La speranza rinnovata per il Libano

E’ forte l’eco della giornata di preghiera e di digiuno voluta da Papa Francesco venerdì 4 settembre – a un mese esatto dalla devastante esplosione al porto di Beirut – con la visita del segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin. A Vaticannews il rettore del Seminario Redemptoris Mater della capitale, don Guillaume Bruté, parla delle cruciali sfide che attendono il Libano, chiamato a importanti riforme, e racconta della speranza rinnovata nel Paese, tra tutti e non solo tra i cristiani, dall’iniziativa del Papa

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Progetti di pace e non di sventura per concedervi un futuro pieno di speranza”: sono parole di Papa Francesco, che cita il Profeta Geremia. Sono contenute nel messaggio portato in Libano dal segretario di Stato cardinale Pietro Parolin con la sua visita,  venerdì 4 settembre, esattamente a un mese dall’esplosione al porto di Beirut, che ha causato oltre 220 morti, 6000 feriti e 300.000 sfollati.

Il forte incoraggiamento

“I libanesi ricostruiranno il loro Paese, con l’aiuto degli amici e con lo spirito di comprensione, dialogo e convivenza che li ha sempre contraddistinti”: così il cardinale Parolin nell’omelia della Messa celebrata davanti al Santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa. Il segretario di Stato ha sottolineato la capacità dimostrata dai libanesi di resistere e di rialzarsi dalle enormi difficoltà incontrate nel corso della sua storia. Anche questa volta sapranno farlo: “La ricostruzione del Libano non avverrà solo a livello materiale. Beirut, ‘madre delle leggi’, rinascerà dalle sue ceneri assistendo alla nascita di un nuovo approccio alla gestione della cosa pubblica, la res publica. Nutriamo tutti la speranza che la società libanese si baserà maggiormente sul diritto, i doveri, la trasparenza, la responsabilità collettiva e il servizio del bene comune”.

Dell’importanza e del significato dell’iniziativa per il popolo libanese abbiamo parlato con don Guillaume Bruté, rettore del seminario Redemptoris Mater a Beirut:

Don Guillaume racconta dell’emozione di accogliere nel Paese il rappresentante del Papa, di ascoltare l’incoraggiamento da parte del cardinale Parolin per un cammino di riforme nel Paese dei cedri, che anche Papa Francesco ha definito con la definizione data nel 1989 da Papa Giovanni Paolo II, poi Santo, e cioè: “il Libano non è solo un Paese ma è un messaggio di convivenza”. E Don Guillaume spiega che il cardinale Parolin è venuto a dare speranza a quanti guardano al possibile lungo processo di riforma del sistema di governance definito confessionalismo, che ha assicurato al Paese un equilibrio ma che ormai è tempo di cambiare per correggere alcuni limiti. Non sarà un impegno da poco, ma è importante che il processo sia avviato, dice il rettore. E Don Guillaume sottolinea che è emozionante sapere che il cardinale Parolin ha ascoltato, valuta, segue le proposte che emergono, come quella del Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Béchara Boutros Raï, che ha parlato di status di neutralità. Don Guillaume spiega che l’obiettivo è far sì che il Libano non sia condizionato da ingerenze straniere, ma che piuttosto trovi uno spazio di autonomia che gli permetta di “compiere la sua missione”.

Il cardinale Parolin tra le macerie di Beirut

E, oltre le parole, c’è poi un’immagine che Don Guillaume racconta di conservare di questa visita: è stato particolarmente colpito dal vedere il segretario di Stato, inviato del Papa, tra le macerie di Beirut. Non si tratta di macerie di una guerra – dice – ma comunque frutto di una distruzione: l’esplosione devastante del 4 agosto al porto, infatti, oltre al disastro dal punto di vista umano – oltre 200 morti, migliaia di feriti e decine di migliaia di sfollati – ha sgretolato vetri di case e di macchine in una vasta area della città e ha poi davvero distrutto il quartiere di Karantine, “uno dei più antichi e belli di Beirut”. E, a questo proposito, Don Guillaume oltre a riferire il dramma di chi ha avuto perdite di persone care, sottolinea che ci sono le difficoltà economiche di chi non ha le risorse per mettere a posto la casa o la macchina con cui dovrebbe magari andare a lavorare, nel caso sia tra quanti hanno ancora un lavoro. La situazione finanziaria del Paese è davvero difficile da mesi e mesi e l’esplosione ha colpito una popolazione già stremata, con la lira libanese che ha perduto oltre l’80 per cento del suo valore.  In tutto questo – afferma Don Guillaume – l’iniziativa della giornata di preghiera e digiuno di Papa Francesco, che ha toccato l’animo non solo delle persone religiose ma di tutti, ha rinnovato lo slancio di speranza. E don Guillaume esprime l’auspicio che anche i leader che gestiranno aiuti per il Libano lo facciano con uno spirito rinnovato dalla consapevolezza di cosa rappresenti il Paese: un messaggio di convivenza, come diceva San Giovanni Paolo II e come ha ribadito Papa Francesco, per la Regione e per il mondo.

da Vatican NEWS del 6 settembre 2020

 

Béchara Raï: salvare il Libano un dovere nobile per il mondo

Dopo la tragedia del porto di Beirut, la Chiesa locale si stringe attorno all’inviato del Papa, il cardinale Parolin, per vivere la “Giornata universale di preghiera e digiuno per il Libano” annunciata per domani da Francesco. A Vatican News il Patriarca di Antiochia dei Maroniti, il cardinale Béchara Raï, parla dell’iniziativa che richiama alla mente la giornata voluta nel 1989 da Giovanni Paolo II e sottolinea l’importanza di difendere il “messaggio” che il Libano rappresenta per il mondo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A un mese esatto dall’esplosione nel porto che ha devastato Beirut – 220 morti,  6.000 feriti e 300 mila sfollati – il Papa richiama tutti alla “Giornata universale di preghiera e digiuno per il Libano”. Nell’accorato appello, lanciato ieri al termine dell’udienza generale, ha annunciato di inviare il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, quale suo “rappresentante” per esprimere “vicinanza e solidarietà” e per invitare “anche i fratelli e le sorelle di altre confessioni e tradizioni religiose ad associarsi a questa iniziativa” nelle “modalità che riterranno più opportune, ma tutti insieme”.

Ricordando il richiamo 30 anni fa di San Giovanni Paolo II, Francesco ha affermato: “Di fronte ai ripetuti drammi, che ciascuno degli abitanti di questa terra conosce, noi prendiamo coscienza dell’estremo pericolo che minaccia l’esistenza stessa del Paese. Il Libano non può essere abbandonato nella sua solitudine”. Per oltre 100 anni, il Libano è stato “un Paese di speranza”, “un luogo di tolleranza, di rispetto, di convivenza unico nella regione”. Come disse San Giovanni Paolo II nel 1989, “il Libano rappresenta qualcosa di più di uno Stato, il Libano è un messaggio di libertà, è un esempio di pluralismo tanto per l’Oriente quanto per l’Occidente'”. Francesco ha ribadito: “Per il bene stesso del Paese, ma anche del mondo, non possiamo permettere che questo patrimonio vada disperso”.

Dell’incoraggiamento di Papa Francesco a “tutti i libanesi a continuare a sperare”, abbiamo parlato con il Patriarca di Antiochia dei Maroniti, cardinale Béchara Boutros Raï  

R. – Noi abbiamo apprezzato tanto l’iniziativa del Santo Padre e lo ringraziamo di cuore. Da quando il nunzio ci ha comunicato ieri la notizia, abbiamo informato tutti i vescovi e anche il popolo perchè ogni sera, nel Patriarcato, abbiamo la recita del Rosario che è diffuso attraverso televusioni e Facebook. Quindi abbiamo annunciato che il Papa ha fatto un appello lanciano una giornata di preghiera e digiuno per il Libano. Quindi tutti lo sanno: le diocesi e i religiosi sono stati tutti informati e vediamo che si sono “mobilitati” alla preghiera anche tanti giovani.

Eminenza ricordiamo l’altra giornata di preghiera quella voluta da San Giovanni Paolo II, il 7 settembre 1989…

R. – S. Giovanni Paolo II inviò una lettera apostolica a tutti i vescovi cattolici del mondo chiedendo di consacrare una giornata di preghiera per il Libano. In quella famosa lettera diceva esattamente che il Libano è qualcosa di più di un Paese, è un messaggio di libertà, un esempio di pluralismo per l’Oriente come per l’Occidente. La sua sparizione diverrebbe uno dei più grandi rimorsi del mondo, la sua salvaguardia è uno dei doveri più urgenti e nobili che il mondo contemporaneo debba assumere. Quindi è una cosa molto grande. Ecco, ora il Santo Padre Francesco riprende questa iniziativa di preghiera per il Libano.

Dunque eminenza un appello e una preghiera forti che si rinnovano, per la difesa e la ricostruzione del Libano?

R. – Certo, ed è per questo che noi diamo tanta importanza a questo evento, e stiamo pregando tutti, come Chiesa, già da ottobre scorso. Tutti i giorni alle 18 recitiamo il Rosario che viene diffuso tramite le televisioni e attraverso Facebook. E’ seguito da decine di migliaia di persone. Ora grazie all’appello del Papa viviamo una preghiera universale della Chiesa.

A 20 chilometri da Beirut, in collina si staglia il Santuario di Nostra Signora del Libano di Harissa. Abbiamo raggiunto telefonicamente il rettore padre Khalil Alwan:

Padre Khalil sottolinea che la parola del Papa e l’inizitiva della giornata hanno fatto sentire a tutti in Libano di non essere soli. Sapere che la Chiesa in tutto il mondo prega per il Libano è – sottolinea – “una grazia straordinaria”. Padre Khalil sottolinea quanto sia importante l’incoraggiamento per la gente nel Paese che vive una fase  in cui “in tanti pensano di emigrare”. E ricorda poi che nel Santuario, dove si celebrano ogni giorno diverse Messe e si recita il Rosario, in particolare durante tutte le ore della visita del cardinale Parolin ci saranno persone a pregare senza interruzione.

da Vatican NEWS del 3 settembre 2020

 

Israele al centro di accordi e intese

Confermate intese sul piano commerciale per Gaza, mentre Israele cerca di organizzare la cerimonia per la firma dell’accordo di normalizzazione delle relazioni tra lo Stato ebraico e gli Emirati Arabi Uniti entro metà settembre a Washington. Ieri sono arrivate nel Golfo le delegazioni israeliane e statunitense. Con noi l’esperto di geopolitica Raffaele Marchetti:

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Israele riapre da oggi il valico commerciale con Gaza di Kerem Shalom e ripristinerà le zone di pesca al largo delle coste della Striscia. Si tratta di provvedimenti che rientrano nelle intese annunciate ieri tra Hamas e il Qatar sulla crisi con Israele. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha sottolineato che si tratta di “fermare l’escalation” lungo il confine dopo un mese di incidenti e riportarvi la calma. E ha precisato che le intese, mediate dal Qatar, includono la realizzazione di progetti a beneficio di Gaza e serviranno a contrastare la diffusione dei contagi di coronavirus.

Al lavoro per l’attuazione degli accordi di metà agosto

Ieri l’aereo El-Al LY971, con a bordo il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, e l’inviato speciale di Trump, Jared Kushner, è volato direttamente da Tel Aviv ad Abu Dhabi ed è passato per i cieli dell’Arabia Saudita. Si tratta di sviluppi dell’Accordo raggiunto a metà agosto tra Israele, Emirati Arabi e Stati Uniti. Netanyahu e Kushner hanno invocato “pace nella regione”. Il lavoro delle delegazioni è cominciato subito dopo l’atterraggio (alle 15.38 locali) con il primo incontro tra il ministro di Stato emiratino Anwar Mohammed Gargash e il capo della delegazione israeliana, il consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Shabbat, al quale ha preso parte anche Kushner.  Sono estremamente orgoglioso – ha detto l’israeliano parlando in arabo – di guidare questa  delegazione. Sul tavolo ci sono accordi di cooperazione su aviazione, turismo, energia, commercio, finanza, sanità, energia ma non sulla sicurezza, tema che sarà oggetto di prossimi incontri.

Per riflettere sul significato e le implicazioni anche simboliche di questo volo, sulle reazioni e sugli sviluppi dell’accordo di metà agosto, abbiamo intervistato Raffaele Marchetti, docente di relazioni internazionali alla Luiss:

Il professor Marchetti sottolinea che l’accordo è senz’altro un passo importante e spiega che si inserisce nel contesto di un avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita in chiave di possibile fronte di alleanza nei confronti del potere sciita in particolare dell’Iran. Ricorda il ruolo dell’amministrazione Trump e la contemporaneità con l’impegno statunitense a spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e ad appoggiare il processo di espansione dello Stato ebraico in Cisgiordania. In questi giorni – ricorda Marchetti – le delegazioni discutono dell’apertura di ambasciate nei rispettivi Paesi, a suggello del terzo accordo di pace tra Israele e un Paese arabo, dopo Egitto e Giordania, che Netanyahu si è detto convinto sarà presto firmato ufficialmente a Washington. A proposito di reazioni all’accordo con gli Emirati, Marchetti commenta che ovviamente c’è quella negativa da parte del mondo sciita e poi spiega che il fronte palestinese è invece meno compatto. Il leader palestinese Mohammad Shtayyeh ha avuto chiare parole di critica parlando di “scena penosa” in relazione al volo aereo con Netanyahu e Kushner, ma si sono levate altre voci palestinesi palesando un approccio più possibilista. In ogni caso, Marchetti nota che ci sono in atto diversi contesti da considerare se si vuole valutare l’accordo nella sua complessità.

L’aggiornamento sul Covid-19 in Israele e a Gaza

Il ministero dell’Istruzione israeliano ha autorizzato l’avvio stamane, fra molte misure cautelative, del nuovo anno scolastico malgrado il coronavirus continui a diffondersi a ritmo elevato nel Paese. Nelle località più colpite le scuole sono comunque rimaste chiuse. Ieri, secondo il ministero della Sanità, i contagi sono stati 2.180, ossia il 7,4 per cento dei test compiuti. Complessivamente in Israele i casi positivi sono stati finora 117.241. I malati attuali sono 20.699, 438 dei quali in condizioni gravi. I decessi sono stati finora 946. Situazione preoccupante anche nella Striscia di Gaza, che resta in lockdown da oltre una settimana durante la quale si sono avuti 4 decessi e 286 contagi. Le aree più colpite, riferisce il ministero della Sanità locale, sono Gaza City ed il nord della Striscia, definite adesso ‘zone rosse’. Ai loro abitanti viene concesso di uscire di casa solo per rifornirsi di alimentari: ma la polizia presidia gli accessi dei pochi empori aperti ed impone in maniera rigida il distanziamento sociale. Nelle altre aree della Striscia gli abitanti possono spostarsi liberamente entro le loro località di residenza, ma solo nelle ore diurne.

da Vatican NEWS del 1° settembre 2020

 

A Mustapha Adib l’incarico per un nuovo governo in Libano

L’attuale ambasciatore in Germania, Mustapha Adib, è stato incaricato di formare il nuovo esecutivo a Beirut. Dopo le gravi esplosioni nella capitale, si è aperto il dibattito sulle riforme possibili a 100 anni dallo slogan del Grande Libano. Il presidente Aoun chiede “uno Stato laico”, mentre il capo dello Stato francese torna a Beirut per promuovere un “nuovo patto politico”. Con noi uno dei massimi esperti del Vicino Oriente, Massimo Campanini

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Mustapha Adib, 48 anni, attuale ambasciatore del Libano in Germania, Mustapha Adib, ha accettato l’incarico di formare un nuovo governo a Beirut, impegnandosi a formare “in tempi brevi” una squadra di “esperti” con una missione “riformatrice”. Il suo nome è quello che ha ricevuto il più alto numero di consensi. Il presidente Michel Aoun ha avviato stamattina le consultazioni, a cominciare dagli ex primi ministri, tra i quali Najib Mikati e Saad Hariri, che hanno subito annunciato il loro sostegno a Mustapha Adib. L’ambasciatore, indicato dai sunniti di Futuro, ha trovato subito anche l’appoggio delle forze sciite di Hezbollah e Amal.

Un governo di scopo

Il governo Diab si è dimesso in blocco sull’onda delle proteste popolari, sei giorni dopo la tragedia nel porto di Beirut – oltre 220 morti, 7000 feriti e 300.000 sfollati – che ha scosso l’intero Paese e la comunità internazionale. Un esecutivo che ha avuto vita breve: era stato formato a gennaio dopo il passo indietro ad ottobre, sempre sotto le pressioni popolari, dell’esecutivo di Saad Hariri. Le forze politiche sembrano ormai consapevoli della necessità di un “governo di scopo” che faccia uscire il Paese dalla crisi economica e politica, aggravata dalle devastanti esplosioni al porto di Beirut del 4 agosto.

A 100 anni dal Grande Libano

Era il primo settembre 1920, quando il generale francese Henri Gouraud dal portico di un palazzo di Beirut, circondato dai leader politici e religiosi locali annunciò la fondazione dello Stato del Grande Libano, che avrebbe dovuto comprendere anche la Siria, precursore del moderno Stato libanese. Da allora diverse vicende storiche si sono susseguite, fino ad arrivare alla Costituzione che riconosce 18 confessioni religiose, prevede che il presidente della Repubblica sia cristiano, il capo del governo sunnita e il capo del parlamento sciita, e stabilisce che i suoi 128 seggi parlamentari siano divisi tra cristiani, sunniti e sciiti. Il tutto avviene secondo un preciso accordo numerico-rappresentativo, unico nella regione. Il punto è che i governi nati da questo sistema hanno sempre avuto difficoltà ad attuare i programmi e non sono riusciti a soddisfare le richieste popolari per migliorare le condizioni di vita. Sulla scia del presidente francese Macron, i leader occidentali si sono uniti alle richieste dei libanesi, in patria e all’estero, per un profondo cambiamento politico.

Campanini: il sistema confessionale non aiuta le riforme

Per ragionare sul ruolo della Francia, ricordare le specificità e i limiti dell’attuale assetto politico-costituzionale libanese e mettere a fuoco la prospettiva di un patto politico nuovo, abbiamo intervistato il professor Massimo Campanini, tra i massimi esperti di Vicino Oriente:

Campanini spiega che il sistema confessionale, caratteristica peculiare del Libano, ha assicurato per decine di anni – a parte la parentesi della guerra civile dal 1975 al 1990 – una sostanziale pace sociale, ma poi aggiunge che in questo momento rappresenta una sorta di vincolo che non aiuta il processo di riforme che risulta sempre più urgente. Dalla sua analisi emerge una raccomandazione: perché sia davvero un processo positivo, deve prendere le mosse da un dialogo tra tutte le rappresentanze e le parti politiche. Nessuno può essere escluso. Massimo Campanini ricorda che lo Stato del Libano è stato pensato cento anni fa sostanzialmente come un prodotto di una visione frutto del colonialismo, per poi spiegare come, a differenza di altri Paesi “disegnati” sulla cartina in modo astratto, il Paese dei Cedri abbia trovato una sua identità, diventando un’entità non solo territoriale ma anche culturale.  Attualmente si tratta di un piccolo Paese anche fragile – afferma – ma che rappresenta un unicum nella regione, e che può dare un contributo importante alla stabilità sempre più messa a rischio in Medio Oriente.

La mediazione di Parigi e la prossima visita di Conte

Per la seconda volta in un mese, in serata è atteso Emmanuel Macron. Il presidente francese si è recato in visita alle rovine del porto di Beirut a meno di 48 ore dalle esplosioni. Già in quel momento Macron aveva chiesto di formare quanto prima un governo di “unita’ nazionale” e di rifondare radicalmente il sistema di governo libanese per sbloccare gli aiuti economici. A risultare decisivo è il fatto che il presidente francese esprima la posizione dei Paesi e delle istituzioni che potrebbero aiutare il Libano a superare la crisi, a condizione che sia portato a termine un processo di riforma. Il 28 agosto, a Parigi, si parlava di “mettere pressione” chiedendo un “governo con una missione”, ovvero capace di attuare le riforme che tutti ormai conoscono, dal sistema bancario alle dogane, dall’elettricità alla sanità.  E oggi la presidenza del Consiglio italiana ha fatto sapere che martedì 8 settembre il primo ministro Giuseppe Conte sarà in visita a Beirut.

La visione dei leader

“Dichiarare il Libano come uno Stato laico”. E’ quanto ha chiesto il presidente, Michel Aoun, durante un discorso in diretta tv ieri, alla vigilia del centenario di proclamazione dello Stato libanese. Aoun ha riconosciuto la necessità di “cambiare il sistema”, dopo le devastanti esplosioni al porto di Beirut del 4 agosto, e mesi di crisi economica che avevano portato il Paese a dichiarare a marzo il default finanziario. Dallo scorso autunno si susseguono proteste popolari che hanno provocato la caduta di due governi: a ottobre c’è stato il passo indietro di Saad Hariri e due settimane fa quello di Hassan Diab. Per quanto riguarda il presidente del Parlamento libanese, ha chiesto di modificare il sistema confessionale che governa la vita politica in Libano, “fonte di tutti i mali”. L’appello di Nabih Berri, che presiede il Parlamento dal 1992, segue quello del presidente Michel Aoun e di Hassan Nasrallah, leader del movimento Hezbollah, che ieri hanno parlato di una profonda riforma del sistema. Nasrallah ieri ha dichiarato: “Siamo pronti a discutere di un nuovo patto politico proposto dalla Francia, siamo aperti a qualsiasi discussione costruttiva sull’argomento, ma a condizione che sia volontà di tutti i partiti libanesi”.   Il leader del movimento sciita non ha specificato quali cambiamenti sia disposto a considerare, ma ha detto di aver “sentito critiche da fonti ufficiali francesi sul sistema confessionale libanese” e sulla sua incapacità di risolvere i problemi di un Paese travolto da una crisi socio-economica senza precedenti, aggravata dalla pandemia del Covid, e segnata dal collasso finanziario.

L’Onu conferma il suo impegno

Intanto, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità una risoluzione che estende il mandato della missione delle Nazioni Unite in Libano (Unifil) sino al 31 agosto 2021. Il documento prevede la riduzione del tetto massimo di truppe da 15.000 a 13.000 (come richiesto degli Usa): disposizione che non richiede al momento alcun taglio alle forze sul terreno, attualmente circa 10.250 soldati. Inoltre rafforza il meccanismo di monitoraggio nella zona meridionale del Libano. Secondo il ministero degli Esteri israeliano, la risoluzione chiama il governo libanese a fornire subito pieno accesso a “tutti i siti sospetti a nord della Linea Blu” che separa Israele dal Libano.

Il costo economico della tragedia del porto

La Banca mondiale ha dichiarato oggi che il danno complessivo subito a seguito dell’esplosione è compreso tra i 3,8 e 4,6 miliardi di dollari. I settori sociali, l’edilizia abitativa e la cultura sono i più colpiti, e hanno subito danni sostanziali per un totale compreso rispettivamente tra gli 1,9 miliardi e i 2,3 miliardi, 1 miliardo e 1,2 miliardi. La Banca mondiale ha inoltre stimato che le perdite dell’attività economica oscillano tra i 2,9 miliardi e i 3,5 miliardi. Le esigenze di ricostruzione e ripresa del settore pubblico per il periodo 2020-2021 sono stimate tra 1,8 miliardi e 2,2 miliardi di dollari, con 760 milioni di dollari necessari prima della fine dell’anno. Il rapporto ha sottolineato che gli aiuti internazionali e gli investimenti privati “saranno essenziali per una ripresa e una ricostruzione globali”.

da Vatican NEWS del 31 agosto 2020

Il Centrafrica a 60 anni dall’indipendenza

Il 13 agosto 1960 la Repubblica Centrafricana arrivava con una dichiarazione ufficiale alla completa indipendenza. Un territorio con grandi potenzialità che resta uno dei più poveri della terra. Da questo Paese dell’Africa equatoriale, nel 2015, Papa Francesco ha voluto dare avvio al Giubileo straordinario della misericordia. Da Bangui con noi il missionario Padre Aurelio Gazzera

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Sessant’anni in cui si sono susseguiti inizialmente colpi di stato e poi una lunga guerra civile. A novembre 2015 la prima porta santa ad essere aperta personalmente da Papa Francesco è stata quella della cattedrale di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, che in quel momento era l’ultima tappa, dopo il Kenya e l’Uganda del primo viaggio del Pontefice nel continente nero. “Vengo come pellegrino di pace e mi presento come apostolo di speranza”, disse il Papa al suo arrivo a Bangui, dove l’allarme attentati era altissimo ma dove Francesco non volle rinunciare alla papamobile scoperta. Cinque anni dopo, alcuni passi avanti verso un vero processo di pacificazione del tessuto sociale sono stati fatti, ma non mancano fattori di destabilizzazione per i forti interessi in campo, come ci ha confermato padre Aurelio Gazzera, che vive tra Bangui e il nord del Paese:

Padre Aurelio ricorda che da tempo il governo non ha il completo controllo del territorio e sacche di illegalità sono registrate nelle campagne e nelle province del nord, dove ancora avvengono, meno che in passato, scontri tra i due maggiori gruppi ribelli e forze governative. Ci sono gruppi di ribelli che negli ultimi tempi accettano di sedersi a un tavolo per negoziare equilibri di potere sul territorio ma è anche vero che alternano momenti di disponibilità con decisioni improvvise di abbandonare il dialogo. Una delle attività in cui si intrecciano lecito e illecito è quella della tassazione della transumanza. La missione Onu Minusca cerca in continuazione di neutralizzare ribelli che spadroneggiano, recuperando armi, munizioni e motociclette. Ma il missionario sottolinea anche che l’instabilità dei Paesi confinanti – Ciad, Sudan, Sudan del Sud e Repubblica Democratica del Congo – influisce negativamente sulla stabilità interna del Paese. Poi ricorda le ingenti risorse naturali di cui è ricco il territorio – citando legno, oro etc – per sottolineare che bisogna considerare, in particolare negli ultimi tempi, l’ingerenza sempre più significativa di potenze straniere che si aggiungono ad altri interessi di multinazionali occidentali. In definitiva, non si vive più la guerriglia e la serie di attentati di qualche anno fa ma non si può neanche dire che nel Paese ci sia una vera pace e tantomeno un processo di ordinato sviluppo. Padre Gazzera racconta che la decisione di Papa Francesco di aprire la prima porta santa del Giubileo a Bangui ha acceso i riflettori internazionali: da allora – afferma – non si sono mai davvero spenti, ma certamente i progressi sono lenti perché purtroppo le risorse non vengono sfruttate per il bene del Paese. Il rischio purtroppo è sempre quello che in una situazione così precaria, di scarso controllo delle forze governative sul territorio e di popolazione affamata, si possano infiltrare forze terroristiche, che non mancano di agire in tutta la regione. A proposito della pandemia, Padre Gazzera conferma che il Covid-19 rappresenta un problema sottolineando che in questo momento la sua missione è proprio quella di portare, e seguire la distribuzione sul campo, le risorse che la Conferenza episcopale italiana (Cei) e la Caritas hanno messo a disposizione per il Paese. Ma il missionario ricorda anche che, purtroppo, dal punto di vista sanitario il Centrafrica soffre di altre emergenze croniche, come quella della malaria, del morbillo, della denutrizione.

Sessant’anni fa l’indipendenza

Il territorio è stato una colonia francese  con il nome di Ubangi-Sciari o Uubangui-Schari. Il referendum costituzionale francese del settembre 1956 porta all’approvazione della nuova costituzione, che sarebbe entrata in vigore nel 1958, per la neo Repubblica Centrafricana all’interno della neo Comunità francese, sorta allo scioglimento dell’Africa Equatoriale Francese. Nel 1958 è attiva l’Assemblea centrafricana che elegge capo del governo Boganda, che però a marzo 1959 muore in un incidente aereo. Suo cugino David Dacko, lo sostituisce e conduce la Repubblica Centrafricana alla completa indipendenza con la dichiarazione del 13 agosto 1960. In questi sessant’anni si sono susseguiti colpi di stato e guerre. Dopo trent’anni di governo prevalentemente militare, nel 1993 si insedia un governo civile durato dieci anni. Ha assunto il nome attuale prorpio al momento dell’indipendenza nel 1960. Dopo trent’anni di governo prevalentemente militare, nel 1993 si insedia un governo civile durato dieci anni. Nel marzo 2003 il presidente Patassé ed il suo governo sono deposti con un colpo di Stato dal generale Francois Bozizé, che  forma un governo di transizione. Nelle contestate elezioni generali del 2005 il generale Bozizé viene eletto presidente. Il governo non ha però il completo controllo del territorio e sacche di illegalità sono registrate nelle campagne e nelle province del nord, dove continuano gli scontri tra i due maggiori gruppi ribelli ed il governo.

La guerra civile

Il 24 marzo 2013 Bozizé è costretto alla fuga dopo la presa della capitale Bangui da parte dei ribelli Seleka. Abbandonata la città, avrebbe raggiunto la Repubblica Democratica del Congo attraversando il fiume Ubangi. In seguito alla caduta di Bozizé e alla sua fuga in Congo e poi in Camerun, i ribelli di Séleka decidono di porre uno dei propri leader come Capo di Stato della Repubblica Centrafricana: Michel Djotodia, uno dei più strenui oppositori dell’ex presidente. Il primo ministro, invece, resta al suo posto anche con la nuova presidenza. Il 10 gennaio 2014 Djotodia si dimette insieme con il suo primo ministro durante un summit straordinario della Ceeac, e viene nominato presidente provvisorio Alexandre-Ferdinand Nguendet. Il 20 gennaio 2014 Catherine Samba-Panza prende il posto di Nguendet, venendo eletta presidente di transizione della Repubblica Centrafricana grazie al voto del parlamento.  Il 23 luglio 2014, i belligeranti firmano un accordo di cessazione delle ostilità a Brazzaville, lasciando tuttavia il Paese diviso in regioni controllate da milizie sulle quali né lo Stato né la missione dell’Onu hanno presa.

Il processo di riconciliazione di Touadéra

In occasione delle presidenziali del 2015-2016, viene eletto ca po dello Stato Faustune-Archange Touadéra, il quale lancia un processo di riconciliazione nazionale per rendere giustizia alle vittime delle guerre civili, per la maggior parte dislocate all’interno e all’esterno del Paese. Incarica per decreto il suo ministro Regina Konzi Mongot di elaborare il Programma nazionale di riconciliazione nazionale e di pace, proposto nel dicembre 2016, adottato all’unanimità dagli organismi internazionali. Da allora, un comitato è al alvoro per giudicare i principali attori e risarcire le vittime. Non si tratta di un processo né breve né facile. Tra gli episodi più gravi, bisogna ricordare, a giugno 2017, gli scontri a Bria, nel centro-est del Paese, con cento morti.

da Vatican NEWS del 13 agosto 2020

 

Nuova fase politica in Libano

Passo indietro del governo a Beirut: l’esecutivo di Hassan Diab resta in carica solo per il disbrigo delle formalità. Formalmente spetta al presidente, Michel Aoun, fissare le consultazioni per eventuali elezioni. L’annuncio c’è stato ieri praticamente ad una settimana dalla tragedia delle due esplosioni nel deposito di nitrato di ammonio. Con noi l’editorialista di Avvenire Camille Eid

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il disastro avvenuto il 4 agosto a Beirut “è il risultato di una corruzione cronica” in Libano, che ha impedito una gestione efficace del Paese. E’ quanto ha affermato il primo ministro Hassan Diab annunciando lunedì le dimissioni in un discorso televisivo. “La rete della corruttela è più grande di quella dello Stato”, ha aggiunto Diab, facendo così eco alla voce della piazza che da mesi  e con ancora maggior forza dopo le esplosioni al porto –  costate la vita a 220 persone e il ferimento di 7000 – chiede un cambio ai vertici delle istituzioni. Delle prospettive che si aprono abbiamo parlato con l’editorialista di Avvenire Camille Eid di origine libanese:

Ascolta l’intervista con Camille Eid:

La popolazione esasperata

Camille Eid ipotizza che ci siano tentativi di formare un governo tecnico o un esecutivo di unità nazionale, ribadendo che però quello che chiede la popolazione è un rinnovo anche del parlamento. Eid sottolinea inoltre l’esasperazione popolare ricordando vari scandali che hanno preceduto la tragedia del 4 agosto al porto, con la prima e la seconda esplosione di un carico di nitrato di ammonio che doveva essere considerato altamente a rischio. Domenica scorsa all’Angelus, il Papa ha lanciato il suo appello perchè nel Paese possa rinascere una convivenza “forte e libera” e il giorno stesso, sul fronte internazionale, la Conferenza dei donatori ha deciso lo stanziamento di 250 milioni di euro, che però si è voluto affidare alla gestione di associazioni o ong che fanno capo all’Onu perché  arrivino direttamente alla popolazione, che  ha perso da tempo ogni fiducia nella classe politica.  Il giornalista spiega alcuni episodi chiave che tornano nelle denunce della popolazione. Quasi un anno fa ci sono stati alcuni incendi e si è scoperto che gli elicotteri che si diceva fossero stati acquistati per le emergenze, non erano in realtà funzionanti. E’ solo un esempio, afferma, di vari scandali denunciati a gran voce dalla popolazione durate le proteste antigovernative che da mesi vanno avanti nel Paese. C’è anche l’indignazione espressa per 40 miliardi che sono stati messi in conto per le spese delle infrastrutture, mentre i cittadini continuano a soffrire continui black out per mancanza di elettricità.

La crisi economica

L’editorialista inoltre si sofferma su alcuni particolari della crisi economica che ha portato il Paese a dichiarare a marzo scorso il default finanziario non potendo pagare il debito di 100 miliardi di dollari, che è davvero ingente per un piccolo territorio con 4 milioni di abitanti. Ricorda come tutti i correntisti abbiano perso i risparmi di una vita per la perdita dell’80 per cento di valore della moneta locale e precisa che al momento neanche i libanesi all’estero possono mandare soldi ai familiari e alle persone care perché è bloccato per tutti l’accesso ai conti. Consegnarli di persona recandosi in Libano è molto complicato per via della pandemia. Resta alta dunque la preoccupazione per una fase che si prospetta non scontata e non facile.

da Vatican NEWS dell’11 agosto 2020

Beirut, il governo si è dimesso

L’intero governo del premier Hassan Diab rassegna le dimissioni. L’annuncio ufficiale in tv: le esplosioni al porto di Beirut, sono “il risultato di una corruzione endemica”. Intanto, la Conferenza dei donatori ha stanziato 250 milioni di euro in aiuti, da far arrivare attraverso l’Onu direttamente alla popolazione, e ha chiesto riforme che rispondano ai bisogni della popolazione. Nella capitale, ferita dalla catastrofe di martedì scorso, in tanti si offrono volontari per prestare soccorso. Con noi don Elia Mouannes di una parrocchia vicino al quartiere più colpito

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Repubblica di Cipro mette a disposizione gli aeroporti, i porti e le basi militari in chiave logistica a supporto degli aiuti umanitari e delle attività di protezione civile e ricostruzione nella città di Beirut. Lo ha annunciato il presidente cipriota Nicos Anastasiades a margine del summit in videoconferenza promosso domenica da Francia e Onu, che ha riunito tutti i Paesi che si sono offerti di aiutare il Libano con risorse finanziarie e personale specializzato. E’ emersa la disponibilità di 250 milioni di euro, con l’impegno a consegnarli direttamente a quanti operano sul campo. Del possibile impegno della comunità internazionale e della mobilitazione della gente locale, abbiamo parlato con don Elia Mouannes, parroco di una delle 1126 parrocchie di Beirut:

Don Elia ci racconta che subito nella sua parrocchia si è formato un gruppo che ha prestato soccorso nelle case della zona a ridosso di Karantine, il quartiere raso al suolo. Nelle aree circostanti gli edifici non sono crollati ma dentro le case hanno subito molti danni e il primo impegno, dice don Elia, è rimettere a posto come si può porte e finestre e assicurare da mangiare. Non manca in realtà l’aiuto neanche di volontari che vengono perfino da fuori Beirut. Don Elia descrive una popolazione angosciata, preoccupata sfiduciata, ma anche testimone di grande umanità e di fede. Dopo la grande prova della crisi economica, ora il terrore delle esplosioni e della tensione sociale. Per i cristiani, sottolinea don Elia, è proprio il momento di testimoniare quello in cui credono: parole e gesti di pace alla sequela di Cristo. Don Elia spiega che è normale essere inquieti per le ingiustizie ma l’espressione di questa inquietudine non può essere violenta, non può andare contro il messaggio di Cristo. Don Elia ci racconta come le parole del Papa, all’Angelus domenica, abbiano portato incoraggiamento e poi sottolinea che sempre ai suoi fedeli ricorda quello che Papa Francesco ha detto subito dopo la sua elezione al soglio pontificio e che ripete spesso: bisogna lavorare per costruire ponti e non muri. Poi, un appello alla comunità internazionale perché oltre ad impegnarsi, come è importante, per la ricostruzione materiale, si impegni anche a tenere vivo il messaggio di pacificazione, a evitare strumentalizzazioni, ingerenze, il prevalere di messaggi di odio. E una testimonianza personale: don Elia ci racconta che a 49 anni purtroppo deve affermare che gran parte della sua vita è trascorsa in un territorio in guerra. Ma anche da questa esperienza  è nata forse la sua vocazione sacerdotale, a servizio di Dio e della Chiesa, perché – spiega – Dio ha portato la vera pace nella sua vita.

Tensione e dimissioni

Ad una settimana dalla duplice esplosione che ha colpito il porto della capitale, l’intero  governo si è dimesso. Dopo la dichiarazione ai giornalisti del ministrio della Salute, il discorso del primo ministro Diab alla televisione. “L’esplosione del materiale immagazzinato nel porto della capitale negli ultimi sette anni – ha detto – è stato il risultato di una corruzione endemica. Oggi seguiamo la volontà del popolo nella sua richiesta di consegnare i responsabili del disastro che si nascondono da sette anni, e il suo desiderio di un vero cambiamento”. “Di fronte a questa realtà – ha concluso Diab – annuncio le dimissioni di questo governo”. E’ il secondo governo a cadere in seguito alle proteste contro la classe politica: a ottobre scorso si era dimesso Saad Hariri. L’inchiesta ora passa dalle stanze del governo all’Alta Corte mentre, purtroppo, il bilancio delle vittime si aggrava: 220 i morti e 7000 i feriti.

L’aiuto internazionale e l’invito a riforme

Il mondo deve agire in fretta, con efficacia e totale trasparenza per aiutare il Libano a rialzarsi dalla crisi in cui è piombato dopo la devastante esplosione a Beirut del 4 agosto. E’ questo il messaggio emerso dalla conferenza dei donatori fortemente voluta dal presidente francese Emmanuel Macron, il leader occidentale più attivo sin da subito sul fronte dell’assistenza, e sostenuta dall’Onu che ha riunito via internet i rappresentanti di circa 30 Paesi e istituzioni. I leader, tra i quali il presidente statunitense Donald Trump e il quello del Consiglio europeo Charles Michel, hanno risposto alla chiamata del Papa che anche all’Angelus ieri ha chiesto generosità, e hanno convenuto sul fatto che gli aiuti devono essere consegnati il prima possibile “direttamente” alla popolazione libanese. Questo era uno dei nodi alla vigilia della videoconferenza. Gli aiuti saranno gestiti dall’Onu attraverso le sua agenzie in totale “trasparenza” e consegnati “direttamente” alla popolazione. Inoltre, è stata ribadita la richiesta di un’inchiesta indipendente sul disastro avvenuto al porto di Beirut. Lo hanno ripetuto Macron e Michel, che nei giorni scorsi ne avevano parlato con le autorità libanesi, e lo ha chiesto anche Trump esortando “il governo a condurre un’indagine completa e trasparente, per la quale gli Stati Uniti sono pronti a portare il loro aiuto”. Al governo libanese i leader, Macron e Trump in testa, hanno anche rivolto un appello ad ascoltare i bisogni di chi manifesta legittimamente. “Bisogna fare il possibile affinché non prevalgano il caos e la violenza”, ha detto il presidente francese. Il Fondo monetario internazionale, che ha partecipato alla videoconferenza con il direttore Kristalina Georgieva, si è detto disponibile a “raddoppiare gli sforzi” a patto che il Libano si impegni ad attuare quelle riforme che vengono chieste da ben prima l’esplosione.

Il rischio impennata del Covid-19

Finora, secondo il conteggio della John Hopkins University, in Libano sono stati registrati 6223 casi e 78 morti per il Covid-19. Ieri, un medico che guida la lotta contro il Covid-19 nel Paese, l il dottor Firass Abiad, direttore del Rafik Hariri Hospital di Beirut, ha affermato che in seguito alla devastante esplosione nel porto di Beirut e alle manifestazioni di protesta, in Libano si verificherà probabilmente una nuova impennata di casi di coronavirus. “Purtroppo, questa atmosfera favorisce la trasmissione del virus”, ha affermato.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-08/beirut-libano-chiesa-aiuti-onu-pace.html

Il pensiero forte del Papa “per il popolo in Libano che soffre molto”

Appello e preghiera di Francesco per quanto accade a Beirut: alla tragedia di martedì scorso nella capitale libanese si uniscono altissima tensione sociale e disordini, con altri feriti. Francesco ricorda che il Libano si è fatto “modello del vivere insieme” affermando che “questa convivenza ora è molto fragile”. Sollecita aiuti dalla comunità internazionale, chiede alla Chiesa di essere vicina al suo popolo “nel calvario”, nella povertà evangelica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“In questi giorni il mio pensiero ritorna spesso al Libano”. Così Papa Francesco ha ricordato “la catastrofe di martedì scorso”, affermando che “chiama tutti, a partire dai Libanesi, a collaborare per il bene comune di questo amato Paese”. Il Libano – ha ricordato il Papa –  ha un’identità peculiare, frutto dell’incontro di varie culture, emersa nel corso del tempo come un modello del vivere insieme”.  Nelle parole del Papa emerge la preoccupazione: “Certo, questa convivenza ora è molto fragile, ma prego perché, con l’aiuto di Dio e la leale partecipazione di tutti, essa possa rinascere libera e forte”.  Dunque, l’invito alla “Chiesa in Libano ad essere vicina al popolo nel suo Calvario, come sta facendo in questi giorni, con solidarietà e compassione, con il cuore e le mani aperte alla condivisione”. E a braccio il Papa aggiunge una raccomandazione:  Per favore – dice – rivolgendosi a vescovi,  sacerdoti, religiosi del Libano, vivete nella povertà evangelica, senza lusso, perché “il popolo soffre e soffre molto”. Dunque, l’appello “per un generoso aiuto da parte della comunità internazionale”.

Altissima tensione a Beirut

Un poliziotto è morto in violenze in strada, oltre 200 persone sono rimaste ferite, venti manifestanti sono stati arrestati nei disordini scoppiati ieri nella capitale libanese. Almeno 5000 persone si sono riversate in piazza protestando contro il governo e in tanti sono riusciti ad entrare dentro il ministero degli Esteri e in quello dell’Economia prima di essere evacuati con l’intervento dell’esercito. In serata, altri manifestanti hanno preso d’assalto la super-fortificata sede dell’Associazione delle Banche, vicino a piazza dei Martiri. E altri attivisti si sono diretti alla sede del ministero dell’Energia.

 

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2020-08/papa-francesco-libano-angelus-appello-chiesa-aiuti-beirut.html

A Beirut tra le macerie, i giovani danno lezione di solidarietà

Mentre si cercano ancora i dispersi nel porto della capitale libanese, si parla di inchiesta internazionale per capire cosa abbia scatenato le due esplosioni che martedì hanno provocato oltre 150 morti, 5000 feriti e 300.000 sfollati. Intanto, un gruppo di giovani scout ha improvvisato un servizio di pulitura e di assistenza alle persone, soprattutto anziane, che sono nelle case danneggiate: portano via frammenti di vetro e lasciano un sorriso. Con noi Ghassam Sayegh, uno degli ispiratori dell’iniziativa

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, è a Beirut oggi: in programma incontri con il presidente Michel Aoun e altre autorità del Paese e una visita sulla scena della disastrosa esplosione di martedì. Sul luogo del disastro, meno di 48 ore dopo, si è recato il presidente francese Emmanuel Macron. Allo choc, al dolore, alla disperante urgenza di portare soccorso ai feriti, si unisce ora l’impegno a gestire le macerie e i bisogni della popolazione.

Tanti Paesi del mondo, a partire dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, ma anche l’Egitto e la Giordania e altri si sono impegnati immediatamente ad inviare aiuti. Le prime stime parlano di danni che ammontano tra i 10 e i 15 miliardi di dollari. Un colpo terrificante per l’economia già prostrata dalla crisi. Ma soprattutto i giovani, che abbiamo visto numerosissimi nelle manifestazioni per chiedere riforme nei mesi scorsi, in questa occasione sono scesi in strada per farsi protagonisti della solidarietà. Ce lo racconta Ghassam Sayegh, che si è unito al piccolo gruppo scout di una zona colpita ma non distrutta di Beirut, che ha cominciato a raggiungere le case di anziani soli della zona:

Seminare la speranza in tanta tristezza

Ghassam racconta che è stata come un’altra onda d’urto di tutt’altro tipo: altri giovani si sono uniti e hanno cominciato a cantare per le strade per chiedere chi avesse bisogno di aiuto. Soprattutto anziani hanno risposto chiedendo innanzitutto che qualcuno li aiutasse a rimuovere calcinacci e vetri. Yassan ricorda che da mesi in Libano i conti bancari sono bloccati in Libano in conseguenza del deafault finanziario. Non si possono convertire soldi libanesi, che peraltro hanno perso l’85 per cento del valore, in dollari. E’ praticamente impossibile acquistare vetri. Questi ragazzi dunque stanno cercando di spazzare calcinacci e frammenti di finestre andate in frantumi e stanno cercando di chiudere del cellophane le finestre. In realtà, per questi anziani che hanno passato la guerra ma che non credevano di vedere scene di questo tipo, disorientati e terrorizzati da esplosioni senza precedenti, cercano di spazzare anche un po’ di tristezza, portando un sorriso di speranza.

L’incognita delle responsabilità

Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, intervenendo in televisione, ha smentito con forza che la tragedia possa essere stata causata dalla deflagrazione di armi o di nitrato di ammonio controllati dal suo partito. Nasrallah ha chiesto che ci sia “un’inchiesta trasparente, giusta, indipendente” condotta dall’esercito nazionale. Anche il presidente Michel Aoun ha parlato attraverso i media, spiegando: “Tre settimane fa mi era stato detto che c’erano sostanze pericolose stoccate al porto. Avevo ordinato ai nostri militari che le spostassero”. Sulle cause non ha escluso nulla e ha sottolineato che “se vi è stata incuria i responsabili vanno individuati dalle nostre autorità”, rifiutando così l’idea di una commissione d’inchiesta internazionale avanzata dal presidente francese Macron che, giunto in visita, ha camminato per le strade. Aoun non ha escluso l’ipotesi di un attentato: “È possibile – ha detto – che a innescare lo scoppio sia stato un intervento esterno, magari un missile o una bomba”.

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