fatto si è trattato dell’elezione, con il voto il 2 ottobre e il ballottaggio domenica 30 ottobre, più polarizzata nella storia del Brasile.

Un ministero per i popoli originari

E poi lancia un messaggio all’esterno: si impegna con la comunità internazionale a promuovere partenariati ma – sottolinea – per un commercio globale “più equo”. Critica “gli accordi commerciali che a suo dire condannano il Paese ad essere “un eterno esportatore di merci e materie prime”. C’è anche l’impegno per l’Amazzonia: “Monitoreremo e sorveglieremo l’Amazzonia, dove combatteremo ogni attività illegale. Allo stesso tempo promuoveremo lo sviluppo sostenibile delle comunità dell’Amazzonia”, dice il neo presidente nel suo discorso di accettazione, impegnandosi a istituire un ministero per i popoli originari del Brasile, che sarà gestito da un indigeno.

Per Lula è il terzo mandato, dopo i due tra il 2003 e il 2011

Per Luiz Inacio Lula da Silva è il terzo mandato dopo i primi due dal 2003 al 2011, anno in cui ha passato il testimone alla compagna dello stesso Partito dei lavoratori Dilma Rousseff. Entrambi sono stati poi travolti dall’inchiesta per corruzione costata a Lula 580 giorni di prigione, prima dell’annullamento di tutte le sentenze a suo carico.

Un Paese sempre più segnato da diseguaglianze

Intanto il Paese è cambiato, come spiega il professor Leonardo Morlino, docente di Scienza della Politica all’Università Luiss ed esperto di America Latina:

Il Brasile – spiega il professor Morlino – vive una situazione di così profonde diseguaglianze economiche, paragonabili al Sudafrica, che giustificano in qualche modo la polarizzazione che si è palesata nel voto presidenziale. L’immagine è di un Paese spaccato a metà. Morlino sottolinea che Lula è stato presidente dal 2002 al 2010 e che rispetto a quel periodo oggi il gigante sudamericano si trova in una condizione di maggiore debolezza internazionale. Il Brasile esporta prevalentemente materie prime alimentari o energetiche (soia, ferro, petrolio), i cui prezzi sono estremamente volatili. Il suo principale cliente è la Cina, destinataria di una quota di export brasiliani ben superiore a quella del secondo maggior cliente, che sono gli Stati Uniti. Proprio Pechino e Washington, dunque, sono i due punti di riferimento tra i quali oscillano le relazioni internazionali del Brasile da anni. La Russia è il primo esportatore di fertilizzanti al mondo e a inizio millennio il presidente Putin poteva rappresentare una sponda per il Brasile ma dopo l’invasione dell’Ucraina tutto è cambiato, afferma l’esperto.

Il sogno dell’integrazione dell’America Latina

Secondo il professor Morlino, il contesto internazionale non lascia intravedere sviluppi in tema di auspicata integrazione dell’America Latina. Nessun Paese latinoamericano ha le potenzialità o la stabilità per esercitare una leadership regionale, per non parlare delle conseguenze economiche del Covid-19, della guerra d’Ucraina e del rialzo dei tassi negli Stati Uniti, che sono tutti fattori negativi per tutti. Dagli elettorati, più del sostegno convinto alle proposte di alcuni partiti, sembra emergere l’insoddisfazione per i leader in carica.

L’estremizzazione lontana dalla cultura locale

Il professor Morlino mette in luce quanto l’evidente processo di continua polarizzazione del discorso politico in Brasile, legato alle profonde spaccature all’interno del Paese, segni un allontanamento dalla secolare e tradizionale cultura brasiliana riassunta anche dal termine jeitinho. Si tratta in realtà di un concetto complesso che può avere sfumature anche negative sotto l’aspetto dell’arte di arrangiarsi, ma che incarna senza dubbio l’idea di un carattere improntato alla morbidezza del linguaggio, al rifiuto dell’estremismo, all’attitudine all’accordo. Tutto questo – afferma Morlino – ha aiutato finora il livello di coesione raggiunto da decenni nel vasto Paese. E la perdita, a vantaggio dell’esasperazione generale della popolazione, potrebbe significare il rischio di un’escalation di tensioni.

Silenzio stampa di Bolsonaro

Sconfitto al ballottaggio, il presidente uscente del Brasile Jair Messias Bolsonaro sta finora mantenendo il silenzio senza pronunciarsi sul risultato delle elezioni. Il leader di destra “non risponde alle telefonate di nessun alleato politico”, hanno riferito ai media alcuni suoi collaboratori. Nessuna dichiarazione neanche da parte dei suoi figli, in particolare di Eduardo Bolsonaro, che cura la sua comunicazione sui social, sottolinea la stampa locale. Entrato in politica nel Partito Cristiano-Democratico di posizioni fortemente conservatici, poi approdato in diverse formazioni della destra brasiliana, Bolsonaro è stato eletto per la prima volta in Parlamento nel 1991 a Rio de Janeiro, occupando un seggio che da allora ha continuato a detenere.

Il primo capo di Stato della sesta Repubblica non rieletto

Nel corso della sua carriera parlamentare a Brasilia, Bolsonaro si è distinto per i suoi interventi in difesa del potere militare, per le proposte per la reintroduzione della pena di morte abolita nel 1988, per proposte choc come quella del 2008 per la risoluzione del problema della povertà attraverso la sterilizzazione degli indigenti. Bolsonaro ha visto trasformate in leggi dello Stato solo due delle 173 proposte presentate in Parlamento nei suoi 27 anni di attività parlamentare. Nel 2014 è stato rieletto come deputato più votato di Rio de Janeiro con 464 mila voti per poi diventare una figura centrale nella politica brasiliana fino alla presidenza del Paese dal 2018. è il primo presidente della recente fase storia del paese definita della sesta Repubblica, a presentarsi per un secondo mandato e a non essere rieletto.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-10/brasile-presidente-lula-bolsonaro-fame-materie-prime.html

 

Tra i finalisti del Premio europeo Caruana Galizia

Il video reportage “La discarica della vergogna”, firmato da Fausta Speranza con la regia di Stefano Gabriele e pubblicato sul sito www.MeridianoItalia.tv il 22 febbraio 2022,  e’ tra i 10 finalisti del Premio Daphne Caruana Galizia 2022 del Parlamento europeo.  Il 19 ottobre prossimo a Strasburgo si svolge la cerimonia di premiazione, in ricordo della giornalista maltese uccisa nel 2017 per le sue denunce di delitti ambientali e corruzione.
Questo il link per rivedere il reportage “La discarica della vergogna”:
https://www.meridianoitalia.tv/index.php/ambiente/460-la-discarica-della-vergogna