Arabia Saudita: blogger condannato a 10 anni e 1000 frustate

Sit-in, oggi, di fronte all’Ambasciata dell’Arabia Saudita a Roma per chiedere l’annullamento della condanna a 10 anni di carcere e a 1000 frustate inflitta a Raif Badawi, il blogger dissidente giudicato colpevole di aver offeso l’Islam sul suo forum online “Liberali dell’Arabia saudita”. A organizzare l’appuntamento è  stata Amnesty International Italia, con il supporto della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi) e l’associazione per la libertà di stampa Articolo 21. È previsto che le 1000 frustate siano eseguite con scadenza settimanale, 50 per volta. Le autorità saudite hanno reso noto che la seconda serie, dopo quella di venerdì scorso, avverrà domani16 gennaio, in una pubblica piazza di Gedda. Fausta Speranza ha intervistato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia:

R. – Il governo di Riad da un lato difende la libertà di espressione dei giornalisti di Charlie Hebdo massacrati a Parigi ma, dall’altro, condanna a mille frustrate un blogger dissidente che non ha fatto altro che esercitare il suo diritto alla libertà di espressione. Lo fa con una gogna, abbiamo visto la prima serie di frustrate inflitte venerdì scorso e la seconda rischia di essere inflitta tra poche ore.

D. – Qual è la colpa di questo giovane, che cosa ha detto in sostanza?

R. – Ha fatto qualcosa che è assolutamente legittimo: ha organizzato online un sito, un forum, per una discussione su vari aspetti, compresa ovviamente la religione. Ha criticato lo zelo con cui la polizia religiosa persegue comportamenti non conformi, non consentiti; ha detto che le religioni sono uguali e che è possibile, anche in un Paese governato dalla legge islamica, professare altre fedi. Non ha fatto nient’altro che esercitare un diritto fondamentale, esprimendo le sue idee online, creando un dibattito nel Paese. Questo ha dato fastidio alle autorità.

D. – Che cosa sappiamo dell’eco tra la gente in Arabia Saudita?

R. – Molto poco! L’unica eco che abbiamo constato, dalle testimonianze oculari, sono le grida “Dio è grande” quando è terminata l’esecuzione delle 50 frustrate. Ricordo che avvengono in piazza, in luogo pubblico, alla fine della preghiera del venerdì, di fronte alla moschea della città di Gedda. E’ come se con quel castigo, quella gogna, le persone intorno abbiano creduto che quell’uomo fosse stato, in qualche modo, purificato.

D. – Sullo sfondo c’è una situazione più ampia di difficoltà in tema di diritti umani in Arabia Saudita…

R. – Non c’è dubbio. Pensiamo che l’avvocato di Raif Badawi si è visto inasprire la condanna da 10 a 15 anni in appello all’inizio di questa settimana, pensiamo che ci sono leggi antiterrorismo assolutamente vaghe e formulate in modo da impedire anche l’espressione del dissenso pacifico e poi pensiamo che ci sono avvocati, attivisti per i diritti umani e organi di monitoraggio indipendente, che sono falcidiati da arresti e condanne su base mensile…

D. – Che cosa dire del possibile intervento della Comunità internazionale?

R. – Ci sono state delle proteste abbastanza blande, devo dire. I governi che hanno rapporti politici, economici e anche militari con l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti in particolare, hanno espresso una condanna, però evidentemente non è bastata. Bisogna fare molto di più! Il rischio è duplice: da un lato, che la pressione dei governi non fermi questa ignobile pratica delle frustrate, dall’altra che magari ci riesca ma che ci si fermi lì e che il caso di Raif Badawi finisca nell’oblio. Speriamo che al più presto siano terminate le frustrate, ma comunque scatterà la condanna a dieci anni di carcere.

D. – Ma non ci sarebbero sedi internazionali in cui discutere casi come questi, o comunque le problematiche che ci sono dietro?

R. – Sarebbe certamente possibile se i diritti umani fossero un argomento di costante attenzione e non un tema da usare quando fa comodo, e quindi da usare contro il nemico di turno o da dimenticare invece quando si tratta degli amici di turno. Purtroppo così non è! Il paradosso è che al centro di questa situazione c’è un Paese che con l’Occidente ha rapporti molto importanti.
dal Radiogiornale della Radio Vaticana del 15 gennaio 2015

Unicef: 230 milioni di bambini vittime di orrori nel 2014

bambini

230 milioni di bambini vivono attualmente in Paesi e aree colpite da conflitti armati e ne restano vittime: è quanto denuncia l’Unicef  sottolineando che troppo spesso vengono dimenticati dalle cronache. Il servizio di Fausta Speranza:

In Repubblica Centrafricana, Iraq, Sud Sudan, Stato della Palestina, Siria e Ucraina, 15 milioni di bambini in questi mesi sono stati coinvolti direttamente in conflitti violenti. Uccisi, reclutati con la forza, individuati deliberatamente come obiettivi da gruppi combattenti. Nella migliore delle ipotesi, piccoli orfani sfollati, rifugiati. Un orrore inaccettabile. E – denuncia l’Unicef – di intollerabile c’è anche che molte di queste crisi non catturano più l’attenzione del mondo. Nonostante che in alcune zone la violenza si sia triplicata rispetto all’anno precedente. Ma se questi sono i conflitti armati più palesi, orrore e disperazione accompagnano le tante aree di conflittualità che nel 2014 si sono inasprite. Anthony Lake, direttore generale dell’Unicef, è chiaro: in tutto il mondo, 230 milioni di bambini sono stati uccisi mentre erano nelle loro classi a studiare o mentre dormivano nei loro letti. O sono stati rapiti, mentre giocavano o andavano a scuola, torturati, reclutati, violentati e perfino venduti come schiavi. L’Unicef cerca di gridarlo al mondo: mai nella storia recente – afferma Lake – così tanti bambini sono stati soggetti a brutalità così terrificanti. E il punto è che in alcuni territori, la violenza è cronicizzata, tanto che da tempo non sono più nelle cronache: Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria, Pakistan, Somalia, Yemen. Nel raccontarlo, facciamo un elenco di Paesi e di brutalità, impossibile citare i nomi dei bambini che invece vorremmo nominare uno per uno, perché almeno alla storia di ognuno sia restituita la dignità di esistere.

Ma se il dramma delle condizioni dei bambini nel mondo si aggrava, avviene invece che faccia sempre meno notizia, come afferma, nell’intervista di Fausta Speranza, Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia:

R. – Non fa più notizia. E proprio quest’anno in cui celebriamo i 25 anni della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, questa affermazione è sempre più pesante e dolorosa. Questa Carta, che è stata ratificata da 194 Paese e che comunque ha portato grandissimi cambiamenti nella vita dei bambini, purtroppo oggi è una Carta ancora molto violata. E proprio il tema dello stupro, del reclutamento dei bambini soldati che fa parte dei Protocolli opzionali proprio di questa Carta, rappresenta uno dei più grandi sfregi che i bambini del mondo oggi subiscono. Non dimentichiamo che ci sono ancora 250 mila bimbi che vengono reclutati: moltissimi di loro, con l’avvento di Isis, si trovano a vivere in condizioni difficili e non soltanto con i fucili in mano – lo voglio ribadire! – ma vengono utilizzati come cuochi, come portantini… Assistono purtroppo a decapitazioni, ad uccisioni, a flagelli. Inoltre vengono utilizzati e questa – io lo chiamo il “reclutamento 2.0” – è la grande novità di questi tempi: è quello di bambini utilizzati sui social media, utilizzati attraverso telecamere, attraverso youtube da gruppi estremisti per fare propaganda. Tutto questo è inaccettabile! Questo è davvero inaccettabile proprio nell’anno in cui noi celebriamo i 25 anni della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Il trattato più ratificato del mondo, ma – diciamolo –  forse anche il più violato!

D. – In particolare che cosa dire delle aree di conflitto più note, però sembra anche dimenticate: Centrafrica, Sud Sudan, Iraq, Palestina, Siria, Ucraina?

R. – Una situazione davvero incredibile. Faccio l’esempio dei bambini di Gaza, che vivono in questo momento un inverno difficilissimo: questa guerra ne ha colpiti circa 58 mila; ne sono morti 540 e ne sono risultati feriti 3.000. Per non parlare di quello che accade in Siria, dove c’è una guerra che dura da 4 anni: di fatto 7 milioni di bambini sono colpiti da questo conflitto e – non dimentichiamolo – un milione e mezzo sono rifugiati. Noi parliamo di un conflitto vicino, quello del Medio Oriente, ma non possiamo dimenticare la Repubblica Centrafricana: ci sono due milioni e mezzo di bambini coinvolti in un conflitto che dura ormai da anni e purtroppo evidenze di 10 mila bimbi reclutati da gruppi armati. Oppure il Sud Sudan, una nazione che, tra l’altro, ha una vita molto breve, perché è nata qualche anno fa: si stima che ci stiano 235 mila bambini sotto i cinque anni che hanno problemi grandissimi di malnutrizione acuta grave e anche qui migliaia – 750 mila – sono i bambini sfollati. Sembra un quadro infernale, ma purtroppo avviene vicino e lontano da noi nel silenzio generale. Noi possiamo dire con forza che questo è stato un anno devastante!

D. – Se ne parla meno, ma anche in Ucraina i bambini sono state vittime…

R. – E’ emblematica! Non ci dimentichiamo che ci sono bambini sfollati, che ancora hanno bisogno di assistenza: molti sono rimasti orfani, qualcuno è stato vittima di violenza; molti di loro si trovano spesso a vivere in ripari di fortuna, in condizioni climatiche chiaramente molto difficili, con casi di malnutrizione acuta che cominciano a verificarsi. Hanno bisogno chiaramente di assistenza e – questo è forse l’evidenza maggiore – hanno enormi problemi igienico-sanitari collegati a questo status.

D. – Se ci sono crisi come quelle in Iraq, Centrafrica, Palestina, Siria, che sono state sulle cronache per alcuni mesi o settimane e poi sono state dimenticate, ce ne sono altre che da anni un po’ dimentichiamo: Nigeria, Congo, Somalia, Yemen, Afghanistan… E’ così?

R. – Sì, è così! Prendiamo una per tutte, quella della Nigeria, un Paese che qualche mese fa avevamo tutti inneggiato al successo perché era diventata una delle prime economie di tutta l’Africa: purtroppo nel Nord ci sono ancora delle situazioni di guerriglia molto forti; non dimentichiamo che Boko Haram fa attentati praticamente ogni giorno. Abbiamo lanciato la campagna “Bring Back Our Girls”, ma non se ne parla più, invece ci sono ancora rapimenti, di maschi, femmine, bambini. Prosegue la distruzione delle scuole, le uccisioni violente fatte fermando pullman sono all’ordine del giorno e colpiscono un Paese purtroppo ancora dilaniato, perché il Nord – come sappiamo – è nelle mani dell’estremismo islamico.

da Radio Vaticana del 9 dicembre 2014

Denis Mukwege: ginecologo congolese

Denis Mukwege: mondo inerte di fronte a stupri come arma di guerra

“In un mondo di inversione di valori, rifiutare la violenza significa essere dissidente”: con queste parole Denis Mukwege, medico ginecologo congolese, ha ricevuto al Parlamento Europeo il Premio Sakharov, attribuito a chi si distingue nella difesa dei diritti umani. Mukwege denuncia l’uso dello “stupro come l’arma più economica di guerra”. Da 16 anni, Mukwege opera nell’ospedale Panzi a Bukavu ed ha assistito alcune delle migliaia di donne stuprate nella Repubblica del Congo in quella che definisce “una situazione formale né di guerra né di pace, ma di autentica impunità”. La sua è una denuncia forte e coraggiosa. La nostra inviata Fausta Speranza lo ha intervistato:

R. – Lorsque on parle du viol comme arme de guerre, j’ai l’impression que beaucoup de gens pensent que …
Quando si parla di stupro come di un’arma di guerra, ho l’impressione che molti pensino che si tratti di un rapporto sessuale non consenziente. Io penso che già un rapporto sessuale non consenziente distrugga profondamente la vittima. La gente non si rende conto della forza dell’azione compiuta, quando una donna è non solo stuprata collettivamente, davanti ai suoi figli, a suo marito, alla sua comunità, ma oltre a questo riporta anche ferite all’apparato genitale: tutto questo significa anche devastare la sua umanità, trattarla come un animale. E penso che se oggi ancora non ci sono prese di posizione serie nei riguardi di queste azioni è perché nella testa della gente c’è una grande confusione: si confondono questi atti di barbarie con un rapporto sessuale, e queste sono due cose completamente diverse! Io credo che si debbano tenere separati questi due aspetti.

D. – Cosa può fare il mondo?

R. – Aujourd’hui je pense que le monde n’a pas encore utilisé tous les leviers en sa possession pour …
Penso che il mondo non abbia ancora azionato tutte le leve di cui dispone per mettere fine a questa situazione. Ho detto che c’è un grande problema di educazione. Oggi ci si può rendere conto che coltivare quella mascolinità, che io definisco negativa, che fa sì che l’uomo, crescendo, pensi che la donna non gli sia eguale, sia di per sé molto pericoloso. E questo si può fare già a livello locale. Io credo che non sia raro trovare in ogni cultura una mamma che dica al suo bambino, quando cade: “Non piangere, sei un maschietto!”. Ma che vuol dire, questo? “Non fare questo: tu sei un uomo!”: cosa vuol dire, questo? Credo che significhi semplicemente che “sei un uomo e quindi devi essere diverso, non hai diritto a provare emozioni, non hai il diritto a manifestare quello che sei” … Credo che si possano operare tanti cambiamenti, già a livello locale. Ho raccontato che in Africa, nella mia tribù, siamo stati capaci – per esempio – di eliminare l’incesto, e tutti sanno che l’incesto è un tabù. E allora, perché non si può considerare anche lo stupro come un tabù? Perché oggi si permette alle persone che hanno commesso degli stupri di girare per l’Europa senza sentirsi preoccupati? Ci sono tante cose che si potrebbero fare: sul piano diplomatico, politico, economico e finanziario … Si possono congelare i beni di coloro che hanno commesso questi crimini. Bisogna rafforzare le competenze dei tribunali internazionali perché possano trattare di questi crimini. Ci sono tante cose che si potrebbero fare e che invece non sono ancora state fatte. Credo che noi abbiamo bisogno anche dell’intervento del Parlamento Europeo, abbiamo bisogno che gli europei ci sostengano in questa lotta.

D. – Com’è la vita di una donna stuprata?

R. – Penso che ogni donna stuprata abbia la propria storia e che ciascuna storia sia altrettanto dura e difficile da vivere come la storia successiva … C’è stato un momento in cui ho pensato di avere ormai ascoltato e visto il peggio del peggio, mentre mi sorprende il fatto che con ogni nuovo caso scopro che c’è sempre di peggio rispetto a quello che avevo già visto, al punto che quando mi si chiede di raccontare una delle peggiori storie, mi chiedo da quale incominciare. Ho conosciuto una donna che era venuta in ospedale perché era incinta. E lei ci ha raccontato la sua storia. Quando era stata catturata per essere ridotta in schiava del sesso, tutta la sua famiglia era stata trucidata da quegli assassini. Rimase sola al mondo. Quando arrivò all’ospedale, portava in grembo il frutto di chi le aveva sterminato la famiglia. Ha partorito un mese dopo e mi disse: “Non posso vivere con questo figlio, perché ogni volta che lo guardo mi si ripresenta l’immagine della mia famiglia scomparsa, mi viene in mente che oggi sono sola … e guardare un bambino che mi ricorda tutto questo, mi fa male. Ma questo bambino è assolutamente innocente: non ha partecipato …”. E puoi solo lontanamente immaginare quale dramma possa vivere una donna …

D. – Lei ha detto che gli stupri sono un’arma di guerra. Ma in questi 21 anni di suo impegno per queste donne, non è cambiato niente?

R. – Ça fait 16 ans que je travaille avec ces femmes. Ce que je vois c’est beaucoup plus le …
Sono 16 anni che lavoro per queste donne. Quello che rilevo in particolare è piuttosto il cambiamento del metodo o della tattica, ma in definitiva credo che questa forma di violenza continui e che purtroppo, siccome l’impunità è ormai affermata, accade che chi compie questi stupri continui a farlo nella piena impunità. Anche se ad oggi si può osservare una diminuzione quantitativa, è però aumentata la gravità delle lesioni.

 

Dopo le tensioni a Gerusalemme, rimane emergenza a Gaza

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La parte est di Gaza City – REUTERS

“Coloro che hanno rinunciato a cercare di fare la pace” non sono “patrioti”. Così l’ex presidente israeliano Shimon Peres, ieri sera a Tel Aviv davanti a 10 mila persone che hanno ricordato Yitzhak Rabin, il premier dello Stato ebraico assassinato 19 anni fa, il 4 novembre 1995. La commemorazione giunge dopo le tensioni di questi giorni a Gerusalemme, a seguito dell’uccisione da parte della polizia dell’attivista palestinese Mutaz Hijazi. Quest’ultimo era sospettato di aver sparato all’ultra nazionalista Yehuda Glick. Nelle ultime ore è stata riaperta la Spianata delle Moschee. Intanto si aggrava la situazione umanitaria a Gaza, sempre più isolata. Dopo la chiusura da parte dell’Egitto del valico di Rafah, Israele ha deciso di bloccare anche Erez e Kerem Shalom. “Una violazione del cessate il fuoco”, secondo Hamas. La Striscia è in ginocchio dopo i 52 giorni di raid compiuti dallo Stato ebraico quest’estate. Sono 500 mila i palestinesi rimasti senza casa. Per capire meglio bisogni e urgenze, a Gaza City si è recato nei giorni scorsi un gruppo dell’Associazione Santina Zucchinelli. Fausta Speranza ha intervistato la volontaria Caterina Piantoni:

R. – Ho visto che c’è disponibilità da parte sia della Croce Rossa, sia degli ospedali dell’Onu. Certo, andando in giro per Gaza, si vedono tantissimi mutilati: è una carneficina. Ce ne sono ovunque: zoppi, senza braccia, senza gambe… Ho notato che molti sono senza arti inferiori e con ferite all’addome.

D. – Che cosa dire dello stato d’animo della popolazione?

R. – Un disastro, atroce. La città è distrutta, non c’è niente. Non si fa fatica a cercare un edificio distrutto: sono tutti distrutti. Non c’è niente. Loro cercano di vivere una vita normale e dignitosa, i bambini vanno a scuola… Gaza City è una città che vive nel massimo caos: tutti cercano di far qualcosa, ma non so se lavorano e non so che tipo di lavoro possano fare. Non ho capito come facciano a vivere perché tutto è fermo. Non lo so. Credo che vivano con aiuti esterni.

D. – E la presenza internazionale? Come media ci siamo dimenticati di Gaza…

R. – Veramente sì …

D. – Ma le organizzazioni umanitarie continuano a lavorare lì?

R. – Onestamente, non so dirle bene. Ho visto girare macchine dell’Onu, ma una struttura Onu non l’ho vista. Ho visto soltanto un ospedale della Croce Rossa. Ma queste macchine che vanno avanti e indietro a cavallo del confine, cosa facciano non lo so. Non c’è nient’altro. Non c’è un hotel, è chiaro, perché non ci va nessuno; non c’è niente.

D. – E voi dove siete stati a dormire?

R. – Io sono stata ospitata dalle suore di Madre Teresa di Calcutta e mons. Luigi Ginami e altri due partecipanti alla missione sono stati ospitati da padre Hernandez, il parroco di Gaza. E’ l’unico sacerdote che c’è nella Striscia, l’unico prete cristiano: ha 37 anni, è lì da 11 anni. Lì i cristiani sono pochissimi e non escono di casa. Una sera, con padre Hernandez, siamo stati invitati da una famiglia; due componenti della famiglia erano riusciti a ottenere il nullaosta per andarsene, andavano in Belgio, non sarebbero più rientrati: in quel caso danno il permesso di uscire, altrimenti no. Dai 16 ai 36 anni non si può uscire da quella “prigione”. A meno che non sia una cosa definitiva. Mi sembra una prigione a tutti gli effetti.

da Radio Vaticana del 2 novembre 2014

Vertice Ue–Africa: si lavora per una nuova cooperazione

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Avviare una forma di cooperazione nuova: questo l’obiettivo del vertice Ue-Africa che si è aperto ieri a Bruxelles e che riunisce 80 tra capi di Stato e di governo. Si tratta del IV incontro al massimo livello a partire dal 2000 ma vede confrontarsi due continenti profondamente cambiati negli ultimi 5 anni. Il segretario generale dell’Onu, Ban ki-moon, in occasione dell’incontro ha ribadito: “Agire rapidamente per fornire supporto alla popolazione” del Centrafrica in piena crisi”.

Il servizio da Bruxelles di Fausta Speranza:

“Investire in capitale umano, sviluppo e pace”. Questo il titolo del vertice, che nasconde un po’ i veri problemi: territori fuori controllo in Africa e migrazioni. Per la prima questione, i leader europei si sono presentati con una decisione appena presa: la missione militare di 800 soldati per il Centrafrica. Per la seconda, il dibattito è tutto aperto dopo la destabilizzazione di Egitto e Libia, in passato interlocutori particolari. Ma non siamo ancora al vero nodo del vertice: una rinnovata cooperazione commerciale. Ad un’Europa in crisi, si presenta un’Africa forte del recente sviluppo di intensi scambi con altri colossi, a partire dalla Cina. Tra le delegazioni dei Paesi africani si sente una sicurezza nuova: “Innanzitutto – dice una giornalista venuta dal Camerun – è importante che l’Europa non si presenti più a dettare le condizioni di tutto…”. Al momento l’Ue resta il primo partner commerciale dell’Africa, così come il primo donatore di aiuti, ma il vertice in corso sembra far intravedere equilibri nuovi di confronto.

Testo proveniente dalla pagina del sito Radio Vaticana del 3 aprile 2014

Esercizi spirituali, l’esperienza romana di mons. Mani

mani

In questi giorni di Quaresima torna nelle parrocchie l’esperienza degli Esercizi spirituali. A Roma, nella Parrocchia Santuario di Santa Maria delle Grazie al Trionfale, guidata da don Romano De Angelis, è stato accolto con grande partecipazione mons. Mani, che è stato rettore del Seminario Maggiore di Roma, poi arcivescovo di Cagliari e che nel 2012 ha festeggiato 25 anni di ordinazione episcopale. Esattamente 20 anni fa, in qualità di vescovo del settore est della capitale, rilanciava questa particolare esperienza di riflessione e preghiera. E lo faceva proprio nella Parrocchia dedicata all’icona trecentesca di Santa Maria delle Grazie.

Fausta Speranza ha incontrato mons. Giuseppe Mani:

R. – Fu una proposta molto normale che feci al parroco e che lui accolse subito. Con suo grande stupore ebbe un grande successo, perché si riempiva il teatro fino a non starci più le persone, e continuarono per tutta la settimana a venire con grande impegno. Fu una cosa bellissima!

D. – Esercizi spirituali è un’espressione particolare: coniuga la spiritualità che a volte spaventa e il termine impegnativo di esercizi… Ed è una proposta fatta ai parrocchiani che frequentano di più, ma spesso poi vengono persone che non frequentano tanto la parrocchia. Eppure attira…

R. – Esercizi spirituali, ovviamente, per gli addetti ai lavori, richiama silenzio, casa di esercizi, isolamento, solitudine. Quelli che si fanno nelle parrocchie sono veri e propri “esercizi”, ma esercizi fatti durante il lavoro, durante la giornata per cui il segreto del predicatore degli esercizi è quello di dare un compito a casa: incidere con delle idee-forza, dicendo: poi “domani pensate a questo e muovetevi così”. E nella misura in cui le idee-forza hanno inciso, hanno colpito, le persone queste ci pensano e fanno l’“esercizio” spirituale. Direi che gli esercizi spirituali sono frequentati da coloro che rappresentano la forza vitale di una parrocchia. Il successo degli esercizi spirituali è costituito soprattutto in questo fatto, che mentre in tutte le altre circostanze questa gente deve “dare”, invece agli esercizi spirituali viene per “prendere”. E infatti ho sentito la soddisfazione di tanta gente, che diceva: “Noi dobbiamo preparare i foglietti per quando vengono i giovani, per quando vengono i bambini, preparare la stanza … Qui, invece, ci danno il foglietto, ci danno tutto … Dobbiamo preparare la lezione, e qui c’è qualcuno che ci fa la lezione; dobbiamo preoccuparci di tenere attenta la gente, e invece qui ci tengono attenti …”. Ecco, far passare gli operatori della pastorale da una situazione attiva a una situazione direi passiva, da gente che dona a gente che riceve. Questo credo che sia una delle ragioni per cui la gente apprezza moltissimo gli esercizi spirituali, perché per essere operatori della pastorale bisogna pure prepararsi: ma è scarsa la preparazione che si può dare a questo numero immenso di operatori pastorali. Voi pensate al numero enorme di catechisti che ha Roma, pensate al numero enorme di operatori della carità che ha Roma, per cui si chiede e basta e non si dà mai sufficientemente quanto a loro servirebbe. Per cui, questa occasione di esercizi è un’occasione d’oro per poter ricevere. E per i catechisti, onestamente, è anche un’occasione per imparare: perché il segreto del predicatore è un po’ dire cose che si possono rivendere, e questo è il segreto per tenere attente le persone, perché “questo mi piace”, “questo lo ridico”, “questo lo rispiego” … Ecco, questa è una delle ragioni per cui possono avere successo.

D. – A proposito di dare e di ricevere: Papa Francesco, in questo primo anno di pontificato, ha davvero conquistato il mondo con la semplicità …

R. – C’è bisogno di sentirsi dire che Dio è buono, che Dio ti perdona, che Dio non ti giudica: che Dio ti ama. E lui ha fatto questo. Qui c’è gente che ha bisogno di misericordia, altro che di rigidità! E tra il fatto di concepire la Chiesa come la colonna della verità – come dice giustamente San Paolo – e concepire la Chiesa come un ospedale da campo, c’è una bella differenza! Il punto è che sono vere tutte e due, però in alcuni momenti si fa una scelta tra queste due cose. Cosa è la Chiesa? La colonna della verità, come dice San Paolo, o un ospedale da campo, come dice Papa Francesco? E’ tutt’e due! Ma in questo momento, lui dice: io scelgo questa immagine qui …

Radio Vaticana del 28 marzo 2014

Europarlamento: in forse accordo commerciale Ue-Usa

Europarlamento: in forse accordo commerciale Ue-Usa se prosegue spionaggio Nsa. di Fausta

parlamento2014

L’approvazione del Parlamento europeo dell’accordo commerciale tra Ue e Usa sarà in dubbio se i programmi di sorveglianza di massa non saranno fermati: è quanto emerge dalla risoluzione, votata a Strasburgo, che chiude sei mesi d’indagini sulle attività di spionaggio dell’NSA, la National Security Agency statunitense, dopo le rilevazioni di Snowden. L’Europarlamento ribadisce che “la lotta al terrorismo non può giustificare una sorveglianza di massa segreta e illegale”. Fausta Speranza ne ha parlato con l’europarlamentare del Partito Popolare Europeo Marco Scurria:

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R. – Salvaguardare è uno dei diritti fondamentali della persona, quindi la sua sicurezza, la sua privacy, la sua capacità di non far interferire nella propria vita altre persone e altri elementi. C’è anche un fatto commerciale in tutto questo, perché ovviamente c’è anche la sicurezza delle imprese – nei loro studi, nelle loro capacità di innovare – che non devono essere spiate da altri concorrenti commerciali. Quindi si mette insieme sia l’aspetto individuale che quello delle imprese e si va verso una direzione positiva – secondo noi – perché ci sono delle misure molte chiare sulla tutela o meglio sui limiti della sorveglianza sia tecnologica che di massa, che evidentemente prima non c’erano e che quindi da domani apriranno una strada nuova.

D. – Diciamo che su questa questione della protezione dei dati personali è braccio di ferro tra Unione Europea e Stati Uniti…

R. – Sì! E’ inutile nasconderlo! Però, forse, si sapeva anche di un certo scontro all’interno degli Stati Uniti tra Senato americano e Cia, perché molti senatori americani si sono scoperti spiati dai servizi americani. Quindi forse più che un braccio di ferro tra Stati Uniti ed Unione Europea, c’è un braccio di ferro tra servizi di sicurezza americani – che però fanno anche l’altro, cioè spiano – e i governi e le popolazioni europee.

D. – In ogni caso sembra esserci in ballo l’accordo commerciale tra Unione Europea e Stati Uniti…

R. – Diciamo che questo è stato ovviamente rallentato, perché è chiaro che a fronte di uno Stato importante, come gli Stati Uniti, che invade – a tutti gli effetti – la sfera privata delle persone, delle aziende e anche di personaggi ovviamente rilevanti dei governi europei, far finta di niente e di immaginare che poi il giorno dopo ci si possa sedere tutti intorno a un tavolo e sottoscrivere accordi per migliorare le relazioni, non è immediato. Diciamo che tra amici ci si deve fidare e si è amici se si ha sicurezza negli altri, se invece ci si spia sembra quasi tornare ad una cortina di ferro, in questo caso in maniera nuova tra Stati Uniti ed Europa. Però qualche approfondimento, prima di chiudere l’accordo commerciale, occorre farlo per forza.

D. – Chiariamo che non è che non ci siano scambi commerciali – ci mancherebbe altro! – tra Unione Europea e Stati Uniti, ma questo accordo sarebbe un salto di qualità. In quale direzione?

R. – Questo diciamo che è un accordo che prevedere l’abbattimento di tutta una serie di dazi, tasse e quindi anche spese che le singole imprese hanno nell’esportare i loro prodotti in questo caso per quello che riguarda i prodotti europei negli Stati Uniti, in tutti i campi, cominciando anche da quello agricolo dove l’Europa, e in particolare l’Italia, ha molta forza nella sua capacità di esportazione. Noi abbiamo chiesto che da questo accordo fosse tolto o fosse comunque rivisto in maniera diversa tutto l’aspetto culturale, perché – per esempio – abbiamo le aziende di tutto il mondo del cinema e della cultura in genere che chiaramente da un punto di vista europeo potrebbe rischiare di essere invaso – tra virgolette – dal cinema americano, che sappiamo essere dotato di molti più mezzi, di molti più investimenti rispetto a quello europeo. In tutto il resto si tratta di agevolare uno scambio commerciale e quindi anche limitando la tassazione e i dazi che fino ad oggi rendevano più ostico esportare elementi europei negli Stati Uniti e viceversa.

Testo proveniente da una pagina del sito Radio Vaticana del 13 marzo 2014

Clima. La Commissaria Ue: l’efficienza energetica significa più posti di lavoro

hedegaard

Nella sua prossima presidenza di turno dell’Ue, l’Italia sostenga il processo lanciato dalla Commissione Europea in materia di clima ed energia. E’ la raccomandazione della Commissaria Hedegaard. L’esecutivo europeo ha presentato a gennaio il nuovo piano che dovrebbe attuare ambiziose politiche in tema di efficienza energetica. La Commissaria Connie Hedegaard lo spiega nell’intervista di Fausta Speranza:

R. – There are many reasons why: people could wonder why we are so busy in …
Le ragioni sono molte. Alcuni si potranno domandare perché, nella Commissione europea, in fase di crisi economica, siamo tanto attivi e pensiamo già al 2030 e all’energia del pianeta … Perché è tutto legato. Se vogliamo ottenere una maggiore competitività, se vogliamo l’energia a prezzi più convenienti a lungo termine, dobbiamo procedere in maniera intelligente con energia rinnovabile, investire in energia efficace, in sistemi di produzione di energia e dobbiamo ridurre il consumo di carbone. Quindi, più a lungo rimandiamo la transizione, più ci costerà cara; è molto più intelligente farlo ora, pensare ai posti di lavoro e conservare la gestione dell’energia che diversamente dovremmo importare dall’esterno.

D. – Dunque, quali sono i punti forti di questo Programma per il clima dell’Unione Europea?

R. – First, there is a 40% reduction of CO2 in Europe. Is that ambitious? I tell you, …
Prima di tutto, la riduzione del 40% dell’emissione di CO2 in Europa. Una meta ambiziosa? Direi di sì. Per il 2020, una riduzione del 20%, che però è partita nel 1990. Ora, il nostro impegno è di raddoppiare questo obiettivo in una sola decade, attraverso uno sforzo interno in Europa. E questa è una meta molto ambiziosa. Proponiamo anche diverse iniziative: per esempio, rendere più costoso inquinare, in modo che ci sia un incentivo più forte a investire in energie alternative. Il passaggio è all’energia rinnovabile, e la nostra proposta è che entro il 2030, almeno il 27% di tutta l’energia consumata in Europa debba originare da energia rinnovabile e che questo sia vincolante a livello europeo. Ma dev’essere prevista la fattibilità, perché gli Stati membri possano adeguarsi. Poi, alla fine di quest’anno, la Commissione per l’energia si occuperà della parte che riguarda l’efficienza dell’energia, perché penso che la maggior parte della gente sia d’accordo sul fatto che in Europa sia necessario investire di più sull’efficienza dell’energia. L’Italia paga ogni anno oltre 60 miliardi di euro per il carburante importato: petrolio, carbone e gas. Pensiamo soltanto se potessimo gestire un’energia più efficiente, potremmo risparmiare molto denaro ed investirlo in posti di lavoro in Europa.

D. – E’ possibile, dunque, pensare che tutto ciò possa avere una ricaduta economica positiva?

R. – I think that it benefits everybody’s purse if we become more efficient, in Europe, …
Credo che tornerà di vantaggio al borsellino di tutti se l’Europa diventerà più efficiente nell’utilizzo delle sue risorse energetiche; farà bene alla nostra economia costruire infrastrutture ed interconnessioni più coerenti, e farà bene anche ai cittadini. Sicuramente richiede uno sforzo perché questa è una politica per l’energia e per il clima coerente e di alto livello. E’ quello di cui abbiamo bisogno in Europa. Parliamo di passi molto, molto importanti per raggiungere gli obiettivi e questo è il motivo per cui spero che la presidenza italiana dell’Unione Europea ci aiuti a raggiungerli.

Testo proveniente dalla Radio Vaticana il 19 febbraio 2014

I colloqui israelo-palestinesi reggono all’urto dei disordini in Cisgiordania

I colloqui di pace tra israeliani e palestinesi, ripresi a luglio 2013 dopo 3 anni di stallo, proseguono: è quanto ribadisce il Dipartimento di Stato Usa, smentendo così informazioni di stampa secondo cui sarebbero stati sospesi, dopo i disordini nel campo profughi di Qalandia in Cisgiordania. Precisamente le forze israeliane hanno ucciso il 26 agosto tre palestinesi in seguito a accese manifestazioni alle quali la polizia israeliana ha risposto con un raid. Della gravità dell’accaduto e delle concrete possibilità di dialogo tra israeliani e palestinesi, Fausta Speranza ha parlato con l’esperta di questioni mediorientali, Marcella Emiliani:

radiogiornale RV del 27 agosto 2013

Il vescovo di Aleppo: no all’intervento militare in Siria

Papa Francesco ha lanciato un forte appello alla comunità internazionale perché si impegni per la pace in Siria. Intanto si discute sempre più concretamente l’ipotesi di un intervento militare. Obama aveva indicato come linea rossa da non oltrepassare quella dell’uso di armi chimiche e sembra evidente che l’uso c’è. Delle possibili scelte della comunità internazionale, Fausta Speranza ha parlato con mons. Antoine Audo, vescovo di Aleppo dei Caldei e presidente di Caritas Siria:

radiogiornale RV del 26 agosto 2013