Sapere e pace: i giovani chiedono l’incontro tra popoli

Interagire con la diversità contro le logiche della guerra: è il messaggio che arriva dai giovani che sognano la pace e ragionano da “cittadini del mondo”. L’iniziativa di un corso comune a tre Università di Italia, Stati Uniti e Cina è lo spunto per dare voce alla voglia di futuro di tantissimi studenti che guardano con curiosità a culture diverse e cercano l’incontro e lo scambio, come conferma Raffaele Marchetti, prorettore per l’internalizzazione della Luiss

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Oltre a tutti gli organismi delle chiese locali, d’Europa e del mondo, per il popolo ucraino si sono mossi in tantissimi: associazioni del Terzo settore, collettivi di volontari, organizzazioni locali, nazionali e internazionali, scuole e atenei. E proprio dalle Università arriva, insieme con gesti di solidarietà, un messaggio che incarna la voglia di vita e di pace dei giovani, che vorrebbero zittire le armi, superare i muri e tornare a un mondo di scambi e di interconnessioni culturali.

Tra tanti esempi di gemellaggi culturali, c’è il significativo e innovativo progetto di una stessa Laurea per tre Università d’Italia, Stati Uniti e Cina. Si tratta di un corso presentato nei giorni scorsi che prenderà il via a settembre prossimo. E’ il frutto della partnership tra l’Università Luiss, la George Washington University di Washington D.C. e la Renmin di Pechino. Ne abbiamo parlato con Raffaele Marchetti, prorettore per l’internalizzazione della Luiss:

La conoscenza reciproca come scommessa di dialogo: Marchetti parla in questi termini del valore dell’incontro e dell’interazione a livello culturale. In un tempo in cui purtroppo non solo si ereggono muri – ricorda – ma si torna drammaticamente a dare la parola alle armi, è quanto più essenziale formare “cittadini del mondo”, ragazzi che fanno dell’incontro una cifra del percorso di studio.

Il valore di interagire con la diversità

Si tratta della faccia buona della globalizzazione, commenta parlando della capacità dei giovani di sfruttare tutte le possibilità per interagire a livello globale. Si creano – sottolinea – catene di connessione che creano sviluppo e sentimenti di vicinanza. La formazione dei giovani, l’incontro e lo scambio tra giovani – assicura – è l’investimento più significativo a lungo termine per la pace. La mobilità dei giovani – aggiunge – è una scommessa fortissima per la pace.

I giovani sognano futuro e pace

Vivendo quotidianamente nell’ambiente universitario, Marchetti in questi drammatici giorni di cronache di guerra dall’Ucraina sottolinea quanto sia forte la voglia di vivere, di costruirsi un futuro, di conoscere e incontrare altri popoli tra i giovani. Purtroppo – commenta – dobbiamo ascoltare logiche di potenza e di guerra, mentre vorremmo dare voce ai desideri sani dei giovani di tutto il mondo che sognano sviluppo e pace, a partire – ma sono solo un esempio – dagli studenti che stanno scegliendo un corso che abbraccia in un certo senso Italia, Stati Uniti e Cina.

La particolarità del corso

Marchetti spiega che si tratta di un corso quadriennale che prende il nome di ACE, acronimo che sta per America, China & Europe. Una tripla laurea in “Business Administration”, che verrà riconosciuta in Italia  e in tutta Europa, negli Stati Uniti e in Cina.  Marchetti parla di forte innovazione chiarendo che darà la possibilità a studentesse e studenti di conseguire tre titoli di laurea, uno per ogni università, validi e riconosciuti negli Stati Uniti, in Cina e in Europa. L’obiettivo – afferma – è preparare giovani per incarichi in multinazionali ed istituzioni globali. Gli iscritti trascorreranno il primo anno nei loro rispettivi atenei per acquisire i fondamentali dell’economia e del management. Frequenteranno, poi, congiuntamente il II°, III° e IV° anno nelle tre capitali, partendo dalla Luiss a Roma, per spostarsi alla Renmin University a Pechino e infine negli States, alla George Washington University. Certamente si tratta di corsi privati con la sola eccezione di alcune borse di studio, ma si tratta di quote di iscrizione e frequenza in linea con i contributi universitari dei rispettivi atenei di provenienza per l’intera durata del percorso.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-03/universita-giovani-pace-guerra-corso-laurea-globalizzazione.html

Farrell: dopo il decreto sui Movimenti, maggiore creatività e comunione

Una riscoperta dello spirito di servizio tra i principali frutti della scelta di limitare il mandato dei leader di Movimenti ecclesiali. È quanto emerso alla presentazione del volume con gli atti del convegno di settembre “Decreto Generale. Le Associazioni Internazionali dei Fedeli” (Lev). Il cardinale Farrell e Margaret Karram, presidente dei Focolari, parlano di rinnovamento, formazione e azione comune orientata alla pace dinanzi alla guerra in Ucraina

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Decreto Generale. Le Associazioni Internazionali dei Fedeli” è il titolo del volume presentato dal Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita oggi pomeriggio, con la collaborazione della Libreria Editrice Vaticana (Lev). Si tratta degli atti del congresso che si è svolto il 16 settembre scorso, dopo la pubblicazione, l’11 giugno, del Decreto che regola l’esercizio del governo nelle associazioni internazionali di fedeli, private e pubbliche, e negli altri enti con personalità giuridica, soggetti alla vigilanza diretta del Dicastero. Alla presentazione di oggi, presso la sede del Dicastero per la comunicazione, sono intervenuti il prefetto, il cardinale Kevin Farrell, e il sotto-segretario, la dottoressa Linda Ghisoni; con loro anche la presidente del Movimento dei Focolari, Margaret Karram. Ha moderato Lorenzo Fazzini, responsabile editoriale della Lev.

L’importanza del volume

La pubblicazione degli atti del congresso offre la riflessione che è nata a partire dal Decreto, che non è un punto di arrivo ma un punto di partenza, come spiega il cardinale Kevin Farrel, prefetto del Dicastero per Laici, Famiglia e Vita. Il porporato, con il pensiero a quanto accade in Ucraina, ha anche  sottolineato la specifica missione del Dicastero: la cura di quanto riguarda i laici e la famiglia e la vita stessa. Proprio questo, chiarisce, caratterizza la preghiera di tutte le persone del Dicastero che si uniscono alla preghiera della Chiesa intera.

Quanto all’incontro di settembre, il cardinale ricorda che ad esso ha partecipato a sorpresa anche Papa Francesco e cita alcuni punti fermi del messaggio del Papa in quella giornata: “Il Pontefice – sottolinea il Prefetto – ci ha invitato una costante conversione personale che chiama a misurarsi con le sfide concrete delle persone che ci vivono accanto”. Da qui il chiarimento: si richiede grande docilità e umiltà per capire i propri limiti e i cambiamenti necessari. Dunque, Farrell parla di governo ricordando che Papa Francesco ha messo in guardia dal rischio di onnipresenza, dal rischio di sentirsi unici depositari di un carisma, dal rischio di un mancato confronto nel caso di un mandato a vita del fondatori.

Sinodalità e formazione

Proprio il mandato a vita – ha spiegato alla presentazione Linda Ghisoni – potrebbe incidere in termini di formazione di una sorta di mito, in termini di autorefenzialità. Potrebbe significare la perdita di profezia, l’obbedienza ceca, che significherebbe mancanza di quel discernimento che assicura la comunione ecclesiale. Poi la sotto-segretaria ha parlato di un altro fattore di cui si parla molto nel volume: la formazione che, ha detto, non può essere pensata solo per i vertici ma per tutti i componenti del Movimento.

Una visione di servizio

Attualmente “la società tende a cambiare le regole per protrarre il mandato di leader a livello internazionale”, ha ricordato ancora Ghisoni, ma “questo, che è sotto gli occhi di tutti, non porta buoni frutti”. Proprio perché i laici sono “una presenza profetica all’interno della Chiesa”, si deve assicurare quello sguardo capace di cambiamento, di ricambio, perché il servizio sia sempre nuovo. E questo comporta un investimento alla formazione. C’è poi un altro aspetto, ha chiarito la dottoressa: “Il decreto non nasce dall’esigenza di combattere gli abusi ma certamente l’impegno a mettere un freno all’abuso di potere può essere utile a contrastare qualsiasi tipo di altri abusi”.

Nessuna richiesta di eccezione

È stato poi ricordato che si prevede l’eccezione per i fondatori viventi, come nel caso di Kiko Argüello, iniziatore del Cammino Neocatecumenale. Inoltre è stato ricordato che il decreto prevede una sorta di eccezioni sul mandato in caso di richieste che giungono dal complesso degli organi di governo di un Movimento. Finora, è stato reso noto, non è giunta al Dicastero nessuna richiesta in tal senso. Il cardinale Farrell ha raccontato che piuttosto ci sono state richieste di aiuto per un confronto sugli Statuti. Al momento, ha chiarito, non si è pensato a cosa debba succedere nel caso in cui un movimento non si adegui nei tempi previsti anche perché si avverte un forte senso di responsabilità da parte di tutti.

Tanti doni all’interno del discorso giuridico

Di prezioso contributo a riscoprire  una collaborazione di pace – con il pensiero a quanto purtroppo accade in Ucraina e in tanti altri luoghi del mondo – ha parlato la presidente del Movimento dei Focolari, Margaret Karram, sottolineando come il decreto apra spazio di confronto e dialogo all’interno dei Movimenti, come pure tra Movimenti e altre realtà ecclesiali, e tra i Movimenti e il Dicastero per Laici, Famiglia e Vita:

Karram ha sottolineato la ricchezza delle parole del Papa, il quale ha richiamato l’importanza di pensare alla diversità delle realtà di associazioni e Movimenti. La presidente dei Focolari ha evidenziato pure come il Papa ha reso tutti più consapevoli della missione ecclesiale: la responsabilità di costruire il futuro di fronte alle povertà materiali e spirituali del mondo che ci circorda.

Una norma che accoglie

Secondo Karram, i Movimenti si sono sentiti profondamente accolti dal Dicastero: il rapporto è “cresciuto”, dice, riferendo di aver raccolto la stessa senzazione da parte degli altri Movimenti: “È stato molto più forte  il valore profondo del rinnovamento. Il Decreto è un’ulteriore prova del valore dei Movimenti agli occhi della Chiesa che proprio perché coglie i frutti dei Movimenti cerca di orientarli a non frenare lo slancio carismatico e la forza rinnovatrice”. Il Decreto aiuta, quindi, a ben finalizzare il tutto. “Cerchiamo di accogliere con amore e grande serietà. Stiamo studiando la conformità anche giuridica tra il Decreto e gli Statuti del Movimento dei Focolari”, afferma Karram. Nel caso del Movimento fondato da Chiara Lubich già si prevedeva un limite: ora si è passati da sei a cinque anni. “È impegnativo essere al governo di una realtà ecclesiale”, dice Karra, “è benedetta la possibilità del ricambio”.

Governare al meglio per servire la pace

Con un riferimento alla drammatica situazione in Ucraina, la presidente sottolinea come sia importante la riscoperta della comunione, la riscoperta di quella “novità” che viene dal soffio dello Spirito di cui parla il Papa. “Tutto questo può dare spessore all’agire e alla preghiera, può aiutare ad essere all’altezza della preghiera necessaria per la pace, alla fraternità a tanti livelli che può aiutare la costruzione della pace. La riscoperta della comunione all’interno dei Movimenti e tra i Movimenti, la riscoperta del governo come servizio è qualcosa che può contribuire a cambiare le persone a livello personale e a livello dei popoli”. “Si tratta di quella fraternità – ricorda Karram – alla quale ci sprona Papa Francesco”.

Il Decreto

Era stato presentato a giugno il Decreto generale sull’esercizio del governo nelle associazioni internazionali di fedeli, private e pubbliche, e negli altri enti con personalità giuridica soggetti alla vigilanza diretta del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita. I primi punti del documento prevedono che i mandati nell’organo centrale di governo a livello internazionale possono avere la durata massima di cinque anni ciascuno. Inoltre la stessa persona può ricoprire un incarico nell’organo centrale di governo a livello internazionale per un periodo massimo di dieci anni consecutivi. Trascorso il limite massimo di dieci anni, la rielezione è possibile solo dopo una vacanza di un mandato.

https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2022-03/decreto-movimenti-ecclesiali-durata-mandato-pace-comunione.html

Il dramma dei femminicidi: nasce il progetto “Respiro”

Non lasciare soli i minori ai quali l’estrema violenza sottrae la madre: è l’obiettivo del progetto presentato in Italia, dove ogni anno si contano 250 cosiddetti “orfani speciali”, bambini che perdono la mamma per mano del padre che va in carcere o a volte si suicida. Nasce una rete di organizzazioni che cerca di lavorare con le istituzioni per assicurare adeguata cura e per fare prevenzione, come spiega Federica Giannetta di Terres des Hommes

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Una rete sociale per occuparsi di “Orfani di femminicidio e diritto all’infanzia” e per fare prevenzione: è l’obiettivo del progetto “Respiro” presentato questa mattina a Roma. Si tratta di un’iniziativa dell’organizzazione senza scopo di lucro “Con i Bambini”, interamente partecipata dalla Fondazione Con Il Sud, con la collaborazione di Save the children e di Terres des Hommes. È stata resa possibile nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile nato da un’intesa tra le Fondazioni di origine bancaria rappresentate da Acri, Forum Nazionale del Terzo Settore e governo italiano. A dare vita al primo intervento quadriennale è una rete di tredici partner attivi su tutto il territorio nazionale e in particolare in Campania, Calabria, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna. La questione è delicata: tocca la condizione dei cosiddetti orfani speciali, bambini e bambine rimasti senza mamma a seguito di un femminicidio. Della complessità della questione e degli obiettivi abbiamo parlato con Federica Giannetta della Ong Terres des hommes:

Giannetta ricorda che la violenza assistita per i bambini è spesso un male invisibile che purtroppo provoca gravi effetti sulla loro salute psicofisica a breve e lungo termine. E chiarisce che si calcola che in Italia ogni anno siano circa 250 i figli e le figlie che vengono resi orfani a causa del femminicidio delle loro madri, accompagnato a volte dal suicidio dei loro padri, autori del delitto. Migliaia sono invece i figli e le figlie che assistono agli abusi e alle violenze in famiglia. Nell’affrontare la violenza contro le donne, sottolinea Giannetta, dobbiamo sempre necessariamente tenere conto anche di loro. Ricorda che in Italia nel 2018 il Parlamento ha approvato la legge n. 4, due anni dopo sono arrivati i regolamenti attuativi, ma che tantissimi di questi “orfani speciali” – come li aveva chiamati Anna Costanza Baldry, la studiosa che per prima ha acceso i riflettori sulla loro condizione – non riescono ancora ad accedere al supporto previsto. Istituzioni e società civile devono, dunque, lavorare insieme.

La complessità nelle testimonianze

Sono strazianti le testimonianze di quanto sia devastante l’impatto psicologico del trauma subito da questi bambini e queste bambine che sono orfani due volte: spesso hanno perso la mamma e il papà finito in carcere. “Un dolore pazzesco che non passa, il vuoto ti divora, ti manca la terra sotto i piedi”, ha affermato Giuseppe Delmonte, che ha perso la mamma per mano del padre nel 1997 quando aveva 18 anni. Nelle sue parole anche un appello concreto: ”Non ho avuto nessun sostegno psicologico al tempo”. Vera Squadrito, madre di una vittima di femminicidio e nonna-caregiver della nipotina ha spiegato: “Nella tragedia devastante di quei giorni il sentimento prevalente è l’invisibilità. Molti professionisti vengono a cercarti per questioni legali e burocratiche ma nessuno ti sostiene come persona”.

Sostegno, cura, protezione

Federica Giannetta illustra il progetto “Respiro” spiegando che intende promuovere un modello di intervento e di cura che possa garantire una risposta efficace per la protezione di bambini e bambine quando si verifica un femminicidio, affinché i più piccoli e i loro familiari non siano più soli, ma vengano accompagnati in un percorso di sostegno.

Investire nella prevenzione

Il progetto – sottolinea ancora la rappresentante di Terres des hommes – vuole favorire un cambiamento culturale, costruendo insieme con i media e i comunicatori un’alleanza per diffondere un nuovo approccio alla prevenzione della violenza domestica. Un passo importante sarà, secondo Giannetta, la formazione di un Osservatorio che dovrebbe permettere di mettere insieme dati e esperienze del lavoro dedicato a ragazzi e ragazze così drammaticamente colpiti. Il punto è che dovrebbe servire da stimolo per le istituzioni e per la società per capire come agire per evitare, con interventi a tanti livelli, accadimenti di questo genere. Bisogna costruire le opportune sinergie – raccomanda – tra quanti, operatori pubblici e del privato sociale, sono impegnati su questo fronte, in una logica di sussidiarietà orizzontale e verticale.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-02/minori-vittime-femminicidio-genitore-societa-civile.html

L’acqua al centro della disputa tra Etiopia, Egitto e Sudan

E’ stata avviata la produzione di energia elettrica della grande diga costruita da Addis Abeba sul Nilo Azzurro a partire dal 2011. Il Cairo e Khartoum lamentano la sottrazione di preziose risorse idriche. Una crisi da non sottovalutare, come avverte l’esperto di relazioni internazionali Daniele De Luca

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’Etiopia ha iniziato, domenica 20 febbraio, a produrre energia elettrica dalla maxi-diga sul Nilo che ha costruito a partire dal 2011 e che riduce la portata d’acqua a disposizione di Sudan ed Egitto. L’Etiopia la ritiene essenziale per la propria elettrificazione e sviluppo economico. La diga, chiamata Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd), cioè diga del grande rinascimento etiope, è il più grande impianto idroelettrico mai costruito in Africa. Le opere principali dell’impianto idroelettrico lungo il Nilo Azzurro – a circa 700 chilometri a nord-ovest della capitale Addis Abeba nella località di Guba – comprendono la realizzazione di una diga in calcestruzzo rullato compattato (Rcc), una diga ausiliaria di sella e due centrali idroelettriche posizionate sulle due rive opposte del fiume a valle della diga principale. Il bacino idrico ha una superficie di 1.875 chilometri quadrati e un volume di 74 miliardi di metri cubici.

Il punto di vista di Addis Abeba

Il primo ministro etiope, Abiy Ahmed Ali, ha avviato la prima turbina della diga Gerd, spiegando che l’impianto supporterà il Paese nel suo percorso di sviluppo economico e di avvicinamento all’obiettivo sostenibile di diventare carbon neutral entro il 2025 grazie ad una produzione massiccia di energia da fonti rinnovabili. Secondo Addis Abeba, una volta ultimato, porterà alla nascita di un vero e proprio polo energetico per la regione, che ha bisogno di energia, permettendo al Paese di generare ed esportare energia pulita e rinnovabile, evitando l’emissione di oltre 2 milioni di tonnellate di CO2 l’anno.

Dei punti di vista e dell’importanza della questione abbiamo parlato con Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento:

Con uno sguardo al passato, De Luca richiama alla mente il ruolo fondamentale che ha sempre avuto il Nilo. I corsi d’acqua sono sempre fondamentali per lo sviluppo di una civiltà e l’importanza del Nilo è proverbiale proprio anche sul piano geopolitico, sottolinea. Inoltre, De Luca mette l’accento sul fatto che l’acqua da sempre è cruciale in tema di energia. Dunque, una diga come questa rafforza i rapporti tra Paesi oppure mette in crisi i rapporti. Il professore ricorda che dall’inizio della costruzione della diga, e sempre di più con l’avanzamento dei lavori, sono stati evidenti i piani etiopi per il riempimento, a partire dal 2020, del bacino creato dalla struttura, che significa molta acqua.

La preoccupazione dell’Egitto

La preoccupazione dell’Egitto – spiega De Luca – è che la raccolta d’acqua nel bacino possa compromettere le risorse idriche egiziane per qualche anno. Negli ultimi anni, i governi dei due Paesi si sono accusati reciprocamente di non rispettare le norme internazionali sulla gestione e lo sfruttamento dell’acqua del Nilo.

La complicazione per il Sudan

Dal novembre del 2020 i rapporti con il Sudan, a sua volta preoccupato per l’approvvigionamento d’acqua, si sono poi ulteriormente complicati – afferma il docente – perché il conflitto civile in corso nella regione del Tigray, nel nord dell’Etiopia, ha portato decine di migliaia di persone a rifugiarsi in Sudan, già alle prese con numerosi problemi interni, politici ed economici dal colpo di Stato dell’ottobre 2021. Tra Sudan ed Etiopia c’è inoltre una disputa territoriale a proposito della regione di Fashaqa, coltivata da agricoltori etiopi ma rivendicata dal governo sudanese.

Non c’è intesa sugli accordi

L’Egitto ha sostenuto che un progetto come la diga non potesse essere realizzato senza il suo consenso, a causa di due accordi internazionali con il Sudan, uno risalente al 1929, durante l’età coloniale, e l’altro al 1959: il primo dà all’Egitto il potere di veto sulla costruzione di infrastrutture lungo il corso del Nilo; il secondo stabilisce che all’Egitto spetti circa il 66 per cento delle acque del Nilo, e il 22 per cento al Sudan. Il governo etiope ha replicato di non riconoscere gli accordi, dato che furono firmati senza coinvolgere l’Etiopia, e di avere quindi il diritto di sviluppare il proprio progetto. Nel 2010 si era accordato con gli altri Paesi in cui è diviso il bacino del Nilo – Egitto e Sudan esclusi – per realizzare progetti lungo il fiume anche senza il consenso egiziano. Inoltre l’Etiopia ha sempre sostenuto che la nuova diga non avrà nessun impatto sulla quantità d’acqua che arriva all’Egitto, contrariamente a quanto temuto dagli egiziani. L’Unione Africana, l’organizzazione intergovernativa dei Paesi del continente africano, aveva cercato di mediare tra Etiopia, Egitto e Sudan affinché si trovasse una soluzione di compromesso sulle tempistiche di riempimento del bacino della diga, ma non ha avuto successo, anche perché l’Etiopia non ha accettato di concordare con gli altri Paesi quantità minime di acqua da far passare attraverso la diga.

Sullo sfondo altre questioni

Daniele De Luca ricorda che una situazione come questa è anche una cartina tornasole che lascia emergere altre conflittualità latenti o altri motivi di confronto e di tensione tra Stati. Si tratta, evidenzia, di rapporti complicati anche perché, ad esempio, un Paese come il Sudan è cambiato: è cambiata la percezione da parte dell’Occidente che prima lo considerava uno “stato canaglia” per il terrorismo. In definitiva, De Luca avverte che situazioni come questa disputa intorno all’acqua non possono essere trascurate dalla comunità internazionale che, invece, in questo momento è estremamente concentrata sulla crisi ucraina.

I numeri dell’impianto

Al momento la costruzione è completa per l’84 per cento. Secondo i media statali etiopi, domenica le turbine dell’impianto hanno cominciato a produrre 375 megawatt. L’inaugurazione è avvenuta in presenza del primo ministro Abiy Ahmed. Era presente Pietro Salini, amministratore delegato di WeBuild, la multinazionale di costruzioni italiana che ha realizzato l’impresa e che fino al 2020 si chiamava Salini Impregilo. Proprio la società WeBuilt con un comunicato ha confermato l’avvio della prima turbina e ha sottolineato che l’impianto avrà una capacità installata complessiva di 5.150MW e che potrà garantire una produzione media stimata di 15.700 Gwh/anno. Il progetto Gerd ha un valore complessivo di 3,48 miliardi. Per la realizzazione sono state coinvolte mediamente ogni anno circa 10 mila persone.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-02/diga-etiopia-nilo-egitto-sudan-acqua-energia.html

Cambiamenti climatici e precarietà rurale: l’appello dell’Ifad

I contadini dei Paesi poveri producono un terzo del cibo del mondo ma ricevono solo sei centesimi per ogni dollaro di prodotto che generano. Lo denuncia l’Ifad chiedendo soluzioni innovative e finanziamenti urgenti, come sottolinea Romina Cavatassi, esperta di sviluppo e risorse naturali dell’organismo stesso dell’Onu ribadendo che il cuore del problema è l’iniquità

Fausta Speranza – Città del Vaticano

I leader mondiali chiedono investimenti urgenti e innovativi per aiutare le comunità rurali dei Paesi più poveri del mondo ad adattarsi ai cambiamenti climatici. E’ quanto emerso dalla riunione annuale del Consiglio dei Governatori cui hanno partecipato, in settimana, 177 Stati membri del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad) delle Nazioni Unite. Non può passare inosservata la vulnerabilità dei piccoli agricoltori ai gravi eventi meteorologici, come le tempeste che hanno devastato il Madagascar nelle ultime settimane uccidendo almeno 121 persone e distruggendo più di 176.000 ettari di terreno.

Finanziamenti irrisori

I piccoli produttori sono colpiti duramente da una crisi che non hanno creato, eppure attualmente ricevono solo l’1,7 per cento dei finanziamenti per il clima. Lo ha denunciato il presidente dell’Ifad, Gilbert F. Houngbo, sottolineando che “il cuore del problema è l’iniquità”. Sulle conseguenze della pandemia e degli effetti dei cambiamenti climatici si sofferma Romina Cavatassi, esperta di sviluppo e risorse naturali dell’Ifad:

La pandemia e il cambiamento climatico hanno messo a nudo la vulnerabilità dei piccoli produttori, afferma Cavatassi, sottolineando la situazione di iniquità per cui le persone che producono un terzo del cibo del mondo ricevono solo sei centesimi per ogni dollaro di prodotto che generano. Non c’è sostenibilità o resilienza – sostiene – senza una maggiore equità. L’agricoltura impiega due terzi delle popolazioni dell’Africa sub-sahariana e rappresenta quasi un terzo del PIL. Eppure i piccoli produttori rurali sono sistematicamente sotto finanziati e – ricorda Cavatassi – lo sono ancora di più dopo la pandemia. L’esperta spiega che la vulnerabilità degli agricoltori di fronte a situazioni climatiche estreme non si può trascurare, aggiungendo che sradicare la povertà rurale richiede un approccio radicalmente nuovo per costruire resilienza rurale. Il punto è che, essendo alcune delle nazioni più vulnerabili del mondo, i piccoli Stati richiedono un’attenzione speciale, un rapido accesso alle risorse e soluzioni su misura. Molte di queste soluzioni – avverte Cavatassi – richiedono l’accesso alla finanza che dovrebbe essere inclusiva. Nel 2020, la fame nel mondo è aumentata – ricorda – in gran parte a causa del cambiamento climatico, della povertà oltre all’impatto della pandemia da Covid-19. Una persona su 10 nel mondo oggi soffre la fame. Oltre alle doverose considerazioni sul piano umanitario, questo – sottolinea l’esperta Ifad – non può non avere conseguenze in termini di squilibri a livello globale.

L’impegno dell’Italia

In risposta alla minaccia che il cambiamento climatico rappresenta per le popolazioni rurali, il ministro dell’Economia e delle Finanze italiano, Daniele Franco, ha detto che quest’anno l’Italia aumenterà il suo impegno finanziario internazionale per far fronte ai cambiamenti climatici di tre volte, raggiungendo circa 1,5 miliardi di dollari all’anno fino al 2026.  “Il cambiamento climatico, il degrado ambientale e la perdita di biodiversità rappresentano una minaccia immediata per le risorse naturali, così come per la vita e i mezzi di sussistenza delle popolazioni rurali”, ha detto. E ha aggiunto: “I sistemi alimentari risentono fortemente degli shock climatici in rapido aumento. I loro effetti sono più gravi per le comunità rurali povere ed emarginate che pur essendo le più colpite, sono quelle che contribuiscono meno a tali fenomeni. Invertire queste tendenze richiede soluzioni innovative. Dobbiamo evitare che i progressi fatti all’interno dell’Agenda 2030 siano resi vani, a tal fine il Fondo svolge un ruolo chiave”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-02/poveri-agricoltori-contadini-zone-rurali-onu-iniquita.html

Ue-Africa: si riparte dal summit rimandato per pandemia

La Francia, gli alleati europei e il Canada hanno annunciato il “ritiro coordinato” delle forze militari in Mali. Lo ha reso noto l’Eliseo in una nota diramata la mattina dopo la cena di lavoro sul Sahel organizzata a Parigi dal presidente francese Emmanuel Macron e nel giorno in cui prende avvio a Bruxelles il summit Ue-Ua

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In Mali “non c’erano più le condizioni politiche, operative e giuridiche” per mantenere sul posto la presenza militare francese ed internazionale: è quanto si legge in una nota diffusa dall’Eliseo dopo la cena di lavoro di ieri sera sulla presenza militare nel Sahel a cui ha partecipato anche il presidente del Consiglio dei ministri italiano Mario Draghi. La Francia, i partner europei e il Canada hanno annunciato questa mattina il ritiro dal Mali delle operazioni antiterrorismo Barkhane e Takuba, lamentando il peggioramento delle relazioni con l’attuale giunta al potere a Bamako dopo il colpo di Stato dello scorso anno. La Francia ha circa 4.300 soldati dispiegati nella regione, circa 2.400 nel solo Mali.

Un impegno per il Sahel da reinventare

I Paesi partner esprimono comunque la “volontà di restare impegnati nella regione” del Sahel. Non solo. “Per contenere la potenziale estensione geografica delle azioni dei gruppi armati terroristici in direzione del sud e dell’ovest della regione – si legge nella nota congiunta – i partner internazionali indicano la loro volontà di considerare attivamente l’estensione del loro sostegno ai Paesi vicini del Golfo di Guinea e dell’Africa Occidentale, sulla base delle loro richieste”.

Summit e rapporti Ue-Ua

Intanto, ha preso il via oggi a Bruxelles il summit inizialmente previsto a dicembre 2020 tra Unione europea e Unione africana. I vertici Ue-Ua si svolgono tradizionalmente ogni tre anni, in alternanza tra Africa ed Europa. Un appuntamento importante per discutere fino a domani una serie di questioni che vanno dall’economia e il commercio, all’ambiente, il clima e l’agricoltura, dal digitale e le infrastrutture alla pace e la sicurezza. Il filo conduttore delle discussioni è la ripresa post-pandemica e il rafforzamento della resilienza di fronte alle attuali e future forme d’instabilità politica che hanno investito il continente africano tra colpi di Stato militari e vecchie e nuove crisi. I partecipanti dovrebbero adottare una dichiarazione congiunta su una visione comune per il 2030. Per lungo tempo i rapporti tra Europa e Africa hanno ruotato intorno ad accordi a termine (Convenzioni di Yaoundé e di Lomé, e poi Accordo di Cotonou) che hanno definito i termini dei rapporti tra donatori e beneficiari degli aiuti allo sviluppo e delle relazioni commerciali. Dagli anni Novanta, si è gradualmente aggiunto anche un dialogo su tematiche più politiche, incluse migrazioni e riforme democratiche. Dopo un lungo processo negoziale, l’anno scorso si è arrivati alla stipula di un nuovo accordo post Cotonou.

Un intervento concreto in tema di pandemia

La Banca europea per gli investimenti metterà a disposizione 500 milioni di euro per sostenere il rafforzamento dei sistemi sanitari nei Paesi dell’Africa subsahariana nel quadro del partenariato con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in collaborazione con la Commissione Europea. La partnership – si legge in una nota congiunta della Bei e dell’Oms – è “volta a mobilitare un miliardo di euro di investimenti per sostenere i Paesi nel colmare il divario di finanziamenti sanitari, costruendo sistemi sanitari resilienti basati su solide basi di assistenza sanitaria primaria, per aiutarli a raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile relativi alla salute”. L’obiettivo è “ripristinare, ampliare e sostenere l’accesso ai servizi sanitari essenziali e aumentare la protezione dai rischi finanziari; migliorare l’accesso a vaccini, medicinali, strumenti diagnostici, dispositivi e altri prodotti sanitari”. “La pandemia di Covid-19 è una potente dimostrazione che quando la salute è a rischio, tutto è a rischio. Investire nella salute in tutta l’Africa è quindi essenziale non solo per promuovere e proteggere la salute, ma anche come base per far uscire le persone dalla povertà e guidare una crescita economica inclusiva”, ha commentato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms. “La partnership tra la Bei e l’Oms è fondamentale per la nostra risposta alla pandemia al di fuori dell’Ue, come parte del Team Europe – ha affermato Werner Hoyer, presidente della Bei -. Dall’inizio della pandemia, la Banca dell’Unione europea ha intensificato il sostegno agli investimenti sanitari, alla produzione di vaccini e alla resilienza economica in tutta l’Africa e nel mondo”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-02/africa-unione-europea-sahel-mali-summit-canada-colpo-di-stato.html

Brindisi, porta d’Oriente e città della Pace

Un ponte nel Mediterraneo per unire culture e promuovere dialogo: lo ha gettato l’università del Salento con il nuovo corso in Scienze per la Cooperazione Internazionale, che va oltre il percorso accademico promuovendo sviluppo, in collaborazione con la Chiesa locale. Si fa a Brindisi, città della Puglia che ospita basi dell’Onu e che è da sempre “porta d’Oriente”. Obiettivi e sfide nelle parole del rettore Fabio Pollice e dell’arcivescovo Domenico Caliandro

Fausta Speranza – Città del Vaticano

E’ entrato nel vivo il nuovo corso di Laurea magistrale in Scienze per la Cooperazione internazionale dell’Università del Salento, inaugurato a settembre scorso. Conta su un rapporto di collaborazione privilegiato con le basi delle Nazioni Unite a Brindisi, United Nations Global Service Centre (UNGSC) e United Nations Humanitarian Response Depot (UNHRD). Tra le varie città della Puglia, l’Università, che ha la sede principale a Lecce, ha scelto infatti Brindisi proprio per la presenza delle basi dell’Onu tra le più importanti al mondo per lo smistamento di aiuti nelle aree colpite da calamità, guerre e crisi umanitarie, come sottolinea il Rettore dell’Università del Salento Fabio Pollice:

Il rettore Pollice spiega che l’obiettivo del corso, che si svolge presso palazzo Nervegna, è quello di arricchire l’offerta formativa di secondo livello nel sistema regionale pugliese grazie a un progetto calibrato sui temi della cooperazione internazionale e dei processi di peace-building e peace-support. Due i curricula: “Sviluppo e Cooperazione internazionale” e “Supporto umanitario e Peace-Building”.

Formazione trasversale

Il taglio del corso – sottolinea il rettore – è interdisciplinare e pensato per la formazione di specialisti della cooperazione allo sviluppo con competenze in tema di diritti umani, sostenibilità e processi di peace-building e peace-support. Gli studenti acquisiscono conoscenze avanzate in ambito economico, giuridico, storico-politico, politologico e sociologico, attraverso un insieme organico di insegnamenti con taglio internazionalistico e legati dal trait d’union dell’interesse verso i processi di sviluppo umano e sostenibile e di supporto ai processi di pace e di risoluzione dei conflitti. Ma soprattutto – sottolinea il rettore – fanno esperienza di iniziative interistituzionali.

Sguardo privilegiato sul Mediterraneo

La finalità è insegnare ad analizzare ed interpretare le specifiche forme sociali, economiche ed istituzionali che caratterizzano le economie di tutti i Paesi dell’area Euro-mediterranea, con una visione che Pollice, citando Don Tonino Bello e Papa Francesco, sintetizza così: aiutare l’altro è il momento più alto di umanità.

Focus sulle metodologie di organismi internazionali

E’ particolare l’attenzione alle realtà in via di sviluppo, per le quali sono promosse specifiche competenze per poter gestire i processi di cooperazione internazionale. Si intende sviluppare specifiche competenze nell’applicazione delle diverse metodologie usate dagli organismi di cooperazione multi e bilaterale per l’elaborazione di programmi e progetti di aiuto allo sviluppo e alle missioni di pace.

Mano tesa all’Africa

Si è partiti con corsi in italiano, aprendo però poi la facoltà alla comunità internazionale con corsi in lingua inglese. Inoltre, si stanno organizzando master, summer e winter school, con progetti di ricerca per studenti da tutto il mondo e in particolare dall’Africa. Il progetto è preciso – spiega Pollice – arrivare a sostenere gli studi per giovani che provengono da aree disagiate dell’Africa, con l’ottica di formarli in modo che possano tornare nei loro territori e promuovere sviluppo.

Largo ai giovani

A proposito della risposta, Pollice sottolinea che è stata buona per un primo nuovo corso, ma soprattutto racconta che, nella sua esperienza di rettore, vede moltissimi ragazzi che dimostrano una fortissima sensibilità sui temi del dialogo e dello scambio tra culture, con una attenzione decisamente rinnovata e potenziata per quanto riguarda le priorità della pace. Non si può dire – avverte – che manchino di senso etico o di valori o che siano più superficiali rispetto alle generazioni precedenti, anzi.

L’appoggio della Chiesa locale

Per la sua vocazione universale alla pace, è stata chiamata in causa la Chiesa locale che, come spiega l’arcivescovo di Brindisi-Ostuni monsignor Domenico Caliandro, ha risposto prontamente e in modo concreto:

Monsignor Caliandro riferisce dell’incontro in questi giorni con il rettore Fabio Pollice e con il presidente del corso di Laurea Daniele De Luca, sottolineando di aver ascoltato importantissime parole a favore della promozione della pace e del dialogo. Un progetto che ha convinto monsignor Caliandro, che ha risposto “con entusiasmo”. E’ decisivo – spiega il presule – cercare il dialogo nell’urgenza delle situazioni di tensione, ma è fondamentale – aggiunge – costruire  processi di pace attraverso educazione e formazione, con l’impegno ad investire nelle nuove generazioni. In particolare, di fronte all’ipotesi di coinvolgere studenti da parti del mondo come l’Africa, dove difficilmente le famiglie possono assicurare il supporto economico per la durata del percorso di studi, monsignor Caliandro racconta di aver garantito il contributo dell’arcidiocesi. L’Università, in casi di studenti meno abbienti, copre le spese della retta e l’arcidiocesi assicurerà vitto e alloggio.

Nel solco della Fratelli tutti

L’enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti torna nelle parole di monsignor Caliandro, che spiega come sia normale che la Chiesa risponda prontamente e concretamente quando si tratta di “coltivare” orizzonti di pace, ma torna anche nelle argomentazioni del rettore Pollice, come un invito fondamentale a riscoprire una dimensione di fraternità per un’umanità che non si è ancora liberata della logica distruttiva di guerre e conflitti.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2022-02/universita-cooperazione-internazionale-onu-arcidiocesi-brindisi.html

La tutela dell’ecosistema in Italia si fa diritto costituzionale

Non più produttività nel dispregio di salute e ambiente: il rispetto di ecosistema e biodiversità viene inserito nella Costituzione italiana. Per la prima volta si incide sulla parte dei principi fondamentali. Un intervento in linea con la normativa Ue e i pronunciamenti della Corte costituzionale, come spiega l’esperto di diritto Giampaolo Rossi parlando di corretto adeguamento e spiegando il riferimento agli animali

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La tutela dell’ambiente e della biodiversità diventa principio costituzionale in Italia. Ieri pomeriggio, dopo la doppia lettura del Parlamento, la Camera ha dato l’ok definito – con 468 voti a favore, uno contrario e sei astenuti, quest’ultimi tutti di Fratelli d’Italia – al provvedimento che aggiorna la Carta costituzionale in materia di rispetto dell’ecosistema. L’indicazione più evidente che emerge è di “non ledere salute e ambiente per iniziativa economica”. Con una precisazione: “Anche nell’interesse – si legge – delle future generazioni”.

Due gli articoli modificati

In concreto, il provvedimento modifica gli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana e incide direttamente sullo Statuto delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano in materia di tutela degli animali. Da sottolineare che l’articolo 9 è nella prima parte della Costituzione, quella con i principi fondamentali ed è quello a tutela del patrimonio paesaggistico e di quello storico e artistico. Con la riforma si attribuisce alla Repubblica anche la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi. C’è poi la modifica all’articolo 41 che da ora in poi sancisce che l’iniziativa economica debba rispettare non solo la libertà e la dignità umana, ma anche – questa la novità – la salute e l’ambiente, prevedendo per questo anche programmi e controlli. Di fatto, dunque, sversare ad esempio liquami in un fiume nella post produzione diventa una vera e propria violazione della Costituzione.

Nel solco dei pronunciamenti della Corte costituzionale

Di corretto adeguamento parla Giampaolo Rossi, docente emerito di Diritto amministrativo, tra i primi ad occuparsi di diritto in relazione all’ambiente anche in ambito europeo:

Rossi sottolinea che in sostanza tra i principi costituzionali sino ad oggi c’era la cultura, la ricerca, la tutela del paesaggio del patrimonio storico e artistico, adesso c’è anche il riferimento diretto all’ambiente, alla biodiversità, alla tutela dell’ecosistema e degli animali. Era riduttivo riassumere ambiente, biodiversità ed ecosistemi, oggi a forte rischio, nel concetto di ‘paesaggio’, afferma Rossi. Si tratta di un passo importante  ma – afferma – è un adeguamento a quello che viene definito il diritto di fatto e cioè quello che fa riferimento alla giurisprudenza “viva”, ai pronunciamenti della Corte costituzionale che negli anni – ricorda – ha chiarito più volte che non si può anteporre il diritto alla produttività rispetto al diritto a vivere in un ambiente salubre, ad esempio. Rossi si sofferma sulla differenza tra il concetto di “principi supremi” e quello della loro concreta formulazione, che può sempre evolvere.

La radice nella normativa europea

Rossi invita inoltre a distinguere tra sensibilità del passato, quando non si pensava alle risorse ambientali in termini di emergenza, e a tempi più recenti in cui c’è una consapevolezza sui limiti e sulle esigenze del pianeta. Dunque ricorda che Costituzioni più antiche, come quella italiana finora, risentono della diversa impostazione mentale, mentre quelle più recenti tradiscono la nuova sensibilità. E infatti cita le normative europee, dal Trattato di Maastricht in poi, che hanno creato le basi per pronunciamenti a livello nazione come quello di ieri in Italia. Assicura dunque che trattandosi di normativa europea vincolante questo tipo di processo viene portato avanti in tutti i Paesi membri.

In tema di animali: divieto a trattamenti crudeli 

Rossi chiarisce che gli animali ovviamente fanno parte dell’ecosistema e in quanto tali sono considerati dalla nuova formulazione costituzionale, ma sottolinea anche che non è che gli animali diventino soggetti di diritto, perché non hanno capacità di agire, ma che d’ora in poi viene consolidato il principio di divieto di trattamenti crudeli.

La prima volta di un intervento sui principi fondamentali

E’ la prima volta che, nella storia della Repubblica, il Parlamento interviene sulla parte prima della Costituzione, quella che riguarda i princìpi fondamentali. Un intervento “rispettoso e necessario”. Si tratta di “un adeguamento reso necessario dai tempi”, ha sottolineato in Aula anche il deputato Stefano Ceccanti, docente ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università Sapienza di Roma, spiegando che “non banalizza l’iter di revisione costituzionale” né intacca l’equilibrio della prima parte della Costituzione che – ricorda – comprende 12 articoli  sui  ”principi fondamentali”. Almeno dagli anni “90, ci si è giustamente concentrati sugli aggiornamenti possibili sulla seconda parte, che evidenzia maggiormente i limiti del tempo, ribadendo spesso che i principi fondamentali sono intoccabili. Ma sarebbe sbagliato – ha avvertito Ceccanti – considerare le due parti della Costituzione come compartimenti stagni. Ovviamente Ceccanti ribadisce che resta la necessità di essere sempre prudenti in tema di interventi di modifica sui primi 12 articoli. A questo proposito ha ricordato che, negli anni ottanta, i componenti della Commissione Bozzi – tra i quali sedevano ancora esponenti dell’Assemblea Costituente e delle prime legislature repubblicane – avevano previsto un intervento analogo per la valorizzazione del diritto all’ambiente.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-02/italia-diritto-ambiente-costituzione-unione-europea-corte.html

Hinder: l’importanza dell’appello del Papa per lo Yemen

Un conflitto silenziato come un telefonino: così l’amministratore apostolico dell’Arabia, monsignor Paul Hinder, ribadisce l’urgenza di non voltarsi dall’altra parte di fronte al dramma delle guerre e – come detto da Francesco nell’intervista alla trasmissione televisiva Che tempo che fa – allo sfasamento delle priorità tra vita della gente e profitti delle armi. Il presule ricorda lo strazio dei bambini in un contesto di combattimenti e malattie

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo sette anni di combattimenti, il conflitto in Yemen si è intensificato nelle ultime settimane. Le forze della coalizione stanno cercando di strappare i territori conquistati dai ribelli Houthi, che controllano anche la capitale Sana’a.

Un drammatico scenario di guerra che il Papa ha citato, nell’intervista rilasciata domenica scorsa a Che tempo che fa, parlando di vite umane che per alcuni contano meno del profitto delle armi. L’eco dell’appello del Papa nelle parole di monsignor Paul Hinder, amministratore apostolico dell’Arabia:

Eccellenza, qual è stata la sua prima reazione al riferimento del Papa al conflitto dimenticato in Yemen?

Quando ho visto il commento di Papa Francesco, mi ha fatto piacere che abbia ricordato lo Yemen. La realtà è dolorosa e non fa certo piacere saperlo. Ma è vero che questo conflitto è come “silenziato”.  Qualche volta ho l’impressione che così come mettiamo il telefonino in silenzio – quando non vogliamo disturbare gli altri o anche se non vogliamo sentire noi gli squilli – così sembra che facciamo per quanto riguarda questo conflitto. E’ in ombra rispetto all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale.

Non piace neanche sentire quello che il Papa ha ricordato con forza a proposito di qualunque guerra, e cioè che significa dare la priorità alle armi piuttosto che alle persone, alla vendita di strumenti di morte piuttosto che alla vita delle persone…

E’ triste, ma è la realtà di quello che vediamo. Quelli che sono al potere evidentemente hanno interessi diversi da quanti hanno a cuore le persone. Come Chiesa siamo chiamati alla politica di riconciliazione e di pace, che rimane la nostra missione. Purtroppo spesso è una politica non vincente – dobbiamo essere onesti – nel senso che nella storia dell’uomo sono evidenti i conflitti.

Cosa può dirci della situazione in Yemen?

Da anni non mi è possibile andare in Yemen, io sono ad Abu Dhabi. Non ci sono voli diretti con Sana’a e non è possibile recarsi nel sud dello Yemen. Allora io non ho più una conoscenza diretta di quello che accade, ma posso solo avere l’eco di notizie.

Il Papa ha posto l’accento, tra l’altro, sul dramma dei bambini…

Sappiamo che nei teatri di guerra si diffondono molte malattie e che i bambini sono i più vulnerabili, non hanno la possibilità di difendersi, sono dipendenti dagli adulti. La guerra è un dramma, per i minori, quando c’è una famiglia, possiamo dire che va ancora bene invece, molto spesso, sono orfani di uno o di tutti e due i genitori. Sono il volto più fragile della società, a parte gli anziani.

Eccellenza, a parte i punti di vista sul conflitto, diverse popolazioni dei Paesi che partecipano alla coalizione che combatte i ribelli Houthi in Yemen hanno loro figli impegnati in questa guerra. Come si guarda al conflitto?

Credo ci siano stati degli eventi, ultimamente, che hanno risvegliato un po’ tutti ma, in alcuni casi, a fare la guerra sono stranieri. Certamente c’è una fascia di popolazione che prega per la pace o si augura la pace. Nelle chiese cristiane si prega per il bene di tutti.

Le parole del Papa

Nel corso dell’intervista, rilasciata sabato 5 febbraio alla trasmissione della Rai Radiotelevisione italiana ‘Che tempo che fa’, Papa Francesco ha detto: “Da quanto tempo lo Yemen soffre la guerra e da quanto si parla dei bambini dello Yemen?”. Per poi affermare che “ci sono categorie che importano e altre che sono in basso: i bambini, i migranti, i poveri, coloro che non hanno da mangiare”, aggiungendo: “Questi non contano, almeno non contano al primo posto, perché c’è gente che vuole bene a questa gente, che cerca di aiutare, ma nell’immaginario universale quello che conta è la guerra, la vendita delle armi”.

La cronaca

Dopo sette anni di combattimenti, il conflitto in Yemen si è intensificato nelle ultime settimane. Le forze della coalizione stanno cercando di strappare i territori conquistati dai ribelli Houthi che controllano anche la capitale Sana’a. Gli Houthi, da parte loro, hanno intensificato gli attacchi con missili e droni, che ora non colpiscono più solo obiettivi in Arabia Saudita ma, dallo scorso gennaio, anche negli Emirati Arabi Uniti. Nel fine settimana, fonti militari hanno fatto sapere che decine di soldati sono morti durante l’offensiva delle forze governative yemenite sferrata contro le posizioni dei ribelli Houthi a Harad, nella provincia di Hajjah, vicino al confine con l’Arabia Saudita. L’offensiva sembra sia ancora in corso.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2022-02/yemen-guerra-armi-popolazione-bambini-papa-francesco-tv.html

60 anni fa l’embargo Usa a Cuba

E’ passato alla storia come el bloqueo, l’embargo commerciale, economico e finanziario imposto dagli Stati Uniti all’isola conquistata dalla rivoluzione castrista. Nel bilancio di oltre mezzo secolo, a parte la parentesi di apertura voluta da Obama, non si trova traccia degli effetti auspicati da Washington, come chiarisce l’esperto di Americhe Raffaele Nocera

Fausta Speranza- Città del Vaticano

Il 7 febbraio 1962, con il “Proclama 3447” l’allora presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy impose l’embargo su ogni tipo di scambio con l’isola di Cuba dove si era imposto Fidel Castro.  Sessant’anni dopo, abbiamo parlato degli obiettivi e dei risultati di questa scelta con Raffaele Nocera, vice-presidente del Centro studi sull’America Latina (CeSAL) dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale:

Nel quadro storico tracciato dal professor Nocera si ricorda innanzitutto che Kennedy ampliò le restrizioni commerciali varate per Cuba da Eisenhower nell’ottobre 1960. Il Proclama 3447 richiamò l’autorizzazione emanata dal Congresso il 4 settembre 1961 con il Foreign Assistance Act, ma mentre questo provvedimento cercava le ragioni dell’embargo anche nel danno economico provocato ai cittadini statunitensi dagli espropri, il Proclama di Kennedy poneva l’accento solo sull’allineamento ideologico del governo di Cuba al comunismo sino-sovietico.

Il contesto americano

In ogni caso – sottolinea Nocera – si faceva riferimento agli esiti dell’incontro che si era svolto a Punta del Este, in Uruguay, dal 22 al 31 gennaio 1961, cioè l’ottavo Incontro di consultazione dei ministri degli Affari Esteri dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa). Il Documento finale approvato dai partecipanti parlava esplicitamente di “offensiva comunista in America”, paventando un pericolo per le istituzioni democratiche e l’unità del continente. Per questo istituiva un Comitato Speciale per la Sicurezza “contro la sovversione comunista” e dichiarava Cuba escluso dal Sistema Interamericano.

Obiettivi mancati dell’embargo

L’embargo doveva servire a mettere in difficoltà la popolazione, affamandola, per metterla contro la rivoluzione e dunque per far cadere Fidel Castro. E’ quanto si legge – chiarisce Nocera – in documenti statunitensi che negli anni sono stati declassificati e resi noti. Ma Nocera ricorda che questo non è successo: Fidel è rimasto al potere finché la salute glielo ha permesso e poi gli è succeduto il fratello Raul. Certamente nell’immediato la stretta dell’embargo si è sentita in modo forte e la popolazione ne avrà sofferto, ma poi i dirigenti di Cuba si sono avvicinati all’allora Urss trovando sostegno. C’è stata un’altra fase di evidente difficoltà quando, dopo la fine della guerra fredda, l’Unione sovietica si è dissolta. E bisogna ricordare che Bush senior prima nel 1992 e poi Clinton nel 1996 hanno perfino inasprito in quel momento le restrizioni, ma – ricorda Nocera –  a Cuba è venuto in soccorso il Venezuela. Quando poi Caracas ha conosciuto la gravissima crisi, di nuovo Cuba ha trovato l’aiuto della Russia e della Cina. Quindi, in sostanza non si sono mai visti gli effetti così come erano stati sperati da Washington.

Cuba tra difficoltà e ricerca di nuovi partner

La situazione di Cuba oggi. I rapporti sono – secondo la definizione di Nocera – nel solco della continuità. Il 17 dicembre 2014, il presidente statunitense Barack Obama aveva annunciato l’intenzione di porvi fine, ricorda Nocera spiegando che per poter essere effettivamente rimosso, sarebbe stato necessario il voto favorevole del Congresso controllato in quel momento dal Partito Repubblicano, che si è manifestato contrario. In ogni caso, comunque Obama ha alleggerito molto le restrizioni ma, con la fine della presidenza Obama, il presidente Donald Trump ha cancellato le decisioni di Obama. Trump ha rinnovato l’embargo fino a che non ci saranno “libere elezioni” nell’isola. In campagna elettorale – sottolinea Nocera – Biden ha annunciato di voler tornare alle posizioni di Obama ma finora nulla si è mosso. Di fatto oggi l’embargo resta sostanzialmente come il simbolo della criticità dei rapporti: Cuba resiste anche se tra tante difficoltà sul piano politico, democratico, economico sociale, e alla ricerca di rapporti con nuovi partner.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-02/stati-uniti-embargo-cuba-russia-venezuela-castro.html