La Croazia nell’Eurozona nel 2023: manca solo un ultimo voto

Parere favorevole della Commissione Ue su parametri e criteri economici della Croazia: il Paese che vent’anni fa era in guerra si avvia all’ingresso nell’area euro. Una tappa importante per l’allargamento ma non devono mancare ulteriori passi in avanti in tema di rafforzamento dell’eurozona e dell’Unione bancaria, come raccomanda l’economista Paolo Guerrieri chiedendo anche misure efficaci per evitare che l’inflazione penalizzi, come sempre, le fasce più deboli

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il via libera formale e definitivo verrà dall’Ecofin il 12 luglio prossimo, ma è chiaro che nulla osta, dopo il pronunciamento, il 1 giugno, della Commissione europea all’ingresso della Croazia dal 1 gennaio 2023, nella zona euro. Sarà il ventesimo Paese Ue ad adottare la moneta unica. Un traguardo storico per una nazione che soltanto negli anni ’90 stava ancora vivendo gli orrori della guerra e un passo significativo per l’intera Ue. Stando al giudizio della Commissione europea, a nove anni dal suo ingresso nell’Unione, Zagabria ha le carte in regola per lasciare la kuna e adottare l’euro. Il Paese soddisfa oggi tutti e quattro i parametri di convergenza di Maastricht necessari: stabilità dei prezzi, sostenibilità delle finanze pubbliche, tasso di cambio, tassi di interesse a lungo termine.

Nell’Eurozona

La circolazione monetaria ha avuto inizio il 1 gennaio 2002 nei primi dodici Paesi che l’hanno adottata. Gli altri Stati aderenti ad oggi all’Unione economica e monetaria dell’Unione europea (Uem) sono Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna. Le ultime nazioni ad unirsi sono state la Lettonia e la Lituania, rispettivamente il 1 gennaio 2014 e il 1 gennaio 2015. La prossima new entry potrebbe essere, nel 2024, la Bulgaria.

Un simbolo per quasi mezzo miliardo di persone

Il complesso di questi Paesi, detto informalmente zona euro, o anche eurozona o eurolandia, interessa una popolazione di oltre 343 milioni di abitanti. Prendendo in considerazione anche quei Paesi terzi che utilizzano divise legate all’euro, la moneta unica interessa direttamente oltre 480 milioni di persone in tutto il mondo. Inoltre, è utilizzata anche in altri sei Stati europei: quattro microstati Andorra, Città del Vaticano, Principato di Monaco, San Marino, che hanno adottato l’euro in virtù delle preesistenti condizioni di unione monetaria con Paesi membri della UE. L’adozione invece da parte del Montenegro e del Kosovo è stata unilaterale.

Una tappa significativa

Si tratta di “un passo storico nel viaggio europeo” del Paese, ha sottolineato il commissario Ue per l’Economia, Paolo Gentiloni, che però ha parlato anche delle preoccupazioni che qualche cittadino croato potrebbe nutrire sull’inflazione. Del cammino fatto dalla Croazia, della sfida di rafforzare l’area euro e proprio dello spettro dell’inflazione abbiamo parlato con l’economista Paolo Guerrieri, docente in diversi atenei in Italia, Francia, Stati Uniti:

Un altro Paese nell’area euro – afferma Guerrieri – aiuta la competitività sul piano internazionale, in particolare su dollaro e su yuan cinese sempre più forti. Ricorda peraltro che era dal 2015 che non c’era nessun ingresso e dunque è particolarmente significativo anche a livello simbolico. L’economista, però, raccomanda di non dimenticare di rafforzare oltre che ampliare l’area euro.

Allargare ma anche completare l’Unione monetaria

In questi due decenni – riconosce Guerrieri – l’euro ha agevolato le attività commerciali in tutta Europa e oltre. Offre molti vantaggi ai cittadini tra cui la stabilità dei prezzi, una loro più facile comparazione che stimola la concorrenza tra imprese, una maggiore stabilità e crescita economica, una maggiore influenza sull’economia globale e maggiore integrazione tra i mercati finanziari. Di certo, prima dell’euro, la necessità di scambiare valute comportava una serie di costi aggiuntivi della cui assenza ha giovato l’attività imprenditoriale e di investimento nell’euro zona. Il punto è – sostiene – che si tratta di un processo ancora non portato a compimento: mancano passaggi dell’Unione monetaria da fare e mancano politiche fiscali. In generale – afferma –  mancano ancora pezzi della costruzione dell’Ue. Guerrieri raccomanda passi avanti citando anche l’Unione bancaria, per assicurare canali per creare ricchezza nell’ambito dell’economia reale.

In tema di inflazione

Guerrieri spiega che la stabilità dei prezzi è stata la sfida principale per la Croazia: l’andamento della sua inflazione nell’ultimo decennio è stato strettamente allineato con quello della zona euro. Su questo piano e per altri aspetti, riuscire a soddisfare i parametri europei è stata dunque una conquista per Zagabria, osserva l’economista. Una vittoria per la Croazia e per l’Ue. Poi si sofferma sulla questione inflazione: sta crescendo in Europa oltre le aspettative. Fa notare che il rischio viene dal fatto che non si tratta dell’effetto dell’aumento di domanda, che sarebbe gestibile con alcune politiche, ma del risultato dell’aumento di prezzi di materie prime. Ma il vero punto dolente – aggiunge Guerrieri – è che l’inflazione colpisce davvero le fasce medio basse. E dunque sarebbe giusto e opportuno che gli interventi non siano “a pioggia” ma mirati a sostenere alcune fasce sociali.

Un percorso non improvvisato

E’ nel giugno del 1988 che il Consiglio europeo assegnò il compito di elaborare un progetto per la progressiva realizzazione dell’Unione economica e monetaria ad un comitato composto dai governatori delle Banche centrali nazionali della allora Comunità europea. Tale comitato, presieduto dal francese Jacques Delors, elaborò il noto “Rapporto Delors” nel quale si proponeva l’attuazione dell’Uem in tre distinte fasi: la prima, a partire dal 1 luglio 1990, prevedeva la libera circolazione dei flussi di capitale tra gli Stati membri, mentre la seconda fase, successiva al Trattato di Maastricht del 1992, prevedeva la creazione dell’Istituto monetario europeo, Ime, teso a rafforzare la cooperazione tra le diverse banche centrali nazionali in modo da giungere ad una politica monetaria unica. La terza fase, invece, ebbe iniziò una volta fissati i tassi di cambio delle valute nazionali dei primi 12 Stati membri aderenti all’Unione monetaria e si realizzò con il progressivo passaggio alla moneta unica. I tassi di cambio vennero stabiliti dal Consiglio europeo in base al valore delle monete nazionali sul mercato al 31 dicembre 1988, in modo che un Ecu, l’unità di valuta europea, fosse pari a un euro. Dal 1 gennaio 1999, dunque, iniziò il periodo di transizione in cui l’euro, pur non essendo ancora ufficialmente in circolazione, poteva comunque essere adottato come ‘moneta scritturale’. Dal 1 gennaio 2002, invece, l’euro è entrato ufficialmente in circolazione anche se, fino al successivo 28 febbraio, affiancava le monete nazionali che vennero definitivamente sostituite solo il 1 marzo dello stesso anno.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-06/croazia-unione-europea-euro-moneta-unica-unione-bancaria.html

La tragedia dei bimbi nel dramma ucraino

Nella Giornata internazionale dei bambini, è drammatico il bilancio di 98 giorni di guerra in Ucraina. Sono 700 i minori uccisi o feriti. Intanto mentre prosegue l’avanzata dei russi nell’est del Paese e gli Usa assicurano un “nuovo significativo pacchetto di aiuti e armamenti”, l’Europa discute sulle sanzioni

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Quando tutto il mondo celebra la Gionata Internazionale del Bambino, dobbiamo ammettere con tristezza che solo secondo le statistiche ufficiali quasi 700 bambini ucraini sono diventati vittime di questa guerra. Sono stati uccisi o feriti”. Lo denuncia l’arcivescovo di Kiev Sviatoslav Shevchuk nel suo video messaggio quotidiano. E aggiunge: “Tuttavia, credo che nessuno sappia precisamente quanti bambini a oggi siano stati vittime dell’aggressione russa”. Ad oltre tre mesi di guerra in Ucraina precisamente 243 bambini sono stati uccisi, 446 sono stati feriti e 139 sono dispersi. E il presidente  Volodymyr Zelensky ha dichiarato che 200.000 bambini ucraini sono stati portati con la forza in Russia, compresi quelli negli orfanotrofi.

Il dibattito in Ue

L’Ucraina merita una chance per entrare nell’Ue. A dirlo è la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, intervenuta al congresso del Partito popolare europeo a Rotterdam.  In realtà, quello di cui si discute ora è la concessione dello status di candidato, perché l’adesione, come si sa, potrebbe richiedere anche più di dieci anni. La Commissione esprimerà il suo parere, anche alla luce del questionario completato dal governo ucraino, nelle prossime settimane, in tempo per il vertice europeo di giugno, a cui si affiancherà il summit con i Paesi dei Balcani, anch’essi in corsa per entrate nell’Ue. Ma anche sulla concessione dello status di candidato la strada è in salita e a svelarlo è stato il presidente del Consiglio dei ministri italiano, Mario Draghi, al termine del Consiglio europeo di martedì: tra i grandi Paesi europei solo l’Italia è favorevole a concedere subito questo riconoscimento.

Freno sulle sanzioni

Sulle sanzioni l’ultimo via libera, quello tecnico formale, è stato rinviato per l’ennesima volta. A bloccare il pacchetto questa volta è l’inserimento nella lista delle persone sanzionate del patriarca della Chiesa ortodossa russa Kirill, su cui l’Ungheria ha posto il veto. E così sono ripartire le trattative con il governo ungherese prima di riconvocare una nuova riunione degli ambasciatori Ue.

In tema di energia

La questione energetica, accantonata per il momento nel quadro di nuove sanzioni, continua a tenere banco, nel percorso indicato dal RePowerEu della Commissione Ue. E a ricordarlo è stata di nuovo von der Leyen. “Dobbiamo liberarci dalla dipendenza energetica dalla Russia: lo abbiamo fatto con il carbone e ieri con il petrolio e dobbiamo farlo con il gas. Sostituendo la Russia con fornitori affidabili, ma soprattutto con le rinnovabili”, ha sottolineato.

Oltre Oceano

Il presidente statunitense Joe  Biden dovrebbe volare in Arabia Saudita nelle prossime settimane nell’ambito del suo viaggio internazionale per il vertice Nato e del G7. L’indiscrezione arriva mentre i prezzi dell’energia sono balzati negli Stati Uniti e si parla della   disponibilità di Riad ad aumentare la produzione di petrolio nel caso in cui quella della Russia dovesse significativamente calare a causa delle sanzioni. Il Segretario generale Jens Stoltenberg è stato ricevuto a Washington dal segretario di Stato americano Antony Blinken. Gli Stati Uniti stanno giocando un ruolo indispensabile nella risposta all’invasione russa dell’Ucraina” ma anche la Nato è “pronta e determinata” a difendere i propri alleati, ha dichiarato Stoltenberg. Nella conferenza stampa congiunta, Blinken ha dichiarato che gli obiettivi sono di “respingere l’invasione” russa e consentire a Kiev di avere una posizione «più forte» all’eventuale tavolo dei negoziati che «potrebbe emergere”. Inoltre, Blinker ha voluto specificare che l’Ucraina ha “assicurato” la Casa Bianca che non utilizzerà i nuovi missili forniti dagli Usa per colpire obiettivi in Russia, confermando quanto riferito dai medi

Sul terreno

E’ cronaca di avanzamenti dei russi  nell’est. Si combatte ancora nelle strade di Severodonetsk, ma le forze russe controllano ormai circa l’80 per cento  di questa città strategica dell’Ucraina orientale: lo ha reso noto il capo dell’amministrazione militare regionale del Lugansk, Serhiy Gayday, secondo quanto riporta la Cnn. Secondo il sindaco della città, Oleksandr Striuk, 1.500 abitanti sono stati uccisi o sono morti per carenza di farmaci, dall’inizio della guerra  e almeno 12.000 civili sono  rifugiati in cantine e bunker. Terrorizza anche il fatto che vi sono civili che si riparano nei sotterranei dell’impianto chimico Azot, in una zona bombardata.  Un’altra Mariupol, da cui tutte le testimonianze raccontano che è impossibile uscire. Peraltro, anche nell’Ucraina occidentale si registrano esplosioni: nell’area della città di Stryiskyi, nell’oblast di Leopoli, a poche decine di chilometri dal confine con la Polonia. Lo rende noto il governatore della regione, Maksym Kozytskyi.

La crisi del grano

Intanto, la crisi del grano ha aumentato di quaranta milioni il numero delle persone in emergenza alimentare nel mondo. Il segretario di Stato americano Blinken ha confermato che circa 25 milioni di tonnellate di grano si trovano nei silos vicino ai porti di Odessa” ma “non possono muoversi a causa del blocco russo”.

Le parole di Mattarella

“Oggi, l’amara lezione dei conflitti del XX secolo sembra dimenticata: l’aggressione all’Ucraina da parte della Federazione Russa, pone in discussione i fondamenti stessi della nostra società internazionale, a partire dalla coesistenza pacifica». Così il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, nel salutare il corpo diplomatico prima del concerto offerto in occasione della festa della Repubblica. Quello ucraino “non è un conflitto con effetti soltanto nel teatro bellico – ha ribadito – le conseguenze della guerra riguardano tutti: a cerchi concentrici le sofferenze si vanno allargando, colpendo altri popoli e nazioni”. “Accanto alle vittime e alle devastazioni provocate sul terreno dello scontro, la rottura determinata nelle relazioni internazionali si riverbera sempre più sulla sicurezza alimentare di molti Paesi; sull’ambito della gestione delle normali relazioni, incluse quelle economiche e commerciali. Reca grave danno al perseguimento degli obiettivi legati all’emergenza climatica”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-06/ucraina-guerra-bambini-giornata-donbass-energia-ue-gas.html

Medio Oriente: vecchie questioni e nuove tensioni

Domenica di preoccupazione a Gerusalemme per i disordini tra alcuni israeliani e palestinesi nella Città Vecchia, in particolare sulla Spianata delle Moschee o Monte del Tempio, in occasione della Marcia delle bandiere che Israele celebra dal 1967. Mentre si valutano le ripercussioni della guerra in Ucraina, torna ad essere auspicabile una forma di garanzia internazionale per la gestione di luoghi considerati santi, afferma l’esperto di relazioni internazionali Massimo De Leonardis

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Molto allarme e alcuni incidenti ieri a Gerusalemme, in particolare sulla Spianata delle Moschee che gli israeliani chiamano Monte del Tempio. L’occasione è stata la “Marcia delle bandiere” che Israele celebra per ricordare la riunificazione della città sotto sovranità israeliana avvenuta con la Guerra dei Sei Giorni del 1967. La manifestazione è passata per il quartiere arabo della Città Vecchia per arrivare poi al Muro del Pianto. Già prima dell’avvio c’erano stati incidenti con i palestinesi nei pressi della Porta di Damasco.

Nella Città Vecchia

Secondo la stampa israeliana, circa 25.000 persone hanno preso parte all’evento a Gerusalemme, nella Città Vecchia, con gruppi  che hanno intonato slogan offensivi. Il ministro degli Esteri Yair Lapid ha condannato questa violenza da parte di militanti dell’estrema destra israeliana. Secondo la Croce Rossa palestinese, circa 40 palestinesi sono rimasti feriti nei disordini che hanno avuto luogo nella Città Vecchia.

In Cisgiordania

Dopo nuovi scontri tra le forze di polizia e palestinesi sulla Spianata delle Moschee si sono registrati disordini anche in Cisgiordania, nell’area di Nablus, dove alcuni palestinesi hanno bruciato pneumatici e bandiere israeliane, le forze dell’ordine israeliane hanno sparato gas lacrimogeni. Nelle stesse ore la presidenza palestinese ha ribadito che “Gerusalemme est, con i suoi luoghi santi islamici e cristiani, resterà l’eterna capitale dello Stato di Palestina”. “Non è possibile ottenere sicurezza e stabilità nella regione – ha affermato il portavoce del presidente Mahmūd Abbās noto come Abu Mazen, – fintanto che Israele continua ad ingaggiare una guerra contro il nostro popolo, contro la sua terra ed i suoi luoghi santi, comportandosi come uno Stato al di sopra delle leggi”.

Dalla Giordania

Proteste per gli episodi di violenza verificatisi ieri nella Spianata delle Moschee sono giunte dal ministero degli Esteri giordano. “Le incursioni degli estremisti ed il loro comportamento provocatorio, condotte sotto la copertura della polizia israeliana – ha affermato il ministero – rappresentano una violazione dello status legale storico e del diritto internazionale”. Israele, ribadisce il ministero degli Esteri giordano, deve rispettare la santità di quel luogo di preghiera.

Questioni vecchie e nuove

La guerra in Ucraina, con il suo innegabile peso, mette in qualche modo in ombra altre questioni come quella israelo-palestinese che invece non andrebbe trascurata, come sottolinea Massimo De Leonardis, direttore del Dipartimento di Scienze Politiche all’Università Cattolica:

De Leonardis parla innanzitutto di questioni che da decenni si portano avanti, facendo riferimento alla questione dello status di Gerusalemme che proprio come ieri si è visto – ricorda il docente – resta occasione di grandi tensioni. De Leonardis cita evoluzioni degli ultimi anni che – dice – hanno segnato la marginalizzazione  della componente palestinese. Ricorda la normalizzazione di rapporti tra alcuni Stati arabi e Israele e la decisione del presidente statunitense Trump, non rivista poi da Biden, di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

Sulla guerra in Ucraina l’attenzione di tutti

A parte la vicenda dei blocchi al commercio di grano ucraino o russo che rischiano di dare vita a una crisi alimentare senza precedenti in alcuni Paesi dell’Africa e anche in alcune aree mediorientali, De Leonardis si sofferma su un altro aspetto delle correlazioni tra questione israelo-palestinese e guerra in Ucraina chiarendo però che non si tratta di correlazioni dirette. Spiega che pesa indubbiamente il fatto che i grandi “attori” internazionali siano impegnati altrove e sottolinea che questo significa che resta molto più spazio per le iniziative in loco. Questo potrebbe significare il riacuirsi di tensioni.

Il professore ricorda che circa 20 anni fa la cosiddetta passeggiata di Sharon sulla Spianata delle Moschee o Monte del Tempio, provocò gravi disordini e spiega che ieri ha compiuto un gesto analogo un deputato della destra, non noto come Sharon ma che a livello locale è stato notato, non senza provocare tensioni.

Lo status di Gerusalemme

De Leonardis si sofferma sulla complessità della questione dello status di Gerusalemme per sottolineare quanta saggezza ci fosse nel suggerimento che – ricorda – la Santa Sede dava già nei primi anni venti del secolo scorso di pensare ad una forma di internazionalizzazione.  Oggi – spiega – arrivare a una internazionalizzazione risulta impossibile ma forse – dice – si potrebbe arrivare a una forma di garanzia di regole che governino la gestione dei luoghi santi.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-05/medio-oriente-israele-palestinesi-gerusalemme-status-tensioni.html

Il pensiero del Papa al Rosario per la pace alla fine di maggio

Dopo il Regina Coeli, il Papa ha ricordato a a tutti la recita del Rosario prevista il 31 maggio. Francesco guiderà la preghiera mariana a Santa Maria Maggiore in video collegamento con alcuni Santuari del mondo, tra cui quello della Madre di Dio in Ucraina, la Cattedrale di Nostra Signora della Salvezza in Iraq e la Cattedrale Nostra Signora della Pace in Siria

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo la recita del Regina Caeli, Papa Francesco ha invitato tutti a unirsi in preghiera martedì prossimo, 31 maggio, alle 18:00 quando  davanti alla statua di Maria Regina Pacis nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma guiderà la recita del Rosario.  Il Papa  ha detto:

Dopodomani, ultimo giorno del mese di maggio, festa liturgica della Visitazione di Maria Santissima, alle ore 18, nella Basilica di Santa Maria Maggiore pregheremo il Rosario per la pace, in collegamento con numerosi Santuari di tanti Paesi. Invito i fedeli, le famiglie e le comunità ad unirsi a questa invocazione, per ottenere da Dio, con l’intercessione della Regina della Pace, il dono che il mondo attende.

Come segno di vicinanza a chi è più coinvolto nelle dinamiche dei tragici eventi dell’ucraina sono stati invitati a recitare le decine del Rosario: una famiglia ucraina, persone legate a vittime di guerra e un gruppo di cappellani militari con i rispettivi corpi.

Il collegamento via streaming

Questi santuari pregheranno il rosario in contemporanea al Santo Padre e saranno collegati via streaming alla diretta di Roma. Saranno in collegamento con il Papa: Santuario della Madre di Dio (Zarvanytsia) in Ucraina; Cattedrale di Sayidat al-Najat (Nostra Signora della Salvezza) in Iraq; Cattedrale Nostra Signora della Pace in Siria; Cattedrale di Maria Regina d’Arabia in Bahrein. Insieme a questi, i Santuari internazionali: Shrine of Our Lady of Peace and Good Voyage; International Shrine of Jesus Saviour and Mother Mary; Santuario di Jasna Góra; Santuario Internazionale dei Martiri Coreani; Santa Casa di Loreto; Beata Vergine del Santo Rosario; International Shrine Our Lady of Knock; Beata Vergine del Rosario; Madonna Regina della Pace; Nostra Signora di Guadalupe; Nostra Signora di Lourdes. Tutti i fedeli in ogni parte del mondo sono invitati a sostenere Papa Francesco nella preghiera alla Regina della Pace. La preghiera verrà trasmessa in diretta sui canali ufficiali della Santa Sede, saranno collegati tutti i network cattolici del mondo e sarà fruibile per le persone sorde e ipoudenti attraverso la traduzione nella lingua dei segni italiana LIS.

Maria Regina Pacis

La statua di Maria Regina Pacis si trova nella navata sinistra della Basilica di Santa Maria Maggiore: fu voluta da Benedetto XV, realizzata dallo scultore Guido Galli, all’epoca vicedirettore dei Musei Vaticani, per chiedere alla Vergine la fine della Prima Guerra Mondiale nel 1918. La Madonna è rappresentata con il braccio sinistro alzato come segno per ordinare la fine della guerra, mentre con il destro tiene il Bambin Gesù, pronto a far cadere il ramoscello di ulivo simboleggiante la pace. Sul basamento sono scolpiti alcuni fiori, a simboleggiare il rifiorire della vita con il ritorno della pace. È tradizione che i fedeli depongano ai piedi della Vergine dei piccoli biglietti scritti a mano con le intenzioni di preghiera. Il Papa deporrà ai piedi della statua una corona di fiori prima di rivolgere la sua preghiera alla Madonna e lasciare la sua intenzione particolare. A sostenere la preghiera del Papa saranno presenti, oltre alle famiglie della comunità ucraina,  ragazzi e ragazze che hanno ricevuto la prima Comunione e la Cresima nelle scorse settimane, Scout, rappresentanti della Gioventù ardente mariana (Gam), membri del corpo della Gendarmeria Vaticana e delle Guardia Svizzera Pontificia e le tre parrocchie di Roma intitolate alla Vergine Maria Regina della Pace, insieme con i membri della Curia romana.

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2022-05/papa-regina-coeli-rosario-pace-ultimo-giorno-maggio.html

Donne di Kabul di nuovo in piazza, in lotta per i più elementari diritti

L’obiettivo è tutelare l’accesso all’istruzione femminile: in molte hanno manifestato nella capitale afghana, ma il corteo è stato presto disciolto

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Alcune decine di donne hanno sfidato oggi il regime dei talebani in Afghanistan, inscenando una protesta a Kabul per chiedere “pane, lavoro e libertà” e chiedendo il diritto all’istruzione femminile. Lo constatano fonti giornalistiche sul posto. “L’istruzione è un mio diritto. Riaprite le scuole”, hanno scandito le manifestanti, molte con il volto coperto, come imposto dalle recenti disposizioni dei fondamentalisti tornati al potere lo scorso agosto. Le manifestanti hanno marciato per alcune centinaia di metri prima di disperdersi. Miliziani talebani in abiti civili hanno sequestrato loro i telefonini per impedire di riprendere la protesta.

Il 7 maggio l’ennesima restrizione

Da sabato 7 maggio i talebani hanno imposto una nuova restrittiva legge sul codice di abbigliamento femminile. Il ministero talebano per la Prevenzione del vizio e la promozione della virtù ha imposto il burqa in tutti i luoghi pubblici anche all’aperto. In molte sono scese in strada in questo mese per protestare. Si tratta di un salto indietro di oltre 20 anni, a quel primo regime che, dal 1996 al 2001, aveva segregato la presenza femminile a servizio degli uomini. Ma secondo il leader supremo dei talebani Hibatullah Akhundzada coprirsi integralmente il volto sarebbe, ancora nel 2022, “tradizionale e rispettoso”.

Da mesi un’escalation di diritti negati

Le donne afghane vedono rinnegato qualunque diritto in una discesa che si fa sempre più repentina verso un passato patriarcale e tradizionalista dove il loro unico scopo di vita è l’assistenza agli uomini e la procreazione. Hanno lottato per decenni per affermare la propria esistenza, le loro libertà, e adesso molte sembrano pronte a tutto per difenderle. Da mesi infatti si impegnano in proteste contro il ritorno dei Talebani al potere, contro le repressive leggi che impongono loro di non lavorare, di non fare sport, di  non guidare, di non viaggiare o studiare.

La presa di posizione del G7

Giovedì 12 maggio durante la riunione dei ministri degli Esteri del Gruppo dei Sette (G7), i rappresentanti di Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti hanno dichiarato che le recenti leggi repressive imposte dai Talebani ai diritti delle donne e delle ragazze in Afghanistan stanno isolando il Paese. “Con queste misure, i Talebani si stanno ulteriormente isolando dalla comunità internazionale“, hanno dichiarato i ministri degli Esteri e il capo della politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell. In una dichiarazione congiunta, pubblicata dalla Francia, hanno invitato i funzionari islamici a prendere provvedimenti urgenti per eliminare le restrizioni nei confronti di donne e ragazze e rispettare i loro diritti umani.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-05/afghanistan-talebani-donne-scuole-superiori-ragazze-studio.html

Tregua sul grano: attesa per le decisioni al vertice Ue dopo l’apertura di Putin

Alla vigilia del summit di Bruxelles, Putin apre alla missione navale europea per scortare il grano ucraino nel Mar Nero. L’emergenza alimentare sarà uno dei primi punti all’ordine del giorno del vertice dei 27. Ne parleranno anche il presidente ucraino Zelensky e il presidente dell’Unione Africana Sall, che interverranno in video collegamento. Il presidente russo ha discusso della situazione in Ucraina con il presidente francese Macron e con il cancelliere tedesco Scholz.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Prende corpo l’ipotesi di una scorta navale armata ai convogli di grano verso i mercati tradizionali, così da riavviare la catena dei rifornimenti.  Alla vigilia  del vertice europeo del 30 e 31 maggio si discute di come rendere operativa la proposta fatta dall’Ue di permettere lo sblocco delle navi che trasportano grano dall’Ucraina attraverso il Mar Nero.  Putin ha fatto sapere ieri di essere disposto a collaborare.  Oggi, un’ultima riunione degli ambasciatori dei 27 farà il punto e non si può escludere, soprattutto dopo la telefonata tra Macron, Scholz e Putin, che qualcosa nelle conclusioni cambi segnando un punto per il fronte dei ‘dialoganti’ che include anche l’Italia. L’apertura del Cremlino sull’export di grano gioca a favore. L’emergenza alimentare sarà uno dei primi punti all’ordine del giorno del summit. Ne parleranno anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il presidente dell’Unione Africana Macky Sall, che interverranno in video collegamenti. I Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente corrono un rischio di carenza alimentare  che nessuno, in Ue, vuole vedere concretizzarsi. Porterebbe una nuova ondata migratoria nel mar Mediterraneo. D’altro canto, anche la Cina sembra spinga per una soluzione dell’impasse sui rifornimenti del grano che ricade anche sugli approvvigionamenti cinesi.

Le ipotesi sulle rotte

L’Ue sta valutando diverse ipotesi, tutte di difficile percorribilità. Via terra la strada migliore per l’export di grano sarebbe la Bielorussia (i cui parametri del sistema ferroviario sono uguali a quelli ucraini) ma ciò vorrebbe dire cancellare alcune sanzioni per Minsk, e sul punto non c’è unanimità. L’altra strada è quella di una missione navale comunitaria per scortare il grano nel mar Nero. L’idea c’è ma, spiegano a Bruxelles, non c’è ancora nulla di veramente concreto. Il rischio di una missione di questo tipo è quello di finire in contatto non le navi russe. Il vantaggio sarebbe dare subito prestigio al progetto di difesa europea sulla quale Bruxelles spinge da mesi. In ogni caso servirebbe il placet della Turchia, che per la Convenzione di Montreaux del 1936, ha un ruolo di guardia  dei Dardanelli e del Bosforo in tempi di guerra.

Sullo sfondo la questione sanzioni

Gli sherpa che oggi sono riuniti sono chiamati anche ad un ultimo giro d’orizzonte sul dossier sanzioni e, soprattutto, sull’embargo al petrolio. Viktor Orban, in una telefonata con il premier britannico Boris Johnson, ha ribadito il suo “no a sanzioni che mettano a rischio la sicurezza energetica ungherese”. Escluso il sì di Budapest ad un embargo anche graduale, all’Ue non resta che accettare l’esenzione dalle misure restrittive del petrolio che arriva in Ue attraverso oleodotti, o perlomeno di quello che arriva in Ungheria. La prima ipotesi porta con sé il rischio che anche altri Paesi (vedi la Germania), approfittino dell’esenzione.  Si tratterebbe, in ogni caso, di un’esenzione temporanea alla quale affiancare finanziamenti per permettere a Budapest di adeguare le raffinerie e di accelerare sulle rinnovabili.

Telefonata Macron – Scholz – Putin

Una telefonata di 80 minuti ieri per fare il punto sul conflitto in Ucraina. Vladimir Putin, Emmanuel Macron e Olaf Scholz si confrontano sull’andamento della guerra.  Il leader del Cremlino ha confermato “la disponibilità di Mosca a continuare i colloqui di pace con Kiev” e si è detto pronto a cercare una soluzione per “sbloccare l’esportazione del grano, compreso quello che si trova nei porti del Mar Nero”. Allo stesso tempo però Putin è tornato ad avvertire l’occidente sull’invio di armi a Kiev. “Rischia di destabilizzare la situazione e di aggravare la crisi umanitaria”, ha detto. A tal proposito la Russia ha fatto sapere di aver testato il missile ipersonico ‘Zircon’ nel mare di Barents. Secondo quanto ha spiegato Mosca sarebbe stato lanciato da una fregata e avrebbe colpito “con successo” un bersaglio posto “a circa mille chilometri di distanza”. Se Putin ha mostrato i muscoli il presidente francese Macron e il cancelliere tedesco Scholz, dal canto loro, lo hanno nuovamente invitato al cessate il fuoco “immediato” e al “ritiro delle truppe”. Inoltre i leader di Francia e Germania hanno chiesto “negoziati seri e diretti” con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e la “liberazione” dei 2.500 combattenti dell’acciaieria Azovstal di Mariupol attualmente nelle mani di Mosca. Il Cremlino ha fatto sapere che i tre hanno deciso di “continuare a sentirsi”. Al momento però alle parole non seguono i fatti. Per quanto riguarda i militari di Azovstal la Russia – secondo quanto riporta il Guardian – avrebbe in mente “un tribunale militare internazionale” ispirato a Norimberga per processarli. E anche sul campo Mosca non ha nessuna intenzione di fermare l’avanzata, anzi.

Lyman e Sumy sotto attacco

Le forze armate russe hanno annunciato la conquista di Lyman, città strategica nell’Est mentre i combattimenti a Severodonetsk sono proseguiti praticamente strada per strada. “In Donbass la situazione è molto difficile”, ha ammesso Zelensky senza però perdere la fiducia. “Ricostruiremo tutto e non ci saranno alternative alle nostre bandiere ucraine”, ha precisato. Il leader di Kiev, inoltre è tornato sulla volontà di avere un incontro diretto con Vladimir Putin. “Non c’è nessuno altro con cui negoziare – ha dichiarato a un giornale olandese – ha costruito uno stato in cui nessuno decide nulla”. E che la guerra sarà ancora lunga lo ha ammesso pure il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. “Non sono ottimista sulla pace in poche settimane. Non è un percorso breve, ma una strada stretta, in salita e difficile, ma questo non ci deve fermare”, ha spiegato tornando a parlare della necessità di una escalation diplomatica e “l’Italia è uno dei Paesi che può innescarla”, ha concluso. E le truppe di Mosca hanno bombardato di nuovo questa mattina la regione di Sumy, nel nordest dell’Ucraina, vicino al confine con la Russia: lo ha reso noto il comando operativo ‘Nord’ dell’esercito di Kiev, secondo quanto riporta l’agenzia Unian.

Intanto sono circa 30.150 i soldati russi uccisi in Ucraina dall’inizio dell’invasione, secondo l’esercito di Kiev. Nel suo aggiornamento sulle perdite subite finora da Mosca, l’esercito ucraino indica che dopo 95 giorni di conflitto si registrano anche 207 caccia, 174 elicotteri e 504 droni abbattuti. Inoltre le forze di Kiev affermano di aver distrutto 1.338 carri armati russi, 631 pezzi di artiglieria, 3.270 veicoli blindati per il trasporto delle truppe, 116 missili da crociera

Nessuna certezza su Severodonetsk

“Il nostro esercito è in una posizione difensiva difficile. La città è costantemente bombardata”. E’ quanto ha detto Oleksandr Striuk, capo dell’amministrazione militare civile di Severodonetsk, citato dai media internazionali. Nella notte il leader ceceno Ramzan Kadyrov aveva affermato che “Severdonetsk è sotto il nostro completo controllo. La città è stata liberata”.

Notizie da Mosca

L’agenzia russa Tass fa sapere che in Russia il comitato investigativo “indagherà su nuovi attacchi al territorio russo” da parte dell’esercito ucraino. In particolare, secondo l’agenzia le indagini riguarderebbero due episodi, due  bombardamenti  attribuiti all’esercito di Kiev: sul villaggio di Gornal, nella regione di Kursk, e sul villaggio di confine di Zernovo, nella regione di Bryansk.  e 13 navi. Inoltre, secondo la Tass che cita il ministro della Difesa russo, le forze russe con missili ad alta precisione hanno distrutto un grande arsenale delle forze armate ucraine a Kryvyi Rih, città natale del presidente Volodymyr Zelensky.

Proteste contro la guerra a Belgrado

Una manifestazione contro l’intervento militare russo in Ucraina si è svolta nel pomeriggio di ieri nel centro di Belgrado, capitale della Serbia. Al raduno sulla Piazza della Repubblica hanno partecipato cittadini serbi ma anche russi, ucraini e bielorussi, che hanno denunciato le conseguenze catastrofiche di questo  conflitto che va avanti da oltre tre mesi.  Oltre a quelle serbe, i manifestanti sventolavano anche bandiere russe e ucraine, come pure vessilli delle regioni russofone di Donietsk e Lugansk, nel Donbass ucraino.Al termine del raduno, i dimostranti si sono recati in corteo all’ambasciata russa, ai cui responsabili hanno consegnato un loro documento di denuncia della guerra. Quella di oggi è stata una delle rare mobilitazioni popolari a Belgrado contro l’intervento militare russo in Ucraina. Nella capitale serba si sono infatti registrate nelle scorse settimane anche dimostrazioni a sostegno di Mosca e del presidente Vladimir Putin. La Serbia è il Paese principale alleato della Russia nei Balcani e, pur condannando la violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina, Belgrado si rifiuta di aderire alle sanzioni occidentali contro Mosca invocando gli interessi nazionali della Serbia.

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De Gasperi e una difesa comune europea della pace a 70 anni dal Trattato rinnegato

Per l’Ucraina non solo risposte sul piano militare: serve riscoprire le radici di quella prospettiva di pace che si è imposta in Europa dopo la seconda guerra mondiale grazie a De Gasperi, Monnet, Adenauer. Sorprendente l’attualità delle pagine dello statista italiano a sostegno del progetto di difesa comune europea, come spiegano Sergio Fabbrini, Stefano Ceccanti, Claudia Mancina

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Di fronte allo choc della guerra alle porte dell’Unione europea, tornano drammaticamente attuali le pagine di Alcide De Gasperi sulla necessità di un’unione delle forze difensive dei Paesi Ue. A 70 anni dalla firma – il 27 maggio del 1952 – del Trattato per la Difesa comune europea (CED) che però non è mai stato ratificato dopo la bocciatura nel 1954 da parte della Francia, si parla di un’occasione persa da rivalutare.

La visione di De Gasperi e Spinelli

Nel convegno organizzato giovedì scorso all’Istituto Luigi Sturzo si è parlato di “Sicurezza quale base di ogni comunità politica: l’Unione di difesa europea per un nuovo ordine internazionale”. Ne abbiamo parlato con  il politologo Sergio Fabbrini, direttore della School of Government dell’Università Luiss:

Fabbrini ricorda il grande contributo in termini di idealità offerto dallo statista italiano Alcide De Gasperi e dal politico e scrittore Altiero Spinelli, altro padre fondatore dell’Europa unita, per l’elaborazione dei 132 articoli che con diversi protocolli formavano lo sfortunato trattato Ced. Un testo che non offriva solo l’idea di un insieme di truppe ma che concepiva la sicurezza come base di ogni comunità politica e, dunque, quale garanzia della democrazia. Ma – sottolinea Fabbrini citando brani delle raccomandazioni dello statista italiano – il messaggio che emerge è chiarissimo: superare egoismi e interessi nazionali per il bene dei popoli.

Il contesto di 70 anni fa che torna attuale

Fondamentale ricordare il contesto dei primi anni cinquanta in cui emergevano gli equilibri della cosiddetta guerra fredda. Dopo il dramma dei conflitti mondiali era fortissima la spinta a difendere la pace, la cooperazione tra i popoli, sottolinea Fabbrini. Nel 1949 nascevano il Consiglio d’Europa e la Nato. Nel 1951, su iniziativa dei politici francesi Jean Monnet e Robert Schuman e del cancelliere tedesco Konrad Adenauer e del primo ministro italiano Alcide De Gasperi nasceva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Fabbrini chiarisce che la CECA era pensata come passo iniziale di un processo federale europeo e soprattutto mette in luce un punto importante: la CECA era concepita in parallelo con il Trattato CED che – dice – doveva essere la gamba politico militare della costruzione.

Sicurezza al di là degli Stati

In particolare è il capitolo 38 del CED che tradisce la caratteristica di un trattato che sarebbe stato il più avanzato. Assicurare infatti una sicurezza per i popoli europei con un meccanismo sovranazionale in grado di andare al di là del campo di azione militare degli Stati avrebbe significato, e significherebbe oggi, blindare la pace: difenderla in modo indubitabilmente più efficace da attacchi esterni ma anche dagli interessi stessi dei singoli governi o Stati. In particolare, l’attualità di questo principio emerge nell’intervista con il costituzionalista Stefano Ceccanti, professore ordinario di diritto pubblico comparato all’Università  “Sapienza”:

Ceccanti offre una riflessione a breve e a lungo termine. Suggerisce di agire su due livelli. Il primo – spiega – è quello delle scelte immediate: un Paese aggredito va sostenuto, dice. Ma c’è anche un altro piano di intervento possibile e doveroso: quello di lavorare per un multilateralismo che eviti altre situazioni simili. Parla di impegno ineludibile. Se l’ordine mondiale vacilla – commenta – e se il ruolo del Consiglio di Sicurezza viene ridimensionato in un contesto di necessità di riforma della stessa Organizzazione delle Nazioni Unite, diventa davvero importante investire in una difesa comune europea che – sottolinea – abbia anche un addentellato di federalismo politico. E in questo senso – ribadisce Ceccanti – il richiamo alla concezione del Trattato CED è attualissimo.

Alla base i valori

A sottolineare la dimensione culturale della sfida che si pone è l’accademica e filosofa Claudia Mancina:

Mancina parla di contrapposizione concettuale tra democrazie e autocrazie e sottolinea l’importanza di difendere e valorizzare quello che viene definito “universalismo”, raccomandando però che sia universalismo dei valori. Spiega che si tratta di un’impostazione che ha fondamento nel messaggio cristiano che ha nei suoi presupposti l’orizzonte del bene comune di tutta la famiglia umana. Ricorda che in Occidente si è assistito a una parabola attraverso l’Illuminismo o il liberalismo. Ovviamente – ricorda – non sono mancati attriti, incongruenze, ma il punto non è questo: è importante – afferma – riconoscere un cammino concettuale che ha conservato valori come la libertà, la democrazia. E poi mette in luce l’importanza di ricordare tutto questo perché si  deve riconoscere oggi più che mai che c’è chi sostiene un’impostazione di pensiero ostile all’universalismo così inteso. Il fondamento teorico che si contrappone all’universalismo così inteso – spiega Mancina – si nutre di termini come nazionalismi o imperialismi.

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La Giornata per l’Africa e i 20 anni dell’Unione Africana

Gravi problemi ancora affliggono il continente africano – aggravati dalla pandemia e dalle ripercussioni della guerra in Ucraina – ma, a 20 anni dalla nascita dell’Unione Africana, bisogna guardare anche ai significativi passi dell’integrazione e al dinamismo nuovo dei giovani oltre gli stereotipi, come spiegano l’africanista Aldo Pigoli e Otto Bitjoka, presidente dell’Unione delle Comunità africane in Italia (UCAI)

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Da 59 anni si celebra, il 25 maggio, la Giornata per l’Africa, da quando in quella data del 1963 nasceva l’Organizzazione dell’Unità Africana, con la firma dei leader di 30 dei 32 Stati indipendenti del continente. Poi nel 2002 è nata l’Unione Africana (UA) che oggi comprende i 55 Stati riconosciuti del continente.

20 anni di Unione Africana

L’Unione africana è un’organizzazione internazionale e un’area di libero scambio e ha sede ad Addis Abeba, in Etiopia. Per un bilancio dei suoi 20 anni dalla nascita, abbiamo intervistato Aldo Pigoli, docente di Storia dell’Africa Contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano:

Il professor Pigoli ricorda che l’UA conta 55 membri. Non ne fanno parte i territori posseduti dagli Stati europei. Il Marocco, che si era ritirato dall’Organizzazione dell’Unità africana il 12 novembre 1984 a seguito all’ammissione nell’Organizzazione dell’Unità Africana della Repubblica democratica araba del Sarawi, è stato riammesso il 30 gennaio 2017.

I successi di un’integrazione regionale e continentale

Senza dubbio – riconosce lo studioso- si tratta di una sfida notevole: integrare un territorio vastissimo e variegato. Proprio considerando questo – sottolinea – si può dire che sono stati molto significativi i passi in avanti fatti. E fa riferimento ai vari livelli di integrazione che si possono constatare sul piano regionale e sul piano continentale su temi come la sicurezza e il sociale. Gli obiettivi non sono certo raggiunti ma i risultati si vedono – afferma – se si considera che si è riusciti ad evitare alcuni conflitti e che alcuni standard sul piano sociale si vanno affermando. Anche per quanto riguarda la cooperazione politico istituzionale contro il terrorismo si può dire che si è messa in moto una macchina importante.

Il più grande accordo di libero scambio

Il 21 marzo 2018, a Kigali, capitale del Rwanda – sottolinea Pigoli –  44 stati membri dell’Unione africana (UA) hanno firmato l’accordo che ha istituito l’area di libero scambio continentale africana, che nell’acronimo inglese viene definita AfCFTA. È previsto che l’accordo sia implementato nel corso di 10-15 anni e che includa circa il 90 per cento di tutti i beni. È il più grande accordo di libero scambio al mondo in quanto a numero di parti contraenti. La riduzione dei costi commerciali per gli esportatori è di estrema importanza dal momento in cui le imprese africane che commerciano con altri Paesi della regione devono sottostare a tariffe in media più alte (circa il 6,1 per cento) rispetto a quelle del commercio extra-regionale. L’accordo  è congiunto a tre protocolli che regolano lo scambio dei beni e dei servizi ma anche la risoluzione delle dispute.

E’ indubbiamente un passo più che considerevole all’interno del processo d’integrazione africana, ribadisce Pigoli. La speranza – sottolinea – è che l’accordo dia il via a una nuova traiettoria di sviluppo. Se tutti gli stati membri UA implementano l’accordo, l’AfCFTA comprende un mercato di 1,2 miliardi di persone e di 2,5 trilioni di dollari. Questo mercato considerevole – spiega – offre opportunità enormi per la crescita del commercio intra-africano, che nel 2016 ammontava a circa il 20 per cento del commercio totale dell’Africa. In secondo luogo, l’AfCFTA mira a contrastare le barriere non tariffarie sul commercio intra-africano, con l’obiettivo di facilitare il commercio continentale delle imprese africane. Rappresenta anche – mette in luce lo storico – il progetto più importante nell’ambito dell’Agenda 2063 dell’UA, Agenda 2063: The Africa We Want, che stabilisce le aree prioritarie per lo sviluppo del continente nei prossimi cinquant’anni.

Un processo lungo con accelerazioni recenti

L’AfCFTA fa seguito a un altro enorme successo nel processo di integrazione africana, la zona di libero scambio tripartita (TFTA). La TFTA, lanciata nel giugno 2015, che ha connesso 26 Paesi da Cape Town al Cairo appartenenti a tre Regional Economic Communities (RECs), ovvero la Common Market for Eastern and Southern Africa (COMESA), l’East African Community (EAC) e la Southern African Development Community (SADC). La decisione di lanciare il TFTA – suggerisce Pigoli – dimostra il rinnovato consenso politico dei leader africani sull’importanza di un’integrazione profonda per il raggiungimento di obiettivi di crescita, sviluppo e riduzione della povertà.

L’Africa non più solo fonte di materie prime

L’AfCFTA – chiarisce Pigoli – potrebbe fornire uno slancio decisivo al processo di trasformazione strutturale del continente – ovvero alla sua industrializzazione. Il commercio intra-africano è già oggi più orientato alla manifattura rispetto al commercio verso il resto del mondo, che è ancora invece basato principalmente sull’esportazione di materie prime. È probabile che Paesi come il Sudafrica e il Kenya, dotati di basi manifatturiere ampie e migliori infrastrutture stradali, ferroviarie e portuali, riusciranno a trarre maggiori benefici da questo accordo rispetto a economie più piccole. Ma Pigoli invita a riflettere su realtà che vengono poco raccontate, come ad esempio il livello di know how tecnologico che ha permesso al Rwanda di presentare sul mercato il primo smartphone interamente prodotto nel Paese africano.

Una struttura ricalcata sull’Unione Europea

Pigoli prende l’Unione europea come termine di confronto per parlare della struttura istituzionale dell’Unione Africana, anche se – sottolinea – ci sono ovviamente molte specificità e distinzioni. Indubbiamente però è al processo di integrazione europea – dice – che si sono ispirati i popoli africani. C’è – ricorda – una Assemblea dell’Unione africana composta da capi di Stato e di governo che si riunisce una volta all’anno in sessione ordinaria e ogni volta che lo richiedano i due terzi degli Stati membri. C’è la Commissione dell’Unione africana, con sede ad Addis Abeba, che rappresenta il segretariato dell’Unione.  C’è il Consiglio esecutivo è composto dai ministri degli Esteri o dai loro delegati. Oltre ai vari comitati di rappresentanti o tecnici.

La ricchezza dell’antropologia africana oltre gli stereotipi

L’immagine dell’Africa come continente afflitto da povertà e conflitti persiste malgrado le sue grandi potenzialità politiche, economiche, culturali e scientifiche. E’ essenziale andare oltre i pregiudizi e cercare di scoprire e capire la ricchezza culturale dei popoli africani, come sottolinea Otto Bitjoka, presidente dell’Unione delle Comunità africane in Italia (UCAI) parlando del valore simbolico della giornata per l’Africa:

Uno sguardo sull’andamento dell’economia africana mostra – sostiene Bitjoka – che, rispetto ad altri Stati del mondo, in diversi Paesi africani si assiste a una crescita molto elevata. Bitjoka cita la Nigeria, il SudAfrica e l’Egitto ma anche i Paesi del Golfo di Guinea, in particolare la Costa d’Avorio. Nonostante permangano notevoli differenze tra i singoli Paesi, negli ultimi due decenni ad esempio l’Africa subsahariana nel suo complesso ha registrato tassi di crescita annua che arrivano al 6,5 per cento.

Il valore dell’unità

Bitjoka spiega che a livello simbolico è importantissimo che si celebri una Giornata che richiama e rilancia il valore dell’unità di un continente dove – sottolinea – si fanno guerre per procura, le cosiddette proxy war volute e alimentate da Paesi terzi. Bitjoka ricorda che persistono gravi problemi come la povertà diffusa, la disuguaglianza e l’esclusione sociale, che sono stati aggravati dalla pandemia da Covid-19 e poi dalla crisi alimentare legata alla guerra in Ucraina, ma a gran voce ribadisce che l’Africa non è tutta lì. Ricorda che si parla di 30 chilometri quadrati di territorio e di realtà diverse tra loro. Fa un esempio: nella capitale della Costa d’Avorio, Abidjan, sembra di stare in una città come Parigi.

Al di là delle logiche del Pil

Bitjoka invita a considerare l’eccezionale varietà di ecosistemi africani e il grandissimo capitale umano rappresentato dai giovani. E avverte: se si vuole parlare di sviluppo in Africa non si deve considerare quello che definisce il punto di vista privilegiato dell’Occidente e cioè la considerazione dei dati economici e del Prodotto Interno Lordo (Pil) di un Paese. Rivendica per gli africani una antropologia culturale diversa che considera altri aspetti prima di quelli prettamente economici. Bitjoka parla di popoli accomunati da un senso diverso di comunità, che mette l’accento – spiega – più sul destino della comunità e della persona che sugli scopi, che considera prioritari il senso della libertà nella comunità, il ruolo della donna piuttosto che l’arricchimento. Si tratta – ammette – di una ricchezza del subconscio collettivo che va rivalorizzata e riscoperta con un risveglio di Nuovo Umanesimo – dice – di cui si vedono alcuni segni importanti. Certamente – raccomanda – si dovrebbe riscoprire il più autentico spirito africano che prevede – racconta – un incontro sotto l’albero del baobab per dirimere le controversie. Le guerre – afferma – e la produzione delle armi non sono un fattore endemico in Africa.

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Ifad: c’è spazio di azione per salvare i Paesi più poveri dalla crisi

Di fronte alle conseguenze economiche sul piano mondiale della guerra in Ucraina, il Fondo delle Nazioni Unite lancia un’iniziativa concreta per proteggere i mezzi di sussistenza e i mercati più vulnerabili. Sono almeno 22 i Paesi più colpiti, a partire dalla Somalia. Lo spiega Federica Cerulli, esperta Ifad, denunciando un paradosso: più sono poveri e indebitati e più è difficile intervenire

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In uno scenario in cui la guerra in Ucraina sta facendo salire i prezzi di alimentari, carburante e fertilizzanti a livelli record mettendo a rischio la sicurezza alimentare in molti dei Paesi più poveri del mondo, il Fondo Internazionale delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Agricolo (IFAD) ha lanciato in questi giorni l’Iniziativa di risposta alla crisi (Crisis Response Initiative) per far sì che i piccoli agricoltori nei Paesi ad alto rischio possano produrre nei prossimi mesi cibo per nutrire le loro famiglie e comunità, riducendo al contempo le minacce verso i raccolti futuri. Ne abbiamo parlato con Federica Cerulli, esperta dell’Ifad per la mobilitazione delle risorse finanziarie:

Lo sconvolgimento dei mercati globali sta scuotendo i sistemi alimentari nel profondo, avverte Cerulli sostenendo che è particolarmente allarmante per i Paesi già colpiti dall’impatto del cambiamento climatico e da quello del COVID-19, dove un maggior numero di persone è alle prese con povertà e fame. La nuova iniziativa dell’IFAD – spiega – aiuterà a proteggere i mezzi di sussistenza e i mercati in modo che le persone più vulnerabili possano continuare a nutrire le loro famiglie e comunità.

Un’azione concreta e immediata

Il ruolo dell’IFAD è fondamentale per mitigare qualsiasi shock ai sistemi alimentari e, così facendo, proteggere il progresso dello sviluppo a lungo termine. Lo ricorda Cerulli affermando che la comunità internazionale deve essere pronta ad affrontare le conseguenze profonde e destabilizzanti di questo conflitto in Europa. L’iniziativa dell’Ifad è concreta: il Fondo Onu chiede agli Stati membri di contribuire alle ingenti risorse necessarie per coprire tutti i 22 Paesi elencati nell’Iniziativa come prioritari in base al bisogno. E – mette in luce  Cerulli –  in particolare per i primi tre, tra cui la Somalia, chiede un impegno immediato.

Le aree più colpite

Le ripercussioni della guerra – ricorda l’esperta – si fanno sentire in maniera più forte in alcune parti dell’Africa, del Vicino Oriente e dell’Asia centrale, ma anche altri Paesi e regioni vengono colpiti di giorno in giorno. Molti Paesi sono vulnerabili agli shock dei prezzi a causa della loro forte dipendenza dalle importazioni di cibo ed energia dalla Russia e dall’Ucraina. Altri Paesi  specialmente in Asia centrale  – chiarisce –  stanno sperimentando un deterioramento del commercio insieme ad una significativa riduzione dell’afflusso di rimesse. L’elenco completo comprende: Somalia, Afghanistan, Yemen, Mozambico, Haiti, Etiopia, Burundi, Eritrea, Madagascar, Repubblica Centrafricana, Malawi, Ciad, Niger, Mali, Uganda, Liberia, Guinea-Bissau, Gambia, Comore, Sri Lanka, Bhutan, Benin.

Risorse essenziali per l’agricoltura

Le popolazioni rurali vulnerabili sono colpite duramente dall’aumento dei prezzi dei fattori di produzione agricoli essenziali, soprattutto ora che inizia una nuova stagione di semina. I piccoli agricoltori – è il primo esempio di Cerulli – stanno lottando per pagare il carburante per i macchinari, i costi dei fertilizzanti e dei trasporti per raggiungere i mercati, e la maggior parte non ha la capacità di assorbire gli aumenti dei prezzi.

Cerulli spiega che, basandosi sulla recente esperienza dell’IFAD nella risposta al COVID-19, l’Iniziativa è orientata a garantire ai piccoli agricoltori l’accesso ai principali fattori produttivi agricoli, al carburante, ai fertilizzanti, ai finanziamenti per le necessità immediate e all’accesso ai mercati e alle informazioni relative al mercato. L’iniziativa contribuirà anche a ridurre le perdite post-raccolto investendo in infrastrutture su piccola scala.

Il caso Somalia

In Somalia, uno dei Paesi prioritari per la Crisis Response Initiative, i costi dell’elettricità e dei trasporti sono saliti alle stelle – denuncia Cerulli – da quando è iniziato il conflitto in Ucraina. I piccoli agricoltori che fanno affidamento sull’irrigazione alimentata da piccoli motori diesel ne sono stati colpiti. Questo shock aggrava le preoccupanti prospettive di carestia in un Paese già nel mezzo di una grave siccità. La maggior parte degli agricoltori locali non è in grado di comprare il carburante e di conseguenza ha subito delle perdite. Si sente l’effetto a spirale sul costo dei trasporti, del cibo e di tutti gli altri beni essenziali. Il punto è che la spirale dei prezzi del cibo e dell’energia potrebbe alla fine portare a disordini sociali e destabilizzare i Paesi, in particolare gli Stati fragili. È in gioco la stabilità a lungo termine.

Il paradosso del debito

Con la crisi del COVID-19, l’indebitamento è naturalmente aumentato in modo marcato in ogni regione del mondo, per le economie africane ha significato l’aumento dei timori circa la sostenibilità del debito o in alcuni casi ha segnato la resa in questo senso. C’è poi il caso della Somalia che risulta aver fallito l’obiettivo di rientrare nei parametri. E purtroppo – è il fattore che vuole denunciare Cerulli – nella crisi attuale tutto questo comporta un’impasse: non si possono assicurare fondi di aiuti a questi Paesi non in regola con il debito. L’Ifad che risulta essere uno degli enti  finanziari creditori e dunque non può erogare altri fondi o inserire Mogadiscio in alcuni programmi. Tutto quello che si può – spiega Cerulli – è lavorare con partner che assicurano aiuti sul territorio. L’Ifad è impegnata per assicurare in varie modalità che arrivi in ogni caso sostegno agli agricoltori in questo difficilissimo contesto, ma spiega che l’Ifad è impegnato intanto attivamente a sostenere la causa della cancellazione del debito.

L’Italia chiede un’alleanza globale per la sicurezza alimentare

Intanto, parlando a margine della riunione dei ministri del G7 in Germania, il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha affermato che l’Italia esprime grande preoccupazione per quello che sta avvenendo nel Mediterraneo rispetto per esempio alla crisi del grano”. E ha fatto sapere che come Italia e come ministero degli Esteri si sta organizzando un dialogo a livello ministeriale con tutti i Paesi del Mediterraneo insieme con la Fao, che vedrà “la prima iniziativa in Italia il prossimo mese”. Ha aggiunto: “Lavoreremo insieme con i Paesi del Mediterraneo per permettergli di diversificare le fonti di approvvigionamento dei beni di prima necessità in modo tale da scongiurare una crisi alimentare, che può portare a carestie e flussi migratori sempre più massicci”. Il titolare della Farnesina ha detto di salutare “con grande favore l’iniziativa tedesca, sotto la presidenza G7, di costituire un’alleanza globale per la sicurezza alimentare”. Di collegialità Di Maio ha parlato anche per dire che “non si può pensare di raggiungere un accordo di pace attraverso iniziative isolate, serve collegialità nel costruire un vero e proprio percorso negoziale”.

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9 maggio: per l’Europa è tempo di tornare a difendere la pace

Guerra, difesa comune, voce dei cittadini: la celebrazione della Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 quest’anno ha i toni drammatici della crisi ucraina e della difficile unità tra Paesi Ue. Servono i valori più autentici del progetto europeo e nessuna resa alla sola logica delle armi, come sottolineano Francesco Tufarelli e PierVirgilio Dastoli parlando di responsabilità e di iniziative concrete da non trascurare

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In un momento storico già segnato dalla pandemia, l’invasione russa dell’Ucraina conferma quanto fondamentali siano solidarietà, cooperazione e unità, valori propri del progetto europeo insieme con democrazia, diritti, pace. L’obiettivo  di licenziare alla vigilia della festa dell’Europa il sesto pacchetto di sanzioni contro il presidente russo Putin, per l’invasione dell’Ucraina e i continui bombardamenti, non è stato raggiunto. Anche la quarta riunione degli ambasciatori degli Stati Ue ieri mattina a Bruxelles è terminata senza accordo.

Pensare il futuro dell’Europa ricordando la visione della Dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950 diventa urgente più che mai. Ne abbiamo parlato con Francesco Tufarelli, direttore dell’Ufficio coordinamento del Dipartimento per le Politiche Europee della Presidenza del Consiglio dei ministri:

Tanto si può fare e l’Europa deve fare per difendere la pace con gli strumenti a disposizione – sottolinea Tuffarelli – ma è innegabile che il nodo della difesa europea è tornato alla luce di fronte all’invasione dell’Ucraina iniziata il 24 febbraio scorso, dopo anni di conflitto ai confini est.

La difesa comune

La difesa europea – dice Tufarelli – è un progetto coerente con il Trattato Ced voluto da De Gasperi e Spinelli nel 1952-1954, siglato  esattamente  70 anni fa, il 27 maggio 1952  che poi – ricorda – purtroppo è caduto all’Assemblea nazionale francese anche per la concomitanza con la crisi indocinese. Secondo Tfarelli proprio ripensando all’origine del progetto, è importante una precisazione per allora e per oggi:  la difesa comune europea è vista come il secondo pilastro della Nato e non fuori dell’Alleanza Atlantica. Anche il presidente del Consiglio dei ministri Draghi – ricorda – ha ribadito in questo contesto nei giorni scorsi che “gli  investimenti nella difesa devono essere fatti nell’ottica di un miglioramento delle  capacità collettive  come Unione Europea e come Nato”.   E c’è poi un’altra precisazione da fare: De Gasperi e Spinelli lavorarono – spiega Tufarelli – per inserire  un articolo dedicato, il n. 38 del Trattato, che prevede che la prospettiva della difesa comune vada inserita in nuove istituzioni che comportino una maggiore unità politica e maggiori disponibilità di bilancio, dal momento che la nazionalizzazione di molte politiche produce inefficienze e ignora gli effetti asimmetrici delle crisi sui vari ambiti decisionali.

Il punto dunque – avverte Tufarelli – è che il progetto di difesa comune ha avuto una battuta d’arresto ma non si è mai davvero interrotto: a vari livelli il confronto tra Paesi, a livello dei debiti “consigli” – assicura – è proseguito. E Tufarelli fa anche un esempio molto concreto: la presidenza di turno di uno di questi consigli che porta avanti il dibattito preparando il terreno è oggi affidato alla Repubblica Ceca, un’ipotesi che anni fa sarebbe apparsa impensabile. Di fatto dunque è necessario di fronte ai fatti attuali riprendere – spiega – o rilanciare il progetto di difesa comune ma considerando che una piattaforma di dialogo non si è mai fermata e c’è un “tesoro” di lavoro svolto che non va dimenticato. Questo non significa – precisa – che sarebbe possibile domani arrivare a una difesa comune ma che esiste un bagaglio di lavoro dei tecnici da rivalutare.

Non silenziare la voce dei cittadini europei

Oggi 9 maggio, si conclude la Conferenza sul futuro dell’Europa (Cofoe) che per un anno ha significato migliaia di incontri e scambi a livello di tutte le rappresentanze di cittadini. L’elaborazione finale coincide quest’anno con la tragedia in Ucraina che si consuma dopo oltre due mesi di bombardamenti. E’ sconcertante pensare di ricordare la fine della Seconda Guerra mondiale, la vittoria sul nazismo, mentre il presidente russo Putin porta avanti scelte di aggressione e di guerra. Si presenta sempre più chiara l’alternativa tra multilateralismo e nazionalismi.

Non si deve  permettere agli eventi e all’angoscia che comportano di oscurare il frutto di una consultazione popolare dalla quale è emersa – insieme con la richiesta a gran voce di difendere la pace – una domanda di più Europa e non meno Europa, come sottolinea  Pier Virgilio Dastoli, presidente del Consiglio italiano del Movimento Europeo, che ha seguito tutto l’iter di un anno della Cofoe:

Prima di entrare nello specifico di alcuni temi, Dastoli sottolinea una richiesta emersa: istituire un eventuale meccanismo di feedback diretto da parte dei cittadini per monitorare i passi che si fanno sulle   questioni chiave. E’ una precisa novità. E poi Dastoli riferisce  che nonostante una partenza stentata e uno sviluppo in pieno periodo pandemico  la Conferenza sul Futuro dell’Europa   ha prodotto oltre 50 pagine di proposte suddivise in 49 paragrafi. Le diverse proposte– spiega – saranno acquisite attraverso la piattaforma predisposta dalla Commissione europea. Dastoli riconosce che si è trattato di un numero ovviamente esiguo di cittadini consultati, ma assicura che tanta gente si è sentita coinvolta e ha offerto pareri e proposte. Innanzitutto, sottolinea che innegabilmente emerge la richiesta di rafforzare l’impegno comune, di non abbandonare il sogno europeo. Si chiede di criticarlo – spiega – per migliorarlo, non certo per darlo per superato. Questo – sottolinea – è il dato essenziale. Un dato che di fronte alla guerra in Ucraina si è rafforzato.

L’importanza del capitolo energia

Volendo sottolineare alcuni punti chiave emersi nella sensibilità dei cittadini, Dastoli fa riferimento alla crescita sostenibile e all’innovazione. Non sono solo parole dei politici, anche la cittadinanza – precisa –  fa presente con vigore la necessità di affrontare le questioni della sostenibilità e dell’accessibilità  in termini economici  dell’energia. E la richiesta di  aumentare  la quota di energia proveniente da fonti sostenibili. Non è stato solo il panel dall’Italia a ribadirlo – racconta – ma lo hanno fatto con insistenza anche i panel   da Lituania, Germania, Paesi Bassi, Francia. Si chiede anche  di creare un quadro migliore per gli investimenti in ricerca e innovazione a favore di modelli aziendali più sostenibili e rispettosi della biodiversità, concentrandosi sulla tecnologia e l’innovazione intesi come motori della crescita. Ugualmente significativo – prosegue Dastoli – si è rivelato il contributo nel capitolo dedicato al rafforzamento della competitività dell’Unione completando e approfondendo ulteriormente il mercato unico, antico cavallo di battaglia del Governo italiano.  Che signfica anche – precisa – l’’esigenza di  ridurre la standardizzazione dei prodotti riconoscendo le peculiarità culturali e produttive locali e regionali, dunque  rispettando in pratica le tradizioni di produzione.

La priorità del lavoro

La bozza di conclusione della Cofoe – rileva Dastoli – non omette di occuparsi di politiche di occupazione integrate a livello di Unione europea. Ribadisce la necessità che le politiche attive del mercato del lavoro rimangano centrali e sempre più coordinate, lasciando agli Stati membri la facoltà di proseguire nei loro sforzi di riforma per creare condizioni favorevoli alla creazione di posti di lavoro di qualità. Sempre in tema di lavoro – prosegue – il documento finale recepisce integralmente le raccomandazioni dei panel dei cittadini italiani i quali hanno a gran voce chiesto di promuovere l’occupazione e la mobilità sociale, in vista di una piena possibilità di realizzazione personale e di auto determinazione. Molto articolato risulta il suggerimento sviluppato dall’Italia  in materia di parità di genere, in questo senso in linea con la strategia dell’unione 2025 si propone di continuare a misurare la parità di genere mediante un indice sull’uguaglianza di genere (atteggiamenti, divario retributivo, occupazione, leadership) monitorando la strategia annualmente ed essendo trasparenti nella pubblicazione dei risultati conseguiti, incoraggiando la condivisioni delle competenze e delle migliori pratiche non omettendo il possibile monitoraggio da parte dei cittadini.

Il bisogno di famiglia

Nella parte connessa alla transizione demografica, specifico oggetto di trattazione nel panel dei cittadini italiani, emerge la raccomandazione di migliorare la legislazione e la relativa attuazione per garantire il sostegno alle famiglie in tutti gli stati membri nello specifico per quanto riguarda il congedo parentale gli assegni di natalità e gli assegni familiari, l’individuazione degli strumenti rileva l’attenzione destinata all’argomento. Una raccomandazione ad hoc è poi destinata alla promozione dell’età pensionabile flessibile tenendo conto della situazione specifica degli anziani. Da notare che nel determinare l’età pensionabile si auspica di operare una differenziazione a secondo della professione tenendo conto dei lavori particolarmente impegnativi sul piano sia mentale che fisico.

Superare l’ipocrisia delle politiche fiscali

Viene sottoscritta – mette in luce Dastoli – la necessità, con alcune proposte formulate, armonizzare e coordinare le politiche fiscali nei Paesi dell’Unione. L’obiettivo che emerge è molto chiaro:   prevenire l’evasione e l’elusione fiscali, evitando la creazione di paradisi fiscali all’interno dell’Ue. E si chiede di aprire un dibattito particolare e serio sulla  delocalizzazione all’interno dell’Europa, che tanto ha a che fare con le diverse politiche fiscali.

Lavorare per il cessate il fuoco in Ucraina

Dastoli ricorda che non si può lasciar cadere nessuna possibilità di contribuire alla pacificazione. E’ un dovere dell’Europa – precisa – ed è quello che vogliono i cittadini. Non si deve parlare – raccomanda – solo delle mosse di guerra e delle armi inviate. Si devono sostenere iniziative  concrete. A questo proposito Dastoli ricorda la lettera che ha inviato in qualità di presidente del Movimento europeo in Italia   al Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antònio Guterres. Si tratta – chiarisce – del testo della petizione alle istituzioni europee in cui si sostiene la  richiesta di un immediato “cessate il fuoco” e si sollecita l’Assemblea generale dell’Onu a decidere di inviare in Ucraina delle forze internazionali di peacekeeping per garantire Il rispetto del “cessate il fuoco”.  Il presidente del Movimento europeo ha chiesto ad Antònio Guterres di sottomettere la petizione al presidente russo Vladimir Putin in occasione dell’incontro al Cremlino del 26 aprile. Sappiamo – ricorda – che non è stata accolta ma – aggiunge – non si deve smettere di lavorare in questa direzione.

La Dichiarazione Schuman

Il 9 maggio si ricorda la Dichiarazione rilasciata dall’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman il 9 maggio 1950, che proponeva la creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio, i cui membri avrebbero messo in comune le produzioni di carbone e acciaio. La CECA – di cui poi sono stati fondatori Francia, Germania occidentale, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo –  è stata la prima della serie di istituzioni europee sovranazionali che hanno condotto a quella che si chiama dal 1992 Unione europea. Nel 1950, le nazioni europee cercavano ancora di risollevarsi dalle conseguenze devastanti della Seconda guerra mondiale, conclusasi cinque anni prima. Determinati ad impedire il ripetersi di un simile terribile conflitto, i governi europei giunsero alla conclusione che la fusione delle produzioni di carbone e acciaio avrebbe fatto sì che una guerra tra Francia e Germania, storicamente rivali, diventasse – per citare Robert Schuman – “non solo impensabile, ma materialmente impossibile”. Un’iniziativa che sul territorio dei Paesi membri Ue ha dato i frutti di 70 anni di pace e che deve far pensare oggi a quanto sia fondamentale mettere in campo tutta l’inventiva e la creatività per difendere la pace.

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