La crisi di governo in Italia in discussione al Parlamento

Mario Draghi interpella il Parlamento di fronte allo “sfarinamento della maggioranza sull’agenda di modernizzazione del Paese”. Chiede “un nuovo patto di fiducia, sincero e concreto” in quello che definisce “un contesto di emergenza”. Dopo le dimissioni presentate da Draghi ma respinte dal presidente Mattarella, due giorni di dibattiti – uno in Senato e uno alla Camera – devono chiarire se in Italia cade davvero il governo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Ritengo che un presidente del Consiglio che non si è mai presentato davanti agli elettori debba avere in parlamento il sostegno più ampio possibile”. Con queste parole, il presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi, dopo aver rassegnato le dimissioni al Capo dello Stato giovedì scorso, proprio su invito di Mattarella questa mattina ha chiesto al Senato di confermare l’impegno di un nuovo patto tra forze politiche Draghi, che domani consegnerà il discorso alla Camera, ha interpellato i senatori con chiarezza: “All’Italia non serve una fiducia di facciata, – ha affermato – che svanisca davanti ai provvedimenti scomodi”.

Sulla vita degli italiani

Secondo Draghi il “contesto è di emergenza” – il governo deve prendere “decisioni che incidono profondamente sulla vita degli italiani”- ed è incompatibile con quello che ha definito “un crescente desiderio di distinguo e divisione delle forze politiche”. Da qui, la “scelta tanto sofferta, quanto dovuta” delle dimissioni presentate a Mattarella che ha rimandato la crisi al parlamento. Nella giornata di domani, dopo il dibattito di oggi al Senato e di domani alla Camera, si conoscerà l’esito della crisi.

L’appello alle forze politiche

Serve “un nuovo patto di fiducia, sincero e concreto”, come lo sforzo che – ha riconosciuto – è stato compiuto nei primi mesi dalla maggioranza di unità nazionale. A questo proposito, ha aggiunto: “A lungo le forze della maggioranza hanno saputo mettere da parte le divisioni e convergere con senso dello Stato e generosità verso interventi rapidi ed efficaci, per il bene di tutti i cittadini”. Dunque il richiamo a Mattarella: quando Draghi ha riconosciuto che “l’amplissimo consenso di cui il governo ha goduto in Parlamento ha permesso di avere quella ‘tempestività’ nelle decisioni che il presidente della Repubblica aveva richiesto”. Tra l’altro Draghi ha chiesto di rimanere “uniti contro la burocrazia inutile”.

Strappi ed ultimatum

Il voto di giovedì scorso in Consiglio dei ministri ha certificato la fine del patto di fiducia, “dopo mesi di strappi ed ultimatum”. E’ venuta meno la maggioranza di unità nazionale che – ha affermato Draghi – ha appoggiato il governo sin dalla sua nascita. “Non votare la fiducia a un governo di cui si fa parte è un gesto politico chiaro – ha ribadito – e non è possibile ignorarlo, perché equivarrebbe a ignorare il Parlamento”.

Distinguo e divisione

Per le mosse politiche che hanno portato alla crisi, Draghi ha usato un’espressione precisa: ha parlato di “sfarinamento della maggioranza sull’agenda di modernizzazione del Paese”. Con il passare dei mesi – ha  detto – alla domanda di coesione che arrivava dai cittadini “le forze politiche hanno opposto un crescente desiderio di distinguo e divisione”.

In particolare, “le riforme del Consiglio Superiore della Magistratura, del Catasto, delle concessioni balneari hanno mostrato un progressivo sfarinamento della maggioranza sull’agenda di modernizzazione del Paese”. In politica estera, Draghi ha parlato di “tentativi di indebolire il sostegno del governo verso l’Ucraina, di fiaccare la nostra opposizione al disegno del presidente Putin”. E ha aggiunto: “Le richieste di ulteriore indebitamento si sono fatte più forti proprio quando maggiore era il bisogno di attenzione alla sostenibilità del debito”.

Il richiamo ai cittadini

Draghi ha fatto riferimento poi alla mobilitazione di questi giorni da parte di cittadini, associazioni, territori a favore della prosecuzione del governo, definendola “senza precedenti e impossibile da ignorare”. Ha coinvolto il Terzo settore, la scuola e l’università, il mondo dell’economia, delle professioni e dell’imprenditoria, lo sport. Ha parlato di “un sostegno immeritato”, per il quale si è detto “enormemente grato”. Ha ricordato anche la domanda di stabilità che viene dal personale sanitario, “gli eroi della pandemia, verso cui la gratitudine collettiva è immensa”.

I successi rivendicati

Non sono mancati nel discorso di Draghi gli esempi di passi compiuti e di riforme da chiudere per l’accesso ai fondi del cosiddetto PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: dagli asili nido alla giustizia, con il reddito di cittadinanza “da difendere, ma da migliorare”. In particolare ha citato: misure di contenimento sanitario, campagna di vaccinazione, provvedimenti di sostegno economico a famiglie e imprese, slancio alla ripresa economica con la spinta agli investimenti e la protezione dei redditi delle famiglie. Un dato ricordato: lo scorso anno in Italia l’economia è cresciuta del 6,6 per cento e il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo è sceso di 4,5 punti percentuali. Draghi ha rivendicato al governo diverse riforme.

Innanzitutto le riforme della giustizia: “è stata fatta la riforma del processo penale, del processo civile e delle procedure fallimentari ed è stata portata in Parlamento la riforma della giustizia tributaria”.

Draghi ha parlato poi di fisco affermando che “in Italia il fisco è complesso e spesso iniquo”, ricordando che per questo non sono state aumentate le tasse sui cittadini, sottolineando che “l’ultima legge di bilancio ha avviato la revisione dell’Irpef e la riforma del sistema della riscossione”.

Ha ricordato le riforme della concorrenza, degli appalti, oltre alla “corposa agenda di semplificazioni, un passo in avanti essenziale per modernizzare l’Italia”. “Tutti gli obbiettivi dei primi due semestri del PNRR sono stati raggiunti”, ha aggiunto ricordando che l’Italia ha già ricevuto dalla Commissione Europea 45,9 miliardi di euro,  cui si aggiungeranno nelle prossime settimane ulteriori 21 miliardi – per un totale di quasi 67 miliardi.

Questione ucraina: tra reazione e pace

Draghi ha fatto riferimento anche alla reazione dell’Italia “con assoluta fermezza all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia”, sottolineando che “la condanna delle atrocità russe e il pieno sostegno all’Ucraina hanno mostrato come l’Italia possa e debba avere un ruolo guida all’interno dell’Unione Europea e del G7”. Allo stesso tempo, Draghi ha affermato che l’Italia non ha mai cessato la  ricerca della pace –  “una pace che deve essere accettabile per l’Ucraina, sostenibile, duratura” e che il governo italiano è stato “tra i primi a impegnarsi perché Russia e Ucraina potessero lavorare insieme per evitare una catastrofe alimentare, e allo stesso tempo aprire uno spiraglio negoziale”. Ha rivendicato inoltre l’impegno per superare “l’inaccettabile dipendenza energetica dalla Russia” che Draghi ha definito “conseguenza di decenni di scelte miopi e pericolose”. E poi l’impegno per “proteggere cittadini e imprese dalle conseguenze della crisi energetica, con particolare attenzione ai più deboli”: stanziati 33 miliardi in poco più di un anno, quasi due punti percentuali di PIL, “nonostante i margini di finanza pubblica fossero ristretti”.

I propositi per il futuro

Nel suo discorso al Senato Draghi ha accennato anche ai provvedimenti che aspettano di essere adottati. Ancora in tema di fisco ha chiarito: “Ridurre le aliquote Irpef a partire dai redditi medio-bassi; superare l’Irap; razionalizzare l’Iva”. E poi: “Entro i primi di agosto bisogna adottare un provvedimento corposo per attenuare l’impatto su cittadini e imprese dell’aumento dei costi dell’energia, e poi per rafforzare il potere d’acquisto, soprattutto delle fasce più deboli della popolazione”. A “medio termine, ridurre il carico fiscale sui lavoratori, a partire dai salari più bassi”. Ha ricordato che “a livello europeo è in via di approvazione definitiva una direttiva sul salario minimo”, per poi pronunciarsi sul reddito di cittadinanza: “Una misura importante per ridurre la povertà, che può essere migliorato per favorire chi ha più bisogno e ridurre gli effetti negativi sul mercato del lavoro”. Tra i propositi, citato anche “il bisogno di una riforma delle pensioni che garantisca meccanismi di flessibilità in uscita in un impianto sostenibile, ancorato al sistema contributivo”.

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In Sri Lanka un presidente ad interim e elezioni immediate

Il primo ministro dello Sri Lanka ha giurato come presidente ad interim del Paese. Il Parlamento eleggerà il nuovo capo di Stato il 20 luglio, dopo le dimissioni di Rajapaksa presentate da Singapore. Si apre una nuova fase politica dopo le sanguinose proteste culminate nell’assalto al palazzo presidenziale la scorsa settimana. Non mancano sfide e incognite, come sottolinea lo studioso di relazioni internazionali Antonello Biagini

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il primo ministro dello Sri Lanka, Ranil Wickremesinghe, ha giurato come presidente ad interim del Paese e il Parlamento eleggerà il nuovo presidente il 20 luglio, dopo le dimissioni di Gotabaya Rajapaksa: lo hanno reso noto oggi gli uffici del primo ministro e dello speaker del Parlamento. Le candidature per la carica di presidente saranno ricevute martedì prossimo e i deputati voteranno il giorno successivo, ha precisato l’ufficio dello speaker Mahinda Yapa Abeywardana. Nel frattempo, Wickremesinghe, 73 anni, ha prestato giuramento davanti al giudice capo, Jayantha Jayasuriya. Della svolta nel Paese e delle prospettive che si aprono Fausta Speranza ha parlato con Antonello Biagini, esperto di relazioni internazionali:

La corruzione che ha incendiato gli animi

Innanzitutto il professor Biagini amplia lo sguardo agli ultimi quarant’anni per dire che diverse vicende hanno messo a dura prova il Paese, tra cui i fatti legati alla formazione paramilitare denominata Tigri per la liberazione della patria Tamil, il pesante terremoto e poi la pandemia. Afferma, inoltre, che su tutto ha giocato un ruolo il livello di corruzione. Sottolinea che dopo l’ingresso dei manifestanti al palazzo presidenziale e la fuga del presidente la popolazione deve nutrire grande attesa per cambiamenti incisivi. Certamente – nota – i tempi stretti per nuove elezioni vengono incontro al bisogno di cambiamento ma nello stesso tempo non rendono facile un processo di rinnovamento.

Il peso del debito pubblico

Lo studioso mette in luce la questione del debito con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) che evidentemente lo Sri Lanka non riesce a pagare. Non riesce neanche a pagare gli interessi. E a questo proposito l’appello degli osservatori è che il Fondo possa rivedere alcune scadenze di pagamento. Nel frattempo – dice Biagini – è importante che si ritrovi una dimensione appropriata della politica all’interno e che i Paesi più forti della regione si muovano considerando la delicatezza della situazione.

L’ombra del conflitto in Ucraina

Biagini ricorda che al mondo ci sono tanti conflitti ma sottolinea anche che indubbiamente quello in Ucraina ha caratteristiche che ne fanno una crisi con ripercussioni sentite o potenziali ben oltre l’area interessata. Tra tante conseguenze, c’è quella dei prezzi delle materie prime e dei cereali che, in qualche modo, nelle logiche commerciali attuali – afferma Biagini – può avere a che fare  anche con il rialzo del prezzo del riso in Sri Lanka, aumentato nelle ultime settimane del 95 per cento. Biagini ricorda che in tutte le guerre ci sono state speculazioni sui prodotti in genere e sui prodotti alimentari ma ribadisce che situazioni tanto complesse come quella relativa alla crisi ucraina si prestano in particolare a meccanismi di speculazioni a catena.

Le dimissioni di Rajapaksa

Le dimissioni del presidente Rajapaksa dalla guida dello Sri Lanka in grave crisi economica, sono state annunciate dal presidente del Parlamento Mahinda Yapa Abeywardana, al quale il capo dello Stato aveva anticipato la decisione da Singapore. Abeywardana ha detto ai giornalisti di aver accettato le dimissioni. Secondo la costituzione dello Sri Lanka, il primo ministro, Ranil Wicremesinghe, diventerà automaticamente presidente ad interim fino a quando il parlamento non potrà eleggere successore di Rajapaksa per il resto del suo mandato. Non è ancora chiaro se l’ex presidente resterà a Singapore dopo l’uscita dallo Sri Lanka.

Intanto, le proteste nel Paese hanno causato anche mercoledì la morte di un dimostrante, soffocato per il lancio di gas lacrimogeni, mentre altri 84 sono stati ricoverati con diverse ferite dopo l’assalto all’ufficio del primo ministro nella capitale Colombo. E nella notte tra mercoledì e giovedì un soldato e un agente sono rimasti feriti negli scontri avvenuti con i manifestanti davanti al Parlamento. Dopo le dimissioni di Rajapaksa, la situazione dovrebbe tranquillizzarsi. I manifestanti hanno annunciato che lasceranno gli edifici governativi occupati da diversi giorni, ma anche che continueranno la lotta per chiedere la soluzione della grave crisi economica.

ultimo aggiornamento ore 17.15

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Il cardinale Parolin: unità e non divisione di fronte alle emergenze mondiali

A margine della presentazione del libro “Il senso della sete. L’acqua tra geopolitica, diritti, arte e spiritualità” di Fausta Speranza, alll’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, il Segretario di Stato vaticano ha parlato con i giornalisti dell’Ucraina, del recente viaggio in Africa e della nomina di tre donne al Dicastero per i Vescovi

Giancarlo La Vella – Città del Vaticano

Il cardinale Pietro Parolin si sofferma con i giornalisti sui temi del momento in un breve e franco dialogo con i rappresentanti della stampa. Le dichiarazioni riguardano l’Ucraina, il recente viaggio del porporato in Africa in rappresentanza di Papa Francesco e l’odierna nomina di tre donne in posti chiave della Curia. Il porporato è intervenuto, all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, a Roma, per parlare di un’altra grave crisi, quella idrica, che colpisce soprattutto i Paesi più poveri. L’occasione è stata fornita dalla presentazione del libro “Il senso della sete. L’acqua tra geopolitica, diritti, arte e spiritualità” di Fausta Speranza.

Il pensiero costante all’Ucraina

“Il Papa vuole andare in Ucraina e appena possibile ci andrà”. Il cardinale Parolin conferma la volontà del Pontefice di recarsi a Kiev per mostrare la sua vicinanza al popolo ucraino devastato dalla violenza della guerra. Adesso, ricorda il porporato, è imminente il viaggio in Canada, che è stato confermato. Ad una domanda sulle conseguenze globali del conflitto in Ucraina e sulle fibrillazioni che sta provocando nei governi europei. Parolin ha specificato: “Credo che nello scenario mondiale attuale più un governo è stabile più riesce a far fronte alle tante sfide che si pongono, si tratta di sfide epocali. Nessuno poteva immaginare che da questa guerra sarebbe derivata una crisi generalizzata, sia dal punto di vista alimentare, sia dal punto di vista energetico. Quindi evidentemente, quando c’è qualcuno che ha in mano le redini della situazione, questo facilita le soluzioni”. Poi ha auspicato: “Dobbiamo metterci a lavorare tutti insieme e non a dividerci!”.

Il viaggio in Africa

A proposito del recente viaggio in Africa, il segretario di Stato ha affermato: “Sono andato in Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan per assicurare gli abitanti dei due Paesi che il Papa ha intenzione di andare. Il viaggio è stato posticipato solo per le sue condizioni di salute”. Il segretario di Stato ha spiegato che bisogna scegliere il periodo più adatto per evitare le stagioni delle piogge, che renderebbero la visita papale difficoltosa. Inoltre ha sottolineato che questi periodi in Sud Sudan non coincidono con quelli della Repubblica Democratica del Congo e quindi che bisogna programmare la visita con attenzione.

Tre donne in Vaticano

A proposito dell’odierna nomina di tre donne al Dicastero dei Vescovi da parte di Papa Francesco, il porporato ha detto: “Continua l’apertura della Chiesa al mondo femminile. Sinora non c’erano donne in questo”, un ufficio molto importante, ha sottolineato, che si occupa di preparare i fascicoli da sottoporre al Papa per la nomina dei presuli. E questa è una conseguenza della Praedicate Evangelium.

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Passi avanti sulla questione grano

Attesa per un accordo sulle esportazioni di cereali dall’Ucraina entro la prossima settimana. Oltre ad alleviare gli effetti della crisi alimentare, che già si è fatta sentire in diversi Paesi in conseguenza dei blocchi di esportazione, l’accordo può avere il valore simbolico di una apertura di dialogo come sottolinea il direttore della Rivista Italiana Difesa, Pietro Batacchi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Passi significativi” si registrano nei negoziati a Istanbul per la ripresa delle esportazioni di grano ucraino. E’ quanto ha affermato il Segretario generale dell’Onu, Antònio Guterres, al termine della giornata di colloqui ieri nella città turca tra le delegazioni di Russia, Ucraina, Turchia e Nazioni Unite. Ha spiegato che è stato fatto un “progresso sostanziale” nei meccanismi di controllo e coordinamento per la ripresa dell’export sul Mar Nero. L’auspicio espresso da Guterres è che nel prossimo incontro, pevisto per la prossima settimana, le parti possano siglare l’accordo finale. Delle aperture e dei significati di un accordo sul grano abbiamo parlato con Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana Difesa:

Batacchi spiega che l’accordo non è ancora completamente chiuso: sarà necessario un lavoro tecnico per materializzare i progressi. Ma – sottolinea –  i passi avanti ci sono e si può sperare nei tempi brevi indicati da Guterres. Batacchi sottolinea l’importanza di un’intesa alla luce delle ricadute gravi che i blocchi delle esportazioni stanno provocando in diverse aree del mondo, specialmente a scapito delle popolazioni più fragili. Ma mette in luce anche l’importanza di avere una piattaforma di dialogo che funzioni sia pure limitatamente al contesto dei cereali. In ogni caso, rappresenta un binario tracciato, una via di scambio, un’occasione di incontro intorno a un tavolo che lascia sperare che si possa presto percorrere questa via anche su altri livelli di diplomazia per la pace. Sempre Batacchi chiarisce che la sede dei colloqui a Istanbul ricorda il ruolo che la Turchia può giocare tra le parti e aggiunge che non si deve sottovalutare neanche l’impegno dell’Onu per il raggiungimento dell’intesa. Poi, si sofferma su un altro fattore che entra in gioco in modo preponderante: le materie prime. Da sempre il commercio è stato importante per gli equilibri politici ma, sottolinea il direttore di Difesa, nella situazione attuale di estrema complessità risulta essere un fattore di grandissimo peso.

L’attesa

Oltre 130 navi mercantili cariche di grano ucraino attendono nel Mar Nero per accedere al Danubio attraverso le vie di entrata e uscita dei canali dell’estuario di Sulina e Bystre, ricorda Batacchi. L’obiettivo è raggiungere una serie di porti e terminal in Romania da dove il grano potrà essere trasbordato verso diverse destinazioni. I servizi di localizzazione marittima hanno mostrato un ingorgo di navi in attesa di passare nel Danubio da quando è stata aperta una seconda rotta attraverso l’estuario di Bystre dopo la recente ritirata russa dalla vicina e strategica isola dei Serpenti, che aveva minacciato la navigazione vicino a Odessa. In precedenza le navi potevano entrare nel Danubio solo tramite il canale di Sulina, il cui passaggio è a senso unico, con le navi mercantili che dovevano aspettare settimane per attraversare il canale. Sebbene i grandi vettori non possano passare attraverso l’estuario di Bystre, limitando la quantità di grano che può essere esportato, i funzionari ucraini hanno affermato che, da quando è stata riaperta, già 16 navi hanno transitato negli ultimi quattro giorni sulla rotta Bystre .

La posizione di Mosca

Il capo del Dipartimento per i rapporti con le organizzazioni internazionali del ministero degli Esteri russo, Pyotr Ilyichev, ha affermato che l’esercito russo ha ribadito la propria disponibilità a consentire corridoi di spedizione sicuri nel Mar Nero. Ilyichev ha aggiunto che settanta navi provenienti da 16 Paesi sono rimaste bloccate nei porti ucraini, sostenendo che le autorità ucraine avevano impedito loro di partire. “Le nostre condizioni sono chiare – ha affermato Ilyichev – dobbiamo avere la possibilità di controllare le navi per impedire qualsiasi tentativo di contrabbando di armi, e Kiev deve astenersi da qualsiasi provocazione”.

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Biden in Medio Oriente

Quasi 50 anni dopo la sua prima visita da senatore neo eletto nel 1973, Joe Biden è tornato in Israele per la prima volta da presidente degli Stati Uniti. Diversi i temi in agenda nei colloqui con il primo ministro Lapid e il presidente Herzog, prima dell’incontro venerdì a Betlemme con il leader palestinese Mahmūd Abbās e poi la tappa in Arabia Saudita

Fausta Speranza – Città del Vaticano

All’aeroporto di Tel Aviv, Ben Gurion, dove è giunto ieri, il presidente americano Joe Biden ha esordito affermando che i rapporti tra Israele e Usa sono “più profondi e forti che mai”. “Indissolubili” è stato l’aggettivo scelto dal premier Yair Lapid, che poi ha affermato che al centro dell’agenda c’è “la necessità di rinnovare una forte coalizione globale che fermi il programma nucleare dell’Iran”. Come ha spiegato il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan, l’amministrazione Biden continua ad essere convinta che gli sforzi diplomatici siano il modo migliore per convincere Teheran a rispettare le regole, allo stesso tempo Washington non esiterà a continuare ad usare lo strumento delle sanzioni economiche per fare pressioni sull’Iran. Joe Biden ha dichiarato che gli Stati Uniti sarebbero disposti a misure più drastiche nei confronti dell’Iran al fine di prevenire il possibile utilizzo militare del nucleare, ma si tratterebbe “dell’ultima risorsa”.

Per la questione israelo-palestinese la soluzione a due Stati

Lo stesso Sullivan ha riferito ai giornalisti che, a proposito della questione israelo palestinese, il presidente Biden, si è detto “rincuorato” dalla recente telefonata tra il premier israeliano Yair Lapid e il presidente palestinese Mahmūd Abbās (Abu Mazen). “E’ stato un passo positivo dopo che per anni non ci sono stati contatti tra un premier israeliano e Abu Mazen”, ha sottolineato. Biden ha assicurato che gli Stati Uniti continuano ad essere impegnati per la sicurezza di Israele e per una sua maggiore integrazione nella regione, evocando in particolare un “partenariato sui sistemi di difesa più sofisticati del mondo”. Ma ha ribadito anche la convinzione che la soluzione a due Stati resta “la via migliore per garantire un futuro di libertà, prosperità e democrazia per israeliani e palestinesi”.

La visita allo Yad Vashem

La prima giornata del presidente statunitense in Medio Oriente si è conclusa allo Yad Vashem, il Museo della Shoah a Gerusalemme. Dopo aver ravvivato la fiamma perenne in memoria dei sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti e deposto una corona di fiori, Biden, accompagnato dal segretario di Stato Antony Blinken, si è intrattenuto a lungo con due sopravvissute alla Shoah, Rena Quint e Giselle Cycowicz. “Non dimenticare mai”, ha scritto il presidente nel suo messaggio al memoriale sottolineando che “l’odio non è sconfitto, ma si nasconde”.

Le tappe del viaggio in Medio Oriente

Oggi  i colloqui con Lapid e con il presidente israeliano Isaac Herzog. Poi venerdì Biden sarà a Betlemme per l’incontro con Mahmūd Abbās, per poi dirigersi in Arabia Saudita.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/israele-biden-stati-uniti-palestinesi-arabia-saudita-shoah.html

Crisi energetica in Libia: le proteste si fanno trasversali

Trovare soluzioni di dialogo per la Libia: è l’appello che il Papa ha rivolto domenica scorsa all’Angelus. Mentre prosegue il confronto tra i leader che rappresentano attualmente le due anime della politica – Fathi Bashagha e Abdul Hamid Dbeibah – è emergenza per le interruzioni di corrente e per la carenza di carburante. A livello popolare, da settimane le manifestazioni sembrano rispondere a bisogni sociali di tutti, come sottolinea la studiosa Michela Mercuri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il presidente della Camera dei rappresentanti (HoR) libica, Aqila Saleh, ha esortato “il procuratore generale, il presidente della Commissione per l’energia e le risorse naturali” dello stesso Parlamento e “il presidente dell’Autorità di controllo amministrativo, ad aprire un’indagine urgente sui motivi delle continue interruzioni di corrente” per ore e “della grave carenza di carburante” in Libia: lo scrive il sito della tv “Libya al-Ahrar” citando il portavoce della HoR, Abdullah Blehiq. Saleh ha esortato le autorità ad annunciare presto al pubblico i risultati delle indagini – aggiunge il sito – ricordando che “i libici hanno sopportato” per giorni “ore di interruzioni di corrente” in presenza di “temperature torride” assieme a una “paralizzante carenza di carburante”.

Domenica scorsa all’Angelus il Papa ha rivolto il suo pensiero al popolo della Libia, in particolare ai giovani, che “soffrono a causa dei gravi problemi sociali ed economici”.

Il confronto sul piano politico

Fathi Bashagha, primo ministro designato a febbraio,  ha affermato e ribadito in questi giorni che il governo del primo ministro Abdul Hamid Dbeibah è “illegittimo”. Lo riferisce oggi il sito Libya Express citando dichiarazioni rese all’Afp in cui Bashagha ha ribadito l’intenzione di voler entrare a Tripoli “nei prossimi giorni”. “Il suo mandato è finito e non è riuscito a far sì che le elezioni si svolgessero”, ha detto Bashagha riferendosi al concorrente sostenuto da Onu e Turchia. Perché si svolgano le elezioni –  ha aggiunto il primo ministro – “l’unica condizione è che la Libia abbia un solo governo. Due governi non sono accettabili”.

Le ragioni dell’impasse

Intanto si stanno riplasmando le dinamiche internazionali, a partire dal ruolo di Paesi come Stati Uniti, Turchia, Russia.  Della situazione di impasse politico istituzionale in Libia, della condizione della popolazione e del suo orientamento, abbiamo parlato con Michela Mercuri, analista che ha dedicato alla Libia studi e pubblicazioni:

A determinare questa situazione è stato il voto con cui il 10 febbraio scorso la Camera dei rappresentanti di Tobruk ha incaricato l’ex ministro dell’Interno Bashagha  di formare  un governo “parallelo”, che ha ricevuto la fiducia del parlamento libico il 1° marzo. Mercuri spiega che l’incarico deciso a febbraio è stato frutto dell’intesa tra parte delle milizie tripolino-misuratine e i leader del campo cirenaico, il presidente della Camera dei rappresentanti Aguila Saleh e il comandante dell’Esercito nazionale libico Haftar. Ma l’incarico è stato dato considerando che il mandato di Dbeibah avrebbe dovuto concludersi in coincidenza con le elezioni del 24 dicembre 2021. Ma le elezioni non si sono svolte a dicembre e neanche poi a giugno, ricorda Mercuri, sottolineando che Dbeibah non ha dato segni di lasciare il suo posto. Finora dunque i tentativi di Bashagha di rovesciare il capo del governo di unità nazionale e insediarsi a Tripoli sono falliti. Compreso – ricorda l’analista – un tentativo di entrare con le forze militari a Tripoli alcune settimane fa.

Dinamiche diverse ma non troppo

Per quanto le dinamiche politiche e militari siano diverse dal 2019-20 – afferma Mercuri – la posta in gioco resta la medesima. Di fatto i cirenaici di Haftar intendono arrivare a Tripoli,  questa volta avvalendosi di Bashagha. I tripolitani di Dbeibah, successore di Fayez al-Sarraj, si preparano a difendere la capitale, o meglio la loro sopravvivenza politica. Si ripetono di fatto le contrapposizioni che nell’aprile 2019 portarono all’offensiva di Khalifa Haftar su Tripoli. Con la differenza – dice Mercuri – che oggi la linea di faglia nella Libia non separa solo Tripolitania e Cirenaica ma spacca il campo tripolitano, di cui fanno parte entrambi gli attuali contendenti. L’obiettivo dichiarato dell’ex ministro dell’Interno Bashagha – spiega  la studiosa – non è diventare il capo di una fazione, ma ricomporre il fratturato quadro libico. Bashagha è di Misurata ed è un ex membro del governo di accordo nazionale, dunque  gode del supporto  o comunque della non ostilità  di parte dell’opinione pubblica tripolitana.

Slogan sociali trasversali

Dietro ci sono sempre grandi potenze che appoggiano gli uni o gli altri e la situazione resta di estrema incertezza.  Quello che è cambiato – mette in luce Mercuri – è la voce che arriva dalla popolazione. Spiega che non si tratta più di manifestazioni di piazza nelle grandi città, rappresentative dei due schieramenti ma si tratta di proteste di piazza in tutti i centri urbani e soprattutto accomunate dagli stessi slogan. Giorni fa – afferma Mercuri – lo slogan principale era “Vogliamo l’elettricità, vogliamo la luce”. In un Paese caldo come la Libia le interruzioni di corrente – riferisce l’analista – in queste settimane sono durate anche 14 ore su 24. Il disagio sociale è grande anche perché intanto manca il carburante, utile a tutte le attività lavorative. Sono queste dunque al momento le priorità per il popolo libico che – dice – sente ovviamente anche la stanchezza di una dinamica politica che non avvertono come propria.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/libia-energia-carburante-tripoli-governo-ministro.html

Neo presidente Ifad: spezzare il legame tra clima, povertà, guerre

Alvaro Lario è stato eletto alla guida del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo. Già direttore finanziario dell’organismo Onu, si è impegnato a raddoppiare gli investimenti sulle comunità rurali povere entro il 2030. Bisogna ricordare ai mercati finanziari che hanno altre priorità, spiega che il legame tra clima, povertà e guerre è fatale per tutti, e che è necessario il coinvolgimento straordinario del settore privato

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Abbiamo le istituzioni per combattere la povertà, abbiamo il know-how per ridurre le disuguaglianze. Quello che ci occorre è mobilitare le risorse e unire le forze”: sono parole del nuovo presidente del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad) Alvaro Lario, pronunciate ieri di fronte ai delegati dei 177 Stati membri che lo hanno scelto alla guida dell’istituzione nell’elezione che si è svolta nella sede a Roma. Lario si insedierà il primo ottobre e resterà in carica per un mandato di quattro anni. Subentra a Gilbert Houngbo, che ha guidato l’organizzazione dal 2017.

Priorità e concretezza dell’impegno finanziario

Già direttore finanziario dell’Ifad e vicepresidente associato per le operazioni finanziarie dal 2018, lo spagnolo Lario ha guidato gli sforzi dell’istituzione a mobilitare l’impegno del settore privato nella lotta contro la fame e la povertà, a favore delle comunità rurali più povere del mondo. Oggi si impegna a raddoppiare l’impatto dell’Ifad sulle comunità rurali povere entro il 2030. Sotto la sua amministrazione, l’Ifad è diventato il primo Fondo delle Nazioni Unite e l’unico organismo specializzato – oltre al gruppo della Banca Mondiale – ad accedere al mercato finanziario e a ottenere un rating di credito, consentendo così al Fondo di ampliare la propria capacità di mobilitare risorse, estendendola al settore privato. Lario ha maturato 20 anni di esperienza in questo settore, nel mondo accademico e nelle istituzioni finanziare internazionali, e si è occupato anche di sviluppo di mercati dei capitali locali e investimenti nei mercati emergenti presso l’International Financial Corporation del gruppo della Banca Mondiale.

Gravi le sfide

Lario assume la guida dell’Ifad in un momento di grandi sfide per l’agricoltura, in particolare per i piccoli agricoltori, che nonostante siano essenziali per la sicurezza alimentare mondiale, sono estremamente vulnerabili agli shock. La guerra in Ucraina ha fatto impennare i prezzi degli alimenti, dell’energia e dei fertilizzanti, Dovrà dunque guidare l’agenzia delle Nazioni Unite nella lotta contro la crisi globale della sicurezza alimentare innescata dalla guerra, oltre che dal cambiamento climatico e dalle conseguenze economiche – diseguali nel mondo – causate dalla pandemia da Covid-19. Nell’intervista a Vatican News, Alvaro Lario parla delle sfide, delle priorità, del ruolo dei mercati, del bisogno di far convergere programmi di azione.

Lario innanzitutto ricorda che l’ultimo rapporto dell’Onu sullo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione mostra che il mondo sta facendo passi indietro negli sforzi per sconfiggere la fame e la malnutrizione. Il numero delle persone che soffrono la fame, infatti, è salito a ben 828 milioni.

Clima, povertà e guerre: nessuno si senta escluso

Lario, con efficace sintesi, mette in luce quello che definisce un legame diretto da considerare: quello tra clima, povertà e guerre. Ricorda che questo è fatale per tutti e che tutti devono essere coinvolti, anche i mercati finanziari che – dice – hanno altre priorità.

Il ruolo del settore privato

Lario esprime la convinzione che serva, oltre all’impegno delle istituzioni pubbliche, anche il coinvolgimento dei privati: “Sappiamo che l’aiuto pubblico allo sviluppo e soprattutto quello destinato all’agricoltura non sarà sufficiente”. A causa della guerra in Ucraina – ricorda – i piccoli produttori di tutto il mondo stanno subendo le perturbazioni attuali dei sistemi alimentari. Questo è un ulteriore shock che si aggiunge ai disastri collegati al cambiamento climatico e alla diseguale ripresa dal Covid 19. Le comunità povere sono gravemente colpite.

L’impegno programmatico

“Come presidente farò in modo che l’Ifad colleghi l’enorme quantità di risparmi mondiali di investimenti a impatto e i fondi pensione per affrontare la povertà nelle comunità rurali povere”. E’ l’impegno che assume per l’inizio del suo mandato: “Dobbiamo assicurarci di utilizzare il nostro rating creditizio AA+ per mobilitare più fondi”. A questo proposito parla di “un vantaggio competitivo unico per l’Ifad  nel sistema delle Nazioni Unite”.

Lario si  impegna a “incrementare gli investimenti nella resilienza climatica e nell’agricoltura climatica-intelligente”. L’Ifad – sostiene – deve agire con urgenza e collaborare con istituzioni attente al clima per sostenere i piccoli agricoltori e le comunità rurali povere ad adattarsi agli shock climatici. Dunque, quella che definisce “l’agricoltura climatica-intelligente” e l’adattamento al clima, diventeranno sempre più  importanti per spezzare il circolo vizioso della povertà, disuguaglianza, conflitti e migrazioni forzate.

Unire le forze senza dimenticare giovani e donne

In definitiva, un convincimento importante: “Abbiamo le istituzioni per combattere la povertà, abbiamo il know-how per ridurre le disuguaglianze. Quello che ci occorre è mobilitare le risorse e unire le forze”. E aggiunge che “non sarà possibile raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile senza sfruttare il potere delle donne e l’energia dei giovani”.

Lo sguardo globale delle Nazioni Unite

L’ultimo rapporto dell’Onu su “Lo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo” (SOFI), presentato giovedì scorso, mostra, come ricorda Lario, che il mondo sta facendo passi indietro negli sforzi per sconfiggere la fame e la malnutrizione. Il numero delle persone che soffrono la fame a livello mondiale è salito a ben 828 milioni nel 2021, ossia circa 46 milioni in più dal 2020 e 150 milioni in più dallo scoppio della pandemia di COVID-19. Le Nazioni Unitw ricordano che il mondo si sta allontanando ulteriormente dall’obiettivo di sconfiggere, entro il 2030, fame, insicurezza alimentare e malnutrizione in tutte le sue forme. Nel 2021, il divario di genere nell’insicurezza alimentare è cresciuto ancora nel 2021. In tutto il mondo, il 31,9% delle donne ha sofferto di insicurezza alimentare moderata o grave, rispetto al 27,6% degli uomini: un divario di oltre 4 punti percentuali, rispetto ai 3 del 2020.

Guardando al futuro

Nella prefazione del rapporto, i capi delle cinque agenzie ONU hanno scritto: “La questione principale non è tanto se le avversità continueranno a verificarsi o meno, ma, piuttosto, come intraprendere azioni più coraggiose per costruire la resilienza contro le crisi future”. Si prevede che nel 2030 quasi 670 milioni di persone (l’8% della popolazione mondiale) soffriranno ancora la fame, anche considerando una ripresa economica mondiale. David Beasley, direttore esecutivo del Programma Alimentare Mondiale (Pam) dichiara: “La portata senza precedenti della crisi della malnutrizione richiede, altresì, una risposta senza precedenti”. Le impennate – aggiunge – nei prezzi mondiali di alimenti, carburanti e fertilizzanti a cui assistiamo, a seguito della crisi in Ucraina, minacciano di spingere Paesi di tutto il mondo sull’orlo della carestia. Ne conseguiranno una destabilizzazione a livello mondiale, morte per inedia e migrazioni di massa senza precedenti. “Dobbiamo agire oggi per scongiurare questa catastrofe incombente”, ribadisce. Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), chiarisce che “ogni anno 11 milioni di persone muoiono a causa di diete non sane e che l’aumento dei prezzi degli alimenti non farà altro che aggravare questa situazione”. L’OMS sostiene gli sforzi dei Paesi per migliorare i sistemi alimentari, sia tramite tassazione degli alimenti non sani, che tramite la concessione di sovvenzioni a favore di scelte sane, che proteggano i bambini da un marketing dannoso, garantendo la chiarezza delle etichette nutrizionali. L’obiettivo è far sì che il cibo sia fonte di salute per tutti.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/fondo-onu-agricoltura-guerra-poveri-privato-investimenti.html

Ue ed energia: tra forniture alternative e patenti green

La Commissione europea prepara un piano per far fronte a interruzioni di forniture energetiche dalla Russia. E dopo il via libera dell’Europarlamento, sembra scontato l’inserimento di alcune attività di gas e nucleare tra le fonti sostenibili. C’è il problema dei prezzi. Per diversificare fonti e Paesi si sta facendo molto, ma bisogna anche ripensare le politiche di liberalizzazione che hanno lasciato mano libera a mercati e speculazioni, suggerisce l’esperto di economia politica Andrea Bollino

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dobbiamo prepararci a ulteriori interruzioni delle forniture di gas, persino a un’interruzione completa della fornitura da parte della Russia. E’ quanto ha detto in questi giorni la presidente della commissione Ue, Ursula Von der Leyen, parlando alla plenaria dell’Europarlamento alla presentazione del semestre di presidenza ceca del Consiglio europeo. Nella stessa Plenaria, martedì scorso, il Parlamento europeo ha approvato la cosiddetta tassonomia, la classificazione di gas e nucleare tra gli investimenti green. I votanti a favore sono stati 328, contrari 278 e gli astenuti 33. La decisione finale in materia spetterà al Consiglio europeo. Intanto, per il 26 luglio è stato organizzato un vertice straordinario dei ministri europei dell’energia.

L’emergenza e il bisogno di unità

Oggi, complessivamente, 12 stati membri sono direttamente interessati da riduzioni parziali o totali della fornitura di gas. Per questo la Commissione sta lavorando a un piano di emergenza europeo. La presidente Von der Leyen ha annunciato un piano e gli strumenti necessari entro la metà di luglio, sottolineando un punto preciso: “Bisogna fare in modo che, in caso di interruzioni di forniture, il gas vada dove necessario nell’Ue”. Von der Leyen spiega: “Non dobbiamo dimenticare l’amara lezione dell’inizio della pandemia: le frontiere chiuse e il protezionismo hanno portato a un’ulteriore disunità, ma la chiave del successo sarà l’unità”.

Fonti alternative

“Stiamo diversificando le nostre fonti, allontanandoci dalla Russia”, ha affermato Von der Leyen, sottolineando che da marzo le esportazioni globali di gas naturale liquido (Gnl) verso Europa sono aumentate del 75 per cento rispetto al 2021. Allo stesso tempo, l’importazione media mensile di gas russo via gasdotto è in forte calo, del 33 per cento, rispetto all’anno scorso. E ha sottolineato la presidente: “Bisogna far avanzare la strategia sulle rinnovabili: se continuiamo a farci concorrenza per accaparrarci i combustibili fossili i prezzi dell’energia andranno alle stelle e noi ci serviamo su un piatto d’argento alla Russia”. A proposito delle rinnovabili ha chiarito: “C’è chi dice che in questo contesto di sicurezza bisogna rallentare la transizione verde, ma è proprio questo il momento giusto per accelerare sulle rinnovabili, che ci garantiscono indipendenza dai combustibili fossili, sono più efficienti dal punto di vista dei prezzi e sono più pulite.

La concretezza delle misure in atto

La notizia dei provvedimenti allo studio e in atto è solo la conferma che siamo arrivati alla vigilia dell’inverno, in cui eventuali carenze di apporti energetici potrebbero creare problemi e panico. Delle misure in discussione, ma anche della necessità di una riflessione a più ampio raggio, abbiamo parlato con Andrea Bollino, docente di Economia politica all’Università Luiss ed esperto in particolare di questioni energetiche:

Il professor Bollino conferma che alcune misure sono state prese a livello di Unione europea e di singoli Paesi. Fa l’esempio dell’Italia, ricordando gli accordi con Paesi come Egitto o altri africani, per forniture alternative ai flussi dalla Russia – sottolinea – possono contribuire per un terzo. Ma soprattutto Bollino cita il secondo nuovo rigassificatore galleggiante, che – dice – potrà contribuire in modo decisivo alla sicurezza e alla diversificazione energetica del Paese. Le due navi di stoccaggio e rigassificazione (FSRU) che l’Italia si è assicurata – spiega –  potranno da sole contribuire al 13 per cento del fabbisogno nazionale di gas, portando la capacità di rigassificazione a oltre il 30 per cento della domanda, non appena ci sarà l’autorizzazione per posizionarle e collegarle alla rete di trasporto nazionale. Si tratta – chiarisce l’esperto – di 10 miliardi potenziali di metri cubi che si vuole sostituire. E poi c’è un terzo che – spiega Bollino – dovrà continuare a venire da fonti di carbone.

Decisiva una prospettiva più ampia

Bollino, però, mette l’accento su quello che ritiene sia un aspetto centrale quando la questione viene affrontata dal punto di vista dei costi, dei prezzi attuali dell’energia. Spiega che le problematiche a livello internazionale giustificano i rialzi, ma non nella percentuale cui assistiamo. Il punto è – chiarisce – che i mercati, quando operano da soli, di fronte alla paura fanno scattare la speculazione. Il problema dunque – afferma Bollino – risiede nella liberalizzazione dei mercati energetici che è stata voluta negli anni novanta in Europa, con logiche che non hanno tenuto conto del fatto che proprio la politica energetica potesse essere “un’arma politica” in mano a grandi potenze.

Ripensare l’organizzazione dei mercati

Secondo Bollino bisogna ridisegnare la politica energetica industriale, tenendo conto che i big del mercato non possono avere le stesse priorità di un governo che dovrà sempre cercare di tutelare i propri cittadini. Serve dunque una visione nuova comune in Europa.

Simbolico l’incontro in Indonesia

L’economista si sofferma poi su una coincidenza: l’incontro a livello ministeriale del G20 che si è aperto oggi a Bali fa pensare che proprio l’Indonesia, che è un grande esportatore di energia, possa giocare un ruolo. Al tavolo infatti si devono sedere i rappresentanti di Stati Uniti e Russia e si spera che da un incontro del genere possano arrivare spiragli nuovi di una qualunque forma di dialogo costruttivo.

Patente green per gas e nucleare

Il gas e il nucleare potrebbero avere la patente verde come fonti di transizione, potranno quindi attrarre gli investimenti destinati alle attività economiche considerate sostenibili dalla cosiddetta Tassonomia, la classificazione stilata dalla Commissione Ue. Il Parlamento europeo, infatti, non ha respinto l’atto delegato complementare della Tassonomia che propone di includere, a determinate condizioni, specifiche attività nucleari e del gas nell’elenco delle attività green. La plenaria si è espressa su una mozione che chiedeva di respingere la proposta della Commissione: 328 eurodeputati hanno votato contro la mozione, 278 a favore e 33 si sono astenuti. Ora la questione rimbalza al Consiglio europeo: se entro lunedì non respinge l’atto, entrerà in vigore dal 1° gennaio prossimo. Sembra proprio che in Consiglio non ci siano i numeri per bloccarlo. Al momento solo otto Paesi, tra cui Spagna, Austria, Lussemburgo, hanno espresso la volontà di obiettare (ne servono 20 che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione Ue). Il risultato del voto di ieri è stato accolto “con favore” dalla Commissione Ue che ha sottolineato “l’approccio pragmatico e realistico” della Tassonomia. Molto critiche le reazioni dal mondo ambientalista. Il Wwf Italia ha detto che valuterà azioni legali contro la norma.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/unione-europea-gas-nucleare-russia-commissione-prezzi-energia.html

In Sudan annuncio a sorpresa: verso un governo di civili

Il generale Abdel Fatah al-Burhan, di fatto da ottobre scorso al comando in Sudan, apre ad un bilanciamento di poteri. L’annuncio in Tv, dopo giorni di forti manifestazioni che hanno occupato pacificamente strade e piazze a Khartoum e in altre città del Paese. Dalla deposizione di Omar al-Bashir nel 2019 non è mai davvero decollata la fase di transizione politica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In Sudan, dopo quattro giorni di manifestazioni, costate la vita a nove dimostranti uccisi dalle forze dell’ordine, il presidente del Consiglio sovrano e di fatto capo di Stato del Sudan, il generale Abdel Fatah al-Burhan, è intervenuto inaspettatamente in TV aprendo alla possibilità di trattare con i civili il futuro del Paese arabo-africano. Il generale ha parlato di nuovo possibile scenario politico, dopo mesi e mesi di impasse politica e dure reazioni contro i manifestanti. Il leader del colpo di Stato messo in atto lo scorso ottobre ha invitato i “partiti politici e le organizzazioni rivoluzionarie sudanesi a impegnarsi in un dialogo immediato e serio per formare un governo di persone competenti, indipendenti che possano portare a termine i compiti del periodo di transizione”.

La proposta di dialogo Onu

In sostanza, il presidente del Consiglio sovrano chiede ai suoi avversari di partecipare al dialogo avviato da Nazioni Unite, Unione Africana e IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un’organizzazione politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa), ai quali però gli oppositori del regime militare finora si sono rifiutati di partecipare, proprio per la presenza dei responsabili del golpe.  Al-Burhan ha sottolineato quello che appare come l’elemento più importante: “L’esercito non parteciperà più a questi incontri e in futuro si occuperà solamente di difesa e sicurezza nazionale”.

Le possibili tappe della transizione

Inaspettatamente il generale ha anche affermato di non escludere che il Consiglio sovrano di transizione che presiede possa essere sciolto, una volta formato il nuovo governo civile, anche se è immaginabile che un Consiglio supremo delle forze armate dovrà poi essere istituito. La formazione di un esecutivo civile è la principale richiesta delle forze rivoluzionarie che per quattro giorni hanno occupato pacificamente ma in modo massiccio strade, piazze a Khartoum e in altre città del Paese.

I fatti di ottobre

Il 25 ottobre scorso un golpe ha deposto l’ex primo ministro Abdallah Hamdok, mettendo al comando il capo dell’esercito Abdel Fattah al-Burhan. Almeno 81 manifestanti sono stati uccisi in pochi giorni nella repressione seguita alle proteste. I manifestanti hanno continuato a chiedere l’intervento della comunità internazionale per porre fine alla scia di sangue e ripristinare le libertà democratiche ma la loro richiesta di aiuto non ha portato frutti finora.

Tre anni di instabilità 

In particolare il 30 giugno scorso la folla scesa in strada a Khartoum e nelle città di Omdurman e Bahri è stata la più imponente da mesi. Si sono svolte manifestazioni anche a Wad Madani nel sud, nella regione occidentale del Darfur, negli Stati orientali di Kassala e Gedaref, nonché nella città di Port Sudan. A Omdurman, testimoni hanno riferito di gas lacrimogeni e spari mentre le forze di sicurezza hanno impedito ai manifestanti di entrare a Khartoum. In questo caso, le proteste si sono richiamate in modo speciale al terzo anniversario delle grandi manifestazioni durante la rivolta che nel 2019 ha rovesciato l’ex presidente Omar al-Bashir e ha portato a un accordo di condivisione del potere tra gruppi civili e militari. Il 30 giugno è anche il giorno in cui nel 1989 al-Bashir aveva preso il potere con un colpo di Stato.

Tanti i tentativi di accordo nel dopo al-Bashir

Dopo la deposizione di Omar al-Bashir nel 2019 si doveva avviare una transizione verso le elezioni guidata da un bilanciamento di poteri tra il primo ministro incaricato Abdalla Hamdok e i militari, avviata con l’accordo siglato il 17 agosto 2019 dall’esercito e dalle Forces for Freedom and Change (Ffc), fronte rappresentativo delle forze sociali protagoniste della sollevazione popolare. I militari avevano dato presto l’impressione di voler assumere pieni poteri interrompendo la transizione. Tralasciando altri sviluppi, va ricordato che, con un colpo di Stato, Hamdok è stato destituito ad ottobre scorso. E’ stato poi liberato a novembre e fatto rientrare in carica come primo ministro del governo di transizione sudanese fino a gennaio quando ha presentato le dimissioni non riuscendo a dare vita ad un governo di civili. Già diverse volte dunque i militari sono stati costretti a una marcia indietro dalle pressioni popolari e diplomatiche, ma hanno anche dato ripetutamente  chiari segnali della loro determinazione a utilizzare il potere di cui dispongono.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/sudan-colpo-di-stato-goveno-civili-onu-generale-proteste.html

L’Africa occidentale tra colpi di Stato e commerci

La Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) revoca le sanzioni economiche imposte al Mali dopo il golpe, mentre emerge nel Paese la prima miniera di litio della macroregione. Ci sono poi intese con il Burkina Faso per una transizione politica di due anni, mentre si conferma la pressione sulla giunta militare in Guinea-Conakry. L’area che racchiude 15 Paesi ha assistito a tre colpi di Stato in un anno e mezzo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) ha annunciato ieri decisioni significative per il Mali e non solo. Nel suo sessantunesimo vertice, che si è svolto ad Accra in Ghana,  l’Ecowas ha deciso di revocare le sanzioni imposte a Bamako, oltre a concordare con il Burkina Faso una transizione di due anni e una crescente pressione sulla Guinea-Conakry perché presenti un piano di transizione. Nell’ultimo anno e mezzo la regione dell’Africa occidentale ha subito quattro colpi di Stato: i due in Mali (agosto 2020 e maggio 2021), quello in Guinea-Conakry (settembre 2021) e l’altro in Burkina Faso (gennaio 2022). E proprio durante questo mese di giugno, l’ECOWAS ha reso effettivo il dispiegamento di una forza di riserva composta da circa 600 addetti alla sicurezza e dispiegata in Guinea-Bissau dopo il tentativo di colpo di stato che il Paese ha subito il 1° febbraio.

Riprendono le transizioni commerciali con il Mali

I leader africani riuniti della Comunità degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas-Cédéao) hanno revocato le sanzioni commerciali e finanziarie che erano state imposte al Mali lo scorso gennaio dopo i due colpi di Stato nel 2020 e 2021. La revoca ha “effetti immediati”, ha spiegato il presidente uscente della commissione ECOWAS, Jean-Claude Cassi Brou, confermando che è stata annullata la chiusura dei confini e la sospensione di tutte le transazioni commerciali con il Mali – facevano eccezione solo alcuni prodotti di base – oltre a consentire ai rispettivi ambasciatori di tornare a Bamako. Resta in vigore la sospensione del Mali per quanto riguarda tutte le attività dell’organizzazione, così come vengono confermate le sanzioni individuali contro i membri della giunta militare guidata dal colonnello Assimi Goita – responsabile del colpo di Stato nell’agosto 2020 e di quello a maggio scorso – che includono il congelamento dei loro conti nelle banche regionali. Secondo Brou, il blocco ha preso la decisione dopo aver ascoltato il suo mediatore per il Paese, l’ex presidente nigeriano Goodluck Jonathan, il quale ha sottolineato che il Mali ha compiuto progressi nella definizione di un codice elettorale e dei meccanismi di monitoraggio, nonché nella stesura di una nuova Costituzione. Tali misure sono state adottate in vista dello svolgimento delle elezioni presidenziali, per le quali le autorità di transizione hanno proposto, la settimana scorsa, la data di febbraio 2024.

Intanto anche in Mali la corsa al litio

Il Mali è uno dei Paesi africani che potrebbe essere protagonista della nuova corsa ad una delle risorse minerarie più ricercate in questa fase storica, il litio, dopo lo Zimbabwe. Il ministero delle Miniere, dell’Energia e dell’Acqua di bamako, infatti, ha annunciato a metà giugno il piano industriale per il giacimento di Goulamina,  nel sud del Mali, gestito dall’azienda australiana Leo lithium limited, in collaborazione con la cinese Ganfeng lithium, che hanno la più grande capacità di produzione di litio al mondo. Si prevede di sviluppare il giacimento di litio Goulamina a livello mondiale, in quella che sarebbe la prima miniera di litio operativa nell’Africa occidentale. Secondo il ministero maliano, “durante la fase di costruzione, di 2 anni, è prevista una forza lavoro totale di circa 1.200 dipendenti, composta da lavoratori qualificati e non”. Il governo maliano spiega che la costruzione della miniera costerà più di 160 miliardi di franchi Cfa (240 milioni di euro) precisando che quasi 91 milioni di euro saranno spesi in Mali, con aziende maliane per il calcestruzzo, la fabbricazione e l’installazione di attrezzature, la costruzione di edifici e l’avvio della miniera mentre il resto sarà utilizzato per acquistare attrezzature internazionali non disponibili nel Paese. I prezzi del litio sul mercato internazionale sono aumentati di quasi il 500 per cento nell’ultimo anno dal momento che questo minerale, soprannominato “metallo verde”, per molti rappresenta il futuro della produzione di veicoli elettrici e delle batterie.

L’intesa per il Burkina Faso

Per quanto riguarda il Burkina Faso, dove una giunta militare governa dal 24 gennaio scorso, l’ECOWAS ha annunciato di aver raggiunto un accordo con le autorità per un biennio di transizione verso nuove elezioni. Si tratta di un periodo inferiore ai 36 mesi (tre anni) che la giunta aveva precedentemente proposto. Il mediatore inviato dall’ECOWAS, l’ex presidente nigeriano Mahamadou Issoufou, ha incontrato la settimana scorsa a Ouagadougou il presidente del Burkina Faso, il tenente colonnello Paul Henri Sandaogo Damiba, che ha espresso il suo impegno per il raggiungimento di una “durata concordata” della transizione. L’ECOWAS ha tenuto conto del “rilascio totale” dell’ex presidente deposto Roch Kaboré, che era ancora soggetto a restrizioni dopo essere stato autorizzato a tornare a casa. Il suo rilascio era una delle richieste dell’organizzazione dopo il colpo di Stato.

L’impegno confermato per la Guinea-Conakry

Meno promettenti le prospettive per la Guinea-Conakry, che non ha presentato un nuovo programma di transizione più “accettabile” al posto del triennio proposto finora dalla giunta militare guidata dal colonnello Mamadi Doumbouya, bocciato sia dall’ECOWAS che dall’opposizione. Sebbene il consiglio avesse rifiutato nel novembre 2021 la nomina di un mediatore da parte dell’ECOWAS, l’organizzazione ieri ha scelto per questo ruolo l’ex presidente del Benin, Thomas Yaya Boni. Al vertice è stato chiarito che se il Paese non raggiungerà un accordo per un nuovo programma di transizione entro la fine di luglio, l’ECOWAS imporrà nuove sanzioni economiche, dopo aver già stabilito alcune misure contro i golpisti al potere dal   5 settembre.

All’interno dell’Ecowas

Al momento anche il Burkina Faso e la Guinea-Conakry restano sospesi dalle attività dell’organizzazione regionale. Il vertice straordinario ha deciso la nomina di un nuovo presidente di turno, carica che fino ad ora era stata ricoperta da Akufo-Addo, capo di stato del Ghana, e che ora sarà ricoperta dal presidente bisaugo Umaro Sissoco Embaló.

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