Via libera al piano di rilancio Ue: fondi e “debito europeo”

Il vertice ricompatta le posizioni dei 27 Stati membri dell’Unione europea grazie a un compromesso che supera il veto di Polonia e Ungheria. Si tratta di misure inedite per l’entità, ma soprattutto per il principio di solidarietà applicato anche con un meccanismo di “debito europeo”, come spiega Enzo Moavero Milanesi, politico, giurista e accademico

Fausta Speranza – Città del Vaticano

I leader Ue hanno raggiunto l’accordo sul Next Generation Eu, cioè il cosiddetto piano di rilancio – da 750 miliardi di euro che fa parte di un pacchetto da 1.800 miliardi – trovando un compromesso con Polonia e Ungheria sul bilancio per i prossimi sette anni. Un difficile percorso iniziato con l’accordo di luglio scorso tra i Ventisette, che nei mesi successivi aveva affrontato, prima il negoziato con il Parlamento Europeo (che rivendicava i fondi per la ricerca promessi), poi per il veto di Varsavia e Budapest che si opponevano alla normativa che lega i fondi Ue al rispetto dello Stato di diritto. Dell’importanza di questi provvedimenti abbiamo parlato con il professor Enzo Moavero Milanesi, che è stato giudice di primo grado presso la Corte di giustizia Ue, direttore generale del Bureau of European Policy Advisors, e ministro per gli Affari esteri e in particolare europei in Italia:

Il professor Moavero Milanesi sottolinea innanzitutto i motivi di eccezionalità di questi provvedimenti. Si tratta – spiega – di una decisione che mette in moto finalmente davvero quella solidarietà prevista nei trattati fondativi della costruzione europea. La solidarietà si esprime nel fatto che si mettono in campo ingenti somme – quattro volte un normale bilancio – e che si mettono a disposizione in modo ripartito a seconda delle necessità dei vari Paesi, dovute ovvviamente in relazione alla crisi sanitario-economica derivante dalla pandemia. Si tratta di soldi che solo in minima parte sono erogati a prestito e comunque ad un tasso – sottolinea – ben inferiore a quello che per esempio l’Italia paga normalmente sui mercati. Per non dimenticare che il grosso dei fondi viene stanziato diciamo “a fondo perduto” senza dover essere restituito.

Un’occasione preziosa

Moavero Milanesi mette anche in luce l’importanza di un provvedimento di questo genere per un Paese come l’Italia, ma anche la Spagna e altri, che avevano, anche prima del coronavirus, criticità di bilancio. Il punto – sottolinea – è che Paesi come l’Italia non possono e non devono perdere la partita fondamentale alla quale sono chiamati: far davvero fruttare questi soldi con investimenti che rilancino l’economia. L’opportunità c’è – chiarisce – ed è ottima e non va persa. C’è poi un altro aspetto fondamentale che Moavero Milanesi rimarca: il salto concettuale che è stato fatto approvando il principio di un debito europeo che ammortizza in qualche modo quelli nazionali. Stati membri più forti, come la Germania, si erano sempre opposti – ricorda – mentre Paesi come l’Italia lo invocano da almeno 20 anni. Anche in questo caso lo studioso raccomanda che venga utilizzato nel modo migliore. In generale il provvedimento Next generation Eu vuole appunto essere a favore delle prossime generazioni e Moavero Milanesi ne sottolinea la potenziale efficacia ma raccomandando che Paesi come l’Italia, che in passato hanno fatto del debito pubblico proprio un’arma contro le future generazioni,  non spendano male i soldi a disposizione compromettendo i giovani di domani piuttosto che sostenendo l’economia del futuro.

Il compromesso

Un nuovo stallo sarebbe stato catastrofico per la credibilità stessa dell’Unione. Decisivo è stato il compromesso strappato dalla presidenza tedesca, mercoledì, agli altri 24 Paesi. La più critica era l’Olanda. Moavero Milanesi spiega che in sostanza il compromesso consiste in un allungamento dei tempi. La Commissione può sospendere l’erogazione di fondi Ue in caso di violazione da parte di uno Stato dei principi fondamentali dello Stato di diritto, ma è stata aggiunta la clausola secondo la quale, nel caso in cui uno Stato membro faccia ricorso davanti alla Corte di giustizia Ue, la Commissione dovrà sospendere l’eventuale stop ai fondi fino al verdetto della Corte. Un modo per prendere tempo, prezioso soprattutto per il primo ministro ungherese Viktor Orbán che nella primavera del 2022 deve affrontare le elezioni nazionali. Tra gli altri punti, la garanzia che sarà applicata in modo equo e senza discriminazioni, e solo al bilancio 2021-27 (non dunque ai fondi provenienti dal bilancio precedente), e infine che per uno stop sia necessario un  comprovato nesso tra la violazione in questione e l’impatto sugli interessi finanziari dell’Ue.

Via libera al Meccanismo europeo di stabilità (Mes)

I leader Ue “accolgono con favore” l’accordo raggiunto all’Eurogruppo sulla riforma del Mes e l’introduzione del paracadute finanziario (backstop) per il fondo salva-banche, che considerano “un passo fondamentale che spiana la strada al rafforzamento dell’Unione monetaria e dell’Unione bancaria”: lo scrivono i leader Ue nelle conclusioni dell’Eurosummit. I leader inoltre “invitano l’Eurogruppo a preparare, su base consensuale, un calendario di lavoro vincolante su tutti gli elementi che mancano per completare l’Unione bancaria”.

Climate change

Trovato anche l’accordo sul testo relativo alla lotta ai cambiamenti climatici. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, scrive su Twitter. “L’Europa è la leader nella lotta contro i cambiamenti climatici. Abbiamo deciso di tagliare le emissioni di almeno il 55 per cento entro il 2030”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-12/unione-europea-leader-consiglio-debito-polonia-ungheria.html

Resa dei conti finale sulla Brexit

Regno Unito e Ue fissano il termine ultimo: si negozia fino al 13 dicembre. E’ la decisione annunciata dopo la cena del premier britannico Johnson con la presidente della Commissione Ue, von der Leyen, a Bruxelles. Restano i nodi della pesca e della governance. Secondo l’esperto di giurisdizione commerciale Bepi Pezzulli non è ipotizzabile un allungamento del periodo di transizione

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Per il premier del Regno Unito, Boris Johnson, cena di lavoro a Bruxelles con la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Dopo giorni di negoziati serrati, si tenta fino all’ultimo di raggiungere un accordo che eviti la Brexit no deal, cioè la scadenza a fine dicembre dell’anno di transizione, senza un nuovo accordo commerciale. Il colloquio di ieri sera ha rilanciato la possibilità di un accordo ma fissando la data di domenica come termine ultimo. Di fatto è stato ribadito soltanto il passo in avanti sul confine irlandese mentre restano questioni irrisolte, come conferma, nella nostra intervista, l’esperto di giurisdizione commerciale Bepi Pezzulli:

Pezzulli sottolinea che Johnson ha confermato che il governo britannico eliminerà alcune norme proposte a settembre in violazione del Withdrawal Agreement, che avevano fatto irrigidire le posizione dell’Unione e che costituivano, fra l’altro, una violazione delle leggi internazionali. Ad annunciarlo erano stati martedì Michael Gove, ministro britannico dell’Ufficio di Gabinetto, assieme al vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič. Le norme in particolare – spiega Pezzulli – mettevano in discussione gli accordi presi tra il Regno Unito e l’Ue a proposito della situazione dell’Irlanda del Nord, che dovrebbe rimanere allineata alle leggi europee in materia di dazi e circolazione di beni e servizi altrimenti si richiuderebbe il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord.

Superata l’impasse sul confine irlandese

Pezzulli spiega che sono state definite alcune “soluzioni” interpretative condivise dell’accordo di recesso sottoscritto l’anno scorso tali da convincere il governo di Londra a ritirare le parti più controverse di due disegni di legge interni – in primis l’Internal Market Bill, riproposto giusto lunedì sera dalla Camera dei Comuni in una versione integrale considerata inaccettabile dai 27 – con cui Londra minacciava di rivendicare il potere di modificare unilateralmente i patti, in violazione del diritto internazionale, pur di blindare la sua sovranità sull’Irlanda del Nord in caso di no deal commerciale. Bruxelles – ricorda – ha difeso il principio per cui l’assenza di barriere fisiche è tutelata dagli storici accordi di pace del Venerdì Santo 1998.

Nodi cruciali

Pezzulli ricorda che restano due questioni aperte: quella della pesca, delle zone territoriali accessibili per gli altri Paesi Ue – in particolare è interessata la Francia – e poi il cosiddetto level playing field, cioè la richiesta da parte dei 27 di leggi che, in caso di accordo commerciale, siano armonizzate ai principi basilari dell’Ue, per esempio in tema di ambiente. Johnson ha chiarito – sottolinea Pezzulli – che Londra non ammette deroghe affermando: “Non possono impedirci di controllare le nostre leggi e le nostre acque”. Ma anche Bruxelles spiega che non può pensare che ci siano leggi troppo distanti che provocherebbero sperequazioni tra le istanze commerciali.

La proposta del sindaco di Londra

In giornata il sindaco di Londra, Sadiq Khan, aveva parlato della possibilità di prolungare il periodo di transizione definendola “la soluzione più sensata e più giusta”. Ma Pezzulli spiega che in realtà non è un’ipotesi al vaglio. L’uscita del Regno Unito dall’Ue è avvenuta ed è trascorso il periodo di transizione, ora l’unica possibilità, secondo il giurista, è trovare un accordo in extremis prima della fine di dicembre, oppure pensare di raggiungere un accordo in un altro momento in futuro. Pezzulli sottolinea che per un negoziato c’è sempre la possibilità, ovviamente, anche dopo l’uscita no deal.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-12/unione-europea-brexit-regno-unito-irlanda.html

In Romania il passo indietro del primo ministro

“Non mi attacco alle poltrone”: così Orban, che ha rimesso il suo mandato dopo il risultato delle legislative. A dispetto delle previsioni dei sondaggi, a spoglio quasi concluso, il 29 per cento dei consensi è stato conquistato dal Partito socialdemocratico (Psd) anche se le maggiori chance di formare il governo le ha il centrodestra potendo contare su un maggiore spettro di alleanze. Secondo l’analista Antonello Biagini, siamo ancora una volta di fronte a maggioranze fragili e a voti di protesta, come in altri Paesi, mentre preoccupa la bassa affluenza alle urne

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In un discorso televisivo, il primo ministro romeno uscente Ludovic Orban, conservatore europeista, ha annunciato le sue dimissioni dopo che il suo Partito liberale (Pnl) alle elezioni legislative di ieri ha ottenuto meno del 25 per cento dei consensi. Oltre il 29 per cento è stato raggiunto dal Partito socialdemocratico (Psd) che in Romania è su posizioni antieuropeiste e sovraniste. Si tratta di un risultato imprevisto. Un altro dato sorprendente è rappresentato dall’astensione: soltanto il 31.84 per cento si è presentato a votare, la percentuale più bassa mai registrata.

In ogni caso, nonostante che siano in testa nello spoglio, i socialdemocratici quasi sicuramente resteranno tagliati fuori dalle alleanze in vista del nuovo esecutivo. I liberali di Orban, appoggiati dal presidente Klaus Iohannis, possono contare  sull’appoggio di USR-Plus, formazione moderata di centrodestra alla quale è andato il 15.04 per cento, e degli altri due soli partiti che sono andati oltre lo sbarramento del 5 per cento: il partito nazionalista dell’Aur (8.26 per cento),  nato un anno fa, e l’UDMR, il partito della minoranza ungherese, che con il suo 7.42 per cento è pronto a collaborare in un’alleanza di governo.

Per una riflessione sul voto abbiamo intervistato Antonello Biagini, docente di Relazioni Internazionali all’Università Sapienza di Roma:

Cresce la sfiducia dei romeni

Per quanto riguarda l’orizzonte politico che questo voto apre, il professor Biagini ricorda che il partito liberale alla guida del governo, anche se non avrà la maggioranza potrà contare un’altra volta sulle alleanze. Si tratta di una situazione – spiega Biagini – che si ripropone in realtà da tempo in molti Paesi europei. E c’è poi la forte affermazione del partito di estrema destra e, anche in questo caso, Biagini sottolinea l’analogia con altri risultati elettorali degli ultimi anni in altri contesti. In particolare, a proposito della affermazione dei socialdemocratici quale primo partito, lo studioso ricorda che è soltanto un recupero rispetto alle perdite degli ultimi decenni e che conferma lo scontento di quanti, pur senza voler tornare al regime comunista, vogliono però esprimere il loro disappunto per alcune promesse fatte dalla democrazie e non mantenute, come – cita Biagini – tante opere infrastrutturali. Certamente al momento c’è il fattore Covid-19 che complica la situazione già difficile della crisi economica, anche perché non c’è stata una vera gestione inizialmente della crisi, ricorda il docente. Anche per la estrema destra si deve parlare di voto di protesta, con caratteristiche che – dice Biagini – ci riportano a formazioni simili in Polonia e in Ungheria. Ma quello che davvero preoccupa – afferma – è il dato della bassa affluenza, perché in qualche modo esprime un triste scollamento dai meccanismi democratici, una sorta di crescente sfiducia.  Nello spoglio delle schede non sono ancora conteggiati i voti dei romeni all’estero, storicamente vicini ai partiti di centrodestra.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-12/romania-elezioni-governo-affluenza.html

Si cerca il dialogo in Siria mentre il Paese è allo stremo

A Ginevra settimana di colloqui inter-siriani mediati dall’Onu per la modifica alla costituzione del Paese: si dovrebbe faticosamente aprire la via a nuove elezioni, mentre si confermano divergenze sul piano interno e tra le potenze internazionali coinvolte. Per la popolazione la situazione peggiora: oltre l’80 per cento è caduta in povertà, come denuncia il cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico nel Paese

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’inviato speciale degli Stati Uniti per la Siria, Joel Rayburn, ha incontrato ieri ed oggi le autorità turche ad Ankara per discutere degli sviluppi del conflitto siriano, in particolare degli sforzi per una de-escalation nella regione nordoccidentale di Idlib, ancora contesa tra le forze di Bashar al Assad, appoggiate da Russia e Iran, e milizie locali legate   alla Turchia. La delegazione, guidata da Rayburn, ha avuto colloqui con il portavoce e consigliere del Recep Tayyip Erdoğan, Ibrahim Kalin, e il viceministro degli Esteri, Sedat Onal.

Per capire il margine di confronto possibile e le implicazioni, abbiamo intervistato Daniele De Luca, docente di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università del Salento:

Lo studioso ricorda quanto sia difficile avvicinare le posizioni delle parti dopo dieci anni di conflitto in cui all’esercito di Assad si sono opposti inizialmente forze di opposizione improvvisate e poi miliziani legati a gruppi e sottogruppi diversi tra loro. M soprattutto mette in luce che negli ultimi anni per gli sviluppi sul terreno hanno avuto un ruolo preponderante Russia, Iran, Turchia, mentre progressivamente già a partire dalla presidenza Obama, si è ridotta l’influenza degli Stati Uniti. De Luca spiega che il confronto di questi giorni ha riguardato i possibili futuri sviluppi del dialogo intra-siriano, in particolare per arrivare a una commissione costituzionale e ad un percorso per eventuali future elezioni. Questo è l’obiettivo ma – ribadisce – il cammino appare proprio difficile.  Il governo di Erdoğan ha   ribadito la richiesta di ritirare definitivamente il sostegno ai curdi-siriani che si ritrovano sotto la sigla Ypg/Ypj, che sono considerati  “terroristi”, ma è solo uno di punti in discussione.

La questione profughi

De Luca ricorda che, nell’agenda dei colloqui, c’è la situazione dei profughi siriani, sottolineando che non se ne parla però abbastanza. Si tratta di oltre 3,6 milioni di rifugiati siriani presenti in Turchia e di oltre un milione presenti sul piccolo territorio del Libano. De Luca ricorda che la presenza in Turchia è motivo di “contrattazione” con l’Unione europea: Ankara torna spesso a ipotizzare di aprire i confini verso i Paesi Ue.

Le possibili attese per il cambio di presidenza Usa

Per quanto riguarda sia il percorso interno di pacificazione sia il rientro dei profughi, in prospettiva ci si chiede quale potrebbe essere in futuro il contributo di Washington visto che dal 20 gennaio la presidenza pasa a Joe Biden.  De Luca sottolinea che il presidente eletto non ha ancora esplicitato le sue intenzioni. In tema di politica estera, infatti, in campagna elettorale e poi subito dopo al momento della vittoria, Biden si è limitato a parlare di rinnovate relazioni con l’Unione europea. Questo potrebbe significare anche un approccio diverso nei confronti del Medio Oriente ma – spiega De Luca – è tutto da vedere. In tema di Medio Oriente non si può non considerare – afferma – che qualcosa si è messo in moto dopo l’accordo commerciale tra Israele e Emirati Arabi Uniti, e poi con il Bahrein, con il Sudan e sembra anche tra poco con l’Oman. Si tratta del cosiddetto accordo di Abramo che De Luca definisce positivo per tutta l’area ma difficilmente in grado di provocare a breve conseguenze positive per la Siria.

La denuncia del cardinale Zenari

“La Siria è sempre più povera e disperata, dopo dieci anni di guerra è un Paese ammalato”. Sono parole del nunzio apostolico in Siria, il cardinale Mario Zenari che, in un video dell’ong Avsi, racconta di “lunghe code di persone che attendono di comperare il pane presso i panifici a prezzo sovvenzionato dal governo” e di “tanti feriti di guerra e malati che portano le conseguenze di 10 anni di esplosivi e bombe di ogni genere che hanno inquinato l’ambiente”. Sulla Siria – sottolinea il nunzio – “grava inoltre la coltre di silenzio che,  come diceva Papa Francesco a gennaio scorso, rischia di coprire la sofferenza di dieci anni di guerra”.  “Sono morte molte persone in Siria, difficile calcolarne il numero, dire quanti feriti, quante case, quartieri e villaggi sono stati distrutti. Stiamo assistendo alla morte della speranza. La gente è esacerbata. Pensava che una volta finite le bombe, cominciasse la ripresa economica, la ricostruzione”. Nulla di tutto ciò.

L’iniziativa “Ospedale aperti” continua

Quattro anni fa il cardinale Zenari ha lanciato il progetto “Ospedali Aperti” con l’obiettivo di assicurare cure mediche gratuite anche ai più poveri grazie al coinvolgimento di tre nosocomi cattolici no profit, due a Damasco e uno ad Aleppo, all’aiuto di diversi donatori, tra cui la Cei, la Fondazione Policlinico universitario Gemelli e il dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, e al supporto tecnico di Avsi. “Alla fine di questo 2020 – spiega Zenari – avremo assistito circa 40.000, o forse più, malati poveri. Il progetto si protrarrà ancora nel 2021, e speriamo di rispondere ai bisogni di 50.00 malati poveri”.  Tantissime le persone ferite dalla guerra, anche interiormente, come i bambini, traumatizzate dalle bombe, dalle esplosioni. “Ogni giorno – ricorda il porporato – centinaia di migliaia di esplosivi sono stati riversati sul territorio e questi hanno inquinato, ferito l’ambiente, l’aria e il suolo”. Un degrado che sta alla base dell’incidenza di tante gravi patologie, soprattutto oncologiche, che colpiscono i siriani, in particolare minori. C’è anche l’obiettivo di cercare di ricucire il tessuto sociale accettando qualsiasi ammalato di al di là di ogni appartenenza etnico-religiosa.

L’emergenza Covid-19

In Siria le conseguenze della diffusione del virus rischiano di essere catastrofiche a causa della mancanza di posti letto ospedalieri, reparti di isolamento e terapia intensiva, fattori che aumentano considerevolmente il tasso di mortalità del virus. Se a metà ottobre i casi erano poco sotto i 5000, alla fine di novembre erano saliti a oltre 7.500. Numeri impossibili da confermare a causa del conflitto e della situazione di isolamento in cui si trova il Paese, con molte zone che non sono sotto il controllo governativo.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-12/siria-guerra-pandemia-onu-dialogo-potenze-internazionali.html

Da Beirut don Elia chiede autentico rinnovamento per il Libano

Distruzione e crisi economica: la situazione in Libano resta molto difficile. La denuncia dell’Onu è confermata da Beirut da don Elia Mouannes, mentre è in corso una nuova conferenza dei donatori. Le necessità sanitarie si uniscono all’esigenza profonda di un “autentico rinnovamento” socio-politico. Poi il racconto dell’impegno della Chiesa ricordando l’importanza dell’invito del Papa a farsi povera tra i poveri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A quattro mesi dall’esplosione nel porto di Beirut, che il 4 agosto scorso ha provocato oltre 220 vittime, 6000 feriti e 300.000 sfollati, la popolazione libanese e i familiari delle vittime continuano a cercare risposte a quanto accaduto e a patire le tragiche conseguenze esasperate da oltre un anno di default finanziario e dalla diffusione del Covid-19. E’ il quadro che emerge nella videoconferenza organizzata dal presidente francese Macron  per fare il punto sugli aiuti internazionali. Alla conferenza hanno preso parte oltre all’Unione Europea, anche gli Stati Uniti, il Canada e i Paesi arabi del Golfo.

Le parole di Guterres

“La pandemia in Libano – ha sottolineato Guterres – ha aggravato una situazione economica e finanziaria fragile. La povertà continua ad aumentare e i servizi sanitari e le scuole sono allo stremo. Pochi hanno accesso alla fornitura di acqua ed elettricità. Per molti, il cibo è diventato una sfida quotidiana”. “La frustrazione sociale rimane, ha aggiunto, mentre l’opinione pubblica attende i risultati di un’indagine trasparente, imparziale e credibile sulle cause dell’esplosione”.Inoltre, ha proseguito il capo dell’Onu, ”il popolo libanese attende da troppo tempo la formazione di un nuovo governo, che dovrà avere la capacità di attuare le riforme necessarie per guidare il Libano sulla strada della ripresa”.

L’appello Onu sul piano politico

Il 10 agosto, sei giorni dopo le esplosioni a Beirut  – ha ricordato Guterres – il governo libanese guidato da Hassan Diab si è dimesso. Il diplomatico Moustapha Adib, chiamato a formare un nuovo governo, non ha raggiunto un accordo sull’assegnazione dei portafogli ministeriali. Dunque, Saad Hariri, capo del governo libanese dal 2016 al 2019, è stato nuovamente incaricato di formare il governo, ma finora le consultazioni non hanno sortito un risultato. Guterres ha dunque invitato la comunità internazionale a chiedere ”con una sola voce, alla leadership libanese, di mettere da parte interessi politici e formare un governo che risponda alle esigenze del popolo”. Infine Guterres ha chiesto ai Paesi donatori di sostenere il programma di riforme, ripresa e ricostruzione messo a punto dalla Banca mondiale, dall’Unione europea e dalle Nazioni Unite. ”Con un approccio di pianificazione urbana sostenibile e una rapida ripresa socio-economica, ha concluso, la rivitalizzazione di Beirut, come cuore pulsante del Libano, può iniziare”,

L’impegno e la testimonianza della Chiesa

Subito dopo l’esplosione, Papa Francesco ha inviato, tramite il Dicastero vaticano per lo Sviluppo umano integrale, un primo aiuto di 250.000 euro. La Conferenza episcopale italiana ha deciso di destinare al Libano un milione di euro, dai fondi dell’8 per mille. L’ufficio del Regno Unito di Aiuto alla Chiesa che Soffre ha annunciato un pacchetto di aiuti di 5 milioni di euro per la ricostruzione di edifici e chiese della capitale. Sono alcuni esempi di contributi che Don Elia Mouannes, parroco della Parrocchia di San Michele Anahor a Beirut, definisce “preziosi”, raccontando nel concreto alcune situazioni di bisogno:

Don Elia cita l’esempio di persone che non riescono a pagare cure necessarie, come un intervento alla testa per una ragazza rimasta ferita il 4 agosto o la rimozione di un tumore  diagnosticato ad un ragazzo. Si tratta di storie e di persone concrete che bussano alla parrochia di don Elia o alla Diocesi, o in generale al patriarcato maronita. Il parroco spiega che, ad ogni livello, anche quello della Caritas locale, si cerca di prestare aiuto, sottolineando però che in molti casi la differenza economica tra il poco che può assicurare il sistema sanitario nazionale e le richieste delle strutture è davvero alto, in particolare se valutato in moneta locale per la popolazione. Spiega che in questo momento poche centinaia di dollari, con la forte svalutazione della lira libanese, che ha perso l’80 per cento del valore che aveva prima del marzo 2019, diventa un cifra proibitiva.

Andare oltre l’aiuto economicoDon Elia sottolinea anche che non si può pensare ai problemi del Libano solo in termini di necessità di soldi. Senz’altro – ribadisce – è necessario l’aiuto che potrà essere confermato dalla videoconferenza internazionale in corso, ma non si può dimenticare che al Libano serve un autentico rinnovamento del sistema. A questo proposito, don Elia racconta della sfiducia della gente che teme fortemente che i soldi che potranno arrivare si possano perdere nei meandri della burocrazia e di percorsi di corruttela e possano non arrivare a rispondere alle necessità più concrete.

L’auspicio e la speranza

Don Elia esprime l’umano auspicio che davvero da questo tempo di estrema difficoltà possa venire la spinta per un cambiamento di sistema in Libano. E poi parla di speranza cristiana, raccontando la personale particolare preghiera per questo Avvento che può portarci la grazia di accogliere il Salvatore. E ricorda che nella sua preghiera e nella preghiera dei suoi confratelli, c’è il richiamo alle parole di Papa Francesco che ha chiesto alla Chiesa libanese di essere povera tra i poveri. Per don Elia – dice – cercare di rispondere alla chiamata di Papa Francesco in questo senso, in questo momento concreto, è motivo di gioia spirituale.

Nella cronaca dal Libano un nuovo scandalo

I media parlano oggi dell’incriminazione di otto militari in pensione per “arricchimento illecito”. Tra gli accusati di corruzione c’è l’ex capo dell’esercito Jean Kahwaji, che ha ricoperto l’incarico dal 2008 al 2017, e diversi ex capi dell’intelligence militare. Un procuratore ha avviato un procedimento per il loro presunto “arricchimento illecito” avvenuto “utilizzando le loro posizioni ufficiali per raccogliere vaste ricchezze”. E’ stata menzionata anche una banca che diversi anni fa avrebbe permesso a Kahwaji e ai membri della sua famiglia di depositare somme fino a 1,2 milioni di dollari sui loro conti senza giustificarne l’origine. Gli imputati saranno interrogati il 10 dicembre.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-12/libano-francia-beirut-aiuti-conferenza-internazionale-onu.html

Il “rito congolese” esempio di inculturazione per altre culture

Messaggio del Papa alla presentazione del libro sul Messale Romano per lo Zaire

Con un videomessaggio il Papa ha fatto sentire la sua voce alla presentazione del libro a cura di Suor Rita Mboshu Kongo dedicato al Messale Romano per le Diocesi dello Zaire, edito dalla Lev. Un volume che ha la prefazione di Francesco che parla di “modello per altre culture”. Sono intervenuti il cardinale Tomasi e il liturgista padre Silvestrini, mettendo in luce la profondità dell’esperienza ecclesiale dell’inculturazione

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si intitola precisamente “Papa Francesco e il Messale Romano per le diocesi dello Zaire” e contiene i contributi di cinque autori. La prefazione del Papa arricchisce il testo e spiega il valore dell’inculturazione della liturgia, facendo riferimento al Concilio Vaticano II.  Ed è quello che ha ribadito il Papa nel suo video messaggio salutando quanti si sono ritrovati per la presentazione, in presenza o in collegamento online, e tornando a felicitarsi per un testo e soprattutto un’esperienza ecclesiale che può essere modello per altre culture a partire da quelle dei popoli amazzonici.

E proprio di “frutto meraviglioso di impegno costante e di dialogo” ha parlato il cardinale Silvano Maria Tomasi, già nunzio in Etiopia e poi Osservatore permanente della Santa Sede presso L’Onu a Ginevra. Il  porporato ha sottolineato – nella presentazione avvenuta martedì 1 dicembre nella sede del Dicastero per la Comunicazione – come il libro sia “un’opera della Chiesa locale in comunione con la Chiesa universale”, spiegando che di un lungo impegno si è trattato, con momenti di intenso lavoro e colloqui internazionali tra esperti. Ma quello che davvero sembra importante, nelle parole del cardinale Tomasi, è lo spirito, frutto del Concilio Vaticano II, che lo anima: “lo spirito della Chiesa inclusiva di Papa Francesco”:

Una Chiesa – ha ribadito il cardinale Tomasi – che guarda ad altre culture, proprio come si legge nel sottotitolo che il Papa ha richiamato nel suo videomessaggio: “Un rito promettente per altre culture”:

Il porporato si è soffermato sul significato e il peso dei vari capitoli ricordando, tra l’altro, la centralità della celebrazione secondo il rito zairese avvenuta con Papa Francesco il 1 dicembre 2019 nella Basilica vaticana. Un momento di entusiasmo di fede in cui – spiega – sono emersi i “tratti gioiosi” del rito e di una “spiritualità che prorompe” e che palesa anche il suo “forte radicamento alla trascendenza”. “Non è solo questione di colore o di movimenti”, ha affermato il cardinale Tomasi, spiegando che “si va più in profondità, si tocca l’anima della gente, la forza della vita che prorompe”.

Il significato della data del 1 dicembre

Una celebrazione – ha ricordato il moderatore dell’incontro padre Jean Pierre Bojoko responsabile della sezione francese Africa di Radio Vaticana – voluta il 1 dicembre perché in questo giorno nel Martirologio romano si legge l’elogio della religiosa congolose Maria Clementina (al secolo Alphonsine) Anuarite Nengapeta della Congregazione delle Suore della Sacra Famiglia di Wamba, dichiarata martire e proclamata beata da Giovanni Paolo II nel 1985. Dunque, proprio il 1 dicembre di un anno dopo, è stata organizzata la presentazione del volume.

Alcuni esempi di particolarità

Padre Bruno Silvestrini, liturgista-Custode del Sacrario apostolico, ha sottolineato innanzitutto il legame profondo con il Messale Romano di cui – ha ricordato – in questo periodo abbiamo ricevuto la terza edizione:

E poi a Padre Bruno è stato affidato il compito, nel dibattito, di citare e spiegare alcune delle particolarità:

Padre Bruno ha citato innanzitutto la specificità al momento delle invocazioni: non solo solo per i santi, come avviene in modo consueto, ma si fa appello anche agli antenati e questo perché – ha spiegato – ricordarli è importante nella sensibilità umana e spirituale del popolo di Dio che forma la chiesa congolese. Poi Padre Bruno ha ricordato che sono ammessi anche per i ministranti e per il celebrante, in alcuni momenti precisi, movimenti ritmici. E ha citato la gioia che accompagna in questo rito il canto di Gloria. Poi il liturgista ha fatto altri esempi, come quello dell’ascolto seduti della proclamazione del Vangelo e dell’incensazione ad ogni celebrazione del Libro del Vangelo. Alcune particolarità – ha spiegato – si ritrovano nel rito ambrosiano.

Anche padre Bruno ha parlato di “profondità” da cogliere, sottolineando alcuni elementi che a suo avviso sono centrali nella spiritualità africana, come la solidarietà, la fraternità, la condivisione che possono richiamarci – ha detto – al valore proprio della comunità dei credenti: “quello di essere una grande famiglia che vive l’Amore”.

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-12/papa-chiesa-messale-liturgia-chiesa-concilio-vaticano-africa.html

Ultimatum in Etiopia

Il governo etiope invita la comunità internazionale ad astenersi da “non graditi e illegittimi atti d’ingerenza” e annuncia l’offensiva finale nel conflitto in atto nella regione del Tigray, scoppiato lo scorso 4 novembre. L’Unicef parla di emergenza umanitaria e dalla confinante Eritrea, i vescovi lanciano un forte appello al dialogo. “Una situazione di destabilizzazione dell’area potrebbe rafforzare il peso dei terroristi”, avverte nella nostra intervista l’africanista Anna Bono

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il primo ministro, Abiy Ahmed, ha ordinato all’esercito federale di lanciare “l’offensiva finale” contro le forze separatiste della regione autonoma del Tigray, dove da settimane è in corso un conflitto armato. “L’esercito – ha dichiarato Ahmed, Nobel per la Pace 2019 – ha ricevuto l’ordine di intervenire sul capoluogo Mekele (Macallè)  contro le forze armate ribelli tigrine che fanno capo al Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tpfl). “Si farà di tutto – assicura il capo del governo sul suo profilo Facebook – per proteggere i civili” e “perché la città di Mekele non subisca gravi danni”. Ieri il primo ministro etiope aveva fatto sapere di non accettare ingerenze nella gestione del braccio di ferro con la regione del Tigray.

Ascolta il servizio

L’esercito federale è alle porte di Makallè, capitale della regione più a nord dell’Etiopia. Abitata da 500.000 persone è sede del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf), partito di governo locale. E’ scaduto l’ultimatum di 72 ore per la resa intimato domenica dalle autorità di Addis Abeba, ma il leader locale risponde che la sua gente è “pronta a morire” in difesa del proprio territorio. Il conflitto è maturato nei mesi scorsi, da quando, a settembre, il partito al governo del Tigray (Tigray People’s Liberation Front) ha organizzato le elezioni nella regione, contro il parere del governo federale. Centinaia, finora, le vittime degli scontri e migliaia gli sfollati, rifugiatisi nel vicino Sudan.

Per capire l’origine e la gravità di questo conflitto, abbiamo intervistato l’africanista Anna Bono:

La professoressa Bono inizia la sua analisi ricordando le origini del conflitto: a settembre nella regione del Tigray si sono svolte le elezioni che il governo federale aveva chiesto di sospendere per via dell’emergenza pandemia. Una scusa, secondo il gruppo etnico dei tigrini perchè in realtà non si vuole concedere autonomia al potere locale. Bono spiega che trattandosi di una  federazione di nove regioni in realtà la questione non nasce intorno all’autonomia locale ma ha un altro significato. Fino all’arrivo al governo del primo ministro Ahmed il gruppo del Tigray ha tenuto il controllo del potere centrale e dunque di questo si tratta: la contesa nasce intorno a questa posta in gioco.

L’emergenza umanitaria

Bono si sofferma sull’allarme lanciato dall’Unicef per 2,3 milioni di bambini a rischio nella regione, per poi spiegare che normalmente si tratta di territori che si reggono sull’assistenza delle organizzazioni internazionali e dunque è particolarmente grave che di fronte all’imminenza dell’offensiva e già in presenza di settimane di scontri, il personale di queste organizzazioni si sia dovuto allontare. La studiosa ricorda anche che si trattava delle uniche fonti di informazioni per il mondo occidentale.

Un conflitto polveriera

E’ evidente – sottolinea Bono – la ripercussione immediata sull’equilibrio del Sudan che già dal 4 novembre ha ricevuto migliaia di persone in fuga dal Tigray, così come sono immediate le preocccuapazioni per le possibili implicazioni dell’Eritrea che è stata in conflitto con l’Etiopia e che confina con il  TIgray. E poi c’è un’altra indicazione importante nelle parole di Bono: bisogna guardare alla Somalia perché il Paese riesce a tenere testa agli attacchi e alle ingerenze degli jihadisti perché ha il pieno appoggio dell’Unione africana, che ha la sua sede principale ad Addis Abeba, e dell’Etiopia. Una situazione di destabilizzazione dell’area potrebbe rafforzare il peso dei terroristi.

Il tentativo dell’Onu

Alla riunione d’urgenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu i Paesi africani hanno fatto un passo indietro spiegando di voler concedere più tempo agli sforzi diplomatici dell’Unione africana. In molti hanno espresso la preoccupazione per una crisi umanitaria e la destabilizzazione del Corno d’Africa.

L’appello dei vescovi eritrei

Dalla vicina Eritrea arriva l’appello della Conferenza episcopale: i presuli esprimono profonda tristezza e ricordano che “in guerra perdono tutti”. Ribadiscono che “la guerra è contro la vita e contro lo sviluppo” perché “uccide, mutila, distrugge e semina odio tra la gente”. Nella nota dei vescovi si legge inoltre che la guerra non ha un vero significato ed è sempre ingiusta”, perché “distrugge i quattro pilastri della pace, ossia verità, giustizia, amore e libertà”.

Non c’è pace senza verità e giustizia

La verità è essenziale alla riconciliazione, spiegano i presuli, perché “all’interno della società non assicura solo i diritti individuali, ma salvaguarda il bene comune proteggendo i diritti degli altri come fondamento della pace”. Al contempo, “la giustizia garantisce i diritti di tutti, incentivando il progresso per costruire la pace”, mentre “l’amore infonde empatia per i bisogni del prossimo, creando reciprocità”. Infine, la libertà “permette alle persone di contribuire allo sviluppo della pace”. In quest’ottica, i presuli “in nome di Dio e per il bene dei popoli”, chiedono “l’immediata cessazione delle ostilità” ed invitano le parti in causa “a risolvere il conflitto attraverso il dialogo”. La dichiarazione dei vescovi si conclude con l’esortazione rivolta a “clero, religiosi e fedeli” affinché “si impegnino nella preghiera” per la pace.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-11/etiopia-eritrea-vescovi-appello-pace-guerra-onu-ultimatum.html

Non solo Covid: l’Ue discute di misure di inclusione

Si registrano alcuni dati positivi in tema di pandemia in Europa e si cercano misure condivise per le festività perché non portino nuovi picchi di contagi. Ma intanto rischia di passare sotto silenzio il piano di azione della Commissione Ue in tema di migrazioni. “È proprio in un momento in cui non c’è un’emergenza sbarchi che bisogna pianificare politiche a lungo termine”, sottolinea la professoressa Laura Terzera

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Francia riapre: il presidente Macron ha annunciato lo sblocco del lockdown anche se gradualmente a tappe. Anche in Italia si parla di riduzione dei contagi. C’è la speranza che arrivi presto il vaccino ma non potrà accadere prima delle festività, periodo ad altissimo rischio contagi. Si parla di un numero massimo di persone a tavola, ma soprattutto delle piste da sci. L’Austria vuole tenerle aperte, la Francia si prende 10 giorni per decidere. Il primo ministro italiano Conte ieri ha avviato il dibattito con la presidente von der Leyen anche perché si ipotizzano sostegni europei al settore. In ogni caso, se si va verso misure straordinarie, è fondamentale coordinarsi il più possibile. Assurdo e controproducente che un Paese le tenesse aperte e un altro confinante no. Si dicono d’accordo il cancelliere tedesco Merkel e Macron e a livello informale c’è già una scadenza: un’intesa su misure concertate entro il 2 dicembre.

A Bruxelles si discute anche del piano di azione per l’inclusione

C’è da dire che l’emergenza Covid rischia di assorbire tutte le energie e l’attenzione, anche mediatica, che non dovrebbero mancare su altri fronti: ieri la commissione Ue ha presentato il piano di azione per l’inclusione sociale che dovrebbe essere lanciato per il periodo 2021-2027: si parla  di migranti, di lavoro, di accesso ai servizi sanitari, di alloggi adeguati a prezzi accessibili, ma si legge anche di misure per l’istruzione e la formazione inclusiva dalla prima infanzia all’istruzione superiore, con particolare attenzione alla facilitazione del riconoscimento delle qualifiche e all’apprendimento linguistico, tramite il sostegno dei fondi dell’Ue. E misure per la promozione dell’accesso ai servizi sanitari, anche per la salute mentale, per le persone provenienti da un contesto migratorio. Oltre a prevedere finanziamenti appositi, il piano d’azione intende garantire che le persone siano informate sui loro diritti e riconosce le specifiche difficoltà incontrate dalle donne, specialmente durante la gravidanza e dopo il parto. Il piano d’azione sostiene inoltre lo scambio d’informazioni tra gli Stati membri.

Per soffermarsi sull’importanza di questo tipo di politiche comuni a lungo termine abbiamo intervistato l’esperta di questioni migratorie Laura Terzera, docente presso il Dipartimento di Statistica dell’l’Università degli Studi di Milano-Bicocca:

La professoressa Terzera sottolinea l’importanza di punti cardine per una società come quelli del settore dell’istruzione e della sanità. Commenta il piano di azione della Commissione per i migranti mettendo sostanzialmente in luce diversi punti. Il primo è che l’inclusione passa effettivamente attraverso il risanamento di alcune ingiustizie sociali, che si evidenziano quando parliamo di necessità fondamentali come appunto  i servizi sanitari oltre all’alloggio e un lavoro oltre alla conoscenza della lingua del paese che ospita. Poi Terzera ribadisce che è proprio in momenti come quello attuale, in cui i flussi migratori sono fermi, che bisogna approfittare per avviare politiche che non debbano rispondere all’emergenza ma che possano essere il frutto di un impegno pensato, ponderato perché sia a lungo termine e dunque foriero di risultati veri.

Andare oltre i cliché

Un altro aspetto che Terzera ritiene importante sottolineare riguarda il fatto che si parla in ogni caso di società intera, di scommesse e potenzialità che riguardano tutta la popolazione, ribadendo innanzitutto che la presenza di migranti si avverte a tanti diversi livelli della società mentre nell’opinione pubblica a volte è confinata in alcuni spazi ristretti di riflessione. A questo proposito, Terzera cita gli ultimi dati dell’Ocse che confermano che un quarto dei medici dei Paesi europei e un terzo del personale infermieristico sono stranieri. E poi la docente che si occupa di demografia e migrazioni spiega che tutte le questioni che riguardano la presenza di migranti non sono riconducibili solo a argomentazioni legate all’assistenza sociale! Molti aspetti – ricorda –  hanno a che fare con tante opportunità per chi viene ospitato ma anche per i Paesi ospitanti. In questo senso, secondo Terzera, almeno sulla carta a livello programmatico il piano di azione della Commissione Ue è importantissimo e completo, perché propone politiche di solidarietà ma anche chiama ad una responsabilizzazione, in termini di lingua da imparare o formazione da curare, da parte dei migranti e ha come obiettivo lo sviluppo di tutti.

 

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-11/coronavirus-unione-europea-migranti-inclusione-salute.html

Biden organizza il suo team guardando all’Ue

Via libera alla fase che porterà all’insediamento di Joe Biden. Il 46esimo presidente eletto degli Stati Uniti rende noti alcuni nomi chiave della sua prossima squadra di governo, mentre Usa e Ue si ripromettono rinnovate felici relazioni transatlantiche. Nessun dubbio sul cambio di visione a Washington su temi come ambiente e multilateralismo, ma restano problematiche non facili, come spiega lo studioso Luciano Bozzo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il presidente statunitense Donald Trump ha accettato lunedì di iniziare il processo formale di transizione per l’insediamento del presidente eletto, Joe Biden, dopo che per settimane si era opposto. La decisione viene presa dall’ente incaricato, il Gsa (General Services Administration), che è autonomo dal governo, ma che in questo caso ha aspettato il via libera di Trump, arrivato dopo la certificazione della vittoria di Biden nello Stato del Michigan.

Passaggio di consegne

A questo punto, dunque, tutto lascia pensare che Joe Biden diventerà presidente degli Stati Uniti il prossimo 20 gennaio. Con l’avvio della transizione, inoltre, Biden e il suo team avranno accesso a fondi, strumenti e protezioni che di solito sono accordati al presidente che si appresta ad assumere l’incarico, e che prevedono tra le altre cose anche gli aggiornamenti quotidiani dell’intelligence.

Si prepara la nuova squadra

Le persone scelte da Biden, che dovranno essere confermate dal Senato, sono: Antony Blinken come segretario di Stato (un ruolo simile a quello di ministro degli Esteri), Alejandro Mayorkas come segretario alla Sicurezza nazionale (un ruolo simile a quello di ministro dell’Interno), Avril Haines come direttrice dell’Intelligence nazionale, Linda Thomas-Greenfield come ambasciatrice alle Nazioni Unite, Jake Sullivan come consigliere sulla Sicurezza nazionale e John Kerry come inviato speciale per il clima.

“Non abbiamo tempo da perdere – ha dichiarato Biden – quando si tratta della nostra sicurezza nazionale e della nostra politica estera. Ho bisogno di un team pronto sin dal primo giorno ad aiutarmi a reclamare il posto dell’America a capo tavola, radunare il mondo per essere all’altezza delle grandissime sfide che abbiamo davanti e far avanzare la sicurezza, la prosperità e i valori”.

Tra le priorità le relazioni con l’Ue

“Un’Unione europea forte è interesse degli Stati Uniti”, ha detto Joe Biden nei colloqui telefonici avuti in queste ore con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e con il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Biden ha ribadito “l’impegno ad approfondire e rivitalizzare la relazione Usa-Ue”. Il presidente eletto ha indicato tra le priorita’ della cooperazione la pandemia, la ripresa economica, il clima. In agenda anche Iran, Bielorussia, Ucraina e Balcani occidentali.

Delle prospettive nuove di relazioni transatlantiche abbiamo parlato con Luciano Bozzo, docente di relazioni internazionali all’Università degli Studi di Firenze:

Il professo Bozzo sottolinea come sia evidente un cambio di visione da parte dell’amministrazione Biden su temi come l’ambiente e il multilateralismo rispetto alla visione dell’amministrazione precedente di Trump, che ha creato molte tensioni e distanze con l’Ue. Bozzo però spiega anche che si tratta di questioni complesse in cui non sarà facile neanche per Biden districarsi. Innanzitutto, lo studioso ricorda come all’interno dell’Ue non ci sia sempre compattezza su alcune scelte e come alcuni Paesi siano distanti anche tra di loro. E poi ricorda che Biden è stato eletto da una maggioranza significativa formata anche da cittadini delusi da Trump che hanno voluto cambiare, ma senza che questo significhi che siano convinti sostenitori per esempio di politiche a difesa dell’ambiente. In particolare, sottolinea inoltre Bozzo, c’è la crisi attuale che non è solo sanitaria ma anche economica e occupazionale. Negli Stati Uniti si sente molto e, dunque, bisogna vedere in che misura anche parte dell’elettorato di Biden sia disposto, per esempio, a dare priorità ad una risposta politica ai cambiamenti climatici se questo significhi nell’immediato perdere certezze sul lavoro.

Occorrono creatività e nuove strategie

Ovviamente nel Paese si apre una fase nuova e promettente, spiega in sostanza Bozzo, ma non si può dare nulla per scontato anche perché, aggiunge, vista la gravità delle sfide che la pandemia ha presentato, ci vorrebbe davvero una nuova vision, uno sforzo di creatività da parte di tutti i leader politici che vada oltre la questione delle nuove relazioni Usa-Ue. E’ chiaro, sottolinea, che anche la riscoperta del cosiddetto multilateralismo non può consistere semplicemente in un ritorno a formule del passato, perché anche in questo caso ci sono fattori nuovi, come la concorrenza commerciale con la Cina. Si tratterà dunque per Washington, come per Bruxelles, di tratteggiare qualcosa di nuovo. Il punto è che, spiega ancora Bozzo, anche sul tipo di approccio nei confronti di Pechino non si può dire che tutte le cancellerie europee la pensino alla stesso modo. Inoltre, anche per Biden la sfida non può consistere solo nel cambiare la rotta indicata da Trump, ma deve consistere in una strategia che tenga conto ad esempio del nuovo spazio commerciale a guida cinese nato giorni fa, che comprende Paesi del Sud est asiatico come l’Australia.

Resta il piano delle azioni legali

Trump non ha ancora riconosciuto pubblicamente la sconfitta e da alcune settimane è impegnato in una serie di azioni legali per tentare di ribaltare il risultato elettorale in diversi Stati: finora non ha ottenuto alcun successo, perdendo per esempio in Georgia, dove era già stato ufficializzato il risultato a favore di Biden, e in Pennsylvania. Trump ha sottolineato che continuerà a provare a cambiare l’esito delle elezioni, ma secondo il New York Times, l’autorizzazione all’inizio del processo di transizione  è “un segno forte che l’ultimo tentativo del presidente di ribaltare i risultati delle elezioni sta arrivando alla fine”.

 

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-11/stati-uniti-unione-europea-joe-biden-ambiente-multilateralismo.html

La scommessa dell’alternanza politica in Burkina Faso

Uno dei Paesi chiave dell’area africana del Sahel e tra i più arretrati al mondo è chiamato al voto dopo cinque anni di insicurezza dovuta a numerosi attacchi jihadisti. In Burkina Faso, le elezioni sembrano segnate dalle violenze, dalle difficoltà economiche, ma anche dallo slancio di una nuova coscienza civile come spiega l’africanista Aldo Pigoli

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In Burkina Faso, gli aventi diritto sono chiamati alle urne domani, domenica 22 novembre, per eleggere il presidente e i deputati. L’obiettivo comune tra maggioranza e opposizione è il raggiungimento dell’alternanza politica, anche se le condizioni di questo Paese africano povero, senza sbocco sul mare sono molto difficili. Efferate violenze vengono perpetrate soprattutto nelle tre regioni del Nord al confine con il Mali ed il Niger, le più colpite dal fenomeno del terrorismo jihadista. Nella nazione dell’Africa occidentale di quasi 21 milioni di abitanti, si contano almeno 1.600 persone uccise dal 2015 e più di un milione di sfollati.

Più di 400mila persone non potranno votare perché hanno smarrito i documenti di identità o non hanno potuto registrarsi. La Ceni  (Commission Electorale Nationale Indépendante) ha affermato di non poter iscrivere nei registri potenziali elettori in circa 1.500 villaggi a causa dell’insicurezza. Per votare ci si deve spostare in altri distretti. Eppure in base alla mobilitazione registrata in campagna elettorale si prevede un’affluenza più alta di qualunque elezione precedente.

Il voto: momento importante per il Paese

Per capire il fermento sociale in Burkina Faso e i limiti stringenti di uno dei contesti maggiormente minati da instabilità e insicurezza, abbiamo intervistato Aldo Pigoli, docente di Storia delle Civiltà e delle Culture Politiche e di Storia dell’Africa Contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano:

“Le elezioni che si tengono in Burkina Faso in questa fase sono un momento importante – spiega Pigoli – perché sono l’occasione per comprendere il livello di sviluppo politico-istituzionale. Si tratta anche di saggiare il livello della democraticità del Paese che sta attraversando diverse criticità, a partire dalla drammatica presenza delle forze jihadiste. Ma ci sono anche le difficoltà per la diffusione del Covid-19 che hanno aggravato la povertà cronica del Paese”.

La speranza nella società civile

A proposito della popolazione, il professor Pigoli afferma che si sta assistendo a uno sviluppo promettente della coscienza civile e dell’associazionismo. Spiega che in questa campagna elettorale si è registrata una maggiore partecipazione mai vista prima. Certamente bisognerà poi vedere la reale affluenza alle urne ma – ribadisce il docente – già l’attenzione e il coinvolgimento prima del voto sono un segno più che positivo.

L’insicurezza persiste

La situazione resta però davvero difficile – spiega Pigoli – perché ad esempio nella provincia dell’Oudalan, all’estremo Nord del Paese, l’insicurezza peggiora di giorno in giorno per via delle incursioni di gruppi armati jihadisti. Tra il Burkina Faso e il Mali si registrano due milioni di sfollati interni. Si tratta di famiglie, in gran parte donne e bambini, che per sfuggire al regime del terrore, imposto dai gruppi armati radicali presenti in quella area, abbandonano i loro villaggi e si rifugiano nelle città di provincia o, comunque, in zone meno isolate. Alcuni nuclei familiari si fanno ospitare da parenti e conoscenti, altre si sistemano all’interno di scuole, ormai quasi tutte chiuse, oppure in edifici pubblici non utilizzati, altre ancora, e sono sempre di più, in campi nati spontaneamente fuori dalle aree urbane. Il punto è che le famiglie di accoglienza sono a loro volta povere e con nuclei numerosi (6-10 persone) e a stento possono sostenere una famiglia altrettanto numerosa a cui dare almeno acqua e cibo. A questa crisi di insicurezza si aggiunge la grave siccità – ricorda Pigoli – causata dall’impatto dei cambiamenti climatici, sempre più grave nell’Africa subsahariana, dove il fenomeno della desertificazione si amplia ogni anno di più. Per la popolazione di queste regioni, che nell’80 per cento dei casi vive grazie all’agricoltura ed all’allevamento, questa situazione aggrava la povertà. E c’è poi l’emergenza data dalla pandemia.

L’infanzia negata

Si calcola che siano state chiuse 2.410 scuole e che siano 318mila i bambini ed i giovani privati dell’istruzione scolastica. I centri sanitari chiusi o in funzionamento minimo sono 273, in un’area che già scarseggia di servizi di base. Sono 1,5 milioni le persone che dipendono dall’aiuto umanitario per l’accesso alle cure mediche ed ai servizi sanitari. In questo scenario, la malnutrizione infantile continua ad essere un’emergenza: i dati emersi da un’inchiesta nutrizionale, condotta tra luglio e agosto del 2020, a Gorom-Gorom hanno indicato che per i bambini sotto i 5 anni c’è una prevalenza della malnutrizione acuta pari al 18 per cento e della malnutrizione acuta severa – una forma più grave di malnutrizione – per il 6 per cento, tre volte superiore alla soglia di allerta fissata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

I candidati alla presidenza

Il presidente in carica Roch Kaboré del partito Mpp (Mouvement du peuple pour le progrès) è stato eletto nel 2015 in seguito alla rivoluzione popolare del 2014 contro Blaise Compaoré. Gli altri principali candidati sono: Abdoulaye Soma del partito Msa (Mouvement Soleil d’Avenir) e membro dell’Ona (Opposition non affiliée), Ablassé Ouedraogo del partito Fa (Le Faso Autrement), Ambroise Farama del partito Opa-Bf (Organisation des peuples africains-Burkina Faso), il candidato indipendente Claude Aimé, Tassembedo, Kiemdoro Dô Pascal Sessouma del partito Vb (Vision Burkina), Eddie Komboïgo del partito Cdp (Congrès pour la Démocratie et le Progrès).

da Vatican NEWS del 21 novembre 2020