Consiglio d’Europa: migranti, è emergenza minori non accompagnati

Piccolo migrante sul confine tra Ungheria e Serbia - AFPPiccolo migrante sul confine tra Ungheria e Serbia – AFP

Si allarga e in qualche caso si aggrava il fronte delle emergenza emigrazione: nel Canale di Sicilia, nella ‘giungla’ di Calais in Francia, ma anche sulla rotta balcanica. Fausta Speranza ne ha parlato con il rappresentante speciale del segretario generale del Consiglio d’Europa per le migrazioni e i rifugiati, Tomáš Boček, appena tornato da una missione in queste zone:

R. – Well, in the hotspot I went yesterday – I was in Pozzallo hotspot, where I think there are around 200 …
Nell’hotspot nel quale sono stato a Pozzallo, dove ci sono circa 200 posti, quello che mi ha colpito maggiormente è la stragrande maggioranza di minori non accompagnati. Gli hotspot sono concepiti per ospitare le persone al massimo per 24/48 ore, mentre lì le persone rimangono per molto più tempo: settimane se non addirittura mesi. E i luoghi non sono adatti a permanenze così lunghe, e in particolare non lo sono per i minori.

D. – Quali raccomandazioni presenterà alla fine della sua missione?

R. – My recommendations …
Le mie raccomandazioni dovrò scriverle con calma, ovviamente, e poi presentarle al Consiglio dei Ministri. Ma ciò che posso esprimere nell’immediato è che questi minori non dovrebbero essere ‘detenuti’, non dovrebbero trovarsi in questo luogo; dovrebbero esistere molte istituzioni in più, dedicate ai minori non accompagnati e ai minori come tali. So che il governo italiano ci sta lavorando, io ho verificato un approccio molto positivo alla ricerca di soluzioni: c’è una vera volontà di affrontare la situazione. Ma i numeri sono molto alti, e quindi l’unico modo che intravedo per poter veramente affrontare la situazione è la cooperazione con altri Stati: questo non è un problema solo italiano o greco; questo è un problema europeo.

D. – In realtà, di fatto, una questione internazionale…

R. – Yes … I am speaking now only from the European perspective; but in the whole … yes, yes. …
Sì, ora parlavo dalla prospettiva europea, ma nell’insieme, certo: questo è un problema della comunità internazionale, perché dovrebbe esserci solidarietà tra tutti i membri della comunità internazionale; e io aspetto la messa in opera e l’implementazione delle dichiarazioni a conclusione del Summit sui migranti che si è svolto a settembre a New York.

D. – Ci dice qualcosa di Calais, il campo di accoglienza nel nord della Francia, definito “la giungla”: un nome tristissimo…

R. – Yes, again: this is very much linked to the non-accompanied minors, because …
Anche qui, il problema è fortemente legato ai minori non accompagnati; quasi tutti vorrebbero essere ricollocati presso le famiglie che si trovano già in Gran Bretagna. Qualche passo avanti è stato fatto, anche se molto rimane ancora da fare.

D. – L’emergenza resta anche nel Mediterraneo centrale, nel Canale di Sicilia. Dopo l’Accordo tra Unione Europea e Turchia, parliamo di chiusura della rotta balcanica, ma in realtà i problemi non sono affatto risolti: non è così?

R. – You’re are talking about the horrific – I call it like this – and of course dramatic decrees …
Lei sta parlando di accordi orribili: in sé sarebbe positivo aver ridotto i flussi, ma sono accordi orribili – così come io li definisco – e drammatici, che riguardano un gran numero di persone. Ora che tante, tante frontiere sono chiuse, queste persone sono rimaste incastrate in quei Paesi, e quei Paesi non sono pronti a fare i conti con un numero così grande di profughi: e mi riferisco in particolare alla Grecia, che ospita ormai oltre 60 mila profughi, soprattutto sulle isole.

24 ottobre 2016

Ultime conduzioni a Radio Vaticana, prima dello stimolante passaggio all’Osservatore Romano.

Conduzione del GR ore 8.00 del 12 aprile 2016

Conduzione del GR ore 12.00 del 12 aprile 2016

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Bello raccontare che alcuni dei miei carissimi colleghi sono apparsi in regia con accendini accesi e sorrisi. Li ringrazio tutti per la simpatia e la stima e per aver voluto festeggiare con me con affetto, in vari momenti, 25 anni di lavoro alla Radio Vaticana

12 aprile 2016

Sanzioni alla Corea del Nord anche dalla Cina, alleato storico

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Soldato nord coreano a confine con Cina – AP

La Cina ha imposto restrizioni alle importazioni di carbone dalla Corea del Nord e alle vendite di carburante per aerei, in linea con le sanzioni Onu dopo i test missilistici e nucleari da parte di Pyongyang.  Dopo anni di progressivo allontanamento di Pechino, alleato storico, sembra proprio la prima presa di posizione dura a livello ufficiale. Fausta Speranza ne ha parlato con Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento:

R. – Questa è sicuramente una posizione diversa e più ufficiale delle altre anche perché l’atteggiamento del governo nord coreano, negli ultimi tempi, è diventato particolarmente aspro, particolarmente duro, con promesse di utilizzo di nuove armi che sicuramente preoccupano estremamente il governo di Pechino, e non soltanto chi è sotto la possibile minaccia della Corea del Nord, quindi il Giappone o la Corea del Sud. Ci sono state delle fughe di notizie su nuove armi, oltre a queste manifestazioni  spettacolari del leader nord coreano, che promette l’utilizzo di nuove armi nucleari miniaturizzate. Tutto questo sicuramente preoccupa il governo di Pechino, non solo a livello locale, ma internazionale, e lo ha portato ad intervenire direttamente.
D. – Si parla di carbone e di carburanti, ma quali sono i terreni di scambio tra Pechino e Pyongyang?
R. – Di preciso non lo sappiamo, perché naturalmente nel momento in cui si parla di sanzioni su generi alimentari, su carbone e così via, di sicuro c’è qualcos’altro. Ora, devo essere sincero e dire che la Cina dovrebbe comunque fare un piccolo esame di coscienza, perché se il governo nord coreano è arrivato a questo punto è anche perché negli anni passati c’è stata la condiscendenza di Pechino. E, in questo momento, Pechino è preoccupata, perché oltre a queste forniture legali – è comprensibile – probabilmente Pechino negli anni ha passato anche qualcos’altro.
D. – Legalizzato il “divorzio” – diciamo così – a questo punto quali possibili cambiamenti negli scenari ci possiamo immaginare?
R. – Ma, intanto, è di poche ore l’annuncio del Ministro della Difesa sud coreano secondo cui la Corea del Nord ha la possibilità di utilizzare un sistema missilistico multiplo con una gittata di 125 miglia. Soltanto per dare un’indicazione sul terreno, tra la zona smilitarizzata e la zona della grande Seoul – e intendo sia la città che i suoi dintorni, dove ci sono 26 milioni di persone – ci sono soltanto 35 miglia. Quindi se è vera questa notizia di questo sistema missilistico multiplo, buona parte della Corea del Sud sarebbe sotto minaccia. Questo, con gli annunci fatti negli ultimi tempi, costringe Pechino ad intervenire, costringe a costruire un nuovo rapporto e, possibilmente o probabilmente, attraverso canali riservati, attivi da anni, a minacciare la Corea del Nord per portarla a “miti consigli”.
D. – Ci dobbiamo aspettare, dunque, un maggiore sostanziale isolamento della Corea del Nord?
R. – Sicuramente sì, perché se l’alleato storico ha appena fatto non uno, ma anche due passi indietro mi sembra,  a questo punto la Corea del Nord deve fare i suoi calcoli. Certo, potrebbe essere una variabile impazzita, ma certamente deve fare dei conti estremamente razionali: se conviene andare avanti su questa linea.
da Radio Vaticana del 7 aprile 2016

Vertice su rischi nucleare a Washington: la Russia non partecipa

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Vertice sul nucleare – AFP

“In molti Paesi, il possesso di materiale nucleare per la vendita non è un crimine”: è quanto afferma il sottosegretario Usa al controllo delle armi, Rose Gottemoeller, mentre si svolge a Washington il Summit sulla sicurezza nucleare. Sono circa 50 i leader mondiali che vi prendono parte oltre ad alcune organizzazioni internazionali e l’Unione europea. Assente la Russia, uno dei nove Stati in possesso di bombe atomiche. Dell’assenza di Mosca e delle sfide più attuali e urgenti, Fausta Speranza ha parlato con Raffaele Marchetti, docente di relazioni internazionali all’Università Luiss:

R. – Certamente questa è un’assenza molto pesante dovuta ai dissidi, alle tensioni ancora molto forti fra gli Stati Uniti, l’Occidente e la Russia ed è un’assenza che in qualche modo pregiudica l’intero Summit: la Russia è un attore di primissimo piano all’interno della dimensione nucleare, degli armamenti nucleari e quindi la sua assenza non permette di raggiungere nessun tipo di risoluzione significativa. Da questo punto di vista, è una sconfitta per Obama.

D. – Tanti i temi da trattare. Dalle inchieste dopo i fatti di Parigi e di Bruxelles emerge che i terroristi spiavano le centrali nucleari. Dunque ci sono anche elementi di stretta attualità …

R. – Certo, l’attualità riguarda due temi. Da un lato, la questione nordcoreana che naturalmente è di grande preoccupazione, soprattutto per gli attori dell’area asiatica orientale, e, dall’altro, la questione del terrorismo. Ci sono indiscrezioni che confermano che alcune cellule stessero studiando le centrali nucleari in Belgio e questo naturalmente è fonte di grande preoccupazione. Le centrali nucleari hanno dei sistemi di protezione, però è anche vero che un attacco di tipo terroristico forse non era stato preventivato del tutto e quindi è necessario pensare ad un rafforzamento dei sistemi di sicurezza di tutti gli impianti nucleari. È chiaro che un attacco ad una centrale nucleare avrebbe conseguenze catastrofiche.

D. – Sicuramente questo incontro voluto da Obama a partire dal 2009 è per il terrorismo, ma ci si vuole occupare anche delle armi atomiche sviluppate dagli Stati. Su questo ci sono progressi?

R. – Certamente il progresso maggiore, il successo di Obama è l’accordo con l’Iran dell’autunno scorso. Quello è l’accordo più significativo che però ancora, ad esempio, non prevede la partecipazione dell’Iran a questo summit. Il Paese continua ad essere escluso. Quello è un successo. Invece i fallimenti, naturalmente, hanno a che vedere con la questione della Corea del Nord e con il raffreddamento generale del rapporto con la Russia.

D. – Archiviata la preoccupazione sul riarmo non convenzionale di Teheran, è la Corea del Nord a rappresentare la minaccia nucleare maggiore…

R. – Certo, è sicuramente il problema più importante, più significativo anche se non possiamo escludere, da una parte, che questo sdoganamento della questione iraniana spinga i suoi competitors locali – in primis l’Arabia Saudita – ad aumentare gli armamenti – cosa che già sta succedendo – e possibilmente anche pensare all’ipotesi nucleari. Dall’altra parte, sono preoccupanti anche le dichiarazioni di Trump candidato possibile, probabile, per i repubblicani alle presidenziali americane, il quale in un’intervista ha sostenuto che sia bene che la Corea del Sud e il Giappone si dotino di armi nucleari per bilanciare sia la Corea del Nord che la Cina. Naturalmente in questo scenario le affermazioni di Trump vanno sempre prese con molta cautela, ma se lui dovesse diventare presidente degli Stati Uniti, se questo fosse il nuovo indirizzo di politica estera americana riguardo gli armamenti in Asia orientale, certamente sarebbe un cambio radicale. Gli Stati Uniti non hanno mai sostenuto il riarmo nucleare della Corea del Sud e del Giappone e certamente aumenterebbe di molto la tensione nell’area.

da Radio Vaticana del 1° aprile 2016

Visita di Obama in Argentina, nel 40.mo del golpe militare

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Presidente Usa da presidente Argentina – Foto AFP

Il 24 marzo di 40 anni fa avveniva, in Argentina, il golpe militare che destituì il governo democraticamente eletto di Isabel Martínez de Perón, succeduta al marito, Juan Domingo Perón. Le diverse giunte militari, fino al 1983, hanno portato avanti una politica economico-sociale di tipo liberistico, di stampo fortemente nazionalistico e soprattutto macchiata da gravissime violazioni di diritti umani e crimini contro l’umanità. 30 mila le persone assassinate, definite, nel clima di segretezza, Desaparecidos, cioè “scomparsi”. Famigerati i “voli della morte”: migliaia di dissidenti politici, o ritenuti tali, gettati in mare vivi da appositi aerei militari. Proprio in questi giorni è in visita in Argentina il  presidente americano Barack Obama. Fausta Speranza ha intervistato Roberto Da Rin, del Sole 24Ore:

R. – 40 anni sono molti, indubbiamente, però, l’impatto e il seguito di questa drammatica fase storica si percepiscono ancora nella società argentina. 30 mila desaparecidos, oltre ad essere un patrimonio e una perdita umana devastante, sono anche una perdita civile, perché è stata cancellata una generazione, un’intera generazione, e probabilmente anche quella più propositiva, con più voglia di fare! La classe dirigente argentina ha patito l’amputazione di una parte così pulsante della società. Ecco perché c’è ancora attualità nella vicenda dei 30 mila desaparecidosscomparsi nel periodo compreso tra il 1976 e il 1983: quindi c’è una forte componente di attualità. Una società politica ancora mutilata, che paga a tutt’oggi le conseguenze di una mancanza.

D. – Tra polemiche e annunci vari, quale significato ha la presenza di Obama in questo anniversario in Argentina?

R. – Obama è venuto in questi giorni per portare la sua testimonianza e la sua presenza. Certamente, è un presidente completamente diverso da quelli che in quegli anni avevano di fatto appoggiato i regimi militari. Le polemiche sono derivate dal fatto che esisteva un “Plan Condor” – così chiamato – che raggruppava e coordinava le dittature più violente in Paraguay, Argentina, Brasile e Cile. E una delle teste pensanti del “Piano Condor” arrivava proprio dagli Stati Uniti. Molti, quindi, non hanno ancora deciso di perdonare gli Stati Uniti, per aver avuto una presenza non irrilevante nella gestione e nel coordinamento di queste dittature militari, dove i militari erano addestrati ad uccidere. Militari che hanno poi sterminato un numero incredibile di giovani. Ecco perché, ancora oggi in Argentina, ci sono ampie fasce della popolazione che guardano agli Stati Uniti con diffidenza, non solo per non avere ostacolato, ma per avere in qualche modo incentivato una repressione nel timore che si espandesse il “virus” del comunismo: questo era quello che si diceva.

D. – Gli Stati Uniti d’America che cosa potrebbero fare per una fase davvero nuova nei rapporti con l’America Latina in generale e in particolare con l’Argentina?

R. – Potrebbero fare molto, perché il continente americano – Nord e Sud – è un continente unico dal punto di vista propriamente geografico. Quindi, potrebbero attivare delle relazioni Nord-Sud che siano improntate più al dialogo, rispetto all’imposizione di alcuni trattati commerciali: questi ultimi, infatti, non sempre fanno gli interessi dei Paesi latinoamericani, e quasi sempre fanno esclusivamente quelli degli Usa. Ora però, sia il Brasile che l’Argentina sono dei Paesi che hanno acquisito e consolidato dei regimi democratici a dispetto delle crisi in corso e sono quindi interlocutori che si siedono al tavolo con gli Stati Uniti – in questo caso con Barack Obama – con più autorevolezza e meno sudditanza psicologica.

D. – Qual è il messaggio per la presidenza Usa che è emerso da Buenos Aires?

R. – Il messaggio è un messaggio di disponibilità e di apertura. Non dimentichiamo che negli ultimi 13 anni di governo, quelli dei coniugi Kirchner – prima di Néstor Kirchner e poi della moglie Cristina Fernández de Kirchner – non si è guardato agli Stati Uniti con molta simpatia. Questo deve essere detto e ricordato. Sul fronte delle politiche economiche e degli affari interni, hanno sempre gestito la propria politica cercando altri soci commerciali e imputando agli Stati Uniti ancora delle responsabilità non indifferenti. Ora, questo nuovo governo di Mauricio Macri, che si è insediato da alcuni mesi, sembra intenzionato a voltare pagina e ad offrire agli Stati Uniti una nuova apertura in termini di credibilità, disponibilità e dialogo economico e commerciale.

da Radio Vaticana del 24 marzo 2016

Il Papa all’Angelus: nessuna condizione umana esclude da Dio

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Il Papa all’Angelus – OSS_ROM

“Nessuna condizione umana può costituire motivo di esclusione dal cuore del Padre”: sono parole di Papa Francesco all’Angelus, in cui ricorda la Giornata dei malati di lebbra e saluta i ragazzi della Carovana della Pace, tradizionale appuntamento organizzato dall’Azione Cattolica. Il servizio di Fausta Speranza:

“L’unico privilegio agli occhi di Dio è quello di non avere privilegi”: così Papa Francesco, che a braccio aggiunge: “e non avere padrini”. Ricorda che l’unico privilegio per tutti è “di essere abbandonati nelle sue mani”. E poi il richiamo forte per ognuno:

“Dio viene incontro agli uomini e alle donne di tutti i tempi e luoghi nella situazione concreta in cui essi si trovano. Viene incontro anche a noi”.

E il richiamo chiaro all’oggi:

“L’oggi proclamato da Cristo quel giorno, vale per ogni tempo; risuona anche per noi in questa piazza, ricordandoci l’attualità e la necessità della salvezza portata da Gesù all’umanità..”

Il riferimento preciso è al brano evangelico in cui Gesù,  avviato alla sua vita pubblica, ritorna per la prima volta e si presenta alla sua comunità, riunita di sabato nella sinagoga. I concittadini reclamano prodigi ma Gesù risponde che  ‘Nessun profeta è bene accetto nella sua patria’ e si appella ai grandi profeti del passato:  Elia ed Eliseo  che – sottolinea Papa Francesco – “operarono miracoli in favore dei pagani per denunciare l’incredulità del loro popolo”.

Non è una semplice lite tra compaesani – spiega il Papa aggiungendo “come avviene nei nostri quartieri – ma è piuttosto un monito a quella che Papa Francesco definisce “una tentazione alla quale l’uomo religioso è sempre esposto, e dalla quale occorre prendere decisamente le distanze”.
“E’ La tentazione di considerare la religione come un investimento umano e, di conseguenza, mettersi a “contrattare” con Dio cercando il proprio interesse. Si tratta, invece, di accogliere la rivelazione di un Dio che è Padre e che ha cura di ogni sua creatura, anche di quella più piccola e insignificante agli occhi degli uomini”.

“Proprio in questo – chiarisce Papa Francesco – consiste il ministero profetico di Gesù: nell’annunciare che nessuna condizione umana può costituire motivo di esclusione dal cuore del Padre. E Francesco ci ricorda ancora una volta che “è sempre Lui che fa il primo passo: viene a visitarci con la sua misericordia, a sollevarci dalla polvere dei nostri peccati”…

“… viene a tenderci la mano per farci risalire dal baratro in cui ci ha fatto cadere il nostro orgoglio, e ci invita ad accogliere la consolante verità del Vangelo e a camminare sulle vie del bene. Ma sempre viene Lui a trovarci, a cercarci.”

Dopo la preghiera mariana, il pensiero del Papa alla Giornata mondiale dei malati di lebbra. Una “malattia – dice – che pur essendo in regressione, purtroppo colpisce ancora soprattutto le persone più povere ed emarginate”.

“E’ importante mantenere viva la solidarietà con questi fratelli e sorelle, rimasti invalidi a seguito di questo morbo. Ad essi assicuriamo la nostra preghiera e assicuriamo il nostro sostegno a quanti li assistono…. Bravi laici, brave suore, bravi preti.”

Poi il saluto “con affetto” a tutti i pellegrini, in particolare i ragazzi e le ragazze dell’Azione Cattolica della Diocesi di Roma! “Quest’anno – dice il Papa – la vostra testimonianza di pace, animata dalla fede in Gesù, sarà ancora più gioiosa e consapevole, perché arricchita dal gesto, che avete appena compiuto, del varcare la Porta Santa.”

Al messaggio letto dai ragazzi, che confessano paure per i conflitti ma che promettono anche un impegno pieno per la pace, l’incoraggiamento del Papa: “Vi incoraggio – dice – ad essere strumenti di pace e di misericordia tra i vostri coetanei!”.

Il lancio dei palloncini, simbolo di pace. Da ultimo, la richiesta  alla quale Papa Francesco ci ha abituati ma che sempre tocca il cuore: “per favore non dimenticatevi di pregare per me”.

Da Radio Vaticana del 31 gennaio 2016

Immigrazione: la testimonianza dei profughi in Ungheria

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Migranti in marcia dall’Ungheria verso l’Austria – AP

Negli ultimi tre giorni la Guardia costiera greca ha tratto in salvo 922 migranti che cercavano di raggiungere clandestinamente le isole dell’Egeo dalla vicina costa turca. I salvataggi sono stati realizzati nel corso di 32 operazioni da venerdì. Dall’inizio dell’anno oltre 250 mila migranti hanno attraversato la Grecia. Stamani, la nave Cigala Fulgosi, della Marina militare, ha soccorso un gommone carico di migranti nel Canale di Sicilia: 105 le persone recuperate. Intanto non si ferma il flusso sulla rotta balcanica, come ci conferma la nostra inviata in Ungheria, Fausta Speranza, al seguito della delegazione di parlamentari italiani con l’eurodeputata Silvia Costa:

“We had to run away from the killing and the bombs…”

Uccisioni e bombe, racconta Said da Baghdad, più di quelle che riportano i media. E gli uomini del sedicente Stato islamico che volevano arruolarlo: “Volevo cercare una nuova vita – ci dice – perché a Baghdad c’è gente che uccide con autobombe, terroristi che uccidono la gente con i fucili o le pistole … succede di tutto. Sono scappato perché hanno cercato di uccidermi. Quelli dell’Is mi hanno detto: ‘Vieni a combattere con noi’. Ma io ho risposto: ‘No, non posso, perché quelli uccidono gente innocente’. E loro hanno iniziato a perseguitarmi e così sono scappato in Turchia e da lì in Grecia e da lì ancora sono arrivato qui. La mia famiglia è scappata in Turchia: spero di riuscire a portarli via dalla Turchia quando arriverò nel Paese nel quale potrò fermarmi”.

“Purtroppo – ci dice – ora non posso chiamarli, perché non ho una sim. L’avevo comprata in Turchia, ma qui non funziona. Spero di arrivare a Vienna e lì posso trovare una sim per chiamarli e avvisarli che sto bene e sapere se stanno bene anche loro, ringraziando Dio”.

Said racconta che ha dovuto pagare una persona per poter scappare dalla Turchia verso la Grecia, via mare: “Avevamo paura di affondare. Abbiamo pagato il passaggio in treno dalla Macedonia e il passaggio in Serbia e qualche taxi. Mi è costato dalla Grecia fino ad Atene 60 euro e da Atene fino alla Serbia ancora 60 euro e dalla Serbia alla Macedonia 10 euro; poi abbiamo pagato 50 euro per passare e in Macedonia abbiamo preso il treno e abbiamo pagato 50 euro. Ma non c’era posto seduti, e così abbiamo fatto il viaggio in piedi: un viaggio così lungo … siamo stanchi … Ho lasciato l’Iraq, e siamo stati in viaggio nove giorni”.

“In questo momento – dice Said – sono felice ma soprattutto sollevato, perché avevamo paura di quello che sarebbe potuto succedere in Ungheria: temevamo che avrebbero preso le nostre impronte digitali e non ci avrebbero fatto uscire dal Paese. Ma quando sarò arrivato a Vienna, sarà tutto a posto. Sono arrivato in Grecia vivo. Il secondo giorno, 30 barche sono affondate nel mare e molta gente è morta. Chiediamo al governo turco di aiutarci, non di perseguitarci per farci tornare nel nostro Paese. Ho un amico che stava fuggendo dalla Turchia: l’hanno preso e l’hanno rimandato a casa. Se io torno a casa, sono morto perché ci stanno aspettando per ucciderci!”.

Dunque, tante storie sui volti delle 10 mila persone che abbiamo visto arrivare in due giorni a Beremend, al confine croato, e che poi abbiamo visto accompagnare sugli autobus verso l’Austria, a Egyelshalom. Tante storie simili: uomini, donne, bambini da Siria e Iraq, chiedono sim telefoniche che funzionino in Europa e wifi per orientarsi. Viaggi di una decina di giorni, faticosissimi. La risposta dell’Ungheria è il muro già costruito con la Serbia, quello in costruzione con la Croazia. Ma Marco Monguzzi, della Croce Rossa Europa, ci parla delle prossime, nuove frontiere di passaggio:

“Sono probabilmente la Romania, la Bulgaria, il Montenegro e l’Albania. Con tutti questi Paesi, la Croce Rossa sta lavorando per prepararsi: una delle nuove grosse sfide sarà l’imminente inverno, perché il passaggio tra Bodrum e le prime isole del Mare Egeo – Kos, Lesbos – è molto breve. E questo potrebbe non avere uno ‘stop’ come succede solitamente durante l’inverno tra Libia e Italia”.

da Radio Vaticana del 28 settembre 2015

Summit Asia-Africa: i due continenti sempre più vicini

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partecipanti a vertice Asia Africa  (foto REUTERS)

Sono 77 i Paesi rappresentati al vertice Asia-Africa, in corso da lunedì a Giakarta in Indonesia. Di questi almeno 34 partecipano al massimo livello, attraverso capi di Stato o di governo. Tema dell’incontro: “Realizzare una partnership asiatico–africana per il progresso e la prosperità”. Il presidente indonesiano, Joko Widodo, che ha aperto i lavori, ha esortato gli Stati a varare legislazioni più favorevoli alle imprese. Il vertice si svolge a 60 anni dalla prima conferenza dei Paesi d’Africa e d’Asia che si svolse nel 1955 nella città indonesiana di Bandung. Per capire novità e prospettive di oggi, Fausta Speranza ha intervistato Antonello Biagini, docente di Internazionalizzazione all’Università La Sapienza di Roma:

R. – Il fatto che si tenti una sorta di visione univoca dei problemi potrebbe rappresentare una grande innovazione, soprattutto nella politica internazionale di questa nostra fase, che per molti aspetti è estremamente confusa e manca quasi di una leadership mondialD. – Quando diciamo “partnership” diciamo innanzitutto il piano economico o il piano politico?

R. – In questo caso all’ordine del giorno mi sembra che ci siano temi che riguardano l’aspetto dello sviluppo, che è il tema principale per questi due Continenti. E su questo non c’è alcun dubbio. La grande presenza della potenza economica della Cina, che cammina ormai a livelli di sviluppo a doppia cifra, anche se c’è una parte di rallentamento; l’India, che è un’altra grande realtà; ma poi tutto il resto dell’Asia: la Corea; lo sviluppo che c’è nel Vietnam in questa fase. Quindi, sono Paesi in forte crescita. Dall’altro, nella stessa Africa si registrano, al di là delle complessità, dei problemi che abbiamo sull’Africa a nord del Sahara, anche nel resto dell’Africa negli ultimi anni si sono registrate delle forme di ripresa, di riorganizzazione. E riorganizzare l’economia in qualche modo significa anche riorganizzare la politica. Poi, il problema dei due processi è quale deve avvenire prima. Per certi aspetti, gli accordi politici potrebbero mettere in moto poi le sinergie positive per l’economia. Però, mi sembra che in questo caso il primo elemento sia un’idea di relazioni internazionali che coinvolgano due grandi soggetti che,  storicamente, o appartenevano ai Paesi non allineati oppure erano Paesi a sviluppo bloccato per certi aspetti, perché ancora subivano le conseguenze o della decolonizzazione o del post-colonialismo, cioè la prima fase dell’indipendenza che molto spesso è stata turbolenta. In alcuni casi ci sono stati conflitti veri e propri come nel caso del Vietnam, tanto per ricordare quello che più o meno tutti ricordano. Ma anche in Corea, la stessa Corea che ancora oggi è divisa: è il prodotto di un grande conflitto che era anche ideologico, che era anche di sistema politico e in parte lo è ancora.

D. – Chi si siede davvero al tavolo quando parliamo di vertice “Africa – Asia”? Da una parte c’è l’Unione Africana, dall’altra c’è la Cina? Chi sono gli interlocutori veri?

R. – Sicuramente la Cina ha un ruolo preponderante in questo caso. I cinesi hanno dichiarato che il XXI secolo sarebbe stato il secolo della Cina. Ora, al di là dell’affermazione che può sembrare ridondante, ci sono alcuni elementi, sia della crescita economica, ma direi anche delle posizioni che la Cina assume in politica estera, che sono veramente calibrati sul ruolo di una grande potenza. Sul versante africano, sicuramente hanno peso Paesi all’interno dell’Unione Africana: io penso ad esempio sicuramente al Sud Africa, che fino all’altro ieri rappresentava una realtà importante di come anche si potesse gestire un passaggio da una situazione coloniale o semi-coloniale o comunque di apartheid a una situazione invece completamente nuova e diversa, salvo che questi ultimi giorni abbiamo visto scontri sociali. Poi, certo, ci sono i grandi Paesi dell’Africa: possiamo pensare al Kenya, che però in questa fase ha dei problemi. Ci sono altri grandi Paesi africani come la Nigeria stessa, il Mozambico: ci sono Paesi che rappresentano delle realtà estremamente interessanti. Come dicevo prima: l’Unione Africana in qualche modo è una cornice che tiene insieme molti di questi Paesi, quindi formalmente sarà l’interlocutore. Poi, dietro questo, bisognerà aspettare e capire anche in base ai risultati di questi primi lavori, verso quale direzione potrà andare questa nuova modalità di interpretare la politica  tra due aree continentali completamente diverse. Il punto centrale è che si sta bypassando gli interlocutori storici per certi versi, che erano: da un lato, i Paesi dell’Europa e, dall’altro lato, gli Stati Uniti. Anche un po’ la Russia ma la Russia è sempre entrata poco nel gioco africano. È stata più attenta alla contiguità territoriale in Asia, piuttosto che spingersi in Africa, salvo il caso dell’Egitto tanti anni fa. Insomma non ha avuto mai questa grande presenza in Africa e nel mondo africano.
Trasmissione del Radiogiornale della Radio Vaticana del 22 aprile 2015

Cooperazione contro Is: a Washington vertice antiterrorismo

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Obama al vertice antiterrorismo
A Washington, il vertice internazionale contro il terrorismo. Partecipano almeno 15 governi tra cui la Giordania. Ieri, nella giornata ministeriale preparatoria, Obama ha chiesto di “amplificare le voci di pace, tolleranza e inclusione, soprattutto online”. E ha sottolineato: “Non siamo in guerra con l’Islam, ma contro gente che ha tradito l’Islam”.  Ma per saperne di più, Fausta Speranza ha raggiunto telefonicamente a Washington, Khalid Chaouki,  parlamentare italiano e musulmano che partecipa ai lavori:

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R. – Al vertice vivo un po’ direttamente quelle che sono le ansie non solo dell’amministrazione americana e del presidente Barak Obama ma di tantissimi Paesi che al di là della collocazione geografica vivono questo momento con grande paura, ma soprattutto con la voglia di trovare insieme delle parole chiave diverse: il terrorismo e l’estremismo non possono mettere in ostaggio la nostra civiltà. E lo spirito qui a Washington è proprio quello di riuscire a superare questa fase rilanciando un futuro di speranza con parole chiave positive e soprattutto verso i giovani, in modo di non lasciarli ostaggi di questa propaganda molto pericolosa. Oggi abbiamo bisogno di mostrare ottimi esempi di convivenza. Per farlo occorre rendere molto visibile la testimonianza dei leader musulmani, delle storie di coraggio che isolano ed hanno isolato l’estremismo. Quindi, serve davvero un’alleanza tra i popoli tra le comunità: in questo, il ruolo dei musulmani è sicuramente fondamentale.

D. – Si è parlato anche di contropropaganda alla propaganda del terrorismo soprattutto online …

R. – Sì, c’è stata una sessione molto interessante di confronto con i massimi soggetti che oggi gestiscono la comunicazione online, le grandi società ma anche esperti mondiali. Oggi l’idea è quella di incentivare una risposta molto più accattivante, molto forte e molto innovativa, studiare anche una rete di giovani soprattutto, che già oggi possa reagire, rispondere in modo ancora più efficace a questa propaganda che, – appunto volutamente – usa le nuove tecnologie perché il suo target è composto da giovanissimi non solo nel mondo arabo musulmano, ma purtroppo anche tra i figli delle comunità islamiche in Occidente.

D. – Il concetto che non siamo in guerra con l’islam è stato sottolineato, però dobbiamo mobilitare tutti contro il terrorismo. Come farlo? E con quale sensibilità, visto che lei è musulmano …

R. – La dichiarazione di Barak Obama non era scontata ed è importante. Non possiamo regalare ai terroristi l’etichetta di “musulmani”. Purtroppo, c’è questo gruppo terroristico che si rifà all’islam ma abbiamo bisogno di distinguerli e di dare fiducia i milioni di musulmani diversi dall’Is che vivono oggi in questo mondo nella regione mediorientale. È molto importante offrire occasioni di cooperazione e far capire ai giovani che può esserci un futuro diverso dalla scelta di rifugiarsi nell’estremismo. E’ importante far capire ai giovani che ci sono oggi occasioni per i giovani musulmani di costruire insieme all’Occidente un futuro di cooperazione e di sviluppo positivo, di individuare i valori comuni che ci sono e che vanno resi ancora più forti. In questo senso non bastano le parole come in passato. Il messaggio qui da Washington è quello di cercare di individuare i momenti concreti di cooperazione soprattutto tra i giovani coinvolgendo le università, le associazioni, le società civili. E si vuole ribadire che l’estremismo non può essere combattuto solo con le guerre: non sono sufficienti e non potranno bastare. Dobbiamo semmai eliminare qualsiasi alibi dall’interno della propaganda e soprattutto lavorare in positivo perché altrimenti faremo gli errori del passato.

D. – È forte l’orrore che vediamo. È forte anche la risposta?

R. – Deve essere forte. La verità è che siamo ancora in una fase di shock. La risposta deve essere intelligente, non solo emotiva. Quindi l’obbiettivo di questo summit è quello di capire come, insieme ai governi, elaborare una strategia a medio e lungo termine. Altrimenti il rischio è quello di alimentare quelle risposte emotive e creare nuovi terreni di radicalizzazione. E soprattutto si rischia di costruire delle fratture con le società musulmane che oggi, invece, devono essere il nostro massimo alleato in questa battaglia.
dal radiogiornale di Radio Vaticana del 19 febbraio 2015