Ucraina, minaccia nucleare: attesa per la riunione dell’Onu

Si continua a morire nell’est dell’Ucraina sotto le bombe. Diversi i fronti di combattimenti, mentre Mosca smentisce gli attacchi in Crimea rivendicati da Kiev. Intanto, alle Nazioni Unite si lavora per la missione di esperti alla centrale nucleare di Zaporizhzhia

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Kiev sostiene di aver distrutto nove aerei nell’attacco di martedì alla base russa in Crimea, Mosca nega. Secondo i media ucraini, in un’intervista in Tv il presidente della Commissione per gli affari internazionali della Duma russa ha dichiarato che “l’operazione speciale militare in Ucraina continuerà” e che “è stato superato il punto di non ritorno”.

Nell’est dell’Ucraina

Nella notte si è registrato un nuovo attacco russo alla città di Dnipro, la terza del Paese per popolazione dopo la capitale Kiev e Kharkiv, che si trova nella parte orientale dell’Ucraina a nord di Zaporizhzhia. Due persone sono state uccise a Nikopol, sette i feriti, secondo il capo dell’amministrazione militare regionale Valentyn Reznichenko che afferma che l’esercito russo ha attaccato quattro distretti della regione e che la linea elettrica è stata interrotta: più di 6.000 persone sono senza elettricità. Ieri nel distretto erano morti 13 civili.

Rischio catastrofe nucleare per l’Europa

Intanto, per la centrale nucleare più grande d’Europa si moltiplicano gli allarmi degli esperti. L’Europa rischia la catastrofe nucleare. Venerdì 12 agosto prevista la riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite convocato dalla Russia. Il capo dell’Aiea, Rafael Grossi, conferma che parteciperà, anche se in video collegamento, per discutere della situazione alla centrale nucleare occupata dai russi e della preparazione della missione di esperti internazionali che deve guidare.

Drammatici tutti i bilanci di morte

Nel consueto discorso serale alla nazione, il presidente ucraino Zelensky ha affermato che “se quasi 43.000 soldati russi morti non convincono Mosca a trovare una via d’uscita dalla guerra, allora sono necessari più combattimenti”. E secondo quanto riporta l’emittente statunitense CNN, per far fronte alla carenza di militari da mandare sul campo in Ucraina, in Russia si stanno reclutando detenuti nelle carceri. Lo scrive Cnn online, precisando di aver condotto sull’argomento un’indagine durata un mese e di aver parlato con i detenuti coinvolti nel nuovo programma e con loro parenti e amici. Gli attivisti ritengono che centinaia di persone siano state avvicinate in decine di carceri in tutta la Russia,  scrive ancora Cnn aggiungendo che si tratta detenuti per quasi ogni tipo di reato, dall’omicidio al traffico di droga. Sempre secondo quanto riporta CNN online “la versione russa sull’attacco del 29 luglio alla prigione di Olenivka in cui sono morti oltre 50 prigionieri di guerra ucraini, per la maggior parte del battaglione Azov, è molto probabilmente un’invenzione”. E’ la conclusione di un’inchiesta della Cnn basata sull’analisi di video e fotografie, immagini satellitari, e sul lavoro di esperti forensi e di armi. Secondo gli specialisti la mancanza di accesso rende impossibili conclusioni definitive, ma la maggior parte dei segnali indica che nel centro di detenzione c’è stato un incendio intenso e, secondo diversi testimoni, non si è sentito il rumore di un razzo in arrivo.

Pensando alla ricostruzione

L’Ucraina avrà bisogno di almeno 188 miliardi di dollari per la ricostruzione. È la stima fatta dal Kse Institute, l’unità analitica della Kyiv School of Economics, secondo cui l’invasione della Russia ha già portato a una perdita diretta di 110 miliardi di dollari legata alla distruzione di edifici e infrastrutture, di cui 2,1 miliardi di dollari solo della scorsa settimana. Tra i siti presi in considerazione figurano oltre 300 ponti, 15.000 appartamenti, 116.000 case private, 388 imprese, 18 aeroporti civili, 764 asili nido, 43.000 macchine agricole, quasi 2000 negozi, 27 centri commerciali, 511 edifici amministrativi, 28 depositi di petrolio, 106.140 auto private, 634 strutture culturali, 764 asili nido, 934 strutture sanitarie, 119 strutture dei servizi sociali.

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Yemen: dopo la tregua è tempo del negoziato di pace

Trasformare la tregua in veri e propri colloqui di pace: è la speranza per lo Yemen, Paese che, dilaniato da otto anni di combattimenti, vive una delle peggiori situazioni umanitarie al mondo. La tregua, decisa ad aprile, è stata rinnovata nei giorni scorsi fino al 2 ottobre prossimo. Un’occasione preziosa per arrivare ad un nuovo dialogo tra le parti, come sottolinea Mario Boffo, già ambasciatore d’Italia in Yemen

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si moltiplicano gli appelli, affinché in Yemen si approfitti della tregua – in vigore da quattro mesi e prorogata fino al prossimo 2 ottobre – per avviare un vero e proprio negoziato di pace. Dopo quasi otto anni di guerra, nello Stato all’estremità meridionale della Penisola araba, il cessate il fuoco mediato ad aprile dalle Nazioni Unite fra tutte le parti e rilanciato il 2 agosto sta reggendo, ad eccezione di alcuni disordini nell’area centrale di Marib, e il numero di vittime e feriti civili si è dimezzato dal suo inizio. La tregua prevede l’interruzione di tutte le offensive militari di terra, aeree e marittime “dentro e fuori dallo Yemen” inclusi, dunque, gli attacchi degli houthi contro l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (Eau), nonché gli obiettivi economico-commerciali nel Mar Rosso. Più concretamente, comprende l’ingresso di diciotto navi trasportanti carburante nei porti del governatorato di Hodeida; due voli aerei civili a settimana da e per l’aeroporto internazionale di Sanaa, in collegamento con Egitto e Giordania; nuove discussioni per la riapertura delle strade intorno alla città di Taiz. Intanto, nel quadrante del Mar Rosso-Bab el Mandeb-Golfo di Aden è entrata in funzione la Combined Maritime Forces-153: la nuova task force multinazionale, a guida statunitense, per contrastare il contrabbando di armi nell’area.

L’appello dell’Unicef

Resta la preoccupazione dell’Unicef che sollecita a fare di più per proteggere i minori che continuano a morire soprattutto per via delle mine di cui è disseminato il Paese: in quattro mesi 113 bambini sono rimasti uccisi o mutilati secondo i numeri verificati dalle Nazioni Unite, che potrebbero essere sottostimati. L’Unicef invita tutte le parti coinvolte a non risparmiare gli sforzi per rimuovere le mine terrestri e gli ordigni inesplosi.

La speranza di un vero negoziato di pace

L’obiettivo dell’Onu è costruire, in questa fase, un negoziato politico che trasformi la tregua in un cessate-il-fuoco. Ne parliamo con Mario Boffo, già Ambasciatore d’Italia in Yemen:

Boffo innanzitutto sottolinea che sembra ci sia la volontà almeno dei Paesi coinvolti dall’esterno, a partire dall’Arabia Saudita, a far cessare il conflitto, o anche di Paesi relativamente vicini come la Turchia. Secondo l’ambasciatore, la tregua è stata impostata e  rinnovata proprio perché l’Arabia Saudita sta cercando soluzioni di uscita e ha incoraggiato il governo internazionalmente riconosciuto a istituire un comitato esecutivo che dovrebbe negoziare con gli houthi una soluzione politica. Naturalmente – dice Boffo – questo non sarà né breve ne facile perché sono diverse le visioni generali e le agende di ogni parte. Inoltre c’è sempre il ruolo di Paesi stranieri da considerare.  Ma – sottolinea – è proprio il momento di sperare che piano piano si inneschi un negoziato politico credibile, serio, riconosciuto da tutte le parti.

Dalla primavera araba  alla guerra

Il Paese cerca stabilità dal 2011, dal momento in cui nell’ondata delle cosiddette primavere arabe ci sono state proteste e manifestazioni che hanno portato ad un passo indietro del presidente Ali Abdullah Saleh, che a febbraio 2011 annunciò che, alla fine del suo mandato presidenziale, cioè nel 2013, non si sarebbe candidato alle elezioni e avrebbe ceduto il potere al suo vice, Abdrabbuh Mansour Hadi. La transizione politica avrebbe dovuto portare stabilità nel Paese, che è inoltre uno dei più poveri in tutto il Medio Oriente, ma così non è stato. Da allora la situazione in Yemen è precipitata. Il presidente Hadi ha dovuto affrontare vari attacchi da parte delle forze militari fedeli a Saleh, una crescente insicurezza alimentare e una crisi economica dilagante. Nel 2014 sono iniziati i combattimenti quando il movimento ribelle sciita Houthi ha preso il controllo della provincia settentrionale di Saada e delle aree limitrofe. Gli Houthi hanno continuato ad attaccare arrivando a prendere la capitale Sanaa, costringendo Hadi all’esilio all’estero. Il conflitto si è intensificato drammaticamente nel marzo 2015, quando l’Arabia Saudita e altri otto stati- per lo più arabi sunniti – sostenuti dalla comunità internazionale – hanno lanciato attacchi aerei contro gli Houthi, con l’obiettivo dichiarato di ripristinare il governo di Hadi. L’Arabia Saudita ha giustificato il proprio intervento in Yemen, affermando che l’Iran sostiene gli Houthi con armi e supporto logistico: un’accusa che Teheran nega. Il conflitto è entrato così a far parte di una serie di tensioni regionali e culturali nel Medio Oriente tra sciiti e sunniti.

Un’occasione persa

L’ambasciatore Boffo precisa che, dopo i primi tafferugli anche sanguinosi in Yemen, si è avuto un dialogo nazionale con la partecipazione di tutte le parti che al momento è stato proficuo, sostenuto dalla comunità internazionale riunita sotto la sigla Friends of Yemen, con un ruolo importante dell’Italia. Purtroppo l’esito del dialogo è stato l’elaborazione di una Costituzione – ricorda Boffo – che prevedeva una federazione, ma che non è stata riconosciuta dagli Houthi che si sono ritenuti emarginati.

Divisioni a tanti livelli

Al momento dell’intesa per la tregua ad aprile scorso, il presidente ad interim Hadi – il suo mandato iniziato nel 2012 è formalmente scaduto dal 2014 – ha accettato di trasferire i suoi poteri, sotto la spinta di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (Eau), a un Consiglio presidenziale di otto membri. Il nuovo Consiglio è anche incaricato di negoziare il cessate-il-fuoco con gli Houthi. Nella composizione del Consiglio presidenziale, si evidenziano l’assenza di leader politici nazionali e la proliferazione di leader locali, che governano su specifiche porzioni di territorio. Il fronte che si oppone agli Houthi rimane molto diviso ed esprime agende politiche diverse nonché leadership rivali, mentre dalla leadership degli Houthi nel nord arrivano segnali politici contrastanti. E secondo Boffo è rilevante considerare che i ribelli sciiti filoiraniani hanno appoggi stranieri, ma non sono solo orientati dall’esterno: hanno una loro particolare visione del Paese, che conserva aspetti di un retaggio antico e che presenta anche contraddizioni, perché fa capo a temi irrisolti della società yemenita e in qualche modo della società regionale.

Uno dei luoghi culla della civiltà umana

Boffo ricorda che lo Yemen è uno dei territori dove si è sviluppata la civiltà umana, pur essendo un territorio impervio. I suoi grandi regni antichi trovarono i metodi, con la costruzione di dighe e cisterne, per sfruttare le grandi piene. Grazie a questo apporto idrico la regione ha prosperato anche attraverso i commerci delle grandi carovane che trasportavano principalmente incenso e mirra e più tardi il caffè anche attraverso i traffici marittimi. Questi commerci hanno fatto – ricorda Boffo – la fortuna di regni come quello, quasi mitico della regina di Saba. Poi iniziò la decadenza e il succedersi delle diverse culture. Con l’avvento dell’Islam e lo spostamento del potere verso oriente, lo Yemen – ricorda – ha perso la sua centralità, ma ha mantenuto, tra alterne vicende,  un ruolo fondamentale nel mondo arabo, come ad esempio nella conquista dell’Andalusia.

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L’attualità del messaggio di Edith Stein uccisa il 9 agosto 1942

A 80 anni dalla morte ad Auschwitz, la filosofa e mistica rappresenta un simbolo delle radici culturali che salvano dalle derive ideologiche disumane. La santa Patrona d’Europa, che ha attraversato il confronto tra la cultura liberal democratica europea e i totalitarismi offrendo elementi di sutura spirituale della comunità, propone – sottolinea lo storico Eugenio Capozzi – spunti di riflessione importanti al pensiero contemporaneo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il 9 agosto 1942 veniva uccisa ad Auschwitz Edith Stein, filosofa in Germania, divenuta monaca dell’Ordine delle Carmelitane Scalze con il nome di Teresa Benedetta della Croce. Era nata nella città polacca di Breslavia il 12 ottobre 1891 da una famiglia ebraica.

Una donna di pensiero che si distingue

Laureatasi all’Università di Breslavia, sceglie di continuare il percorso accademico in Germania, prima a Gottinga e poi a Friburgo. Si distingue nonostante che a quel tempo fosse insolito confrontarsi con una filosofa donna e nonostante gli impedimenti della prima guerra mondiale. Divenuta membro della Facoltà a Friburgo si dedica anche all’attività politico-sociale, impegnandosi nel Partito Democratico Tedesco (DDP) a favore del diritto di voto alle donne e al ruolo nella società della donna che lavora. Intorno al 1921 abbandona l’ateismo e si converte. Battezzata il primo gennaio 1922 a Bad Bergzabern, va ad insegnare presso due scuole domenicane per ragazze a Spira e si avvicina alla vita di clausura.

La disumanità del nazismo

Nel 1931 diventa lettrice all’Istituto di pedagogia scientifica a Munster ma per via delle leggi razziali deve dimettersi due anni dopo. Il 12 aprile 1933, alcune settimane dopo l’insediamento di Hitler al cancellierato, Edith Stein scrive a Roma per chiedere a Papa Pio XI e al suo segretario di Stato cardinale Pacelli, già nunzio apostolico in Germania e futuro Papa Pio XII di denunciare le persecuzioni contro gli ebrei. Realizzando un desiderio che da tempo portava nel cuore, Edith Stein entra nel monastero carmelitano a Colonia nel 1934. Per proteggerla dalla minaccia nazista, il suo Ordine la trasferisce al convento carmelitano di Echt nei Paesi Bassi. Il 20 luglio 1942 in tutte le chiese del Paese viene letta la lettera della conferenza dei vescovi olandesi contro il razzismo nazista. Il 26 luglio Adolf Hitler ordina l’arresto di tutti gli ebrei anche convertiti al cristianesimo, che fino a quel momento erano stati risparmiati. Edith e sua sorella Rosa, anche lei convertita e dedicata alla vita del Carmelo vengono catturate e internate nel campo di transito di Westerbork prima di essere trasportate al campo di concentramento di Auschwitz, dove verranno uccise nelle camere a gas il 9 agosto 1942. I corpi di entrambe verranno poi bruciati nei forni crematori del campo.

Figlia d’Israele, martire per fede

“Una figlia d’Israele, che durante le persecuzioni dei nazisti è rimasta unita con fede ed amore al Signore Crocifisso, Gesù Cristo quale cattolica ed al suo popolo quale ebrea”. Sono parole di Giovanni Paolo II, in occasione della beatificazione di Edith Stein nel Duomo di Colonia il primo maggio del 1987, seguita dalla canonizzazione  l’11 ottobre 1998 in Piazza San Pietro. Santa in virtù della dichiarazione del martirio per la fede, con l’affermazione che la persecuzione subita nel campo di sterminio è stata patita per la sua testimonianza della fede. Più volte Papa Francesco l’ha indicata come esempio di vita contro “ogni forma di intolleranza e perversione ideologica”.

Compatrona d’Europa

Il primo ottobre 1999 Giovanni Paolo II la nomina anche “compatrona” d’Europa, assieme alle sante Caterina da Siena e Brigida di Svezia, ricordando che “non solo trascorse la propria esistenza in diversi paesi d’Europa, ma con tutta la sua vita di pensatrice, di mistica, di martire, gettò come un ponte tra le sue radici ebraiche e l’adesione a Cristo, muovendosi con sicuro intuito nel dialogo col pensiero filosofico contemporaneo e, infine, gridando col martirio le ragioni di Dio e dell’uomo nell’immane vergogna della shoah”. E sottolineando: “Ella è divenuta così l’espressione di un pellegrinaggio umano, culturale e religioso, che incarna il nucleo profondo della tragedia e delle speranze del continente europeo”.A riflettere sul contesto storico in cui è vissuta Edith Stein e sul potente messaggio che lascia a 80 anni dalla morte, è Eugenio Capozzi, professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Napoli  Suor Orsola Benincasa:

A proposito del contesto storico in cui è maturata l’esperienza di Edith Stein, Capozzi parla di un’Europa dei primi decenni del Novecento che viveva una profonda crisi della cultura scientifica di origine positivistica e registrava la rinascita di varie forme di spiritualismo, con una rivalutazione dell’esperienza religiosa.

Crisi epistemologica e crisi della cultura democratica

Lo storico mette in luce la disgregazione della cultura liberal democratica e l’avanzare delle dittature e del totalitarismo. Ricorda che la conversione della Stein matura in un ambiente filosofico animato da preoccupazioni in relazione al patrimonio della conoscenza scientifica europea – suoi maestri sono stati Husserl e Scheler – che si avvertiva in crisi. In quegli anni, quella conversione non è un fatto isolato: molti intellettuali di formazione laica si convertono al cattolicesimo, al cristianesimo. Capozzi fa l’esempio di Giovanni Papini, scrittore, poeta, saggista e terziario francescano; dello scrittore britannico G.K. Chesterton; di Thomas S. Eliot, poeta, saggista, critico letterario e drammaturgo premiato con il Nobel per la letteratura, che si fa battezzare con rito anglicano nel 1927. E poi Capozzi cita Clive Staples Lewis che in età adulta, grazie anche all’influenza dell’amico e collega Tolkien, ritrova la fede abbandonata nell’adolescenza. Lewis – afferma Capozzi – sicuramente porta in dote alla rinascita religiosa di quei decenni la sua profonda riflessione. Una riflessione che parte proprio dalla filosofia della scienza, che affronta la questione della crisi della conoscenza, della necessità di integrare la cultura liberale e democratica europea con quelli che Capozzi definisce elementi di sutura spirituale della comunità.

Antisemitismo e anticristianesimo

Con il pensiero allo sterminio nazista di cui sono state vittime anche Edith e Rosa Stein, Capozzi afferma che si deve riflettere, tra l’altro, anche sul fatto che l’antisemitismo nazista e in generale l’antisemitismo dei regimi totalitari del Novecento è strettamente legato a un profondo anticristianesimo. Ricorda che la Stein è vittima di un giro di vite della persecuzione antisemita da parte dei nazisti che si applicava anche agli ebrei convertiti al cattolicesimo, anche per le forme di resistenza al nazismo che la chiesa cattolica esprimeva, in particolare quella olandese nella vicenda Stein. Ma Capozzi sottolinea che, al di là di questo, bisogna comprendere quanto il nazismo e i totalitarismi fossero incompatibili con il messaggio cristiano. Secondo lo storico Capozzi, si può dire che, se il nazismo avesse vinto, la persecuzione avrebbe colpito presto anche i cristiani. Probabilmente – dice – sarebbe arrivata a livelli paragonabili a quella attuata nei confronti degli ebrei. Capozzi cita un episodio narrato nell’autobiografia di Papa Benedetto XVI, e cioè il racconto di quando il diciassettenne seminarista Joseph Ratzinger viene chiamato alle armi come riservista e un ufficiale dell’esercito tedesco gli domanda che lavoro volesse fare. Una domanda retorica visto che il seminarista evidentemente vuole fare il sacerdote. Il giovane risponde di voler intraprendere il sacerdozio e l’ufficiale risponde: “Non avremo bisogno di sacerdoti nella nuova Germania”. Un episodio che – sottolinea Capozzi – aiuta a chiarire come l’ideologia nazista è fondamentalmente un’ideologia incompatibile con tutte le forme di valorizzazione profonda dell’umanesimo, che ha radici ebraico-cristiane. Secondo Capozzi quando il filosofo Benedetto Croce ripeteva “non possiamo non dirci cristiani” sottolineava così in particolare che la base della formazione per la filosofia politica, per la filosofia del diritto è cristiana. E questo – afferma Capozzi – rappresentava, e rappresenta, un argine solido contro la degenerazione disumana di ideologie e regimi totalitari.

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Il sogno di un’unica famiglia umana oltre i populismi: nelle parole del card. Tagle

Il rischio delle spinte alla polarizzazione e dei populismi in società già divise è stato messo in luce dal cardinale Tagle nell’intervento alla Lambeth Conference. Tanti i temi toccati, a partire dalla questione migratoria, con l’invito a riscoprire la risorsa della scoperta umile dell’altro

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“È triste notare come i cosiddetti demagoghi populisti usano – o abusano – della religione per i loro interessi, minando gli sforzi per sviluppare relazioni e formare una famiglia umana”. Sono parole del cardinale Luis Antonio G. Tagle, intervenuto oggi alla Conferenza di Lambeth a Londra. Ieri ha preso la parola il cardinale Koch.

La Prima Lettera di Pietro e le sfide attuali

“La Prima Lettera di Pietro e il decennio a venire” è il tema scelto quest’anno per la riunione assembleare di tutti i vescovi della Comunione anglicana. La Lambeth Conference si svolge, ogni dieci anni, a Londra nella sede dell’arcivescovo di Canterbury, dal quale viene ufficialmente convocata. Il cardinale Tagle ha spiegato di aver orientato la sua riflessione facendosi interpellare dal testo della Lettera di Pietro, immaginandola indirizzata alla Chiesa e al mondo di oggi. E dunque ha richiamato espressioni come: forestieri nella dispersione (1,1), forestieri e forestieri (2,11) un tempo non popolo ma ora popolo di Dio (2,10), stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di Dio (2:9), pietre vive costruite in una casa spirituale in Gesù la pietra viva (2:4-5).

Agire da cristiani

Il cardinale Tagle si è soffermato sull’invito ad agire da cristiani sottolineando che nella Lettera di Pietro si legge: “Non ricambieranno insulto per insulto (2,22) né male per male (3,8); saranno unanimi, comprensivi, amorevoli, compassionevoli, umili (3:8); saranno pronti a dare una spiegazione di una ragione della loro speranza in mezzo a persecuzioni e sofferenze (3,15), cioè la risurrezione di Gesù Cristo dai morti (1,3). E ancora: Osservando le loro buone opere, i loro persecutori possono sperare di glorificare Dio” (2:12).

Il sogno di una famiglia umana

“Sogno questa casa per la Chiesa, la famiglia umana e la creazione”, così il cardinale ha invitato a “lasciare che il sogno ci purifichi oggi”. In primo luogo, ha ricordato che la Lettera è indirizzata ai cristiani della diaspora dove si trovavano e sono stati fatti sentire estranei e persino esiliati, per poi affermare che “a volte diventiamo così consolidati nei nostri modi e progetti che iniziamo a pensare a noi stessi e a comportarci come proprietari di terre, popoli e idee”. Ha richiamato l’espressione di Papa Francesco che “parla sempre di una Chiesa in uscita”, spiegando di immaginare “una Chiesa che sia casa spirituale proprio nel suo continuo incontro con i popoli nelle loro diverse condizioni di vita”.

Gli sfollati di oggi

Il pensiero forte agli sfollati di oggi: Tagle ricorda i migranti forzati, i rifugiati, le vittime della tratta di esseri umani, la schiavitù, i pregiudizi, le persecuzioni sistematiche, le guerre e le catastrofi ambientali. “Persone che – ha detto – quando raggiungono un posto nuovo, non migliorano necessariamente la propria  condizione. In quanto estranei, vengono spesso evitati, emarginati e accusati dei mali della società”. Dunque la domanda che il porporato ha detto di porgere per tutti: “Come Chiesa e come umanità, in che modo stiamo affrontando milioni di ‘senzatetto’? Troveranno ospitalità e compassione?”. La domanda fondamentale – ha sottolineato – è come vediamo e ci relazioniamo con ‘l’altro’ o con chi è diverso da noi. E tutto ciò “ci porta ancora una volta alla questione della diversità nella costruzione della nostra casa comune”.

I rischi per “la casa spirituale”

Tagle ha spiegato che si deve riconoscere “con tristezza” che “anche all’interno della Chiesa le questioni etniche e culturali rovinano la casa spirituale”. E in generale ha ricordato che “sognare una famiglia umana comune sta diventando difficile anche per le generazioni future a causa di ricordi traumatici causati da anni di abbandono, violenze e guerre”.

La sfida contemporanea del populismo

Il cardinale ha messo in evidenza che “la costruzione di relazioni affronta una sfida contemporanea nel cosiddetto ‘populismo’. Ha ricordato che “Papa Francesco considera problematico l’uso del populismo come chiave di lettura della società perché disattende il significato legittimo della parola ‘popolo’ (Fratelli tutti 157)”.

Spinte alla polarizzazione in società già divise

Nel suo intervento, il porporato ha ricordato infine che i social media hanno influenzato il linguaggio quotidiano diffondendo questo uso problematico delle parole “populismo” e “populista”. Di conseguenza, ha spiegato, “hanno perso qualsiasi valore avrebbero potuto avere e sono diventati un’altra fonte di polarizzazione in una società già divisa”. Secondo Tagle, si cerca di classificare interi popoli, gruppi, società e governi come “populisti o meno”. Dunque l’invito forte alla riflessione: “È triste notare che i cosiddetti demagoghi populisti usano (o abusano) della religione per i loro interessi, minando gli sforzi per sviluppare relazioni e formare una famiglia umana”.

La tecnologia digitale e il salto generazionale

Non possiamo nemmeno ignorare l’“alterità” intergenerazionale vissuta all’interno della famiglia, ha affermato poi il cardinale, parlando della tecnologia digitale. In tempi di intelligenza artificiale, che tende a rimodellare o ridefinire l’identità umana, il lavoro umano e le relazioni umane – ha avvertito – la Lettera di Pietro ci dice “Vieni a Gesù, pietra viva” perché in Lui possiamo diventare pietre vive della casa spirituale di Dio. Dunque l’invito a imparare da Gesù quella che definisce “l’intelligenza culturale”.

La risorsa dell’umiltà

Una convinzione: “Invitare le persone a camminare e vivere insieme richiede umiltà”. Le persone – ha ricordato il cardinale Tagle –  sono diverse non solo per la libertà individuale, ma anche per la cultura, che per noi è come una seconda natura. Parliamo, ci comportiamo, ci relazioniamo, mangiamo, addoloriamo e celebriamo – ha chiarito  – secondo le nostre culture”. E dunque ha spiegato proprio cosa dovrebbe significare l “intelligenza culturale”: “Man mano che cresco nella conoscenza di come la mia cultura mi ha plasmato, cerco anche di capire come le altre persone esprimono la loro umanità nelle loro culture”. Con una raccomandazione precisa: “Nel processo devono essere ammesse e purificate tutte le tracce di superiorità e pregiudizio culturale”. “È necessaria umiltà per ammettere che, sebbene manchi di conoscenza di molte culture, potrei essere pronto a giudicare ciò che non mi è familiare”.

Il ruolo dei leader religiosi

Il cardinale ha inoltre suggerito “che i responsabili pastorali sviluppino la loro capacità di apprezzare le altre culture non solo attraverso studi sociologici ma anche attraverso la semplice osservazione”. E ha ribadito una convinzione: “Il cammino interculturale insieme riduce la paura dell’altro; permette alle culture di purificarsi e trarre il meglio l’una dall’altra”. Gesù, ha affermato, era una persona della sua cultura, ma ha anche portato la “cultura” di Dio nelle culture umane. “Fu crocifisso fuori le mura della città. Dal suo fianco ferito è nata una casa per forestieri ed esiliati. Vuole che il Suo Corpo, la Chiesa, sia quella casa. In Lui come pietra viva, i suoi discepoli trovano speranza e motivo di gioia”.

06/08/22

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Voto in Senegal, ridimensionato il partito del presidente

Lo schieramento del presidente Sall non ha più la maggioranza assoluta dopo il voto di domenica. Da mesi si registrano tensioni nel Paese dell’Africa occidentale simbolo di stabilità e democrazia. Si parla di violare il vincolo che esclude un terzo mandato presidenziale mentre anche la solida economia del Senegal risente fortemente della negativa congiuntura internazionale, spiega l’africanista Aldo Pigoli

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Lo schieramento presidenziale in Senegal ha perso la maggioranza assoluta nell’Assemblea nazionale, rimane in testa con un vantaggio molto ristretto dopo le elezioni legislative del 31 luglio. Lo hanno riferito giovedì sera i risultati ufficiali provvisori della Commissione nazionale per il censimento dei voti (Cnrv). La coalizione presidenziale risulta aver vinto 82 seggi parlamentari, mentre la principale alleanza di opposizione, formata dalle coalizioni Yewwi Askan Wi e Wallu Senegal, risulta aver ottenuto 80 seggi in totale, rispettivamente 56 e 24.  Altri tre deputati provengono dalle fila di tre piccole coalizioni di partiti.

Le contestazioni prima dei risultati ufficiali

Nei giorni scorsi, sia il partito al governo del presidente Macky Sall, Benno Bokk Yakaar (BBY), sia l’opposizione avevano rivendicato la vittoria, citando risultati parziali. Le legislative di domenica rappresentano l’ultima chiamata alle urne prima delle presidenziali del 2024 e seguono le amministrative di gennaio vinte dall’opposizione nelle grandi città del Senegal. Nei giorni scorsi, la coalizione di governo aveva affermato di aver vinto 30 dei 46 dipartimenti amministrativi del Senegal, ammettendo solo di aver perso Dakar.  L’opposizione aveva invitato i propri sostenitori a dichiararsi pronti a difendere i voti con ogni mezzo. Inoltre, secondo il rappresentante di YAW, Dethie Fall, ci sono state irregolarità di voto nei seggi elettorali nelle regioni settentrionali.

Tensione che dura da un anno

La decisione di Sall di superare la normativa che imponeva di non concorrere per un terzo mandato ha alimentato la tensione intorno al voto. Inoltre, proteste sono scoppiate nel Paese politicamente stabile dell’Africa occidentale con 17,5 milioni di persone da quando l’anno scorso, Sonko, arrivato terzo nelle ultime elezioni presidenziali del 2019, è stato arrestato con l’accusa di stupro. Sonko nega ogni accusa.

Delle crescenti tensioni sociali in Senegal, abbiamo parlato con Aldo Pigoli, docente di Storia dell’Africa contemporanea all’Università Cattolica di Milano:

Il professor Pigoli ricorda che il Senegal è Paese simbolo di stabilità nell’Africa occidentale perché – spiega – si è dotato di una solida struttura politico istituzionale con meccanismi propri di una democrazia. Inoltre, ha conosciuto negli ultimi decenni un’ottima crescita economica che dopo il  2010 ha registrato punte  del 6 per cento. Inoltre, – sottolinea Pigoli – è un Paese che ha saputo rispetto a tanti altri Paesi africani differenziare abbastanza l’economia. Purtroppo  – afferma – le ripercussioni della pandemia e della guerra in Ucraina si sono fatte sentire anche in Senegal: nel momento in cui il Paese si stava riprendendo, con fatica ma in modo promettente, per le perdite da Covid19 è arrivata la crisi del grano. In questo contesto non spaventa una dialettica politica che abbia anche momenti di contrapposizione tra partiti diversi ma – dice Pigoli – preoccupa se si aprono scenari di cambi istituzionali come quello ipotizzato dal presidente di non rispettare il vincolo di due mandati presidenziali: in vista del voto presidenziale del 2024 si ipotizza che Sall voglia far abolire il vincolo. Ci si augura – aggiunge – che le tensioni sociali dovute alle difficoltà economiche non si sommino alle tensioni politiche.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-08/senegal-africa-economia-elezioni-legislative-presidenziali-covid.html

A New York Conferenza Onu per rafforzare l’accordo contro le armi nucleari

Dopo oltre 50 anni, è in discussione il Trattato di Non Proliferazione nucleare (Tnp). La Conferenza delle Nazioni Unite si svolge, dopo il ritardo di due anni per la pandemia, in un momento di forte criticità di rapporti internazionali, come sottolinea il direttore della Rivista Italiana Difesa, Pietro Batacchi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Da oggi al 26 agosto si tiene a New York la Conferenza di revisione del Trattato di Non Proliferazione nucleare (Tnp). Il Papa con un tweet ha ribadito il no alle armi atomiche. Nella sede delle Nazioni Unite, si ritrovano i delegati dei 190 Stati coinvolti, chiamati a elaborare un documento finale che stabilisca un programma di azione per il prossimo quinquennio. In particolare, in discussione c’è la questione della proibizione dell’uso e della minaccia dell’uso dell’arma nucleare o quanto meno l’interdizione del suo primo uso. A presiedere la Conferenza è l’ambasciatore argentino Gustavo Zlauvinen.

Un baluardo da oltre 50 anni

Il Trattato di Non Proliferazione nucleare (Tnp), firmato il 1° luglio 1968, è da oltre cinquant’anni il principale baluardo contro la diffusione delle armi nucleari nel mondo. Rimane il principale accordo che disciplina l’intero settore nucleare sia esso civile (centrali nucleari) che militare (armi nucleari). Delle sfide abbiamo parlato con Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana Difesa:

Batacchi ricorda che il Trattato sancisce il “diritto inalienabile” all’energia nucleare, ma proibisce al tempo stesso la diffusione delle armi nucleari. La proibizione – spiega –  non è totale poiché a cinque Stati (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti) viene concesso di detenere l’arma nucleare. La principale forza di questo Trattato consiste nel fatto che vi ha aderito la stragrande maggioranza degli Stati inclusi cinque Paesi nucleari. Tra i pochissimi che non vi aderiscono figurano, però, alcuni Paesi dotati dell’arma nucleare: India, Israele, Pakistan e Corea del Nord.

Puntelli mancanti

Batacchi sottolinea quanti anni sono passati spiegando che il Tnp si è andato progressivamente erodendo a causa dell’applicazione, ritenuta insoddisfacente, dell’articolo 6 che prevede l’impegno degli Stati a negoziare in un tempo ravvicinato “una cessazione della corsa agli armamenti nucleare e il disarmo nucleare”.

Il fattore Ucraina

Batacchi mette in luce pure come la Conferenza, rimandata per due anni per via della pandemia, si svolga in un momento particolarmente critico per le relazioni internazionali segnate dal conflitto in Ucraina. Tra i punti fermi del Trattato c’è quello della protezione fornita dalla deterrenza nucleare. Gli esperti spiegano che, in una crisi, la deterrenza può essere vulnerabile, non automatica e auto-applicante. C’è sempre la possibilità che possa fallire. È proprio su questi limiti alla deterrenza che sembra si voglia provare a intervenire per rafforzare la sicurezza. Secondo la stampa internazionale, l’invasione russa scattata a febbraio scorso potrebbe indurre alcuni Paesi a ripensare la rinuncia all’arma nucleare. Sarebbe la fine del Tnp. Sul piano procedurale non sarà facile costruire il consenso di 190 Stati su un documento finale che stabilisca un programma di azione per il prossimo quinquennio. Sul piano della sostanza la Conferenza non potrà ignorare gli accresciuti rischi di un conflitto nucleare derivanti dalla guerra in Ucraina.

Un Trattato “concorrente”

Nel 2017, è stata lanciata l’iniziativa di un Trattato sulla proibizione totale dell’arma nucleare (Tpnw) che è entrato in vigore nel gennaio 2021. Il principale punto debole del Tpnw è che nessuno degli attuali nove Paesi possessori dell’arma atomica vi ha aderito. Inoltre il Trattato Tpnw è solo in parte compatibile con il Tnp proprio poiché prevede una proibizione dell’arma nucleare senza eccezioni. Il possesso non ne è consentito neppure ai cinque Stati nucleari previsti dal Tnp ed è esplicitamente proibito lo stazionamento di armi nucleari al di fuori del territorio nazionale. Queste disposizioni sono problematiche per i Paesi che attualmente hanno le armi atomiche e anche per i Paesi Nato perché incompatibili con la dottrina strategica dell’Alleanza che non esclude, in circostanze eccezionali, anche l’impiego dell’arma nucleare. Per la prima volta la Conferenza di questi giorni si dovrà confrontare anche con la realtà di un nuovo Trattato.

I numeri noti

Ad oggi esistono circa 13.000 testate nucleari e sebbene tale numero sia diminuito dal picco di circa 70 mila testate nel 1986, per la prima volta dopo decenni è ripartita la corsa agli armamenti. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, si prevede che l’arsenale nucleare aumenti nei prossimi anni.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-08/armi-nucleari-trattato-non-proliferazione-onu-conferenza.html

“Fermarsi e negoziare”: nuovo appello del Papa per l’Ucraina

Dopo la preghiera dell’Angelus, il Papa rivolge il pensiero all’Ucraina che, dice, non lo ha mai abbandonato durante il viaggio in Canada. Di fronte al “flagello della guerra”, Francesco prega che “la saggezza ispiri passi concreti di pace”. Del pellegrinaggio penitenziale in Canada annuncia che parlerà nella prossima udienza generale, non senza tornare a ringraziare tutti

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Anche durante il viaggio non ho mai smesso di pregare per il popolo ucraino, aggredito e martoriato, chiedendo a Dio di liberarlo dal flagello della guerra”. Così Papa Francesco, dopo la recita della preghiera mariana dell’Angelus, è tornato a chiedere “che la saggezza ispiri passi concreti di pace” nel Paese dove continuano i bombardamenti.  (Ascolta il servizio con la voce del Papa)

Se si guardasse la realtà obiettivamente, considerando i danni che ogni giorno di guerra porta a quella popolazione ma anche al mondo intero, l’unica cosa ragionevole da fare sarebbe fermarsi e negoziare. Che la saggezza ispiri passi concreti di pace.

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2022-07/appello-ucraina-guerra-flagello-passi-pace-canada-viaggio.html

Intanto via libera ad esperti Onu nel carcere bombardato nel Donbass

Con l’accordo della Russia, esperti delle Nazioni Unite e della Croce Rossa si preparano a visitare il carcere di Olenivka, in Donbass, che è stato preso di mira nella notte del 29 luglio da un attacco missilistico in cui sono morti oltre 50 prigionieri di guerra ucraini. Ad annunciarlo è stato il ministero della Difesa russo, spiegando che in questo modo Mosca vuole facilitare una “indagine obiettiva” sull’attacco di cui le parti in conflitto si accusano a vicenda. Secondo Kiev, l’attacco è stato voluto per occultare torture sui prigionieri.

Zelensky chiede di evacuare il Donetsk

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha ribadito l’appello ad evacuare la regione del Donetsk nell’Est del Paese, le cui città sono colpite da bombardamenti continui, per fuggire dal “terrore russo”. “Il governo ha deciso l’obbligo dell’evacuazione della regione del Donetsk – ha detto in un video rivolto ai connazionali – Per favore evacuate! In questa fase della guerra, il terrore è l’arma principale della Russia”. La decisione era stata annunciata dalla vice primo ministro Irina Vereshchuk, motivandola con la distruzione delle reti di gas e l’assenza di riscaldamento prevista per la prossima stagione invernale.

Attacco in Crimea

Il governatore della Crimea, Mikhail Razvozhaiev, citato dalla Tass, ha scritto che il drone che ha ferito cinque persone questa mattina in un attacco alla sede del comando della Flotta russa del Mar Nero a Sebastopoli, ha iniziato a sparare una volta entrato nel cortile dell’edificio. Tutti i feriti, ha aggiunto, hanno ricevuto assistenza medica. Il governatore ha scritto che i servizi d’intelligence russi (Fsb) sono al lavoro per chiarire le circostanze dell’attacco che Mosca attribuisce agli ucraini. Razvozhaiev ha invitato la popolazione di Sebastopoli a restare calma e ha decretato la cancellazione degli eventi che erano previsti oggi per la Giornata della Flotta russa. Inoltre, nel sud dell’Ucraina, secondo il quotidiano The Kyiv Independent, il comando operativo “Sud” ha dichiarato di aver ucciso 33 soldati russi e distrutto due obici russi Msta-B, un lanciarazzi multiplo Grad, 2 depositi di munizioni e 3 veicoli corazzati e militari.

Bombe su Kharkiv

Il sindaco di Kharkiv Ihor Terekhov ha riferito di bombardamenti nella notte nel distretto Nemyshlianskyi. Secondo le informazioni preliminari, l’attacco avrebbe danneggiato alcuni edifici.

Carico di grano trattenuto in Libano

Intanto il Libano trattiene una nave con un carico di grano ucraino. Lo riporta sempre The Kyiv Independent. L’ambasciata ucraina in Libano fa sapere di aver ricevuto un’ordinanza che consente il sequestro della nave per 72 ore. Nei giorni scorsi, l’ambasciata aveva informato i funzionari che una nave siriana carica di grano rubato dai territori ucraini occupati era attraccata al porto di Tripoli.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/russia-ucraina-carcere-donbass-evacuazione-onu-croce-rossa.html

Diritto e dimensione umana planetaria delle sfide

“C’è bisogno di politiche creative e lungimiranti, che sappiano uscire dagli schemi delle parti per dare risposte alle sfide globali”. Tra le tante riflessioni proposte da Francesco nel corso del viaggio penitenziale in Canada, questa frase, in modo particolare, interpella la filosofia del diritto, spiega l’esperto in materia Mario Sirimarco, che parla di costituzionalismo mondiale in cui l’umanità sia soggetto di diritto

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Le grandi sfide di oggi – come la pace, i cambiamenti climatici, gli effetti pandemici e le migrazioni internazionali – sono accomunate da una costante: sono globali, riguardano tutti. E’ la riflessione proposta da Papa Francesco, tra tante, nell’incontro con le autorità civili nel capoluogo della provincia del Quebec, nella quarta giornata del viaggio penitenziale in Canada.

Non dividere il mondo in amici e nemici

“Non abbiamo bisogno di dividere il mondo in amici e nemici, di prendere le distanze e riarmarci fino ai denti” – ha detto il Papa – non saranno la corsa agli armamenti e le strategie di deterrenza a portare pace e sicurezza”.

Oltre la morsa dei conflitti e delle “guerre fredde”

Forte il richiamo: “Non c’è bisogno di chiedersi come proseguire le guerre, ma come fermarle”, ha detto il Papa. Preciso l’obiettivo: “Impedire che i popoli siano tenuti nuovamente in ostaggio dalla morsa di spaventose guerre fredde allargate”. Chiaro l’invito: “Di fronte all’insensata follia della guerra, abbiamo nuovamente bisogno di lenire gli estremismi della contrapposizione e di curare le ferite dell’odio”.

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2022-07/canada-guerre-sfide-globali-diritto-filosofia-politiche-creative.html

In Tunisia il cruciale voto sulla nuova Costituzione

Dopo giorni di forti tensioni tra manifestanti e polizia con diversi arresti, si vota in Tunisia per il referendum sulla nuova Costituzione, un testo voluto dal presidente Saied, che divide la popolazione. Diversi aspetti rendono la situazione complessa e preoccupante nel Paese strategico per il mondo arabo e l’Europa, spiega l’arcivescovo di Tunisi, monsignor Ilario Antoniazzi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si sono aperti in Tunisia i seggi per il referendum popolare sulla nuova Costituzione voluta dal presidente Kais Saied. Gli oltre nove milioni di cittadini chiamati alle urne devono semplicemente esprimersi sull’approvazione o meno del testo proposto da Saied. Non è fissato un quorum, quindi la Carta passerà con la maggioranza di “sì” dei voti espressi, ha precisato la Commissione elettorale (Isie), aggiungendo che i risultati ufficiali saranno annunciati tra il 26 e il 27 luglio.

I timori

La nuova Costituzione, se approvata, concederà ampi poteri al presidente che eserciterà la funzione “esecutiva” con l’aiuto di un governo e avrà altresì una forte influenza sul piano legislativo e su quello giudiziario. Dall’opposizione e dalla società civile si sono levate voci di critica che esprimono il timore per una deriva autoritaria del Paese e che invitano a non recarsi alle urne o a votare no. A controllare le operazioni di voto ai seggi, che chiudono alle 22:00 (ora locale, le 23:00 in Italia), sono stati schierati 84.000 agenti. Poche invece le missioni degli osservatori internazionali: ci sono osservatori dell’Unione Africana, della Lega Araba,  del Carter Center.

Alla base delle proteste

Manifestazioni contro il carovita si registrano periodicamente dal 2018. In particolare negli ultimi mesi lo scontento per l’aumento dei prezzi alimentari e quello dei carburanti che investe molti Paesi si è esasperato. Di diversi aspetti che rendono la situazione complessa abbiamo parlato con l’arcivescovo di Tunisi, monsignor Ilario Antoniazzi:

Monsignor Antoniazzi ricorda che Saied è stato il presidente più votato nella storia della Tunisia, per sottolineare quante speranze la popolazione avesse riposto nella sua presidenza.

Il fattore economia

Ma – ricorda – l’economia è andata male e la gente da mesi e mesi non riesce a vedere la prospettiva di un futuro migliore. I prezzi sono aumentati e – ricorda l’arcivescovo – si fa sentire la crisi del grano perché anche la Tunisia è tra i Paesi che importano dall’Ucraina. C’è stato un momento – spiega – in cui è mancato il pane e questo non può lasciare la popolazione indifferente.

Diverse dinamiche politiche

Monsignor Antoniazzi parla della Costituzione soffermandosi sui timori di tanti, sull’ipotesi di una deriva dittatoriale e per il fatto che sono davvero tanti i poteri che si verrebbero ad assommare nella figura del presidente. A questo proposito, il presule ricorda che per molti anni i tunisini hanno vissuto democrazia e libertà di azione e di coscienza e dunque non intendono facilmente fare passi indietro. Oltre a questo individua però un altro motivo alla base di alcune manifestazioni: si tratta di proteste alimentate dai sostenitori dei partiti islamici che durante la presidenza di Saied hanno perso il potere che avevano acquisito. Sono diverse dunque le spinte – afferma l’arcivescovo – che fomentano le tensioni.

La Tunisia Paese pilota

A fine 2010 proprio dal Paese è partito il primo disperato gesto di  ribellione – l’ambulante che si è dato fuoco – che ha messo in moto i vari movimenti denominati primavera araba. In Tunisia – ricorda l’arcivescovo di Tunisi – viene ricordata come la rivoluzione dei gelsomini, ma – sottolinea – purtroppo l’evoluzione non è stata proprio quella sperata. Secondo monsignor Antoniazzi alla rivoluzione è poi mancata una direzione, una leadership che indicasse una strada. Fa l’esempio di un cavallo in corsa che fa cadere il peso che porta e che non trova nessuno che lo indirizzi. Dal punto di vista della popolazione i partiti che si sono succeduti in questi anni  sono stati deludenti. E – afferma – la situazione oggi secondo tante persone è senza speranza. Monsignor Antoniazzi parla di preoccupazione ricordando che la Tunisia è un Paese pilota per molti Paesi arabi e sotto certi punti di vista è una porta dell’Africa. La crisi fa paura – aggiunge – anche vista dall’Unione europea.

La risorsa giovani

L’arcivescovo di Tunisi ricorda che si tratta di una popolazione giovane e che moltissimi dei ragazzi sono laureati o comunque istruiti. Parla di un popolo che ama la libertà e la pace e che dunque vuole superare le crisi. Può farlo – ribadisce – proprio se si offrono opportunità alle nuove generazioni che rappresentano la speranza.

 

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/tunisia-costituzione-referendum-giovani-economia-grano-ucraina.html

Draghi si dimette governo in carica per affari correnti

In Italia il presidente del Consiglio, Mario Draghi, dopo aver riferito al presidente della Repubblica Mattarella in merito alla discussione e al voto al Senato, ha reiterato le dimissioni sue e del governo da lui presieduto. Il presidente ne ha preso atto. L’esecutivo rimane in carica per il disbrigo degli affari correnti

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto questa mattina al Palazzo del Quirinale il presidente del Consiglio dei ministri, Mario Draghi, il quale, dopo aver riferito in merito alla discussione e al voto di ieri presso il Senato, ha reiterato le dimissioni sue e del Governo da lui presieduto. Il Presidente della Repubblica ne ha preso atto. Il governo rimane in carica per il disbrigo degli affari correnti.  Secondo la prassi, si prevede un’autolimitazione del governo che non ha più la pienezza dei poteri. Dovrebbe significare che non ha capacità programmatica e quindi che non si fanno disegni di legge (Finanziaria inclusa), non si approvano decreti legislativi (come quelli della riforma fiscale e della riforma della giustizia), salvo eccezioni imposte da scadenze imminenti (il Piano nazionale ripresa resilienza, Pnrr). Non si ipotizzano nomine. Si concludono le attività già in corso e, al bisogno, si affrontano imprevisti. In caso di emergenza si possono emanare decreti legge.

Il passaggio alla Camera

Alle 9:00 del mattino Mario Draghi si è recato alla Camera dei deputati dove ha ricevuto un lungo applauso. Ha riferito di recarsi al Quirinale, pertanto al seduta è stata aggiornata alle 12:00.

Il voto al Senato

Draghi non è stato di fatto sfiduciato: ieri il voto al Senato si è chiuso con 95 voti a favore e 38 contrari: erano 192 i senatori presenti, 133 i votanti. Ma Lega, Forza Italia e Movimento 5 Stelle  non hanno votato e dunque non si è trattato della fiducia per “un nuovo patto” così come richiesto da Draghi nel suo discorso di ieri.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/italia-governo-dimissioni-quirinale-draghi-mattarella.html