L’Unesco e i beni culturali in Nagorno Karabakh

Iniziativa dell’Organizzazione Onu per l’educazione, la scienza e la cultura a tutela dei beni culturali nella regione del Nagorno-Karabakh. Ad annunciarla è il direttore generale Unesco Audrey Azoulay che, in settimana, ha ricevuto i rappresentanti di Armenia e Azerbaigian dopo che il 9 novembre è stata annunciata la fine delle ostilità del conflitto trentennale

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il direttore generale dell’Unesco, Audrey Azoulay, incontrando in questi giorni i rappresentanti dell’Armenia e dell’Azerbaijan, ha ribadito la dimensione universale del patrimonio culturale, “testimone della storia e specchio delle identità dei popoli”, che la comunità internazionale ha il dovere di tutelare e preservare per le generazioni future. La preoccupazione non è di oggi: negli anni di continue ostilità ci sono state denunce di gravi violazioni a danno di beni culturali nell’area del Nagorno-Karabakh. Non c’è dubbio che la priorità sia sempre l’impatto umanitario nei conflitti e nelle situazioni che si creano al momento degli accordi, che restano molto delicate, ma non si può dimenticare il patrimonio culturale: in sostanza è quanto si legge negli appelli lanciati  dal Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) e dall’International Council of Museums (Icom), l’istituzione che rappresenta la comunità dei musei nel mondo.

L’importanza della cooperazione

Durante l’incontro con i rappresentanti di Armenia e di Azerbaigian, Azulay ha formalmente proposto un supporto tecnico: l’Unesco fino ad oggi non ha potuto visitare queste zone nonostante i tentativi fatti. Oggi dunque la prima richiesta è quella di svolgere una missione preliminare sul campo al fine di redigere un inventario dei beni culturali più significativi, quale presupposto per un’efficace tutela del patrimonio della regione. Il punto è che non basta il nulla osta di Erevan e di Baku, serve l’accordo di tutte le parti interessate e dunque di quante hanno partecipato alle negoziazioni. Il Cremlino ha sottolineato che avrebbero cooperato attraverso un centro di monitoraggio in Azerbaijan, ma che non è prevista “alcuna discussione sul dispiegamento di forze di pace congiunte” lungo la linea di contatto nel Nagorno-Karabakh dove – ha aggiunto – sono impiegati solo peacekeeper russi.

Il richiamo alle convenzioni internazionali

Le leggi applicabili in caso di conflitti armati ci sono.  Il direttore generale Azoulay ha ricordato le disposizioni della Convenzione del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e dei suoi due protocolli, di cui sono parti sia l’Armenia che l’Azerbaigian. Ha citato la risoluzione 884 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, adottata all’unanimità il 12 novembre 1993. Si basano sulla convinzione  che “il danno a beni culturali appartenenti a qualsiasi persona, di qualsiasi natura, significa danno al patrimonio culturale di tutta l’umanità”. Inoltre, ha richiamato anche la risoluzione 2347 (2017) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, nella quale si sottolinea che “la distruzione illegale del patrimonio culturale, il saccheggio e il contrabbando di beni culturali in caso di conflitto armato, anche da parte di gruppi terroristici, e i tentativi di negare le radici storiche e la diversità culturale in questo contesto, può alimentare ed esacerbare i conflitti e impedire la riconciliazione nazionale postbellica, minando così la sicurezza, la stabilità, la governance e lo sviluppo sociale, economico e culturale degli Stati colpiti”.

Tra i siti danneggiati o distrutti

Sono stati seriamente colpiti siti e monumenti che testimoniano l’incredibile eredità storica dell’area del Caucaso. In attesa dell’inventario che si spera l’Unesco possa redigere presto, si possono citare alcuni esempi di vandalismo culturale denunciati dall’una e dall’altra parte, tra rivendicazioni reciproche di responsabilità. Gli armeni hanno riferito che a Nakhijevan nel cimitero medievale di Old Jugha  sono state  demolite decine di chiese medievali, distrutte 5840 croci riccamente decorate e 22mila lapidi storiche. Gli azeri hanno riferito di centinaia di distruzioni, tra musei emonumenti storici e culturali .

da Vatican NEWS del 20 novembre 2020

 

Al Monastero di San Charbel a Roma con Ferrara e Zanzucchi

Con il Superiore della Procura dell’Ordine Libanese Maronita (Olm) Padre Miled Tarrabay, l’Ambasciatore Pasquale Ferrara e il giornalista-scrittore Michele Zanzucchi hanno presentato Fortezza Libano, Infinito Edizioni, al Monastero di San Charbel a Roma, il 19 novembre 2020.

Una sintesi della presentazione in una videoclip di 4 minuti realizzata dal regista Stefano Gabriele che, con la sua casa di produzione FrameXs, ha reso possibile i miei più  reportage più belli:

Una sintesi di 32 minuti:

Un grazie di tutto cuore a padre Miled, a Ferrara e a Zanzucchi.

E un pensiero forte al professor Massimo Campanini, che ha impreziosito il volume con la sua prefazione, che aveva organizzato con noi questa presentazione, ma che purtroppo ci ha lasciato il 9 ottobre 2020. Con profondissima stima, sincero affetto e gratitudine, conserviamo l’eredità ideale dei suoi libri e teniamo caro il ricordo di uno studioso rigoroso, appassionato, aperto al dialogo e cordialissimo. Un testimone di bella umanità anche nella dura prova della malattia; un’anima spirituale in cerca di significati di Amore che sentiamo sempre vicina.

Riapre la frontiera tra Arabia Saudita e Iraq

Dal valico di Arar tornano a passare merci e persone. La chiusura c’era stata nel 1990 quando Riyadh aveva interrotto le sue relazioni diplomatiche con Baghdad, a seguito dell’invasione del Kuwait dell’ex dittatore Saddam Hussein

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Oltre il confine iracheno c’è la città di An Nukhayb, nella provincia a maggioranza sunnita di Anbar. Baghdad vede Arar come una potenziale alternativa ai suoi attraversamenti con il vicino Iran orientale, attraverso il quale l’Iraq dà accesso a gran parte delle sue importazioni.

Il secondo passo potrebbe essere la normalizzazione dell’altro punto di frontiera ad Al-Jumayma, lungo il confine meridionale dell’Iraq con il regno saudita. All’orizzonte si intravede la ripresa di scambi commerciali.

In materia di frontiere, il pensiero torna a quella hi tech che l’Arabia Saudita si è impegnata a costruire nel 2015 per tenere sotto controllo le oltre 600 miglia di confine con l’Iraq, dove imperversavano i miliziani del Califfato.

da Vatican NEWS del 19 novembre 2020

 

 

Sempre più “Padroni della terra”, a danno di diritti umani e ambiente

Non c’è crisi per chi specula con il land grabbing: è quanto emerge dal rapporto della Federazione degli organismi cristiani di volontariato (Focsiv) dedicato al fenomeno dell’accaparramento senza scrupoli di terre e risorse in Africa. Il diritto internazionale in questi anni si è mosso ma non aiuta l’indebolimento del multilateralismo come sottolinea il curatore del rapporto Andrea Stocchiero

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“I padroni della terra”. Questo il titolo scelto per il terzo rapporto che la Focsiv dedica al land grabbing. 79 milioni di ettari a grandi imprese, società finanziarie e Stati a danno delle comunità di contadini locali è uno dei dati che fotografa il fenomeno in Africa che prosegue senza sosta da tempo e che nell’ultimo anno è aumentato piuttosto che diminuire. In tempi di crisi, ben otto milioni di ettari in più sono andati a chi accaparra e gestisce terre con modalità che pesano in tema di diritti umani, ambiente e migrazioni. L’Africa è il continente più ambito perché custodisce il 60 per cento delle terre non coltivate.

Per capire l’entità, la gravità del fenomeno ma anche i termini del contrasto, abbiamo intervistato Andrea  Stocchiero che ha curato lo studio Focsiv presentato ieri:

Stocchiero chiarisce che si parla di investimenti su grandi appezzamenti per la produzione di monoculture per l’alimentazione umana e animale, di biocarburanti, per piantagioni e il taglio di foreste, per l’estrazione mineraria, per progetti industriali e turistici, per l’urbanizzazione. Investimenti che fanno perdere biodiversità e contribuiscono al riscaldamento del pianeta. Si tratta di contratti dal punto di vista legale regolari, per acquisto di terreni o per l’affitto in genere per 90 anni. Ma il fatto che siano legali – sottolinea Stocchiero – non vuol dire che non siano deleteri.  Il punto, secondo Stocchiero, è che le norme in tema di diritti umani o di ambiente da rispettare ci sono, ma la loro applicazione resta su base volontaria e dunque alcuni governi scelgono di non vincolare le imprese mettendo al primo posto interessi personalistici di profitto al bene dei territori, delle comunità del Paese.

Il modello economico in atto – sottolinea Stocchiero –  è quello dell’estrattivismo: imprese, finanza e Stati che cercano di sfruttare al massimo le risorse della terra per fare profitto, inducendo e soddisfacendo il desiderio di consumo del mondo ricco ed emergente. Questo fenomeno produce scarti, rifiuti, umani e materiali, inquinamenti, veleni ed emissioni di gas serra, terre ed acque morte. Si parla di violazioni di diritti umani nel caso di filiere di produzione tipo quella per il cobalto.

Un fenomeno in aumento

Stocchiero spiega anche che il land grabbing non si limita alle più ‘consuete’ vicende di agri-business, ma amplia il discorso all’industria mineraria, allo sviluppo industriale. Chiarisce che dalla visione globale emerge subito un fattore certo: la terra suscita appetiti sempre maggiori. Paragonando i dati dei rapporti 2019 (relativo al 2018) e 2020 (relativo all’anno scorso) sulla base dei numeri della banca dati di Land Matrix, sono stati otto milioni gli ettari di terreno supplementari oggetto di interesse commerciale. Otto milioni che fanno parte dei 79 milioni di ettari al centro di 2.100 contratti di acquisto o affitto della terra – secondo un dato cumulativo degli ultimi dieci anni – da parte di grandi imprese, società finanziarie e Stati, a danno delle comunità di contadini locali e dei popoli indigeni, nel quadro della competizione globale per le risorse naturali.

Al di là dei vecchi Paesi colonialisti – spiega Stocchiero – oggi la corsa alla terra coinvolge Paesi emergenti come la Cina, ma anche il Brasile o altri Paesi del Sud est asiatico, e sottolinea che se i grandi Paesi investitori, su scala globale, si confermano la Cina, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Svizzera, il Canada, la Russia, i Paesi target in Africa sono soprattutto la Repubblica Democratica del Congo (Rdc), il Sudan, il Sud-Sudan, il Mozambico e il Madagascar.

L’impegno delle Nazioni Unite

A livello internazionale, in seno alle Nazioni Unite e in particolare al Comitato dei diritti umani, tutte queste questioni sono state sollevate e si cerca di fare pressione sui governi locali, che cedono per interessi personali, e sulle multinazionali. Le norme ci sono ma – afferma Stocchiero – perché si passi ad un’azione più efficace dovrebbe esserci un’azione concertata che negli ultimi tempi non si è registrata per il fatto che ha prevalso per molti Paesi la scelta di abbandonare l’approccio multilaterale, basti pensare al ritiro degli Stati Uniti dal trattato di Parigi sull’ambiente.

Il legame con le pandemie

Questi fenomeni creano le condizioni per la mutazione e diffusione di virus che possono sfociare in pandemie.  Molte delle cosiddette malattie emergenti – come Ebola, AIDS, SARS, influenza aviaria, influenza suina e oggi  il nuovo coronavirus (SARS-CoV-2 definito in precedenza come COVID-19) non sono eventi e catastrofi casuali, ma la conseguenza dell’impatto degli uomini sugli ecosistemi naturali.

da Vatican NEWS del 17 novembre 2020

 

Patto economico tra Cina e 14 Paesi dell’Asia-Pacifico

L’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda hanno firmato il Regional Comprehensive Economic Partnership. Resta interlocutoria l’India. Pechino acquista potere di influenza nell’area, mentre Washington, dopo aver rinnegato il Tpp di Obama, sembra allontanarsi dal Pacifico. Le dinamiche e gli obiettivi nell’intervista al professor Sergio Fabbrini

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si tratta di un accordo di libero scambio che potrebbe coprire quasi un terzo del Pil mondiale, e che riguarda oltre due miliardi di persone. Si chiama Regional comprehensive economic partnership (Rcep),  ed è stato siglato virtualmente domenica scorsa a margine del vertice annuale dell’Associazione delle 10 nazioni del sud-est asiatico (Asean): oltre ai 10 membri dell’Asean include Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Da solo pesa di più, in termini di attività economica, non solo dell’Unione europea e del Cptpp (di cui fanno parte Paesi di Asia, Pacifico, Sud America, oltre a Canada e Messico), ma anche dell’accordo di libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada (Usmca).

I membri firmatari sperano di poter rilanciare l’economia dell’area fortemente provata dalla pandemia di Covid-19. Per il momento, è stata più che positiva la risposta dei mercati: Borsa di Tokyo e azionario Asia-Pacifico si sono evidenziati subito in rialzo, soprattutto nei titoli del settore auto e tecnologici.

Il Pacifico si allontana dagli Stati Uniti

Gli Stati Uniti sono fuori dalle ultime dinamiche di accordo allargato già da tre anni. Ricordiamo che il presidente Obama aveva sostenuto il Partenariato Trans-Pacifico, Trans-Pacific Partnership (Tpp), il progetto di trattato di regolamentazione e di investimenti regionali alle cui negoziazioni, fino al 2014, hanno preso parte dodici Paesi dell’area pacifica e asiatica (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti, Vietnam). Ma nel 2017 Donald Trump ha voluto il ritiro di Washington. Il Tpp si è poi evoluto nel cosiddetto Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), ma Trump ha continuato a sostenere una linea di intese praticamente bilaterali. Ora che la Casa Bianca sarà guidata dal democratico Joe Biden è possibile che Washington cerchi un impegno di tipo diverso dal predecessore Trump nel sud-est asiatico e in tema di sanzioni commerciali imposte alla Cina.

Per capire il peso e le specificità dell’accordo raggiunto, abbiamo intervistato Sergio Fabbrini, studioso di politiche internazionali e di governance, docente presso l’Università Luiss e la University of California a Berkeley:

Vincoli commerciali e minore conflittualità

Fabbrini spiega che l’importanza di questo accordo è nel fatto che si prevede che si ritrovino insieme Paesi di regimi politici diversi, un fattore per nulla scontato. Alcuni di questi sono storicamente protagonisti di dispute e di contese, come la Cina e il Giappone. E dunque l’occasione è importante. Fabbrini ricorda che come spiegava già Adam Smith là dove ci sono vincoli e scambi commerciali è più difficile che gli Stati arrivino a conflitti. Lo studioso però ricorda che si tratta del primo passo di un accordo, cioè è previsto che  la cooperazione economica nel prossimo futuro consista nell’apertura di dogane e nella riduzione di dazi.

La differenza con il concetto europeo di mercato unico

Fabbrini spiega che quanto creatosi inoltre è qualcosa di molto lontano dal concetto che abbiamo in Europa di integrazione economica, di mercato comune. In Europa si è andati molto avanti partendo dal 1957 – ricorda Fabbrini – e da allora è stato sviluppato un processo a tappe: inizialmente forme di collaborazione economica e poi il mercato comune che ha portato, alla fine negli anni Ottanta, a un mercato unico. Fabbrini sottolinea come al mondo non ci sia un altro mercato integrato come è quello europeo, affermando che è perfino più integrato di quello degli Stati Uniti d’America. Un altro elemento di differenziazione fondamentale – mette in luce Fabbrini – è che in Europa abbiamo creato un meccanismo di scambi creando delle istituzioni con ruoli precisi anche in ambito di politiche economico-monetarie e poi abbiamo creato la Corte europea di giustizia che ha anche potere di dirimere le controversie di tipo commerciale, tra Stati o tra diversi attori delle dinamiche commerciali. Ovviamente si tratta per i Paesi europei di un cammino lungo e articolato che dunque non è paragonabile a quello di cui si parla oggi. Fabbrini in sintesi torna a sottolineare l’importanza di accordi di cooperazione regionale  come quello raggiunto dai 14 Paesi, ribadendo però che si tratta di un primo passo e che non si può parlare di mercato integrato né tantomeno di meccanismi in grado di affrontare in modo concertato le dispute che rimarranno questioni tra Stati.

La scelta dell’India

Fabbrini poi commenta la scelta di rimanere distante dall’accordo di cooperazione fatto dall’India, ricordando che il presidente Modi ha optato per forme di nazionalismo economico in linea con le politiche del presidente statunitense Trump, riassunte nel motto “America first”, di cui è diventato grande alleato. La prospettiva ormai consolidata di un cambio di guida alla Casa Bianca, con l’avvento di Joe Biden sostenitore della logica del multilateralismo, apre dunque – sottolinea Fabbrini – a prospettive diverse da parte di Washington e forse anche da parte di New Delhi, che nell’immediato risentirà del venir meno dell’alleato sul piano internazionale.

da Vatican NEWS del 16 novembre 2020

 

L’ambiente al centro del vertice Ue-Balcani

L’agenda verde è in primo piano nei colloqui tra l’Unione europea e i Paesi balcanici: il piano per la cooperazione economica regionale si intreccia con quello delle riforme richieste per l’integrazione europea. Ora Bruxelles aumenta gli aiuti per la pandemia, ma chiede progressi in tema di Green Deal, come conferma il giornalista esperto dell’area Luca Leone

Fausta Speranza – Città del Vaticano

I capi di Stato e di governo dei Balcani Occidentali e quelli dei principali Paesi membri dell’Ue a colloquio: il quadro è quello del cosiddetto Processo di Berlino, fortemente voluto dal cancelliere tedesco Angela Merkel nell’estate del 2014. In questo contesto è maturato l’impegno formale per le riforme preso dai Paesi balcanici al Vertice di Trieste del luglio 2017. C’è un piano economico incentrato al momento su alcune iniziative ‘faro’ (flagship), che vanno dal trasporto e l’energia sostenibile alla transizione ecologica, dall’agenda digitale al rafforzamento del capitale umano e del settore privato. Ci sono da fare passi in avanti concreti e condizione imprescindibile per le sovvenzioni rimane l’avanzamento sulla road map delle riforme nei singoli Paesi. E centrale è il concetto della connettività tra i Paesi in vari settori, secondo quanto indicato proprio al momento dell’avvio del Processo di Berlino.

Verso un’Agenda Verde

Il linea con il Green Deal europeo e l’impegno ambizioso dell’Unione di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, la Commissione ha pubblicato ad ottobre una bozza per un’Agenda Verde per i Balcani Occidentali, che dovrebbe essere adottata dai leader della regione durante il vertice che si apre oggi. Per arginare i fenomeni legati al cambiamento climatico e la protezione dell’ambiente nella sua interezza.

L’aiuto Ue in tempo di pandemia in una prospettiva più ampia

In tempo di pandemia, l’Ue, nel vertice che si è svolto il 6 maggio scorso durante la presidenza semestrale croata del Consiglio, ha assicurato il sostegno di Bruxelles attraverso 9 miliardi di euro in sovvenzioni che arriveranno nei prossimi sette anni. Ma non è mancato l’orizzonte più generale: nella cosiddetta Dichiarazione di Zagabria è stato messo nero su bianco l’impegno  per l’elaborazione di un robusto piano di sviluppo economico per contribuire a rafforzare le economie locali e accrescere la loro competitività e per ottenere una miglior connettività a livello intra-regionale ed europeo.

All’inizio di ottobre, dunque, la Commissione, oltre ai report di monitoraggio annuale, ha elaborato un piano in cui si legge: “I Balcani Occidentali sono una parte integrale dell’Europa e una priorità geostrategica per l’Ue”. E il Commissario europeo per la politica di vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, ha spiegato che “il piano delinea un percorso per un’adeguata integrazione economica regionale per contribuire ad accelerare la convergenza con l’Unione e colmare il divario di sviluppo tra le regioni, accelerando in questo modo anche il processo di integrazione”.

Per capire meglio il contesto della realtà dei Paesi balcanici, abbiamo parlato con Luca Leone, che da anni firma reportage e libri dedicati a quest’area:

Leone ricorda che l’area dei Balcani risulta essere la più inquinata del vecchio continente, spiegando che probabilmente mancano politiche ad hoc. E a proposito di attenzione al rispetto dell’ambiente Leone sottolinea che non sono soltanto le aziende locali ad esserne carenti ma anche aziende multinazionali che agiscono spesso in modo incontrollato. Il giornalista fa esempi di industrie di cemento o di materiali chimici e di mezzi di trasporto desueti. Inoltre, Leone ricorda che, accanto all’agenda verde, la Commissione si è impegnata a presentare a breve ai leader balcanici anche una nuova ‘Agenda innovativa’ che mira ad investire nel miglioramento del capitale umano, oltre che incoraggiare la cosiddetta circolazione dei cervelli (brain circulation) e la transizione verso un’economia sostenibile basata sulla conoscenza.

Sostenere i giovani 

Leone sottolinea l’urgenza di misure in questo senso perché – ricorda – negli ultimi anni non si è fermata l’emorragia di giovani dall’area. Un fenomeno che va considerato – sottolinea il giornalista – ricordando l’esodo di un milione e mezzo di profughi al momento del conflitto che non sono mai rientrati. Al momento – dice – sono sparsi in vari Paesi del mondo. L’emigrazione attuale rappresenta un grossissimo problema perché rispecchia il dramma di un mondo del lavoro che non offre opportunità ma – spiega Leone – con lo sguardo a lungo termine è anche una sconfitta per questi Paesi che dovrebbero puntare a tutte le migliori energie a disposizione per tutte le scommesse da vincere nel prossimo futuro.

Più cooperazione e  lotta ai nazionalismi

Leone poi ricorda la scelta dell’Ue di proporre piani che si muovano in parallelo su diversi fronti: ribadisce che servono dinamiche politiche che sappiano promuovere trasparenza e contrastare ogni forma di nazionalismo per portare avanti le riforme necessarie all’integrazione europea. Leone commenta infine anche un altro intento dichiarato da parte dei leader delle istituzioni Ue: quello di promuovere interconnettività tra i Paesi in questione, ne sono esempio le polizie locali che, con la forza della cooperazione, farebbero grandi passi in avanti nella lotta alle mafie.

da Vatican NEWS del 10 novembre 2020

 

L’ultimo passo perché sia operativo il Recovery Fund

Settimana decisiva per il via libera al pacchetto Ue di contrasto alla crisi dovuta alla pandemia. L’accordo è quasi raggiunto, ma la mobilitazione senza precedenti di risorse europee non può bastare senza l’impegno dei singoli Stati, come spiegano l’economista Paolo Guerrieri e il già ministro Pier Carlo Padoan

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il dialogo tra Parlamento europeo e Consiglio per raggiungere un’intesa sul bilancio pluriennale dell’Ue e il cosiddetto Recovery fund è il principale punto politico in agenda della settimana europea. I rappresentanti dell’Eurocamera e la presidenza di turno tedesca hanno ripreso i colloqui da oggi, lunedì 9 novembre, per provare a raggiungere un’intesa sulle misure di sostegno all’economia mentre l’Europa è travolta dalla seconda ondata della pandemia. Dei passi che mancano per il vaglio finale abbiamo parlato con Paolo Guerrieri docente di Politica economica in vari atenei, a Roma, a Parigi, in California:

Guerrieri spiega che al momento l’Europarlamento, che chiedeva maggiori risorse per la ricerca nel bilancio europeo dei prossimi anni, e il Consiglio europeo hanno sostanzialmente trovato un accordo, aggiungendo che rimane il veto dell’Ungheria: il primo ministro Orbàn chiede che i vincoli siano ulteriormente alleggeriti. L’economista dunque sottolinea quanto sia importante che il programma venga davvero licenziato in questa settimana. In questo caso infatti, comunque, i soldi non arriverebbero prima di metà del prossimo anno e ritardi ulteriori metterebbero in crisi i bilanci dei vari governi dei Paesi membri. Guerrieri ricorda che c’è un quantitativo dei fondi previsti che può essere messo a disposizione da subito ma spiega che si tratta di non più del 10 per cento. Per quanto riguarda l’urgenza, Guerrieri sottolinea che già alcune settimane fa politici, economisti e parti sociali riconoscevano che bisognasse fare presto e dunque ribadisce che l’esplosione della seconda ondata di infezione da coronavirus non fa che accentuare l’urgenza. Guerrieri ricorda che dopo il via libera ci sono comunque dei tempi tecnici da considerare, per la ratifica da parte dei vari parlamenti nazionali. Poi l’economista richiama l’attenzione sul ruolo fondamentale dei singoli Stati: i soldi che arriveranno non potranno davvero contribuire a un rilancio della crescita economica se ogni singolo governo non sarà in grado di mettere in moto le dinamiche all’altezza delle sfide da affrontare.

Il momento è molto critico, come sottolinea il già ministro dell’Economia italiano Pier Carlo Padoan raccomandando che i governi nazionali siano all’altezza delle risorse messe in campo in modo eccezionale dall’Ue:

Padoan ricorda che per una vera ripresa dovremo aspettare che sia finita l’emergenza pandemia, ma poi sottolinea che nel frattempo è importante rendersi conto delle opportunità che si possono cogliere in una situazione che resta difficilissima. In particolare, l’economista spiega che non si può negare la gravità della crisi perché ci vorrannno ancora mesi prima di un vaccino e poi perché l’Europa, come altri Paesi del mondo, paga ancora le conseguenze della crisi economica che c’è stata un decennio fa. Dunque, Padoan parla di “cicatrici” da considerare per il futuro. Poi mette in luce alcuni fattori positivi da tenere presente: mai come prima – afferma – l’Ue ha messo in campo risorse ingenti ma soprattutto è stato elaborato un programma, il Next Generation Eu, che prevede uno sguardo a lungo termine e politiche di investimento a lungo termine in cui sono centrali la questione ambientale e la prospettiva dell’inclusione sociale. Tutto questo può essere di grande importanza a patto che – raccomanda Padoan – i vari Paesi portino avanti le relative necessarie riforme strutturali.

da Vatican NEWS del 10 novembre 2020

 

Bruxelles. Resa dei conti entro domenica sulla Brexit

Regno Unito e Ue fissano il termine ultimo: si negozia fino al 13 dicembre. E’ la decisione annunciata dopo la cena del premier britannico Johnson con la presidente della Commissione Ue, von der Leyen, a Bruxelles. Restano i nodi della pesca e della governance. Secondo l’esperto di giurisdizione commerciale Bepi Pezzulli non è ipotizzabile un allungamento del periodo di transizione

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Per il premier del Regno Unito, Boris Johnson, cena di lavoro a Bruxelles con la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Dopo giorni di negoziati serrati, si tenta fino all’ultimo di raggiungere un accordo che eviti la Brexit no deal, cioè la scadenza a fine dicembre dell’anno di transizione, senza un nuovo accordo commerciale. Il colloquio di ieri sera ha rilanciato la possibilità di un accordo ma fissando la data di domenica come termine ultimo. Di fatto è stato ribadito soltanto il passo in avanti sul confine irlandese mentre restano questioni irrisolte, come conferma, nella nostra intervista, l’esperto di giurisdizione commerciale Bepi Pezzulli:

Pezzulli sottolinea che Johnson ha confermato che il governo britannico eliminerà alcune norme proposte a settembre in violazione del Withdrawal Agreement, che avevano fatto irrigidire le posizione dell’Unione e che costituivano, fra l’altro, una violazione delle leggi internazionali. Ad annunciarlo erano stati martedì Michael Gove, ministro britannico dell’Ufficio di Gabinetto, assieme al vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič. Le norme in particolare – spiega Pezzulli – mettevano in discussione gli accordi presi tra il Regno Unito e l’Ue a proposito della situazione dell’Irlanda del Nord, che dovrebbe rimanere allineata alle leggi europee in materia di dazi e circolazione di beni e servizi altrimenti si richiuderebbe il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord.

Superata l’impasse sul confine irlandese

Pezzulli spiega che sono state definite alcune “soluzioni” interpretative condivise dell’accordo di recesso sottoscritto l’anno scorso tali da convincere il governo di Londra a ritirare le parti più controverse di due disegni di legge interni – in primis l’Internal Market Bill, riproposto giusto lunedì sera dalla Camera dei Comuni in una versione integrale considerata inaccettabile dai 27 – con cui Londra minacciava di rivendicare il potere di modificare unilateralmente i patti, in violazione del diritto internazionale, pur di blindare la sua sovranità sull’Irlanda del Nord in caso di no deal commerciale. Bruxelles – ricorda – ha difeso il principio per cui l’assenza di barriere fisiche è tutelata dagli storici accordi di pace del Venerdì Santo 1998.

Nodi cruciali

Pezzulli ricorda che restano due questioni aperte: quella della pesca, delle zone territoriali accessibili per gli altri Paesi Ue – in particolare è interessata la Francia – e poi il cosiddetto level playing field, cioè la richiesta da parte dei 27 di leggi che, in caso di accordo commerciale, siano armonizzate ai principi basilari dell’Ue, per esempio in tema di ambiente. Johnson ha chiarito – sottolinea Pezzulli – che Londra non ammette deroghe affermando: “Non possono impedirci di controllare le nostre leggi e le nostre acque”. Ma anche Bruxelles spiega che non può pensare che ci siano leggi troppo distanti che provocherebbero sperequazioni tra le istanze commerciali.

La proposta del sindaco di Londra

In giornata il sindaco di Londra, Sadiq Khan, aveva parlato della possibilità di prolungare il periodo di transizione definendola “la soluzione più sensata e più giusta”. Ma Pezzulli spiega che in realtà non è un’ipotesi al vaglio. L’uscita del Regno Unito dall’Ue è avvenuta ed è trascorso il periodo di transizione, ora l’unica possibilità, secondo il giurista, è trovare un accordo in extremis prima della fine di dicembre, oppure pensare di raggiungere un accordo in un altro momento in futuro. Pezzulli sottolinea che per un negoziato c’è sempre la possibilità, ovviamente, anche dopo l’uscita no deal.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-12/unione-europea-brexit-regno-unito-irlanda.html

L’Ue tra rinnovato slancio politico e tentazioni di chiusure

L’emergenza economico-sanitaria in Europa porta incertezza mentre il terrorismo torna a mettere in crisi il sistema Shengen. L’Ue tenta di rafforzare le politiche comuni ma emerge la tentazione di chiusure a diversi livelli, come sottolinea il giurista Giampaolo Rossi, esperto di istituzioni europee

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Per elaborare nuove strategie comuni anti Covid-19, si è svolta questa mattina una ennesima riunione della task force ad hoc interna al collegio dei commissari. Ha partecipato la presidente dell’esecutivo comunitario, Ursula von Der Leyen. L’obiettivo è stato affrontare il tema della consegna veloce dei test rapidi antigenici nell’Ue. Tra gli altri punti: il rafforzamento dei tracciamenti anche attraverso l’interoperabilità delle app; la messa a punto del modulo digitale che permetta “viaggi più sicuri” ai passeggeri; e la sottoscrizione di nuovi contratti sui vaccini, oltre ai preparativi per le vaccinazioni.

Un’economia all’insegna dell’incertezza

Se in Europa la pandemia di Covid-19 sarà più seria del previsto quest’inverno, l’Eurozona perderà nel 2020 non il 7,8 per cento del Pil, ma l’8,5 per cento. Se invece le cose andranno meglio delle previsioni, l’economia recupererà i livelli pre-pandemia prima della fine del 2022. E’ quanto scrive la Commissione Ue nelle Previsioni economiche d’autunno, caratterizzate da un grado elevatissimo di incertezza. In un primo scenario, il Pil dell’Eurozona nel 2020 cede il 7,8 per cento, nel 2021 recupera il 4,2 per cento e nel 2022 il 3 per cento. Un secondo scenario, al ribasso, prevede una recrudescenza della malattia nell’ultimo trimestre del 2020 e nel primo trimestre 2021 e, di conseguenza, un isolamento e un distanziamento che aumentano ancora di più il risparmio forzoso. In questo caso, il Pil dell’area euro cala dell’8,5 per cento nel 2020 e risale solo del 2,75 per cento nel 2021. C’è però anche un terzo scenario, al rialzo: in questo caso, le cose vanno bene, si fanno progressi nello sviluppo di un vaccino e la ripresa è più rapida del previsto, a partire dal secondo trimestre 2021, e si aggiunge mezzo punto percentuale in più alle cifre dello scenario di base per il 2021 e il 2022. L’economia europea tornerebbe così ai livelli pre-crisi prima della fine del 2022.

Tra le variabili le strategie antiterrorismo

Il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere austriaco Sebastian Kurz hanno pianificato una videoconferenza con alti funzionari europei per discutere una revisione del quadro legislativo Ue al fine di inasprire le misure europee in vigore sull’antiterrorismo. Ne dà notizia il Wall Street Journal, citando fonti ufficiali di Vienna e Parigi, scrivendo che entrambi i presidenti hanno intenzione di presentare un pacchetto di misure congiunto già nei prossimi giorni. Al centro del piano – scrive ancora il Wsj – un tracciamento dei richiedenti asilo e pene più severe per chi viene accusato di fanatismo religioso. “I due leader – riporta il quotidiano statunitense – vogliono presentare le loro proposte agli altri capi di Stato e di governo in un vertice il 19 novembre”.

Lo spazio Shengen

La Commissione europea organizzerà, entro dicembre, il primo forum per gettare le basi della riforma del codice che regola lo spazio Schengen, legata al nuovo Patto sulle migrazioni. E uno dei punti della strategia sarà il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne. Inoltre, il presidente Kurz, in seguito al drammatico attacco a Vienna la sera del 2 novembre, ha manifestato la volontà di revocare Schengen.

Ognuna di queste questioni interpella profondamente i Paesi Ue e c’è un filo conduttore tra loro, come sottolinea ai nostri microfoni il giurista Giampaolo Rossi, esperto di istituzioni europee:

Rossi afferma che una ripresa economica potrà davvero esserci quando la popolazione potrà essere vaccinata e dunque sarà possibile riavviare a pieno ritmo tutta la macchina del lavoro. Ci vorrà più di un anno per mettere a punto il vaccino e per distribuirlo e dunque, sottolinea il giurista, non è pensabile una ripresa prima di due anni, come ha detto la stessa Commissione europea nelle sue previsioni di autunno rese note in settimana. Nel frattempo ci sono stati nuovi attacchi terroristici e Rossi mette in luce il fatto che la chiusura di frontiere non farebbe che complicare il quadro delle  difficoltà. Rossi ricorda che la spinta a fare scelte di “chiusura” attraversa tutto il mondo. Si registrava già prima della pandemia, sottolinea, per via della globalizzazione, delle incertezze che porta. Il tutto ovviamente è stato accentuato con la diffusione del coronavirus. Il punto è che la spinta a chiudersi riguarda anche l’Europa e certamente il fattore terrorismo non aiuta. Non si tratta certo del primo attacco e dunque non è un fattore nuovo, ribadisce il giurista, che giustifichi di per sé misure straordinarie, ma i fatti di Nizza e di Vienna hanno riacceso quella tentazione alla chiusura che appunto viene da lontano. In particolare, per quanto riguarda le richieste di revisione dello spazio Schengen di libera circolazione, Rossi ricorda che l’Austria anche in passato ha manifestato esigenze del genere e che, in realtà, l’attitudine a porsi in difensiva si avverte anche da parte di altri Paesi, per poi ribadire che non può essere la soluzione, che non aiuta.

L’importanza di proseguire sulla via dello slancio politico comune

Il giurista spiega che questa tentazione accade proprio dopo che con la decisione coraggiosa di elaborare e proporre il Recovery Fund le istituzioni europee hanno dimostrato un rinnovato slancio politico. E sottolinea che proprio questo slancio deve essere incoraggiato su diversi fronti piuttosto che mortificato dalla tentazione del ripiegamento. Il tema del terrorismo ricorda, secondo Rossi, che la battaglia non può essere portata avanti da un Paese da solo: la lotta al terrorismo si fa efficacemente se si è uniti. E dunque Rossi parla della necessità di fare passi avanti nel senso delle politiche comuni: tutt’altro rispetto a quanto propone il discorso sovranista. Le misure prese a livello di un singolo Paese non possono essere adeguate così come, aggiunge Rossi, la stessa cosa vale per il discorso della sanità. E infatti, ricorda l’obiettivo indicato dalla Commissione Ue: un’unione della sanità. Rossi osserva inoltre che, così come a livello regionale entro un singolo Paese, bisogna immaginare che tante competenze e gestioni restino a livello di Paese membro, ma l’elaborazione politica comune può aiutare moltissimo.

L’Ue, un nuovo capitolo senza il Regno Unito

Con lo sguardo alla fine dell’anno e dunque ad una fase risolutiva della Brexit –  o si troverà un accordo o sarà no deal – Rossi sottolinea che, in un caso e nell’altro, l’Ue potrà ripartire per scrivere un capitolo nuovo senza il Regno Unito che per tanti versi frenava. Ad esempio, in tema di votazione Londra ha sempre remato contro l’idea di votare a maggioranza, difendendo l’unanimità che tanto blocca le decisioni. In definitiva, Rossi raccomanda alla leadership europea e ai Paesi membri di non perdere nessuna occasione per ritrovare maggiore coesione politica e incisività.

da Vatican NEWS del 6 novembre 2020

 

Le violenze in Etiopia e i rischi di un Paese antico e popoloso

Dopo il massacro avvenuto nello Stato regionale dell’Oromia domenica scorsa, è altissima la tensione anche nel territorio più a nord dell’Etiopia, quello di Tigray. Il primo ministro Abiy, premio Nobel per la pace nel 2019, deve fare i conti con diversi fronti di conflittualità in un Paese “mosaico di etnie”, come spiega la scrittrice con origini etiopi Paola Pastacaldi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il primo ministro dell’Etiopia Abiy Ahmed, ha condannato gli attacchi affermando che “i nemici dell’Etiopia” sono determinati a “governare o rovinare il Paese”. Ha spiegato che la strategia usata è “armare i civili e sferrare attacchi barbari basati sull’identità. “E’ straziante – ha aggiunto – vedere accadere questo, come cittadino e come leader”.

La contrapposizione nel Tigray

Il primo ministro, Abiy Ahmed, ha autorizzato un’offensiva militare nel Tigray, la regione più a nord del Paese dove è al potere il Fronte di liberazione popolare (Tplf), dopo aver sottolineato che è stata attaccata nell’area una base militare federale. “Le nostre forze di difesa hanno ricevuto l’ordine di assumersi il compito di salvare la nazione. L’ultima tappa della linea rossa è stata superata. La forza è usata nella stessa misura per salvare il popolo e il Paese”, ha scritto Abiy Ahmed in un testo pubblicato su Facebook e Twitter. Da parte sua, il presidente della regione del Tigray, Debrestion Gebremichael, ha dichiarato che il governo intende reagire perché nello Stato regione sono state organizzate le elezioni per il parlamento, a settembre, nonostante che il governo federale e il consiglio elettorale avessero chiesto di rinviarle. Il governo di Abiy ha definito il voto “illegale” e il Consiglio elettorale nazionale ha fatto sapere che le elezioni generali dovrebbero tenersi a maggio o giugno del prossimo anno.

La strage nello Stato di Oromia

Per Amnesty International sono almeno 54 le vittime di etnia Amhara rimaste uccise negli attacchi sferrati domenica primo novembre in tre villaggi nella zona di West Welega dell’Oromia, mentre la Commissione etiope dei diritti umani (Ehrc) ha parlato di 32 morti come bilancio provvisorio, affermando che quello finale sarà più alto. Uomini armati hanno sparato sui civili, hanno razziato il bestiame e hanno bruciato le case. Secondo le autorità, gli aggressori sono dell’Esercito di liberazione Oromo, che si è scisso dal Fronte di liberazione Oromo – non più impegnato nella lotta armata – ed è accusato di altri omicidi, attentati e rapimenti. Gli attacchi sono avvenuti il giorno dopo il ritiro delle forze federali da un’area considerata vulnerabile con una decisione che “suscita domande cui si deve rispondere”, ha detto in una nota Deprose Muchena, direttore regionale di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale. Il primo ministro etiope ha fatto sapere che le forze di sicurezza sono state dispiegate nuovamente nell’area. Il presidente della commissione dell’Unione africana (Ua), Moussa Faki Mahamat, ha condannato i recenti attacchi in Etiopia.

La condanna dell’Unione africana  

In una dichiarazione pubblicata sul sito web dell’Unione africana, il presidente Cyril Ramaphosa  invita tutte le parti interessate ad adoperarsi per allentare le tensioni nel Paese. Incoraggia inoltre gli attori politici a impegnarsi in un dialogo nazionale inclusivo e a costruire un consenso nazionale su questioni chiave”, sottolineando che il fallimento di un’intesa “può avere seri impatti non solo nel Paese, ma nell’intera regione”. Ramaphosa ribadisce il sostegno dell’Unione africana alle riforme avviate dal governo e si dice pronto ad assistere l’Etiopia nei suoi sforzi per promuovere la pace e la stabilità nel Paese”.

Pace con l’Eritrea ma non all’interno dell’Etiopia

Il primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali è stato insignito del Premio Nobel per la pace 2019 per lo storico accordo con l’Eritrea di cui è stato il promotore. Ma il capo del governo deve fronteggiare la difficile complessità interna al suo Paese formato da 10 Stati regioni con fortissime spinte identitarie, come sottolinea  Paola Pastacaldi, scrittrice italiana con una nonna etiope, autrice, tra gli altri libri, di un testo intitolato “L’Africa non è nera”:

L’Etiopia è il più antico dei Paesi africani, il più importante dal punto di vista della popolazione. Ha una storia antichissima fondamentale per l’Africa, spiega Pastacaldi, ma anche per il mondo. Viene definito un mosaico di etnie e purtroppo non riesce a trovare vera pace. Negli anni recenti l’economia ha conosciuto un buono slancio: il Pil cresce, ma in generale resta un Paese povero, con una popolazione fondamentalmente povera. La classe dirigente imperiale, ci spiega ancora la scrittrice, che ha guidato la lunga monarchia che si è conclusa nel 1975 proveniva dall’etnia Amhara, cui da sempre si contrappone l’etnia Oromo, discendenti degli schiavi somali.

Abyi, divenuto primo ministro nel 2018, proviene dall’etnia Oromo. Ma il punto è che si sono creati così tanti gruppi e sottogruppi che ormai è difficilissimo trovare gli interlocutori. Alla base della conflittualità nella regione dell’Oromia c’è la questione della gestione della terra ma si tratta in generale di gestione del potere e comunque è una contrapposizione molto complessa con radici antiche. Sappiamo che gli Oromi rappresentano il 35 per cento della popolazione e sono l’etnia più popolosa, salvo essere molto divisi tra loro, ma non sono al potere. Gli Amhara sono di meno.

Pastacaldi afferma che andrebbero studiate molto bene le singole etnie, sottolineando il forte valore identitario, le peculiarità linguistiche e religiose di ognuna. La scrittrice ribadisce che nell’insieme il quadro del Paese è molto complesso e che lo era anche quando c’è stata, negli anni trenta, la campagna fascista che però in qualche modo ha dato un’immagine massificata, non corretta. Pastacaldi sottolinea la difficoltà di avere informazioni attuali per poter analizzare davvero questo “mosaico” ricordando che i media non hanno dato grande copertura in questi anni ma riconoscendo anche di recente alcune testate stanno cercando di farlo meglio. E poi, insieme con lo sforzo di seguire i fatti recenti, Pastacaldi sottolinea che sarebbe importante conoscere meglio lo spessore culturale di questo grande Paese dell’Africa recuperando la ricchezza della storia del secolo scorso, che racconta un Paese molto più ricco rispetto a quello che è emerso finora nella storiografia italiana.

da Vatican NEWS del 4 novembre 2020