Appello degli scienziati italiani contro l’infodemia

Emergenza sanitaria e informazione: l’Oms ha denunciato una situazione di “infodemia”. In Italia, il Consiglio nazionale delle ricerche ha lanciato un appello contro banalizzazioni, fake news ma anche manipolazioni ideologiche. Con noi la scienziata del Cnr Emilia Vitale

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Sono già circa 300 gli scienziati che hanno sottoscritto la lettera aperta maturata all’interno del Consiglio nazionale delle ricerche per rivendicare serietà e credibilità. Una presa di posizione significativa giustificata dall’inondazione di notizie ma anche di fake news cui assistiamo di fronte alla diffusione dell’infezione da Covid-19. Gli esperti rivendicano l’importanza di “una informazione scientifica rigorosa e puntuale, non fuorviante e manipolabile a tutela del valore, dell’utilità e dell’indipendenza della scienza”.

Per capire la gravità del fenomeno e individuare i vari livelli su cui matura un’informazione scorretta su tematiche così urgenti come la pandemia, abbiamo intervistato l’esperta di biomedicina e dirigente del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) Emilia Vitale:

La studiosa ribadisce come la scienza debba parlare di dati e non di opinioni, come il giornalismo debba fare divulgazione ma non spettacolarizzazione, come i politici debbano proporre strategie ma senza manipolare a piacimento eventuali nuove o presunte elaborazioni di laboratorio. Non si può salutare una pubblicazione scientifica osannandone l’autore – spiega – e poi, dopo qualche giorno, fare come se quella pubblicazione non ci fosse stata.

Cita l’incipit dell’appello: “Con questo appello intendiamo primariamente rivolgerci ai nostri colleghi scienziati in uno spirito identitario di appartenenza ad una stessa comunità cui competono espressioni e comportamenti precisi e attenti, ma è a noi parimenti evidente che dovrebbero anche arrestarsi le interferenze della politica sulla scienza, giunte fino contestare ad un collega la paternità scientifica di un importante lavoro, le manipolazioni giornalistiche, con titoli ad effetto e di parte, la spettacolarizzazione televisiva che, troppo attenta all’audience, alimenta scontri personali senza pretendere risposte concrete e competenti.”

Per poi spiegare che frasi ad effetto, espresse con linguaggi imprecisi e fuorvianti, finiscono con il confondere le persone, promuovendo comportamenti pericolosi o screditando la scienza, aprendo dunque ad altri comportamenti scorretti e dannosi.

Oltre le fake news

Non si tratta solo di fake news, sottolinea Vitale. Il punto è che si assiste a strumentali contrapposizioni, fomentate per spettacolarizzare o per fini ideologici, come giustificare una o un’altra proposta politica. Si scivola sul terreno di protagonismi eccessivi, competenze dilatate e antagonismi personali fuori luogo. Tutto questo, secondo gli scienziati, è a dir poco sterile. Dunque, innanzitutto l’appello è rivolto ai colleghi: sono i primi che devono avere rispetto della gravità della situazione, del lavoro silenzioso in cui molti sono impegnati ma soprattutto rispetto per la Scienza, per il suo inestimabile valore di conoscenza e sostegno allo sviluppo della società. “Non esistono Scienze diverse, una allarmista e una riduzionista o una di destra e una di sinistra”, ribadisce Vitale.

L’auspicio di collaborazione

La confusione che si ingenera non aiuta le persone a capire sviluppi e comportamenti utili, ma non aiuta neanche un sano scambio tra esperti. Vitale ricorda che ci sono progetti che promuovono e che si fondano sulla collaborazione tra scienziati a livello internazionale ma soprattutto a livello di Paesi dell’Unione europea, ma sottolinea anche che non si tratta della collaborazione che sarebbe necessaria. Secondo Vitale, non si è raggiunto ancora il livello di scambi che sarebbe auspicabile.

L’antitesi tra scienza e velocità

Lo studio non può essere superficiale, veloce, ricorda Vitale. Viviamo invece in un’epoca in cui sembra affermarsi l’idea che sulle gravi questioni e perfino sui casi scientifici si possa avere soluzioni veloci. E’ un’illusione sbagliata – sottolinea la scienziata – che non aiuta né la ricerca né la comprensione. Quando si parla di scienza si parla per definizione di tempi lunghi, di ricerche e analisi, di sperimentazioni. La raccomandazione degli scienziati che hanno firmato il documento, dunque, è chiara: ci si deve attenere a una base dati riconosciuta, un bagaglio di conoscenza in continua evoluzione, cui ci si deve ricondurre evitando linguaggi incauti e logiche condizionate dall’audience o dall’indirizzo ideologico. E Vitale ricorda come la Storia insegni che quando l’indipendenza della Scienza viene violata si va incontro all’arbitrio, al regresso, alla barbarie. Cita il drammatico caso delle leggi razziali basate su presunti presupposti genetici.

da Vatican NEWS del 3 novembre 2020

 

I giovani e le presidenziali Usa

Affluenza record: è quello che ci si aspetta nel voto presidenziale negli Stati Uniti. Da New York la giornalista Maddalena Maltese riferisce di un Paese segnato dalla polarizzazione, ma anche di nuove generazioni impegnate contro le fake news

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Secondo i più autorevoli studi in materia, il voto 2020 – che vede il democratico Joe Biden sfidare il presidente Donald Trump – vedrà recarsi alle urne 150 milioni di elettori. Sarebbe un’affluenza altissima, come non si ricorda da tempo. E in particolare si sta assistendo ad un crescente interesse dei giovani, come emerso con il voto anticipato in alcuni Stati. Al di là degli ultimi sondaggi, che attestano in vantaggio Biden anche se con un margine che si è ridotto nell’ultima settimana, a colpire sono l’estremizzazione del discorso politico e il fenomeno delle fake news: negli ultimi tre mesi sono stati denunciati 6000 siti con notizie artificiosamente false. Dalla Chiesa negli Stati Uniti continua ad arrivare l’appello a mantenere sempre la dimensione del dialogo, come racconta Maddalena Maltese, giornalista della rivista Città Nuova e collaboratrice di La voce di New York:

La giornalista sottolinea innanzitutto un dato: molti tra i giovani hanno scelto di esprimere il proprio consenso con il voto per posta. E questo nonostante il presidente Trump abbia ripetuto spesso la sua personale convinzione che il voto per posta esponga a frodi. Il 55% dei giovani democratici lo ha scelto, ma anche il 28% dei coetanei repubblicani. Maltese ricorda che tra questi giovani, molti hanno assistito, da vicino o meno, ad alcune sparatorie in contesti scolastici. E poi spiega che molti di loro vanno al College e in questo momento hanno difficoltà maggiori per la delocalizzazione. Spesso gli studenti si indebitano per pagare le tasse e la pandemia li ha messi in crisi perché sono venuti meno molti dei lavoretti con cui riuscivano a pagare le rette e perché percepiscono come più problematico il loro futuro lavorativo, mentre dovranno ripagare i debiti. E poi, Maltese ricorda che tanti sono stati spinti a interessarsi al discorso politico dopo l’uccisione dell’afroamericano Floyd da parte della polizia in un contesto incomprensibile: per una questione quindi di giustizia sociale.

La campagna elettorale e le polarizzazioni

Maddalena Maltese racconta anche di tante iniziative messe in atto in questa campagna elettorale per spingere le persone ad andare a votare: da inviti da parte di personaggi dello spettacolo a cartelli affissi fuori dei negozi. Il clima dunque è di grande partecipazione ma purtroppo – rileva Maltese – lo è perché prevale una forte polarizzazione e divisione all’interno del Paese. Dalla Chiesa cattolica – racconta – sono arrivati e arrivano appelli a conservare una dimensione di dialogo, non dimenticando i termini come incontro o moderazione. E poi ci sono anche diverse mobiltazioni da parte di ambienti universitari come la Georgetown University per incoraggiare, ad esempio, all’ascolto delle ragioni dell’altro.

Per quanto riguarda il tema delle fake news, Maltese spiega infine che, da una parte è normale che i giovani ne siano tra i primi destinatari perché sono tra i primi fruitori dei social media, ma dall’altra ciò mette in luce un fenomeno incoraggiante: grazie alle loro capacità digitali sono anche i più veloci e attenti quando si parla di factchecking, cioè dell’impegno a controllare le informazioni e dunque a smascherare le falsità.

La vigilia del voto

Potrebbero essere, dunque, circa venti milioni in più gli statunitensi a recarsi alle urne rispetto a quattro anni fa, in un Paese dove l’elezione del Presidente è in realtà indiretta: ai 538 Grandi Elettori eletti spetta poi ufficialmente il compito di scegliere chi andrà alla Casa Bianca. Decisivi, come in passato, alcuni Stati: quest’anno in particolare i riflettori sembrano puntati su Florida, Arizona ed Ohio. Ultime ore a disposizione per i comizi: undici quelli di Trump in meno di 48 ore tra Midwest e Sud. Simile l’impegno di Biden. La pandemia è il tema principale anche in questi ultimi momenti di campagna elettorale: “Se voterete Biden finirete chiusi come in Europa, i medici gonfiano i dati per soldi”, ha tuonato Trump. “Siamo stanchi dei tweet, della paura e dell’odio. E’ il momento per Trump di fare le valigie, ricostruiremo il Paese”, ha affermato Biden. Venendo al voto, non sempre vince il candidato che prende più preferenze totali: contano infatti gli Stati conquistati. Anche l’ultima volta, nel 2016, la democratica Clinton ottenne quasi 3 milioni di voti in più di Trump, ma fu sconfitta. Pandemia, economia e questione razziale: sono questi i temi caldi che, secondo gli analisti, decideranno il futuro presidente degli Stati Uniti d’America.

da Vatican NEWS del 2 novembre 2020

 

Nizza, il Papa prega per le vittime: torniamo a guardarci come fratelli

Informato del crudele agguato terroristico avvenuto nella basilica Notre-Dame della città francese, che ha portato alla morte di tre persone, Francesco – riferisce la Sala Stampa vaticana – è vicino alle famiglie degli uccisi e al Paese: “La violenza cessi” e “l’amato popolo francese possa reagire unito al male con il bene”. Anche i vescovi francesi esprimono il proprio dolore, alle 15 campane a morto in tutta la Francia

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“È un momento di dolore, in un tempo di confusione. Il terrorismo e la violenza non possono mai essere accettati”. La Sala Stampa della Santa Sede, per bocca del suo direttore Matteo Bruni, reagisce così alla notizia giunta da Nizza, dove una sanguinosa aggressione ad opera di un killer  “ha seminato morte in un luogo di amore e di consolazione, come la casa del Signore”. Il Papa – ha proseguito Bruni -“è vicino alla comunità cattolica in lutto. Prega per le vittime e per i loro cari, perché la violenza cessi, perché si torni a guardarsi come fratelli e sorelle e non come nemici, perché l’amato popolo francese possa reagire unito al male con il bene”.

La cronaca

L’attacco con un coltello è avvenuto questa mattina, intorno alle 9, nella basilica Notre-Dame nel centro di Nizza, in Avenue Jean-Medecin. L’aggressore, che ha urlato “Allah Akbar”, ha decapitato una donna e ha sgozzato un uomo – il sacrestano –  che sono morti sul colpo all’interno della chiesa e ha colpito alla gola un’altra donna che è scappata rifugiandosi in un bar, dove però è deceduta dopo poco. Ha fatto in tempo a dire:  “Dite ai miei figli che li amo”.  Gli agenti hanno fatto irruzione sparando. L’attentatore è stato arrestato dopo essere rimasto ferito. Il sindaco di Nizza, Cristian Estrosi, che ha  immediatamente parlato di attacco terroristico, ha disposto che tutte le chiese fossero messe sotto sorveglianza o chiuse, così come tutti gli altri luoghi di culto della città.  Lo stesso sindaco ha poi riferito che “mentre stavano medicando l’attentatore questi continuava a gridare “Allah è grande”.

Il presidente Emmanuel Macron si è diretto sul posto. Il primo ministro Jean Castex ha lasciato precipitosamente l’Assemblea nazionale, dove avrebbe  dovuto presentare le nuove misure introdotte per fare fronte all’epidemia di coronavirus, per partecipare alla riunione di crisi organizzata al ministero degli Interni dal ministro Gerald Darmarin. Riattivato lo stato di emergenza attentati in Francia “al massimo livello”.

La preghiera e la vicinanza dei vescovi di Francia

“È con la più grande tristezza che ho  appreso del dramma che colpisce la comunità cristiana e ancora una volta la città di Nizza”.  Sono parole del presidente della Conferenza episcopale  francese, l’arcivescovo Éric de Moulins-Beaufort di Reims. L’arcivescovo ricorda che è accaduto a pochi giorni dal feroce omicidio del professor Samuel Paty ed esprime sgomento che “non può che essere forte dopo questa nuova dolorosissima tragedia. “La mia tristezza è infinita  – dice – di fronte a ciò che di disumano possono fare altri esseri umani”.  Sottolinea che tutte le chiese di Nizza sono poste sotto la protezione della polizia. Assicura: “Tutte le mie preghiere vanno alle vittime, ai loro cari, alle forze dell’ordine in prima linea in questa tragedia, ai sacerdoti e ai fedeli feriti nella loro fede e speranza”. Poi aggiunge: “Che lo spirito di perdono di Cristo prevalga di fronte a questi atti barbari”.

Inoltre, nel comunicato dei vescovi francesi pubblicato sul sito della diocesi si legge:  “Queste persone sono state aggredite e uccise perche’ si trovavano nella basilica: rappresentavano un simbolo da distruggere. Questi omicidi ci ricordano il martirio di padre Jacques Hamel. Attraverso questi atti orribili, è il nostro intero Paese ad essere colpito. Questo terrorismo mira a instillare un clima di ansia nella nostra società”. Dunque, l’appello: “E’ urgente che questo cancro venga fermato così come è urgente ritrovare la fraternità, indispensabile per tenerci tutti in piedi di fronte a queste minacce. Nonostante il dolore che ci attanaglia, i cattolici si rifiutano di cedere alla paura e, con l’intera nazione, vogliono affrontare questa minaccia infida e cieca”. I vescovi invitano dove possibile a suonare le campane a morto in tutte le chiese di Francia oggi alle 15.

Due settimane fa l’uccisione di Samuel Paty

L’attacco arriva mentre la Francia è ancora sotto choc per la decapitazione di Samuel Paty, l’insegnante ucciso il 16 ottobre  per aver parlato agli studenti delle vignette di Charlie Hebdo che ritraggono il Profeta Maometto. Inoltre la tensione è aumentata nelle scorse ore dopo la pubblicazione da parte di Charlie Hebdo di nuove vignette contro il presidente turco Erdogan e dopo le dichiarazioni del presidente francese Emmanuel Macron.

La strage del 2016

Torna alla mente la strage avvenuta a Nizza alle 22.30 del 14 luglio 2016, costata la vita a 84 persone. Allora  un uomo, alla guida di un autocarro, investì volontariamente la folla che assisteva ai festeggiamenti pubblici in occasione della festa nazionale francese nei pressi della Promenade des Anglais. La corsa del veicolo proseguì per 1.847 metri, durante la quale il conducente sparando all’impazzata, forzò la zona pedonale e provocando il numero massimo di vittime. E in quell’estate inoltre  due militanti del sedicente Stato islamico assassinarono in una chiesa della Normandia padre Jacques Hamel.

Dai vertici dell’Unione europea arrivano parole di condanna e di vicinanza alla Francia. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen dice: “Restiamo uniti e determinati di fronte alla barbarie e al fanatismo”. Il presidente dell’europarlamento, David Sassoli, sottolinea: “Questo dolore è sentito da tutti noi in Europa: abbiamo il dovere di stare insieme contro la violenza e contro coloro che cercano di incitare e diffondere l’odio”.

Per riflettere sulle modalità, sul contesto territoriale e quello geopolitico, abbiamo intervistato Marco Lombardi, docente di politiche della sicurezza dell’Università Cattolica di Milano:

Lombardi sottolinea che siamo di fronte all’ennesimo attentato che ci riporta alla scia già vista. In particolare la modalità operativa con il coltello è una dinamica facile da replicare che fa pensare che non ci debba essere una organizzazione vera e propria dietro ma che basti una cellula a livello familiare o di relazioni pseudo amicali per far maturare la decisione e la messa in atto. Lo studioso poi si sofferma sul contesto in cui avviene: la Francia, già colpita e l’ultima volta solo due settimane fa, ma soprattutto la Francia che si ritrova al centro di dinamiche geopolitiche difficili con altri attori internazionali e in cui dunque un atto terroristico va letto pensando a quanti – tanti, sottolinea Lombardi – possano avere interesse a strumentalizzare le forze terroristiche stesse. E – spiega – anche se la pandemia ha distratto l’opinione pubblica dall’allarme terrorismo, in realtà il silenzio mediatico non ha significato alcun fermo di tali attività. Lombardi poi ricorda non solo l’uccisione dell’insegnante francese ma anche i tragici fatti sulla Promenade des Anglais di 4 anni fa. E, a proposito del contesto territoriale di Nizza e della Francia del sud, spiega che ci sono delle caratteristiche che tornano: il disagio di alcuni strati della popolazione, le diseguaglianze, sacche di mancata integrazione. Avviene in tutto il territorio francese ma in particolare nel sud. Lo studioso di dinamiche di sicurezza però avverte: capire l’humus in cui maturano non solo gli atti di sangue ma anche la pianificazione degli episodi terroristici non deve significare fermarsi a questo livello di analisi e pensare che tutto ciò giustifichi, motivi l’odio e il terrorismo. Il punto è che se le realtà difficili esistono, come in ogni società, c’è però qualcuno che ad arte fa leva su tutto ciò e fa opera di vera e propria strumentalizzazione.

da Vatican NEWS del 29 ottobre 2020

 

Libano e Israele a colloquio sui confini marittimi

Secondo round di negoziati per la demarcazione delle acque territoriali del Paese dei cedri e dello Stato ebraico. Una questione che non tocca l’equilibrio di rapporti tra i due Paesi dettato dall’armistizio in vigore dal 1949, come ricorda lo studioso Claudio Lo Jacono

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Secondo round di colloqui, nel giro di due settimane,  tra Libano e Israele, mediati dagli Stati Uniti, per la demarcazione della frontiera marittima. Si svolgono, il 28 e 29 ottobre,  a Capo Naqura, all’estremo sud del Libano. Si tratta della base del contingente Onu (Unifil) e i negoziati infatti sono alla presenza dell’inviato Usa, l’ambasciatore in Algeria John Desrocher. La prima sessione si era svolta lo scorso 14 ottobre. Dell’obiettivo abbiamo parlato con Claudio Lo Jacono, direttore della rivista Oriente moderno:

Incontri tripartiti

Su un altro piano si svolgono i cosiddetti incontri tripartiti tra i due Paesi e i rappresentanti Onu. Ad esempio ieri, sempre nel sud del Libano, c’è stato l’incontro tra militari libanesi, israeliani e i vertici di Unifil, il contingente delle Nazioni Unite  a ridosso della Linea Blu di demarcazione tra i due Paesi. Gli incontri tripartiti si svolgono da anni a cadenza regolare, circa ogni sei settimane, nella base di Unifil 132-A di Capo Naqura e sono guidati dal generale italiano Stefano Del Col, comandante in capo di Unifil. Vi partecipano delegazioni militari israeliane e libanesi e si discutono questioni tattiche e operative, e non politiche, in linea con gli obiettivi della risoluzione Onu n.1701 del 2006, che metteva formalmente fine alla guerra tra Israele e gli Hezbollah libanesi nell’agosto di 14 anni fa.

da Vatican NEWS del 28 ottobre 2020

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-10/libano-israele-idrocarburi-acque-mediterraneo.html

Contro le armi nucleari servono Trattati e una nuova mentalità

Andare oltre il principio di deterrenza: è quello che cerca di fare il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari, che dopo la ratifica in questi giorni entrerà in vigore a gennaio, mentre si parla anche di moratoria, come ricorda lo studioso Antonello Biagini. Molti i passi concreti che si possono fare, ma serve una visione complessiva, come spiega Matteo Luigi Napolitano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Vittoria di principio all’Onu sull’atomica. Dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea generale Onu, il 7 luglio 2017, il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari ha raggiunto, in questi giorni, le 51 ratifiche necessarie per entrare formalmente in vigore. Sarà vincolante dunque a partire dal 22 gennaio 2021. E’ una tappa da salutare con soddisfazione ma il cammino è lungo, come spiega lo storico e accademico Antonello Biagini, esperto di questioni internazionali:

Il professor Biagini spiega che l’obiettivo finale è quello di allontanare dall’umanità il pericolo di altre esplosioni nucleari ma che le strade e raggiungere questo obiettivo risentono molto degli equilibri mondiali. Ad esempio, il principio di deterrenza che gli Stati Uniti continuano a sostenere, criticando il Trattato sulla messa al bando, era stato concepito nel mondo a blocchi tra due grandi potenze, ma ormai appartiene al passato. Si basa infatti sulla minaccia reciproca di distruzione totale, ma oggi gli interlocutori sono potenzialmente tanti. Il professor Biagini ricorda quanto sia cambiato l’assetto internazionale e quanti siano i Paesi che emergono a partire dalla Cina, oltre Usa e Russia. Lo studioso sottolinea anche che una maggioranza così stretta al 51 per cento non può certo assicurare la messa al bando, ma ribadisce che trattandosi di un cammino, è positivo che anche se lentamente si vada ingrandendo la schiera dei Paesi che prendono posizione in modo ufficiale. Secondo Biagini, in parallelo bisognerebbe recuperare l’impegno ad assicurare una moratoria. Il primo punto a favore è che sarebbe molto più difficile rifiutare la sottoscrizione di un impegno del genere da parte dei vari Paesi, a partire dagli Stati Uniti.

La messa al bando delle armi nucleari è l’obiettivo finale auspicabile per l’umanità. Si tratta di un cammino in cui i Trattati – quello appena approvato della messa al bando o quello della non proliferazione (Tnp) – rappresentano delle tappe ideali, così come anche il principio di deterrenza. Ci sono altre iniziative che possono concorrere a fare passi avanti su questi temi, come spiega Matteo Luigi Napolitano, docente di relazioni internazionali all’Università del Molise, ricordando la posizione della Chiesa:

Napolitano spiega che il principio di deterrenza include il cosiddetto equilibrio del terrore, o equilibrio di potenza, o meglio – afferma – in tempo di nucleare, è opportuno parlare di principio di equilibrio tra “impotenze”. E, secondo lo storico, è importante ricordare che non esiste il diritto alla detenzione di armi nucleari. Il Papa – sottolinea – lo ha ricordato parlando ad un Simposio dedicato al disarmo dalle armi nucleari. Francesco ha condannato la minaccia dell’uso e anche il possesso di armi nucleari. Poi lo studioso ricorda che ci sono altre questioni sulle quali la comunità internazionale è chiamata a fare passi in avanti, come ad esempio la proposta di istituire una zona “nuclear free” in Medio Oriente, una task force per mettere in pratica il bando ai test nucleari, etc.

Lo storico ricorda il ruolo positivo che può avere una moratoria, come periodo utile per arrivare a pronunciamenti condivisi o anche per assicurare uno stop a spese, come quelle per gli armamenti, che potrebbero essere risparmiate per spendere invece per altre urgenze sociali.

L’analisi di Napolitano poi prosegue per spiegare che serve anche un approccio mentale nuovo a tante questioni, una mentalità che ci porti a concepire la tecnologia in termini di opportunità ma anche di limiti: la tecnologia – dice lo storico – deve essere anche una sorta di barriera che ci avvisa che al di là c’è l’abisso, come ad esempio in tema di nucleare. E Napolitano ricorda che l’Enciclica del Papa Laudato è illuminante proprio per allargare il pensiero e comprendere come le tante sfide attuali rientrino nella sfida più grande di ripensare la relazione dell’uomo con il suo ambiente.

da Vatican NEWS del 26 ottobre 2020

 

Entra in vigore il bando alle armi nucleari

Il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari ha raggiunto le 50 ratifiche necessarie per entrare formalmente in vigore. Cinquantunesimo Paese a impegnarsi è stato l’Honduras. E’ il primo accordo legalmente vincolante che vieta lo sviluppo, i test, la produzione, l’immagazzinamento, il trasferimento, l’uso e la minaccia delle armi nucleari. Dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea generale Onu, il 7 luglio 2017, dunque, il no all’atomica diventa concreto.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Con l’adesione dell’Honduras, ufficializzata ieri sera dopo quella in giornata della Giamaica e di Nauru, il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari ha raggiunto le 50 ratifiche necessarie per entrare formalmente in vigore. Per produrre effetti dovranno passare altri novanta giorni e si arriverà al 22 gennaio 2021. In ogni caso,  tre anni, tre mesi e diciotto giorni dopo la storica approvazione da parte dell’Assemblea generale Onu, il 7 luglio 2017, il bando all’atomica è concreto.  Il tutto accade all’apertura della settimana che, dal 1978, le Nazioni Unite dedicano al disarmo.

Un passo significativo

In sostanza le armi nucleari diventano illegali secondo norma internazionale. Soddisfazione viene espressa dalla International campaign to abolish nuclear weapons (Ican) – con i suoi partner italiani, Rete italiana pace e disarmo e Senzatomica -, insignita dal Comitato di Oslo del Nobel per la Pace proprio per il suo impegno contro gli ordigni di morte. Si calcola che nel mondo esistano oltre 13.000 ordigni. Si parla di 5 Paesi possessori legali – cioè che rispettano il Trattato di non proliferazione ( Tnp) – e sono Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina. Poi sono possessori dichiarati India, Pakistan, Israele e Corea del Nord. Contrari alla messa al bando sono stati gli Stati Uniti, che sostengono la teoria della deterrenza. Significa che in relazione al Tnp, siglato nel 1968 e entrato in vigore due anni dopo, si ritiene che l’unico modo per prevenire un attacco nucleare sia la minaccia di distruzione totale del nemico. Perché funzioni, i Paesi atomici devono essere sempre pronti al lancio – con un costo di dodici milioni di dollari all’ora -, oltre che essere guidati da leader razionali. Il rischio di annientamento globale, con tale meccanismo, non viene scongiurato, come ha sottolineato il segretario generale Onu, Antònio Guterres. “Potremmo dirci al sicuro solo quando non esisteranno più le armi nucleari”, ha ribadito in occasione del 75esimo anniversario delle tragedie di Hiroshima e Kagasaki, ad agosto scorso. Nei giorni scorsi, il Parlamento europeo, con 641 voti a favore, cinque contrario e 47 astensioni, ha adottato una risoluzione in cui definisce il Trattato una tappa “imprescindibile” nel percorso per conseguire un mondo senza nucleare.

da Vatican NEWS del 25 ottobre 2020

 

La “dissidenza” dell’arcivescovo di Mosul

In Iraq, dopo quasi 20 anni di vari sviluppi geopolitici all’insegna del conflitto, è il momento della difficile normalizzazione. A Mosul i cristiani si stringono intorno all’arcivescovo caldeo, monsignor Najeeb Michaeel, che è stato tra i finalisti del Premio Sacharov 2020 per la sua “dissidenza” dalle logiche della violenza e dell’odio. L’arcivescovo conferma che purtroppo ci sono ancora miliziani dell’Is

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Con l’operazione militare guidata dagli Stati Uniti nel 2003 si è aperto un lungo periodo di violenza armata, con fasi diverse, segnate da interventi di potenze straniere, scontri da guerra civile settaria, fino alle dure battaglie tra il governo iracheno e il sedicente Stato Islamico (Is) dal 2014 al 2017. La piena portata dell’impatto delle armi esplosive negli ultimi due decenni sta emergendo solo ora. Traumi psicologici, sfollamenti e povertà si riverberano ben oltre l’impatto iniziale di un’esplosione. L’Unicef ha di recente riferito che circa 4,1 milioni di persone necessitano ancora di assistenza umanitaria, di cui circa la metà sono bambini.

Lo straordinario impegno dell’arcivescovo di Mosul

Durante l’avanzata del sedicente Stato Islamico in Iraq nell’agosto 2014, monsignor Najeeb Michaeel “ha favorito l’evacuazione di cristiani, siri e caldei verso il Kurdistan iracheno e ha salvato oltre 800 manoscritti storici, che vanno dal XIII al XIX secolo”. Per questo motivo il Parlamento Europeo ha deciso di candidarlo al Premio Sacharov 2020, che è stato poi assegnato, la settimana scorsa, ad un altro dei tre finalisti. Il riconoscimento è assegnato ogni anno a “persone e organizzazioni che lottano per la difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Per il presule la nomina ha rappresentato “un onore ed un incoraggiamento a tutti gli iracheni”, ma anche un modo “per ricordare tante vittime innocenti”.

La sconfitta ufficiale dell’Is

Nel dicembre del 2017 è stata proclamata la sconfitta dell’Is, dopo la caduta di Abu Kamal, roccaforte lungo il confine tra Iraq e Siria. Per la popolazione, dopo 17 anni di bombardamenti, esplosioni, atroci violenze, ora è il momento della speranza, ma restano tensione e paura in una fase segnata purtroppo anche dalle difficoltà della pandemia, come racconta l’arcivescovo caldeo di Mosul, monsignor Najeeb Michaeel:

L’arcivescovo Najeeb Michaeel spiega che Daesh, così come viene chiamato in arabo il sedicente Stato Islamico, sopravvive. Lo strapotere è stato combattuto in Iraq, ma rimangono frange di miliziani. Sottolinea che la predicazione della violenza, che dal Medio Oriente è arrivata in Europa, continua. “L’ideologia esiste tuttora”. Continua l’impegno della popolazione per ricostruire una vera pace. A proposito del Premio Sacharov, afferma che l’essere stato tra i finalisti è stata “una gioia”, perché è stato un riconoscimento non solo per la sua persona, ma per tutti i cristiani che hanno operato insieme con l’arcivescovo a Mosul e in generale per tutti i cristiani che hanno rifiutato la violenza e in special modo l’atroce violenza dell’Is. L’arcivescovo ricorda di aver cercato di difendere vite umane e di aver pensato all’eredità del popolo iracheno e della città di Mosul: “I libri che contengono cultura e valori sono stati messi fuori pericolo”.

“L’odio non è la soluzione, la guerra non è la soluzione”, ribadisce l’arcivescovo che aggiunge: “I cristiani hanno subito persecuzione e sterminio a Mosul e a volte alcuni musulmani che oggi ci chiedono perdono per quello che non hanno commesso loro, ma gli uomini dell’Is: avevano troppa paura per opporsi alle persecuzioni: uccidevano e rapivano figlie e mogli”. Monsignor Najeeb Michaeel sottolinea che quelli dell’Is si dicevano musulmani, ma nessuna religione chiede di macchiarsi di violenze. Le religioni non autorizzano la violenza, ma vengono strumentalizzate.  Racconta che tanti cristiani sono fuggiti da Mosul e dalla valle di Ninive e “ancora non tornano, perché non si sentono ancora sicuri: hanno paura”.

Per quanto riguarda il Covid-19, l’arcivescovo sottolinea che è molto diffuso nella sua zona e che nella valle di Ninive in particolare ci sono molti morti. Racconta che i religiosi rispettano le regole di isolamento, assicurano la Messa in collegamento on line per poter arrivare a tutti e poi spiega che escono solo per portare la comunione in alcune case, alcuni villaggi.

La tragedia dei minori

Oltre alla tragedia delle ragazze yazhide usate come schiave del sesso dai miliziani dell’Is, le Nazioni Unite hanno documentato che, tra il 2016 e il 2019, circa 300 minori sono stati reclutati come bambini soldato, 199 di questi sono stati usati come combattenti. Almeno 14 bambini sono stati utilizzati per compiere attacchi suicidi con ordigni esplosivi rudimentali (Ied). L’Is era responsabile della metà delle reclute minorenni, ma una percentuale significativa è stata reclutata anche dalle meno note Forze di mobilitazione popolare. Oggi si stima che circa 800 mila bambini iracheni siano rimasti senza uno o entrambi i genitori: questi bambini rischiano di essere vittime dimenticate della guerra, esposti a rischi considerevoli come il lavoro minorile e la tratta.

Il dramma dei residuati bellici

Sebbene la sconfitta militare dell’Is abbia stabilizzato la situazione della sicurezza, permane il rischio, in particolare per i bambini, sotto forma di residuati bellici esplosivi. In inglese si parla di Explosive remnants of war e, dunque, si identifica il fenomeno con la sigla Erw.  Gli ordigni inesplosi si trovano nei campi, nelle case. Le Nazioni Unite hanno scoperto che, durante il 2018 e fino alla metà del 2019, quasi la metà delle vittime infantili (47 %) sono state dovute a Erw nei territori precedentemente detenuti dall’Is. Un altro 40 per cento è dovuto all’uso di ordigni esplosivi improvvisati, Improvised explosive device (Ied). Quando a Mosul sono iniziate le attività di eliminazione dei pericoli di esplosione, il Servizio di azione contro le mine delle Nazioni Unite (Unmas), ha parlato di “entità mai vista prima”. Provocano gravi lesioni, disabilità e morte, ma inibiscono anche l’accesso dei bambini all’istruzione e ad altri servizi.

da Vatican NEWS del 24 ottobre 2020

 

Tecnologie e salute: la sfida del Green Deal

Cambiamenti climatici, degrado ambientale, coronavirus: sono tutte questioni che riportano alla strategia che l’Ue ha lanciato come “Green Deal”. Il professor Francesco Profumo ricorda che le tecnologie “pulite” ci sono, che dal Recovery Fund arriveranno fondi considerevoli, ma sottolinea che serve una nuova mentalità olistica, che comprenda crescita economica, uso delle risorse, salute

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Rendere sostenibile l’economia. La via è promuovere l’uso efficiente delle risorse grazie a un’economia pulita e circolare, ripristinare la biodiversità e ridurre l’inquinamento. Tutto questo compare nel cosiddetto Green Deal, il piano di azione dell’Ue pronto da tempo che la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, nel suo discorso programmatico a settembre scorso ha citato tra i punti centrali.

Ne abbiamo parlato con l’accademico Francesco Profumo, già presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, membro dell’Accademia delle scienze di Torino e dell’Accademia europea:

Il professor Profumo ricorda che già prima dell’emergenza Covid-19 la cosiddetta “transizione verde” era una priorità dell’Ue.  Sottolinea – in particolare con un impegno da assumere nel periodo tra il 2021 e il 2027 e con obiettivi fissati entro il 2030 o il 2050. E il punto è che la questione del coronavirus deve rafforzare la convinzione della necessità di agire con urgenza.  Profumo sottolinea che nel discorso di settembre scorso la presidente della Commissione europea ha perfino raddoppiato l’impegno: va considerato, infatti, che Von der Leyen ha vincolato ben il 37 per cento dei 750 miliardi di euro del Recovery Fund per la questione ambientale, così come, invece, si è deciso che il 20 per cento dei fondi siano per compensare i gap digitali. Profumo esprime l’auspicio che presto questi fondi siano effettivamente sbloccati, per poi chiarire che si tratta di portare avanti una nuova strategia per la crescita che trasformi l’Unione in un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva. Tre gli obiettivi da soddisfare entro il 2050: che non siano più generate emissioni nette di gas a effetto serra; che la crescita economica sia dissociata dall’uso delle risorse; che nessuna persona e nessun luogo sia trascurato. Tutto questo compare nel piano programmatico della Commissione europea accanto alle altre questioni più urgenti.

La vera sfida è trasformare le problematiche climatiche e le sfide ambientali in opportunità in tutti i settori politici rendendo la transizione equa e inclusiva per tutti. L’Ue su questo è leader nel mondo perché – ricorda Profumo – gli Stati Uniti negli ultimi tempi hanno fatto passi indietro mentre gli altri grandi Paesi del mondo, come la Cina, hanno difficoltà a farlo o non hanno sviluppato finora la stessa sensibilità. Tutto ciò – sottolinea Profumo – in Europa è possibile perché un buon uso delle risorse e la crescita economica non sono in contraddizione, così come promuovere la tecnologia non significa andare contro le esigenze dell’ambiente. Piuttosto – ribadisce –  esistono tecnologie all’avanguardia che sono esattamente al servizio dell’ambiente per esempio nel settore dei trasporti o altro.

L’impegno concreto, infatti, deve muoversi su diversi piani: investire in tecnologie rispettose dell’ambiente; sostenere l’industria nell’innovazione; introdurre forme di trasporto privato e pubblico più pulite, più economiche e più sane; decarbonizzare il settore energetico; garantire una maggiore efficienza energetica degli edifici.  Bisogna comprendere che la transizione verde è un’opportunità grande per l’Europa e per il mondo ma – chiarisce Profumo – per farlo bisogna liberarsi dall’idea che i fondi del Recovery Fund che arriveranno ai Paesi membri dell’Ue possano servire a “tornare al passato”: bisogna comprendere invece che si tratta di inventare qualcosa di nuovo. Le tecnologie appunto ci sono, “quello che serve è una mentalità di tipo olistico che concepisca la sostenibilità come crescita economica e come strumento di benessere per gli esseri umani”.

da Vatican NEWS del 22 ottobre 2020

 

Si riapre la partita Usa-Russia sul trattato New Start

Stati Uniti e Russia sono vicini ad un’intesa che congelerebbe le testate nucleari di ciascuna parte ed estenderebbe il New Start per un periodo necessario a negoziare un nuovo accordo. Si tratterebbe di una nuova fase dopo che Washington si è ritirata ad agosto dai precedenti impegni. L’esperto di relazioni internazionali Luciano Bozzo analizza prospettive e contesto di una problematica che resta gestita a livello di super potenze

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“La Russia propone di prorogare il trattato New Start per un anno e, allo stesso tempo, è pronta, insieme con gli Stati Uniti, ad assumere l’obbligo politico di congelare un certo numero di testate nucleari possedute dalle due parti per questo periodo”. E’ quanto scritto in un comunicato del ministero degli Esteri di Mosca pubblicato online. La Russia quindi chiede che il congelamento delle testate non comporti alcun requisito aggiuntivo da parte degli Usa. “Se questo approccio va bene a Washington, allora il tempo guadagnato grazie all’estensione del New Start può essere utilizzato per condurre negoziati bilaterali globali sul futuro controllo strategico degli armamenti missilistici nucleari con l’obbligo di considerare tutti i fattori che influenzano la stabilità strategica”, continua il ministero.  “Siamo molto molto vicini ad un accordo”, ha detto una fonte dell’amministrazione di Donald Trump, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal. Washington ha chiarito che se Mosca è pronta a congelare le testate, c’è tempo poi per negoziati che possano portare ad un nuovo accordo.

Le pressioni degli Usa su Mosca per un rapido accordo

Delle prospettive e dei punti in discussione abbiamo parlato con Luciano Bozzo, docente di relazioni internazionali all’Università degli Studi di Firenze:

Il professor Bozzo spiega che gli Stati Uniti hanno deciso di ritirarsi dall’accordo New Start, che aveva rinnovato il primo storico patto sul nucleare alla fine della guerra fredda, chiedendo che in una nuova intesa sia coinvolta anche la Cina. Anche Pechino infatti è impegnata a formarsi un arsenale nucleare avendo raggiunto un notevole tasso di crescita economica e avendo assunto un ruolo di peso nel consesso internazionale. Mosca però non sembra propensa ad allargare l’intesa a tre. Dunque questo è uno dei punti in discussione. Bozzo ricorda che altri Stati sono impegnati nel nucleare a vario titolo, ma che non vengono considerati in relazione a un accordo del genere, visto il diverso peso delle strutture di cui dispongono e visto il diverso peso nello scacchiere internazionale. Per quanto riguarda la posizione degli Stati Uniti, lo studioso sottolinea un’evidenza: l’amministrazione Trump sta facendo pressione su Mosca per concludere l’accordo prima del voto del 3 novembre, per presentarsi con un successo diplomatico ottenuto negli ultimi giorni della campagna elettorale. Il professor Bozzo inoltre ripercorre le tappe che hanno portato alla fase attuale e fa una riflessione in tema di multilateralismo. E’ ancora un’illusione – spiega – pensare che gli armamenti nucleari possano rientrare sotto il controllo di una sorta di governance globale. Si tratta infatti di questioni strettamente di sicurezza e le grandi potenze non intendono perdere nessun margine di controllo.

Il primo impegno comune dopo la guerra fredda

Intense trattative avvennero tra Usa e Urss a partire dal 1979. Portarono al vertice che si svolse a Ginevra nel novembre 1985 e poi all’incontro, l’8 dicembre 1987, tra il presidente Ronald Reagan e il segretario generale del Partito comunista Michail Gorbacëv, in cui siglarono l’Intermediate range nuclear forces treaty. Il trattato segnò un punto di svolta nel processo negoziale legato al controllo degli armamenti tra le due superpotenze. Per la prima volta, infatti, i sistemi d’arma,  oggetto del negoziato, non venivano ridotti o ritirati, ma effettivamente eliminati. In secondo luogo l’Urss accettò una serie di regole e clausole che non aveva mai precedentemente accettato, in primis un rigido sistema di ispezioni internazionali sul proprio territorio.  Sulla base delle formulazioni della Dichiarazione congiunta approvata il 10 dicembre 1987, in seguito all’incontro al vertice di Washington, le parti proseguirono i colloqui al fine di mettere a punto un accordo a parte relativo al Trattato ABM. In tale ambito Gorbačëv e Reagan si incontrarono a Mosca nei giorni tra il 20 maggio e il 2 giugno 1988. Nel 1991 le superpotenze adottarono un trattato per la proibizione di questi armamenti – che ora chiamiamo Start 1 – e ne vennero smaltiti quasi 2.700.  L’accordo è stato poi rinnovato nel 2009 e si è cominciato a parlare di New Start.

Il ritiro degli Stati Uniti

Gli Stati Uniti, negli anni successivi, hanno accusato più volte la Russia di violare l’accordo, fino all’accusa formale da parte dell’allora presidente Barack Obama nel 2014. Il New York Times ha parlato nel febbraio 2017 di due battaglioni russi con il nuovo missile a medio raggio SSC-8 equipaggiati con quattro lanciatori mobili, ognuno in grado di lanciare circa una dozzina di testate nucleari. Poi a novembre 2017 il segretario della Difesa degli Stati Uniti, James Mattis, ha denunciato formalmente ai colleghi della Nato tale violazione del trattato. Nell’autunno del 2018 il presidente Donald Trump ha annunciato il ritiro dal trattato, accusando la Russia di non rispettare l’accordo. L’amministrazione statunitense sostiene che il trattato svantaggi il Paese anche nei confronti della Cina, che non è parte dell’accordo e non ha restrizioni nella produzione di missili nucleari a media gittata. A gennaio del 2019, alla riunione del consiglio Nato-Russia c’è stato un reciproco scambio di accuse fra Washington e Mosca, rispettivamente per il sistema Shield europeo e per lo sviluppo del Novator 9M729. Gli Stati Uniti hanno minacciato la loro uscita dall’accordo per alcuni mesi fino ad annunciare formalmente il ritiro il 2 agosto 2019.

da Vatican NEWS del 21 ottobre 2020

 

Le prospettive del negoziato in Libia

Papa Francesco ha riportato l’attenzione sulla Libia con il suo appello, all’Angelus, per i colloqui di pace e il suo pensiero ai pescatori dei pescherecci sequestrati dal 1 settembre. Il momento sembra favorevole per un’intesa tra le parti nel Paese nordafricano diviso di fatto sul terreno, come spiega lo studioso di relazioni internazionali Massimo De Leonardis

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In Libia si dialoga e il Papa ha avuto parole di incoraggiamento dopo la preghiera mariana di domenica 18 ottobre. Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, in visita in Italia due settimane fa ha espresso ottimismo per i miglioramenti raggiunti sul campo tra gli attori della scena libica, confermando che gli Stati Uniti sostengono l’iniziativa del cancelliere Angela Merkel per i colloqui del Comitato militare congiunto libico (5 + 5), uno dei binari principali del cosiddetto processo di Berlino. Delle prospettive di accordo sotto l’ombrello delle Nazioni Unite abbiamo parlato con Massimo De Leonardis, docente di relazioni internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore:

Il professor De Leonardis spiega che l’obiettivo al momento sarebbe confermare il cessate il fuoco per avviarsi verso elezioni per un governo di vera unità nazionale. Dall’uccisione di Gheddafi, il 20 ottobre del 2011, sono andate contrapponendosi due parti: l’autorità è stata affidata al governo di accordo nazionale, voluto dall’Onu con l’intesa di Skhirat e sostenuto, almeno sulla carta, dalla comunità internazionale, sotto il comando dell’ex ingegnere civile Fayez al-Serraj, con sede a Tripoli. A Bengasi fa base il maresciallo Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, ma poi c’è un complesso intreccio di alleanze e attori, fra tribù, milizie e interessi stranieri. Ogni tentativo di unire il Paese con la diplomazia finora è franato. Ma a questo punto è chiaro che nessuna delle due parti ha la forza militare per prevalere e dunque dovrebbero essere pronte a negoziare. A poco sono servite la Conferenza di Palermo del novembre scorso e il successivo summit di Dubai del 27 febbraio, dove i due principali contendenti si erano promessi di lavorare per elezioni nazionali che potessero dare al Paese una guida legittima. Ora – sottolinea De Leonardis – sembrano esserci le condizioni per un dialogo interno, ma si spera anche che ci sia l’opportuno contesto internazionale per favorire una reale intesa. A proposito della questione sequestri, De Leonardis ricorda che dal 1° settembre, i pescherecci “Antartide” e “Medinea” sono sotto il controllo delle forze che fanno capo al generale Haftar, insieme con i 18 membri degli equipaggi bloccati a 35 miglia dalle coste di Bengasi. L’iniziativa è giustificata ufficialmente dal fatto che il Paese considera parte del suo territorio anche uno spazio marino oltre le 70 miglia nautiche dalle coste. De Leonardis ricorda però che potrebbe anche essere una misura presa per fare pressione sull’Italia.

da Vatican NEWS del 19 ottobre 2020