Passi avanti sulla questione grano

Attesa per un accordo sulle esportazioni di cereali dall’Ucraina entro la prossima settimana. Oltre ad alleviare gli effetti della crisi alimentare, che già si è fatta sentire in diversi Paesi in conseguenza dei blocchi di esportazione, l’accordo può avere il valore simbolico di una apertura di dialogo come sottolinea il direttore della Rivista Italiana Difesa, Pietro Batacchi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Passi significativi” si registrano nei negoziati a Istanbul per la ripresa delle esportazioni di grano ucraino. E’ quanto ha affermato il Segretario generale dell’Onu, Antònio Guterres, al termine della giornata di colloqui ieri nella città turca tra le delegazioni di Russia, Ucraina, Turchia e Nazioni Unite. Ha spiegato che è stato fatto un “progresso sostanziale” nei meccanismi di controllo e coordinamento per la ripresa dell’export sul Mar Nero. L’auspicio espresso da Guterres è che nel prossimo incontro, pevisto per la prossima settimana, le parti possano siglare l’accordo finale. Delle aperture e dei significati di un accordo sul grano abbiamo parlato con Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana Difesa:

Batacchi spiega che l’accordo non è ancora completamente chiuso: sarà necessario un lavoro tecnico per materializzare i progressi. Ma – sottolinea –  i passi avanti ci sono e si può sperare nei tempi brevi indicati da Guterres. Batacchi sottolinea l’importanza di un’intesa alla luce delle ricadute gravi che i blocchi delle esportazioni stanno provocando in diverse aree del mondo, specialmente a scapito delle popolazioni più fragili. Ma mette in luce anche l’importanza di avere una piattaforma di dialogo che funzioni sia pure limitatamente al contesto dei cereali. In ogni caso, rappresenta un binario tracciato, una via di scambio, un’occasione di incontro intorno a un tavolo che lascia sperare che si possa presto percorrere questa via anche su altri livelli di diplomazia per la pace. Sempre Batacchi chiarisce che la sede dei colloqui a Istanbul ricorda il ruolo che la Turchia può giocare tra le parti e aggiunge che non si deve sottovalutare neanche l’impegno dell’Onu per il raggiungimento dell’intesa. Poi, si sofferma su un altro fattore che entra in gioco in modo preponderante: le materie prime. Da sempre il commercio è stato importante per gli equilibri politici ma, sottolinea il direttore di Difesa, nella situazione attuale di estrema complessità risulta essere un fattore di grandissimo peso.

L’attesa

Oltre 130 navi mercantili cariche di grano ucraino attendono nel Mar Nero per accedere al Danubio attraverso le vie di entrata e uscita dei canali dell’estuario di Sulina e Bystre, ricorda Batacchi. L’obiettivo è raggiungere una serie di porti e terminal in Romania da dove il grano potrà essere trasbordato verso diverse destinazioni. I servizi di localizzazione marittima hanno mostrato un ingorgo di navi in attesa di passare nel Danubio da quando è stata aperta una seconda rotta attraverso l’estuario di Bystre dopo la recente ritirata russa dalla vicina e strategica isola dei Serpenti, che aveva minacciato la navigazione vicino a Odessa. In precedenza le navi potevano entrare nel Danubio solo tramite il canale di Sulina, il cui passaggio è a senso unico, con le navi mercantili che dovevano aspettare settimane per attraversare il canale. Sebbene i grandi vettori non possano passare attraverso l’estuario di Bystre, limitando la quantità di grano che può essere esportato, i funzionari ucraini hanno affermato che, da quando è stata riaperta, già 16 navi hanno transitato negli ultimi quattro giorni sulla rotta Bystre .

La posizione di Mosca

Il capo del Dipartimento per i rapporti con le organizzazioni internazionali del ministero degli Esteri russo, Pyotr Ilyichev, ha affermato che l’esercito russo ha ribadito la propria disponibilità a consentire corridoi di spedizione sicuri nel Mar Nero. Ilyichev ha aggiunto che settanta navi provenienti da 16 Paesi sono rimaste bloccate nei porti ucraini, sostenendo che le autorità ucraine avevano impedito loro di partire. “Le nostre condizioni sono chiare – ha affermato Ilyichev – dobbiamo avere la possibilità di controllare le navi per impedire qualsiasi tentativo di contrabbando di armi, e Kiev deve astenersi da qualsiasi provocazione”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/ucraina-russia-grano-esportazioni-onu-istanbul-poveri.html

Biden in Medio Oriente

Quasi 50 anni dopo la sua prima visita da senatore neo eletto nel 1973, Joe Biden è tornato in Israele per la prima volta da presidente degli Stati Uniti. Diversi i temi in agenda nei colloqui con il primo ministro Lapid e il presidente Herzog, prima dell’incontro venerdì a Betlemme con il leader palestinese Mahmūd Abbās e poi la tappa in Arabia Saudita

Fausta Speranza – Città del Vaticano

All’aeroporto di Tel Aviv, Ben Gurion, dove è giunto ieri, il presidente americano Joe Biden ha esordito affermando che i rapporti tra Israele e Usa sono “più profondi e forti che mai”. “Indissolubili” è stato l’aggettivo scelto dal premier Yair Lapid, che poi ha affermato che al centro dell’agenda c’è “la necessità di rinnovare una forte coalizione globale che fermi il programma nucleare dell’Iran”. Come ha spiegato il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan, l’amministrazione Biden continua ad essere convinta che gli sforzi diplomatici siano il modo migliore per convincere Teheran a rispettare le regole, allo stesso tempo Washington non esiterà a continuare ad usare lo strumento delle sanzioni economiche per fare pressioni sull’Iran. Joe Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti sarebbero disposti a misure più drastiche nei confronti dell’Iran al fine di prevenire il possibile utilizzo militare del nucleare, ma si tratterebbe “dell’ultima risorsa”.

Per la questione israelo-palestinese la soluzione a due Stati

Lo stesso Sullivan ha riferito ai giornalisti che, a proposito della questione israelo palestinese, il presidente Biden, si è detto “rincuorato” dalla recente telefonata tra il premier israeliano Yair Lapid e il presidente palestinese Mahmūd Abbās (Abu Mazen). “E’ stato un passo positivo dopo che per anni non ci sono stati contatti tra un premier israeliano e Abu Mazen”, ha sottolineato. Biden ha assicurato che gli Stati Uniti continuano ad essere impegnati per la sicurezza di Israele e per una sua maggiore integrazione nella regione, evocando in particolare un “partenariato sui sistemi di difesa più sofisticati del mondo”. Ma ha ribadito anche la convinzione che la soluzione a due Stati resta “la via migliore per garantire un futuro di libertà, prosperità e democrazia per israeliani e palestinesi”.

La visita allo Yad Vashem

La prima giornata del presidente statunitense in Medio Oriente si è conclusa allo Yad Vashem, il Museo della Shoah a Gerusalemme. Dopo aver ravvivato la fiamma perenne in memoria dei sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti e deposto una corona di fiori, Biden, accompagnato dal segretario di Stato Antony Blinken, si è intrattenuto a lungo con due sopravvissute alla Shoah, Rena Quint e Giselle Cycowicz. “Non dimenticare mai”, ha scritto il presidente nel suo messaggio al memoriale sottolineando che “l’odio non è sconfitto, ma si nasconde”.

Le tappe del viaggio in Medio Oriente

Oggi  i colloqui con Lapid e con il presidente israeliano Isaac Herzog. Poi venerdì Biden sarà a Betlemme per l’incontro con Mahmūd Abbās, per poi dirigersi in Arabia Saudita.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/israele-biden-stati-uniti-palestinesi-arabia-saudita-shoah.html

Crisi energetica in Libia: le proteste si fanno trasversali

Trovare soluzioni di dialogo per la Libia: è l’appello che il Papa ha rivolto domenica scorsa all’Angelus. Mentre prosegue il confronto tra i leader che rappresentano attualmente le due anime della politica – Fathi Bashagha e Abdul Hamid Dbeibah – è emergenza per le interruzioni di corrente e per la carenza di carburante. A livello popolare, da settimane le manifestazioni sembrano rispondere a bisogni sociali di tutti, come sottolinea la studiosa Michela Mercuri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il presidente della Camera dei rappresentanti (HoR) libica, Aqila Saleh, ha esortato “il procuratore generale, il presidente della Commissione per l’energia e le risorse naturali” dello stesso Parlamento e “il presidente dell’Autorità di controllo amministrativo, ad aprire un’indagine urgente sui motivi delle continue interruzioni di corrente” per ore e “della grave carenza di carburante” in Libia: lo scrive il sito della tv “Libya al-Ahrar” citando il portavoce della HoR, Abdullah Blehiq. Saleh ha esortato le autorità ad annunciare presto al pubblico i risultati delle indagini – aggiunge il sito – ricordando che “i libici hanno sopportato” per giorni “ore di interruzioni di corrente” in presenza di “temperature torride” assieme a una “paralizzante carenza di carburante”.

Domenica scorsa all’Angelus il Papa ha rivolto il suo pensiero al popolo della Libia, in particolare ai giovani, che “soffrono a causa dei gravi problemi sociali ed economici”.

Il confronto sul piano politico

Fathi Bashagha, primo ministro designato a febbraio,  ha affermato e ribadito in questi giorni che il governo del primo ministro Abdul Hamid Dbeibah è “illegittimo”. Lo riferisce oggi il sito Libya Express citando dichiarazioni rese all’Afp in cui Bashagha ha ribadito l’intenzione di voler entrare a Tripoli “nei prossimi giorni”. “Il suo mandato è finito e non è riuscito a far sì che le elezioni si svolgessero”, ha detto Bashagha riferendosi al concorrente sostenuto da Onu e Turchia. Perché si svolgano le elezioni –  ha aggiunto il primo ministro – “l’unica condizione è che la Libia abbia un solo governo. Due governi non sono accettabili”.

Le ragioni dell’impasse

Intanto si stanno riplasmando le dinamiche internazionali, a partire dal ruolo di Paesi come Stati Uniti, Turchia, Russia.  Della situazione di impasse politico istituzionale in Libia, della condizione della popolazione e del suo orientamento, abbiamo parlato con Michela Mercuri, analista che ha dedicato alla Libia studi e pubblicazioni:

A determinare questa situazione è stato il voto con cui il 10 febbraio scorso la Camera dei rappresentanti di Tobruk ha incaricato l’ex ministro dell’Interno Bashagha  di formare  un governo “parallelo”, che ha ricevuto la fiducia del parlamento libico il 1° marzo. Mercuri spiega che l’incarico deciso a febbraio è stato frutto dell’intesa tra parte delle milizie tripolino-misuratine e i leader del campo cirenaico, il presidente della Camera dei rappresentanti Aguila Saleh e il comandante dell’Esercito nazionale libico Haftar. Ma l’incarico è stato dato considerando che il mandato di Dbeibah avrebbe dovuto concludersi in coincidenza con le elezioni del 24 dicembre 2021. Ma le elezioni non si sono svolte a dicembre e neanche poi a giugno, ricorda Mercuri, sottolineando che Dbeibah non ha dato segni di lasciare il suo posto. Finora dunque i tentativi di Bashagha di rovesciare il capo del governo di unità nazionale e insediarsi a Tripoli sono falliti. Compreso – ricorda l’analista – un tentativo di entrare con le forze militari a Tripoli alcune settimane fa.

Dinamiche diverse ma non troppo

Per quanto le dinamiche politiche e militari siano diverse dal 2019-20 – afferma Mercuri – la posta in gioco resta la medesima. Di fatto i cirenaici di Haftar intendono arrivare a Tripoli,  questa volta avvalendosi di Bashagha. I tripolitani di Dbeibah, successore di Fayez al-Sarraj, si preparano a difendere la capitale, o meglio la loro sopravvivenza politica. Si ripetono di fatto le contrapposizioni che nell’aprile 2019 portarono all’offensiva di Khalifa Haftar su Tripoli. Con la differenza – dice Mercuri – che oggi la linea di faglia nella Libia non separa solo Tripolitania e Cirenaica ma spacca il campo tripolitano, di cui fanno parte entrambi gli attuali contendenti. L’obiettivo dichiarato dell’ex ministro dell’Interno Bashagha – spiega  la studiosa – non è diventare il capo di una fazione, ma ricomporre il fratturato quadro libico. Bashagha è di Misurata ed è un ex membro del governo di accordo nazionale, dunque  gode del supporto  o comunque della non ostilità  di parte dell’opinione pubblica tripolitana.

Slogan sociali trasversali

Dietro ci sono sempre grandi potenze che appoggiano gli uni o gli altri e la situazione resta di estrema incertezza.  Quello che è cambiato – mette in luce Mercuri – è la voce che arriva dalla popolazione. Spiega che non si tratta più di manifestazioni di piazza nelle grandi città, rappresentative dei due schieramenti ma si tratta di proteste di piazza in tutti i centri urbani e soprattutto accomunate dagli stessi slogan. Giorni fa – afferma Mercuri – lo slogan principale era “Vogliamo l’elettricità, vogliamo la luce”. In un Paese caldo come la Libia le interruzioni di corrente – riferisce l’analista – in queste settimane sono durate anche 14 ore su 24. Il disagio sociale è grande anche perché intanto manca il carburante, utile a tutte le attività lavorative. Sono queste dunque al momento le priorità per il popolo libico che – dice – sente ovviamente anche la stanchezza di una dinamica politica che non avvertono come propria.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/libia-energia-carburante-tripoli-governo-ministro.html

Neo presidente Ifad: spezzare il legame tra clima, povertà, guerre

Alvaro Lario è stato eletto alla guida del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo. Già direttore finanziario dell’organismo Onu, si è impegnato a raddoppiare gli investimenti sulle comunità rurali povere entro il 2030. Bisogna ricordare ai mercati finanziari che hanno altre priorità, spiega che il legame tra clima, povertà e guerre è fatale per tutti, e che è necessario il coinvolgimento straordinario del settore privato

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Abbiamo le istituzioni per combattere la povertà, abbiamo il know-how per ridurre le disuguaglianze. Quello che ci occorre è mobilitare le risorse e unire le forze”: sono parole del nuovo presidente del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad) Alvaro Lario, pronunciate ieri di fronte ai delegati dei 177 Stati membri che lo hanno scelto alla guida dell’istituzione nell’elezione che si è svolta nella sede a Roma. Lario si insedierà il primo ottobre e resterà in carica per un mandato di quattro anni. Subentra a Gilbert Houngbo, che ha guidato l’organizzazione dal 2017.

Priorità e concretezza dell’impegno finanziario

Già direttore finanziario dell’Ifad e vicepresidente associato per le operazioni finanziarie dal 2018, lo spagnolo Lario ha guidato gli sforzi dell’istituzione a mobilitare l’impegno del settore privato nella lotta contro la fame e la povertà, a favore delle comunità rurali più povere del mondo. Oggi si impegna a raddoppiare l’impatto dell’Ifad sulle comunità rurali povere entro il 2030. Sotto la sua amministrazione, l’Ifad è diventato il primo Fondo delle Nazioni Unite e l’unico organismo specializzato – oltre al gruppo della Banca Mondiale – ad accedere al mercato finanziario e a ottenere un rating di credito, consentendo così al Fondo di ampliare la propria capacità di mobilitare risorse, estendendola al settore privato. Lario ha maturato 20 anni di esperienza in questo settore, nel mondo accademico e nelle istituzioni finanziare internazionali, e si è occupato anche di sviluppo di mercati dei capitali locali e investimenti nei mercati emergenti presso l’International Financial Corporation del gruppo della Banca Mondiale.

Gravi le sfide

Lario assume la guida dell’Ifad in un momento di grandi sfide per l’agricoltura, in particolare per i piccoli agricoltori, che nonostante siano essenziali per la sicurezza alimentare mondiale, sono estremamente vulnerabili agli shock. La guerra in Ucraina ha fatto impennare i prezzi degli alimenti, dell’energia e dei fertilizzanti, Dovrà dunque guidare l’agenzia delle Nazioni Unite nella lotta contro la crisi globale della sicurezza alimentare innescata dalla guerra, oltre che dal cambiamento climatico e dalle conseguenze economiche – diseguali nel mondo – causate dalla pandemia da Covid-19. Nell’intervista a Vatican News, Alvaro Lario parla delle sfide, delle priorità, del ruolo dei mercati, del bisogno di far convergere programmi di azione.

Lario innanzitutto ricorda che l’ultimo rapporto dell’Onu sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione mostra che il mondo sta facendo passi indietro negli sforzi per sconfiggere la fame e la malnutrizione. Il numero delle persone che soffrono la fame, infatti, è salito a ben 828 milioni.

Clima, povertà e guerre: nessuno si senta escluso

Lario, con efficace sintesi, mette in luce quello che definisce un legame diretto da considerare: quello tra clima, povertà e guerre. Ricorda che questo è fatale per tutti e che tutti devono essere coinvolti, anche i mercati finanziari che – dice – hanno altre priorità.

Il ruolo del settore privato

Lario esprime la convinzione che serva, oltre all’impegno delle istituzioni pubbliche, anche il coinvolgimento dei privati: “Sappiamo che l’aiuto pubblico allo sviluppo e soprattutto quello destinato all’agricoltura non sarà sufficiente”. A causa della guerra in Ucraina – ricorda – i piccoli produttori di tutto il mondo stanno subendo le perturbazioni attuali dei sistemi alimentari. Questo è un ulteriore shock che si aggiunge ai disastri collegati al cambiamento climatico e alla diseguale ripresa dal Covid 19. Le comunità povere sono gravemente colpite.

L’impegno programmatico

“Come presidente farò in modo che l’Ifad colleghi l’enorme quantità di risparmi mondiali di investimenti a impatto e i fondi pensione per affrontare la povertà nelle comunità rurali povere”. E’ l’impegno che assume per l’inizio del suo mandato: “Dobbiamo assicurarci di utilizzare il nostro rating creditizio AA+ per mobilitare più fondi”. A questo proposito parla di “un vantaggio competitivo unico per l’Ifad  nel sistema delle Nazioni Unite”.

Lario si  impegna a “incrementare gli investimenti nella resilienza climatica e nell’agricoltura climatica-intelligente”. L’Ifad – sostiene – deve agire con urgenza e collaborare con istituzioni attente al clima per sostenere i piccoli agricoltori e le comunità rurali povere ad adattarsi agli shock climatici. Dunque, quella che definisce “l’agricoltura climatica-intelligente” e l’adattamento al clima, diventeranno sempre più  importanti per spezzare il circolo vizioso della povertà, disuguaglianza, conflitti e migrazioni forzate.

Unire le forze senza dimenticare giovani e donne

In definitiva, un convincimento importante: “Abbiamo le istituzioni per combattere la povertà, abbiamo il know-how per ridurre le disuguaglianze. Quello che ci occorre è mobilitare le risorse e unire le forze”. E aggiunge che “non sarà possibile raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile senza sfruttare il potere delle donne e l’energia dei giovani”.

Lo sguardo globale delle Nazioni Unite

L’ultimo rapporto dell’Onu su “Lo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo” (SOFI), presentato giovedì scorso, mostra, come ricorda Lario, che il mondo sta facendo passi indietro negli sforzi per sconfiggere la fame e la malnutrizione. Il numero delle persone che soffrono la fame a livello mondiale è salito a ben 828 milioni nel 2021, ossia circa 46 milioni in più dal 2020 e 150 milioni in più dallo scoppio della pandemia di COVID-19. Le Nazioni Unitw ricordano che il mondo si sta allontanando ulteriormente dall’obiettivo di sconfiggere, entro il 2030, fame, insicurezza alimentare e malnutrizione in tutte le sue forme. Nel 2021, il divario di genere nell’insicurezza alimentare è cresciuto ancora nel 2021. In tutto il mondo, il 31,9% delle donne ha sofferto di insicurezza alimentare moderata o grave, rispetto al 27,6% degli uomini: un divario di oltre 4 punti percentuali, rispetto ai 3 del 2020.

Guardando al futuro

Nella prefazione del rapporto, i capi delle cinque agenzie ONU hanno scritto: “La questione principale non è tanto se le avversità continueranno a verificarsi o meno, ma, piuttosto, come intraprendere azioni più coraggiose per costruire la resilienza contro le crisi future”. Si prevede che nel 2030 quasi 670 milioni di persone (l’8% della popolazione mondiale) soffriranno ancora la fame, anche considerando una ripresa economica mondiale. David Beasley, direttore esecutivo del Programma Alimentare Mondiale (Pam) dichiara: “La portata senza precedenti della crisi della malnutrizione richiede, altresì, una risposta senza precedenti”. Le impennate – aggiunge – nei prezzi mondiali di alimenti, carburanti e fertilizzanti a cui assistiamo, a seguito della crisi in Ucraina, minacciano di spingere Paesi di tutto il mondo sull’orlo della carestia. Ne conseguiranno una destabilizzazione a livello mondiale, morte per inedia e migrazioni di massa senza precedenti. “Dobbiamo agire oggi per scongiurare questa catastrofe incombente”, ribadisce. Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), chiarisce che “ogni anno 11 milioni di persone muoiono a causa di diete non sane e che l’aumento dei prezzi degli alimenti non farà altro che aggravare questa situazione”. L’OMS sostiene gli sforzi dei Paesi per migliorare i sistemi alimentari, sia tramite tassazione degli alimenti non sani, che tramite la concessione di sovvenzioni a favore di scelte sane, che proteggano i bambini da un marketing dannoso, garantendo la chiarezza delle etichette nutrizionali. L’obiettivo è far sì che il cibo sia fonte di salute per tutti.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/fondo-onu-agricoltura-guerra-poveri-privato-investimenti.html

Ue ed energia: tra forniture alternative e patenti green

La Commissione europea prepara un piano per far fronte a interruzioni di forniture energetiche dalla Russia. E dopo il via libera dell’Europarlamento, sembra scontato l’inserimento di alcune attività di gas e nucleare tra le fonti sostenibili. C’è il problema dei prezzi. Per diversificare fonti e Paesi si sta facendo molto, ma bisogna anche ripensare le politiche di liberalizzazione che hanno lasciato mano libera a mercati e speculazioni, suggerisce l’esperto di economia politica Andrea Bollino

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dobbiamo prepararci a ulteriori interruzioni delle forniture di gas, persino a un’interruzione completa della fornitura da parte della Russia. E’ quanto ha detto in questi giorni la presidente della commissione Ue, Ursula Von der Leyen, parlando alla plenaria dell’Europarlamento alla presentazione del semestre di presidenza ceca del Consiglio europeo. Nella stessa Plenaria, martedì scorso, il Parlamento europeo ha approvato la cosiddetta tassonomia, la classificazione di gas e nucleare tra gli investimenti green. I votanti a favore sono stati 328, contrari 278 e gli astenuti 33. La decisione finale in materia spetterà al Consiglio europeo. Intanto, per il 26 luglio è stato organizzato un vertice straordinario dei ministri europei dell’energia.

L’emergenza e il bisogno di unità

Oggi, complessivamente, 12 stati membri sono direttamente interessati da riduzioni parziali o totali della fornitura di gas. Per questo la Commissione sta lavorando a un piano di emergenza europeo. La presidente Von der Leyen ha annunciato un piano e gli strumenti necessari entro la metà di luglio, sottolineando un punto preciso: “Bisogna fare in modo che, in caso di interruzioni di forniture, il gas vada dove necessario nell’Ue”. Von der Leyen spiega: “Non dobbiamo dimenticare l’amara lezione dell’inizio della pandemia: le frontiere chiuse e il protezionismo hanno portato a un’ulteriore disunità, ma la chiave del successo sarà l’unità”.

Fonti alternative

“Stiamo diversificando le nostre fonti, allontanandoci dalla Russia”, ha affermato Von der Leyen, sottolineando che da marzo le esportazioni globali di gas naturale liquido (Gnl) verso Europa sono aumentate del 75 per cento rispetto al 2021. Allo stesso tempo, l’importazione media mensile di gas russo via gasdotto è in forte calo, del 33 per cento, rispetto all’anno scorso. E ha sottolineato la presidente: “Bisogna far avanzare la strategia sulle rinnovabili: se continuiamo a farci concorrenza per accaparrarci i combustibili fossili i prezzi dell’energia andranno alle stelle e noi ci serviamo su un piatto d’argento alla Russia”. A proposito delle rinnovabili ha chiarito: “C’è chi dice che in questo contesto di sicurezza bisogna rallentare la transizione verde, ma è proprio questo il momento giusto per accelerare sulle rinnovabili, che ci garantiscono indipendenza dai combustibili fossili, sono più efficienti dal punto di vista dei prezzi e sono più pulite.

La concretezza delle misure in atto

La notizia dei provvedimenti allo studio e in atto è solo la conferma che siamo arrivati alla vigilia dell’inverno, in cui eventuali carenze di apporti energetici potrebbero creare problemi e panico. Delle misure in discussione, ma anche della necessità di una riflessione a più ampio raggio, abbiamo parlato con Andrea Bollino, docente di Economia politica all’Università Luiss ed esperto in particolare di questioni energetiche:

Il professor Bollino conferma che alcune misure sono state prese a livello di Unione europea e di singoli Paesi. Fa l’esempio dell’Italia, ricordando gli accordi con Paesi come Egitto o altri africani, per forniture alternative ai flussi dalla Russia – sottolinea – possono contribuire per un terzo. Ma soprattutto Bollino cita il secondo nuovo rigassificatore galleggiante, che – dice – potrà contribuire in modo decisivo alla sicurezza e alla diversificazione energetica del Paese. Le due navi di stoccaggio e rigassificazione (FSRU) che l’Italia si è assicurata – spiega –  potranno da sole contribuire al 13 per cento del fabbisogno nazionale di gas, portando la capacità di rigassificazione a oltre il 30 per cento della domanda, non appena ci sarà l’autorizzazione per posizionarle e collegarle alla rete di trasporto nazionale. Si tratta – chiarisce l’esperto – di 10 miliardi potenziali di metri cubi che si vuole sostituire. E poi c’è un terzo che – spiega Bollino – dovrà continuare a venire da fonti di carbone.

Decisiva una prospettiva più ampia

Bollino, però, mette l’accento su quello che ritiene sia un aspetto centrale quando la questione viene affrontata dal punto di vista dei costi, dei prezzi attuali dell’energia. Spiega che le problematiche a livello internazionale giustificano i rialzi, ma non nella percentuale cui assistiamo. Il punto è – chiarisce – che i mercati, quando operano da soli, di fronte alla paura fanno scattare la speculazione. Il problema dunque – afferma Bollino – risiede nella liberalizzazione dei mercati energetici che è stata voluta negli anni novanta in Europa, con logiche che non hanno tenuto conto del fatto che proprio la politica energetica potesse essere “un’arma politica” in mano a grandi potenze.

Ripensare l’organizzazione dei mercati

Secondo Bollino bisogna ridisegnare la politica energetica industriale, tenendo conto che i big del mercato non possono avere le stesse priorità di un governo che dovrà sempre cercare di tutelare i propri cittadini. Serve dunque una visione nuova comune in Europa.

Simbolico l’incontro in Indonesia

L’economista si sofferma poi su una coincidenza: l’incontro a livello ministeriale del G20 che si è aperto oggi a Bali fa pensare che proprio l’Indonesia, che è un grande esportatore di energia, possa giocare un ruolo. Al tavolo infatti si devono sedere i rappresentanti di Stati Uniti e Russia e si spera che da un incontro del genere possano arrivare spiragli nuovi di una qualunque forma di dialogo costruttivo.

Patente green per gas e nucleare

Il gas e il nucleare potrebbero avere la patente verde come fonti di transizione, potranno quindi attrarre gli investimenti destinati alle attività economiche considerate sostenibili dalla cosiddetta Tassonomia, la classificazione stilata dalla Commissione Ue. Il Parlamento europeo, infatti, non ha respinto l’atto delegato complementare della Tassonomia che propone di includere, a determinate condizioni, specifiche attività nucleari e del gas nell’elenco delle attività green. La plenaria si è espressa su una mozione che chiedeva di respingere la proposta della Commissione: 328 eurodeputati hanno votato contro la mozione, 278 a favore e 33 si sono astenuti. Ora la questione rimbalza al Consiglio europeo: se entro lunedì non respinge l’atto, entrerà in vigore dal 1° gennaio prossimo. Sembra proprio che in Consiglio non ci siano i numeri per bloccarlo. Al momento solo otto Paesi, tra cui Spagna, Austria, Lussemburgo, hanno espresso la volontà di obiettare (ne servono 20 che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione Ue). Il risultato del voto di ieri è stato accolto “con favore” dalla Commissione Ue che ha sottolineato “l’approccio pragmatico e realistico” della Tassonomia. Molto critiche le reazioni dal mondo ambientalista. Il Wwf Italia ha detto che valuterà azioni legali contro la norma.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/unione-europea-gas-nucleare-russia-commissione-prezzi-energia.html

In Sudan annuncio a sorpresa: verso un governo di civili

Il generale Abdel Fatah al-Burhan, di fatto da ottobre scorso al comando in Sudan, apre ad un bilanciamento di poteri. L’annuncio in Tv, dopo giorni di forti manifestazioni che hanno occupato pacificamente strade e piazze a Khartoum e in altre città del Paese. Dalla deposizione di Omar al-Bashir nel 2019 non è mai davvero decollata la fase di transizione politica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In Sudan, dopo quattro giorni di manifestazioni, costate la vita a nove dimostranti uccisi dalle forze dell’ordine, il presidente del Consiglio sovrano e di fatto capo di Stato del Sudan, il generale Abdel Fatah al-Burhan, è intervenuto inaspettatamente in TV aprendo alla possibilità di trattare con i civili il futuro del Paese arabo-africano. Il generale ha parlato di nuovo possibile scenario politico, dopo mesi e mesi di impasse politica e dure reazioni contro i manifestanti. Il leader del colpo di Stato messo in atto lo scorso ottobre ha invitato i “partiti politici e le organizzazioni rivoluzionarie sudanesi a impegnarsi in un dialogo immediato e serio per formare un governo di persone competenti, indipendenti che possano portare a termine i compiti del periodo di transizione”.

La proposta di dialogo Onu

In sostanza, il presidente del Consiglio sovrano chiede ai suoi avversari di partecipare al dialogo avviato da Nazioni Unite, Unione Africana e IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un’organizzazione politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa), ai quali però gli oppositori del regime militare finora si sono rifiutati di partecipare, proprio per la presenza dei responsabili del golpe.  Al-Burhan ha sottolineato quello che appare come l’elemento più importante: “L’esercito non parteciperà più a questi incontri e in futuro si occuperà solamente di difesa e sicurezza nazionale”.

Le possibili tappe della transizione

Inaspettatamente il generale ha anche affermato di non escludere che il Consiglio sovrano di transizione che presiede possa essere sciolto, una volta formato il nuovo governo civile, anche se è immaginabile che un Consiglio supremo delle forze armate dovrà poi essere istituito. La formazione di un esecutivo civile è la principale richiesta delle forze rivoluzionarie che per quattro giorni hanno occupato pacificamente ma in modo massiccio strade, piazze a Khartoum e in altre città del Paese.

I fatti di ottobre

Il 25 ottobre scorso un golpe ha deposto l’ex primo ministro Abdallah Hamdok, mettendo al comando il capo dell’esercito Abdel Fattah al-Burhan. Almeno 81 manifestanti sono stati uccisi in pochi giorni nella repressione seguita alle proteste. I manifestanti hanno continuato a chiedere l’intervento della comunità internazionale per porre fine alla scia di sangue e ripristinare le libertà democratiche ma la loro richiesta di aiuto non ha portato frutti finora.

Tre anni di instabilità 

In particolare il 30 giugno scorso la folla scesa in strada a Khartoum e nelle città di Omdurman e Bahri è stata la più imponente da mesi. Si sono svolte manifestazioni anche a Wad Madani nel sud, nella regione occidentale del Darfur, negli Stati orientali di Kassala e Gedaref, nonché nella città di Port Sudan. A Omdurman, testimoni hanno riferito di gas lacrimogeni e spari mentre le forze di sicurezza hanno impedito ai manifestanti di entrare a Khartoum. In questo caso, le proteste si sono richiamate in modo speciale al terzo anniversario delle grandi manifestazioni durante la rivolta che nel 2019 ha rovesciato l’ex presidente Omar al-Bashir e ha portato a un accordo di condivisione del potere tra gruppi civili e militari. Il 30 giugno è anche il giorno in cui nel 1989 al-Bashir aveva preso il potere con un colpo di Stato.

Tanti i tentativi di accordo nel dopo al-Bashir

Dopo la deposizione di Omar al-Bashir nel 2019 si doveva avviare una transizione verso le elezioni guidata da un bilanciamento di poteri tra il primo ministro incaricato Abdalla Hamdok e i militari, avviata con l’accordo siglato il 17 agosto 2019 dall’esercito e dalle Forces for Freedom and Change (Ffc), fronte rappresentativo delle forze sociali protagoniste della sollevazione popolare. I militari avevano dato presto l’impressione di voler assumere pieni poteri interrompendo la transizione. Tralasciando altri sviluppi, va ricordato che, con un colpo di Stato, Hamdok è stato destituito ad ottobre scorso. E’ stato poi liberato a novembre e fatto rientrare in carica come primo ministro del governo di transizione sudanese fino a gennaio quando ha presentato le dimissioni non riuscendo a dare vita ad un governo di civili. Già diverse volte dunque i militari sono stati costretti a una marcia indietro dalle pressioni popolari e diplomatiche, ma hanno anche dato ripetutamente  chiari segnali della loro determinazione a utilizzare il potere di cui dispongono.

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L’Africa occidentale tra colpi di Stato e commerci

La Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) revoca le sanzioni economiche imposte al Mali dopo il golpe, mentre emerge nel Paese la prima miniera di litio della macroregione. Ci sono poi intese con il Burkina Faso per una transizione politica di due anni, mentre si conferma la pressione sulla giunta militare in Guinea-Conakry. L’area che racchiude 15 Paesi ha assistito a tre colpi di Stato in un anno e mezzo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) ha annunciato ieri decisioni significative per il Mali e non solo. Nel suo sessantunesimo vertice, che si è svolto ad Accra in Ghana,  l’Ecowas ha deciso di revocare le sanzioni imposte a Bamako, oltre a concordare con il Burkina Faso una transizione di due anni e una crescente pressione sulla Guinea-Conakry perché presenti un piano di transizione. Nell’ultimo anno e mezzo la regione dell’Africa occidentale ha subito quattro colpi di Stato: i due in Mali (agosto 2020 e maggio 2021), quello in Guinea-Conakry (settembre 2021) e l’altro in Burkina Faso (gennaio 2022). E proprio durante questo mese di giugno, l’ECOWAS ha reso effettivo il dispiegamento di una forza di riserva composta da circa 600 addetti alla sicurezza e dispiegata in Guinea-Bissau dopo il tentativo di colpo di stato che il Paese ha subito il 1° febbraio.

Riprendono le transizioni commerciali con il Mali

I leader africani riuniti della Comunità degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas-Cédéao) hanno revocato le sanzioni commerciali e finanziarie che erano state imposte al Mali lo scorso gennaio dopo i due colpi di Stato nel 2020 e 2021. La revoca ha “effetti immediati”, ha spiegato il presidente uscente della commissione ECOWAS, Jean-Claude Cassi Brou, confermando che è stata annullata la chiusura dei confini e la sospensione di tutte le transazioni commerciali con il Mali – facevano eccezione solo alcuni prodotti di base – oltre a consentire ai rispettivi ambasciatori di tornare a Bamako. Resta in vigore la sospensione del Mali per quanto riguarda tutte le attività dell’organizzazione, così come vengono confermate le sanzioni individuali contro i membri della giunta militare guidata dal colonnello Assimi Goita – responsabile del colpo di Stato nell’agosto 2020 e di quello a maggio scorso – che includono il congelamento dei loro conti nelle banche regionali. Secondo Brou, il blocco ha preso la decisione dopo aver ascoltato il suo mediatore per il Paese, l’ex presidente nigeriano Goodluck Jonathan, il quale ha sottolineato che il Mali ha compiuto progressi nella definizione di un codice elettorale e dei meccanismi di monitoraggio, nonché nella stesura di una nuova Costituzione. Tali misure sono state adottate in vista dello svolgimento delle elezioni presidenziali, per le quali le autorità di transizione hanno proposto, la settimana scorsa, la data di febbraio 2024.

Intanto anche in Mali la corsa al litio

Il Mali è uno dei Paesi africani che potrebbe essere protagonista della nuova corsa ad una delle risorse minerarie più ricercate in questa fase storica, il litio, dopo lo Zimbabwe. Il ministero delle Miniere, dell’Energia e dell’Acqua di bamako, infatti, ha annunciato a metà giugno il piano industriale per il giacimento di Goulamina,  nel sud del Mali, gestito dall’azienda australiana Leo lithium limited, in collaborazione con la cinese Ganfeng lithium, che hanno la più grande capacità di produzione di litio al mondo. Si prevede di sviluppare il giacimento di litio Goulamina a livello mondiale, in quella che sarebbe la prima miniera di litio operativa nell’Africa occidentale. Secondo il ministero maliano, “durante la fase di costruzione, di 2 anni, è prevista una forza lavoro totale di circa 1.200 dipendenti, composta da lavoratori qualificati e non”. Il governo maliano spiega che la costruzione della miniera costerà più di 160 miliardi di franchi Cfa (240 milioni di euro) precisando che quasi 91 milioni di euro saranno spesi in Mali, con aziende maliane per il calcestruzzo, la fabbricazione e l’installazione di attrezzature, la costruzione di edifici e l’avvio della miniera mentre il resto sarà utilizzato per acquistare attrezzature internazionali non disponibili nel Paese. I prezzi del litio sul mercato internazionale sono aumentati di quasi il 500 per cento nell’ultimo anno dal momento che questo minerale, soprannominato “metallo verde”, per molti rappresenta il futuro della produzione di veicoli elettrici e delle batterie.

L’intesa per il Burkina Faso

Per quanto riguarda il Burkina Faso, dove una giunta militare governa dal 24 gennaio scorso, l’ECOWAS ha annunciato di aver raggiunto un accordo con le autorità per un biennio di transizione verso nuove elezioni. Si tratta di un periodo inferiore ai 36 mesi (tre anni) che la giunta aveva precedentemente proposto. Il mediatore inviato dall’ECOWAS, l’ex presidente nigeriano Mahamadou Issoufou, ha incontrato la settimana scorsa a Ouagadougou il presidente del Burkina Faso, il tenente colonnello Paul Henri Sandaogo Damiba, che ha espresso il suo impegno per il raggiungimento di una “durata concordata” della transizione. L’ECOWAS ha tenuto conto del “rilascio totale” dell’ex presidente deposto Roch Kaboré, che era ancora soggetto a restrizioni dopo essere stato autorizzato a tornare a casa. Il suo rilascio era una delle richieste dell’organizzazione dopo il colpo di Stato.

L’impegno confermato per la Guinea-Conakry

Meno promettenti le prospettive per la Guinea-Conakry, che non ha presentato un nuovo programma di transizione più “accettabile” al posto del triennio proposto finora dalla giunta militare guidata dal colonnello Mamadi Doumbouya, bocciato sia dall’ECOWAS che dall’opposizione. Sebbene il consiglio avesse rifiutato nel novembre 2021 la nomina di un mediatore da parte dell’ECOWAS, l’organizzazione ieri ha scelto per questo ruolo l’ex presidente del Benin, Thomas Yaya Boni. Al vertice è stato chiarito che se il Paese non raggiungerà un accordo per un nuovo programma di transizione entro la fine di luglio, l’ECOWAS imporrà nuove sanzioni economiche, dopo aver già stabilito alcune misure contro i golpisti al potere dal   5 settembre.

All’interno dell’Ecowas

Al momento anche il Burkina Faso e la Guinea-Conakry restano sospesi dalle attività dell’organizzazione regionale. Il vertice straordinario ha deciso la nomina di un nuovo presidente di turno, carica che fino ad ora era stata ricoperta da Akufo-Addo, capo di stato del Ghana, e che ora sarà ricoperta dal presidente bisaugo Umaro Sissoco Embaló.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/africa-sanzioni-golpe-mali-burkina-faso-guinea-conakry.html

Ancora un giornalista ucciso in Messico

Antonio De la Cruz del quotidiano Expreso è stato colpito a morte nello Stato di Tamaulipas. Sale a dodici il numero di reporter massacrati in sei mesi. Un numero che fa del Messico il Paese più pericoloso al mondo per chi fa informazione. Un fenomeno in crescita negli ultimi anni che intreccia traffici illeciti e corruzione, che è stato oggetto di recente di una risoluzione dell’Europarlamento ma che ha bisogno di maggiore mobilitazione internazionale, sottolinea lo storico Paolo Valvo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il giornalista messicano Antonio De la Cruz del quotidiano Expreso è stato ucciso ieri a Ciudad Victoria, capitale dello Stato settentrionale di Tamaulipas. De la Cruz è morto sotto i colpi di arma da fuoco di sicari mentre si allontanava in auto dalla sua abitazione. Fonti del giornale in cui lavorava da 20 anni hanno indicato che a bordo del veicolo c’era una delle sue due figlie, che è rimasta gravemente ferita. Un portavoce del gruppo editoriale Expreso-La Raz¢n ha ricordato che “già nel 2018 era stato ucciso un altro giornalista del quotidiano, Héctor Gonzalez”. In una conferenza stampa, il procuratore capo di Tamaulipas, Irving Barrios, ha reso noto che De la Cruz è stato raggiunto da quattro proiettili di calibro 40 millimetri sparati da un’arma che è in dotazione alle forze armate messicane e che è morto sul colpo.

Livelli di violenza da tragico record mondiale

Dall’inizio dell’anno, in Messico i giornalisti che hanno perso la vita in episodi di violenza sono almeno 12, di cui tre in maggio. Inoltre, l’organizzazione internazionale Committee to protect journalists conta decine di giornalisti scomparsi, quindici solo nel 2022. Prelevati da sconosciuti, sono spariti senza lasciare traccia. Poi ci sono infiniti casi di minacce e intimidazioni che spingono decine di reporter di zone difficili a cercare rifugio nella relativa sicurezza di Città del Messico, se non all’estero. Non è un’esagerazione definirlo il Paese più pericoloso del mondo per chi fa informazione. Si tratta di una drammatica escalation ma forse si può indicare un momento spartiacque: l’uccisione ad aprile 2012 della giornalista Regina Martinez Pérez, colpita davanti a casa sua a Xalapa, nello Stato di Veracruz. Martinez era molto nota per le sue indagini sulla corruzione e la collusione tra politici e cartelli criminali; scriveva per un quotidiano di Veracruz e per il settimanale Proceso: è stata la prima volta che veniva colpita una giornalista di una testata nazionale e che non si occupava di cronaca nera ma di indagini politiche e sociali.

Nessuna rassegnazione al silenzio

In Messico sono nate reti e collettivi di giornalisti che hanno cominciato a reagire. Gruppi che si mobilitano in aiuto dei colleghi minacciati e “sfollati” da Stati o territori regionali, per denunciare le intimidazioni e sviluppare insieme un lavoro di indagine e d’informazione. Riuniscono giornalisti di testate locali e nazionali, su carta o sul web oppure radio comunitarie. La prima rete, la più antica, è Periodistas de a pie, giornalisti a piedi, nata nel 2007 a Città del Messico. “Ci siamo chiamate così perché scrivevamo di povertà e questioni sociali”, spiega Marcela Turati Muñoz, una delle cofondatrici. Erano per lo più donne; scrivevano in diverse testate, nazionali e locali; volevano sviluppare un giornalismo capace di indagare sulla realtà sociale messicana. Turati allora scriveva da Ciudad Juárez, nel nord dello stato di Chihuahua, per il settimanale Proceso.

Un filo rosso: l’impunità

L’85 per cento degli omicidi di giornalisti degli ultimi vent’anni è rimasto senza soluzione. I reporter denunciano spesso un sistema politico fondato su clientelismo e scambi di favori e un sistema giudiziario che non ha alcuna indipendenza dal potere esecutivo. Spesso le indagini si trascinano senza esito: di rado si trova un colpevole, quasi mai un mandante. Dell’escalation del fenomeno e della difficoltà a contrastarlo abbiamo parlato con lo storico Paolo Valvo dell’Università del Sacro Cuore:

Valvo innanzitutto contestualizza a livello locale l’uccisione del giornalista Antonio De la Cruz ricordando che lo Stato settentrionale di Tamaulipas e la città di Ciudad Victoria sono proprio esempio di territori in cui la violenza è quotidiana. E ricorda che De la Cruz si occupava di varie questioni sociali e politiche che riguardano la tutela dell’ambiente e la gestione degli allevamenti. Valvo ribadisce che siamo davvero ad un tragico record: il Messico da anni si conferma il Paese più pericoloso per i giornalisti al mondo.

Delusione per le promesse di Obrador

Ricorda poi che la diminuzione delle violenze e dei narcotraffici è stata una delle principali promesse del presidente Obrador in carica da fine 2018. Purtroppo però – fa notare lo storico – durante la sua presidenza si sono registrati 1840 atti di intimidazioni seri e ben 33 omicidi di reporter.

La voce dell’Unione Europea

Lo storico Valvo intravede una via per contrastare il fenomeno in un impegno a livello internazionale: parla della necessità di una vera e propria mobilitazione internazionale ricordando che ad aprile scorso è stato il Parlamento Europeo a tentare un intervento. Sottolinea che la risoluzione presentata è stata votata praticamente all’unanimità e spiega che si tratta di un appello rivolto alla presidenza pro tempore della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici, al Segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani, all’Assemblea parlamentare euro-latinoamericana nonché al Presidente, al governo e al Congresso del Messico. Valvo precisa che nella Risoluzione si sottolinea che la libertà di parola online e offline, la libertà di stampa e la libertà di riunione costituiscono meccanismi fondamentali per il funzionamento di una democrazia sana; invita le autorità messicane ad adottare tutte le misure necessarie per garantire la protezione e la creazione di un ambiente sicuro per i giornalisti e i difensori dei diritti umani, in linea con le norme internazionali consolidate, anche affrontando a livello statale e federale la questione della corruzione diffusa, della formazione e delle risorse inadeguate, della complicità di alcuni funzionari e dei sistemi giudiziari carenti che portano a tassi di impunità così elevati.

Aggiunge che nel documento europeo si prende atto con preoccupazione delle critiche sistematiche e severe utilizzate dalle massime autorità del governo messicano nei confronti dei giornalisti e del loro lavoro e condanna i frequenti attacchi alla libertà dei media e nei confronti dei giornalisti e degli operatori dei media in particolare; ribadisce che il giornalismo può essere praticato solo in un contesto privo di minacce, aggressioni fisiche, psicologiche o morali o altri atti di intimidazione e vessazione, e invita le autorità messicane a rispettare e salvaguardare i più elevati standard di protezione della libertà di parola, della libertà di riunione e della libertà di scelta.

L’appello alle autorità messicane

Valvo sottolinea inoltre che nel testo della Risoluzione c’è un chiaro invito alle autorità ad astenersi dallo stigmatizzare i difensori dei diritti umani, i giornalisti e gli operatori dei media, dall’esacerbare l’atmosfera nei loro confronti o distorcere i filoni d’indagine, invita tali autorità a sottolineare pubblicamente il ruolo centrale svolto dai difensori dei diritti umani e dai giornalisti nelle società democratiche. Si  esorta il governo del Messico ad adottare misure concrete, tempestive ed efficaci per rafforzare le istituzioni nazionali, statali e locali e attuare una serie di strategie urgenti, globali e coerenti di prevenzione, protezione, riparazione e responsabilità per garantire che i difensori dei diritti umani e i giornalisti possano portare avanti le loro attività senza timore di rappresaglie e senza restrizioni, in linea con le raccomandazioni formulate dall’Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani e dalla Commissione interamericana dei diritti dell’uomo; raccomanda che il Messico integri una prospettiva di genere nell’affrontare la sicurezza dei giornalisti e dei difensori dei diritti umani.

Servono risorse

Inoltre, Valvo si sofferma anche su un altro punto: quello in cui si esorta il meccanismo federale per la protezione dei difensori dei diritti umani e dei giornalisti a soddisfare le sue promesse, di aumentare i finanziamenti e le risorse e a istituire processi più rapidi per includere tra i beneficiari i difensori e i giornalisti al fine di salvare vite e garantire la sicurezza di chi è minacciato, compresa la concessione di misure di sicurezza destinate alle rispettive famiglie e ai loro colleghi e avvocati. Sottolinea che le politiche di protezione pubblica dovrebbero coinvolgere efficacemente gli organi governativi e le istituzioni di ciascuno Stato e il livello locale. In particolare si incoraggia il governo messicano a intervenire per rafforzare le istituzioni statali e consolidare lo Stato di diritto nell’ottica di affrontare alcuni dei problemi strutturali che sono all’origine delle violazioni dei diritti umani, e chiede che in tale processo siano coinvolte le organizzazioni civili che operano nel campo dei diritti umani; accoglie con favore la creazione della commissione nazionale di ricerca (CNB) con l’obiettivo di cercare fosse comuni in tutto il Paese e di adottare misure per determinare e pubblicare il numero reale di persone scomparse.

Serve cooperazione internazionale

Lo studioso inoltre si sofferma su un’altra sollecitazione dell’Europarlamento sottolineando che si invita il governo messicano “a cooperare pienamente con gli organi delle Nazioni Unite e a estendere un invito permanente ai fini delle visite di tutte le procedure speciali del Consiglio dei diritti umani dell’Onu in particolare del relatore speciale delle Nazioni Unite per la libertà di opinione e di espressione, e a cooperare con loro in modo proattivo”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/messico-narcotraffico-giornalisti-corruzione-unione-europea-onu.html

Il conflitto in Ucraina tra bombe e misure economiche

Distrutto un condominio a Odessa mentre Kiev parla di successo nel Mar Nero perché i russi si sono ritirati dall’Isola dei serpenti. Intanto, Biden promette ulteriori armi all’Ucraina per 800 milioni di dollari mentre Putin firma un decreto “sull’applicazione di misure economiche speciali nel settore dei combustibili e dell’energia”

Fausta Speranza – Città del Vaticano

E’ salito a 17 il numero delle vittime provocate dai missili russo che hanno colpito un palazzo di nove piani e un centro ricreativo nell’oblast di Odessa: 14 sono morti nell’edificio residenziale a Bilhorod-Dnistrovsky e tre nel centro ricreativo della stessa area. Secondo quanto riferisce la stampa ucraina, i due missili hanno anche provocato una trentina di feriti, dei quali alcuni gravi sono stati ricoverati in ospedale. Il missile che ha colpito il condominio è stato lanciato da un aereo proveniente dal Mar Nero. Ed è proprio sul Mar Nero che Kiev parla di successo per il ritiro dei russi dall’Isola dei serpenti. L’isola è in una posizione strategica: era stata conquistata da Mosca all’inizio dell’invasione ed è stata sotto attacco dei bombardamenti ucraini da settimane. Anche dal punto di vista simbolico sembra indebolito il potere dei russi di controllare i flussi navali e di sferrare attacchi anfibi su Odessa. Secondo il presidente Zelenski, “questo ritiro non garantisce la sicurezza, non garantisce ancora che il nemico non tornerà, ma limita in modo significativo le azioni degli occupanti”.

Nuove armi a Kiev dagli Usa

Intanto, sul conflitto riecheggiano le dichiarazioni dei leader a conclusione ieri del vertice Nato. Il presidente statunitense Joe Biden ha promesso l’invio di nuove armi all’Ucraina nei prossimi giorni per un totale di 800 milioni”. Il presidente del Consiglio dei ministri italiano Draghi ha affermato che tutta l’alleanza Nato e l’alleanza del G7 è unita, molto determinata. Se c’è la disponibilità ai negoziati siamo pronti a aprirli, ha sottolineato aggiungendo: ma se l’Ucraina non si difende, non c’è pace, c’è sottomissione, schiavitù, e continuerà la guerra”.

Nancy Pelosi a Montecitorio

Sull’impegno dell’Italia ieri è intervenuto anche il presidente della Camera Fico. Per l’Ucraina l'”obiettivo” da conseguire è “raggiungere la pace nel rispetto dei diritti e delle Istituzioni del popolo ucraino”. Lo ha detto il presidente della Camera Roberto Fico dopo il suo incontro a Montecitorio con la Speaker della Camera dei Rappresentanti statunitense Nancy Pelosi. Quello del conflitto – ha spiegato Fico – è stato uno dei temi del colloquio bilaterale, che si è allargato alla situazione della Libia e del Sahel. La Speaker  Pelosi ha lodato, nell’ambito della crisi Ucraina, il “forte ruolo guida” assunto dall’Italia, improntato a un impegno “a tutto campo a favore della pace e della diplomazia”. “Non si può negare l’importanza dei negoziati in questa situazione internazionale, che devono basarsi sulla forza, e plaudo al ruolo che l’Italia ha svolto all’interno della NATO e dell’Unione Europea”, ha concluso.

Le dichiarazioni da Mosca

Da Mosca il presidente Putin afferma che la Russia in Ucraina ha esercitato il suo diritto inalienabile all’autodifesa nel rigoroso rispetto dei valori fondamentali della Carta delle Nazioni Unite, coerentemente con l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, aggiungendo che   l’Occidente sta usando “cinicamente” l’Ucraina per contenere la Russia e sabotare il suo desiderio di svilupparsi in linea con i valori tradizionali.   “Il cosiddetto Occidente collettivo –   afferma il leader del Cremlino – basa le sue azioni sulla convinzione the il suo modello di globalismo liberale non ha alternative. E questo modello non è altro che una versione rivista del neocolonialismo, un mondo in stile americano, un modo per pochi selezionati in cui i diritti di tutti gli altri sono semplicemente calpestati”.

In Russia misure economiche speciali sull’energia

E il presidente russo, Vladimir Putin, fa sapere di aver firmato un decreto “sull’applicazione di misure economiche speciali nel settore dei combustibili e dell’energia in relazione alle azioni ostili di alcuni Stati stranieri e organizzazioni internazionali”. Come riportano le agenzie russe, il documento ufficiale prevede di fatto appare come la prima nazionalizzazione di una compagnia energetica con azionisti stranieri: il documento stabilisce che la proprietà della Sakhalin Energy diventerà russa e sarà trasferita con effetto immediato a una società creata dal governo.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/russia-ucraina-stati-uniti-odessa-isola-dei-serpenti-energia.html

La Nato aggiorna la sua visione strategica

“La natura delle minacce ora è globale e interconnessa”. E’ quanto si legge nel documento del vertice NATO di Madrid Strategic Concept che sostituisce il precedente del 2010. Chiaro il riferimento alla guerra in Ucraina, ma non si devono trascurare altri scenari considerati come quello della “strumentalizzazione delle migrazioni” da contrastare, sottolinea l’esperto di Studi strategici Andrea Gilli

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Gli Alleati “non possono più scartare” l’ipotesi di un attacco contro la loro “sovranità e l’integrità territoriale”: è quanto si legge nel documento-guida della Nato che emerge dal vertice di Madrid. Il punto centrale del dibattito, che si conclude oggi con la firma del nuovo Fondo per l’innovazione per investire nelle tecnologie emergenti, è stata l’adesione di Finlandia e Svezia.

La reazione di Mosca

La Russia risponderà allo stesso modo se la Nato dispiegherà truppe e infrastrutture in Finlandia e Svezia dopo che si saranno unite all’Alleanza Atlantica. Lo afferma il presidente Vladimir Putin sottolineando che l’adesione dei due Paesi non è un problema ma lo sarebbe appunto il dispiegamento di truppe dell’Alleanza Atlantica.  Il via libera della Turchia L’adesione di Svezia e Finlandia ormai è possibile dopo che la Turchia ha rimosso il veto. Il presidente Recep Tayyip Erdogan, che lamentava il sostegno dei due Paesi a affiliati del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), sembra soddisfatto per aver comunque rilanciato su scala internazionale la posizione turca e in qualche modo avvisato tutti, non solo Stoccolma e Helsinki ma anche Berlino e Washington, sull’eventuale reazione per un appoggio – pur soltanto in chiave anti Isis ad esempio nel nord della Siria – a esponenti di questa organizzazione.

La nuova visione della Nato

La giornata cruciale del vertice si è conclusa ieri con la pubblicazione del cosiddetto nuovo Concetto strategico della NATO, “un progetto per l’adattamento dell’Alleanza a una nuova realtà della sicurezza per i prossimi anni” in cui si legge che “la natura delle minacce ora è  globale e interconnessa”. Ora lo ‘Strategic Concept’ è pubblico mentre in passato, ai tempi della Guerra Fredda, era considerato di natura sensibile e dunque segreto. Nel suo aspetto più pratico, presenta un nuovo modulo di forze Nato, integrato sui cinque domini (terra, mare, aria, cyber e spazio) che prevede truppe pre-assegnate a specifiche aree e Paesi (ma non dislocate), mezzi pre-posizionati ed effettivi rafforzati per le rotazioni. In tutto, secondo quanto dichiarato dal Segretario Generale Jens Stoltenberg, gli Alleati s’impegnano a fornire “entro l’anno” al comando supremo (Saceur) 260.000 forze aggiuntive a vari livelli di disponibilità.

Del documento abbiamo parlato con Andrea Gilli, docente di Studi Strategici all’Università Luiss e ricercato del Nato Defence College:

Gilli innanzitutto chiarisce che i leader a Madrid hanno licenziato l’ultima versione del documento che chiarisce la visione strategica della Nato e che va a sostituire quello di Lisbona del 2010.  I regimi autoritari sfidano gli “interessi” e “i valori democratici” dell’alleanza e al contempo investono in “sofisticate capacità militari, anche missilistiche, sia convenzionali che nucleari”.

Diversi paragrafi dedicati al ruolo di Russia e Cina

In modo inedito, si affronta espressamente “la partnership strategica, sempre più profonda” tra Pechino e Mosca, che viene vista contro “i valori e gli interessi della Nato”. La Russia torna ad essere la più “significativa minaccia diretta” per l’Alleanza, perché “punta a destabilizzare i Paesi del sud e dell’est dell’Alleanza”, pone “una sfida strategica” nell’Artico, e il rafforzamento militare nel mar Baltico, Mediterraneo, mar Nero, così come l’integrazione con la Bielorussia, rappresentano altri fronti da considerare.  Non solo crisi ucrainaLo studioso invita a considerare il documento per la riflessione che propone anche al di là del riferimento diretto alla guerra in Ucraina  che – afferma – era doveroso. E cita le nuove sfide considerate:  “cyber, ibride, spaziali”, che – spiega – nel documento sono trattate in modo approfondito. Gilli citando passi del documento spiega che quando si parla di Cina si parla di sfide e non di minacce per gli “interessi, la sicurezza e i valori” dell’Alleanza. In ogni caso, – aggiunge – si dice che Pechino usa la sua leva economica per   “creare dipendenze strategiche e aumentare la sua influenza” e che la Cina inoltre compie  operazioni  ibride e cibernetiche che colpiscono la sicurezza alleata.

Il clima “sfida primaria”

In particolare, Gilli mette in luce come il cambiamento climatico sia definito “la sfida primaria del nostro tempo”. La Nato – si legge – promette di rafforzarsi in tutti questi settori e assicura che lavorerà per identificare e ridurre “le vulnerabilità strategiche”, comprese le “infrastrutture, le catene di valore e i sistemi sanitari”; allo stesso tempo saranno rafforzati la “sicurezza energetica” e i “servizi essenziali” per le popolazioni. E si studia la messa a punto di una nuova metodologia per mappare le emissioni di gas serra militari.

No alla strumentalizzazione dei flussi migratori

Gilli parla di novità significativa quando fa riferimento a come viene trattato il tema migrazioni. Il nuovo Concetto strategico della Nato – ricorda – racchiude la “strumentalizzazione dei flussi migratori” così come “la manipolazione dei flussi energetici” tra i fattori che rappresentano “minacce ibride” per i Paesi alleati, insieme con altri aspetti come gli attacchi informatici o le notizie false: è quanto sottolineano fonti della delegazione spagnola al vertice di Madrid, indicando che il passaggio sulle migrazioni è stato inserito su proposta del governo iberico. Questo aspetto, aggiungono le stesse fonti, è uno di quelli riferiti al “fianco sud” della Nato al quale il nuovo concetto strategico presta particolare attenzione. Ad esempio, l’area del Sahel viene ora indicata come “zona a rischio”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-06/alleanza-atlantica-svezia-finlandia-ucraina-russia-migrazioni.html