I vescovi europei e il Libano

A nome di tutti i vescovi dell’Unione Europea, il cardinale Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Comece, Commissione degli episcopati dell’Ue, condivide il dramma e la tristezza della popolazione di Beirut a seguito delle orribili e mortali esplosioni avvenute nel porto della capitale del Libano, assicura preghiere per le vittime e lancia un forte appello per il Libano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“A nome di tutti i vescovi dell’Unione Europea, condivido il dramma e la tristezza della popolazione di Beirut a seguito delle orribili e mortali esplosioni avvenute   nel porto della capitale del Libano”. Sono parole espresse dal cardinale Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo e presidente della Comece, Commissione degli episcopati dell’Ue, con un comunicato dopo la tragedia delle esplosioni a Beirut, assicurando “le più sentite condoglianze alle famiglie delle vittime e a tutti coloro che hanno perso i propri cari: amici, vicini, colleghi”, elevando “preghiere per le anime dei defunti e per la pronta guarigione dei feriti”.Condividendo le parole di Papa Francesco, i vescovi europei pregano per il Libano “affinché, attraverso la dedizione di tutte le sue componenti sociali, politiche e religiose, possa affrontare questo momento estremamente tragico e doloroso”.

R. – Il Libano è il nostro vicino. Ci sono tanti cristiani, tanti musulmani che vogliono vivere in pace in questo Paese, un Paese che è stato molto prospero e ora è diventato molto povero: la gente ha tante sofferenze … Non dobbiamo dimenticare che il Libano ha accolto tanti profughi, che anche nella Chiesa in Europa ci sono libanesi, così come nei nostri Paesi. Ad esempio, a Cipro, la Chiesa cattolica di Cipro è la Chiesa maronita: sono persone venute dal Libano. Quindi, in un certo senso, fanno parte dell’Europa e noi nelle nostre preghiere, nell’aiuto concreto non dobbiamo dimenticare il Libano.

Eminenza, qual era l’impegno delle Chiese europee anche prima di questa tragedia?

R. – Naturalmente, nella Comece lavoriamo per la pace e lavoriamo anche per le relazioni tra l’Unione Europea e il Libano; ma per quanto riguarda il denaro, l’aiuto concreto è ogni Chiesa nazionale che dà il suo contributo. E sappiamo che ci sono tante Chiese in Europa che sono molto generose.

E’ importante anche un appello alla comunità internazionale a non dimenticare il Libano? Questo piccolo Paese che negli ultimi 30 anni è stato baluardo di pace e di convivenza, sembra un po’ dimenticato, a parte questa tragedia …

R. – Sì, e anche dal punto di vista politico, della sicurezza. Penso che il Libano sia importante per l’Unione Europea, che ha tutto l’interesse ad avere un Libano stabile, stabile dal punto di vista politico e dal punto di vista economico. Dunque, penso che i politici, anche dell’Europa, debbano reagire perché è nell’interesse dei popoli europei che il Libano sia aiutato. Ma noi come cristiani dobbiamo fare di più: non dobbiamo agire per il solo nostro interesse, ma dobbiamo agire con solidarietà e con amore, con carità.

Sembra non sia stato un atto voluto, ma un incidente: un incidente, comunque, dove c’era un deposito con una quantità spropositata di composto chimico utile per l’agricoltura, ma anche per creare esplosivi. In ogni caso, è anche una tragedia ambientale: torna l’appello del Papa a un’attenzione agli equilibri tra uomo e natura…

R. – E’ tanto importante: noi non abbiamo ancora capito questo appello così importante.  Vediamo che il riscaldamento della nostra Terra è più veloce di quello che abbiamo pensato. Vediamo che ci sono incendi in Amazzonia: il 19% in più rispetto all’anno scorso, se non sbaglio. Questo significa che dobbiamo agire, e vuol dire anche che noi dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere. E’ molto importante, perché noi abbiamo una responsabilità nei riguardi di questa Terra, abbiamo una responsabilità nei riguardi delle generazioni future. E si capisce che, dove non c’è più stabilità politica, dove ci sono tanti interessi diversi, come accade attualmente in Libano, la situazione diventa molto pericolosa. Sappiamo che sono tanti i Paesi che si trovano in  situazioni analoghe, dunque bisogna agire a livello internazionale, per garantire che in Paesi a rischio non si verifichino incidenti di questo tipo.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-08/libano-beirut-vescovi-europei-comece.html

Il Burkina Faso minacciato dalle violenze

Ennesimo atto terroristico in questi giorni nel nord del Burkina Faso, area del Paese dell’Africa occidentale che, come gran parte del Sahel, continua a stare nella morsa del terrorismo. Il 5 agosto di 60 anni fa, il Paese che allora si chiamava Alto Volta, si rendeva indipendente e il 4 agosto del 1984 prendeva il nome di Burkina Faso. Con noi per ripercorrerne le vicende l’esperto della Società geografica Jean-Leonard Touadi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Almeno sei persone, soprattutto bambini, sono rimaste uccise dall’ordigno esplosivo improvvisato scoppiato nel nord del Paese nella notte tra sabato e domenica scorsi al passaggio del carro che li riportava a casa dopo il pascolo del loro bestiame. Si tratta di uno dei tanti sanguinosi attacchi di jihadisti che dal 2015 hanno ucciso oltre 1000 persone e provocato un milione di sfollati. La violenza jihadista, che è spesso accompagnata da conflitti tra comunità, ha ucciso negli ultimi anni oltre 4.000 persone in Mali, Niger e Burkina Faso, secondo i dati delle Nazioni Unite.

Grave la situazione di tutto il Sahel

Preoccupa sempre di più la situazione in tutto il Sahel e nel Paese che festeggia 60 anni di indipendenza attraversando però il periodo più inquietante della sua storia, come conferma Jean-Leonard Touadi, presidente del Centro relazioni per l’Africa (Cra) della Società geografica:

Traffici e interessi minano l’area

Il professor Touadi ricorda che purtroppo negli ultimi anni quasi quotidianamente si verificano attentati, più spesso al nord e più frequentemente contro militari e forze dell’ordine, ma spesso anche a danni di civili, come l’ultimo . E di recente è successo anche che sia stata interessata la capitale Ouagadougou e anche obiettivi civili. Touadi ricorda che tutto il contesto della regione del Sahel vive un aumento della violenza jihadista, unito a traffici di esseri umani e di armi.

Il problema delle influenze esterne

Spiega che alcuni analisti di recente stanno parlando di “Sahelenistan” e questo perché si associa questa area a quella intorno all’Afghanistan, che purtroppo si è caratterizzata per violenze terroristiche e scontri. Sottolinea inoltre come subito dopo l’indipendenza ci siano stati periodi difficili per il Burkina Faso, nell’avvicendarsi di colpi di Stato o di  scontri tra fazioni, ma afferma che quello attuale è il momento più inquietante perché l’espandersi di influenze esterne segna una escalation di violenze imprevedibile.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-08/burkina-faso-indipendenza-paese-violenze-intervista.html

 

 

Scompare John Hume, protagonista del processo di pace nordirlandese

John Hume, Premio Nobel per la pace per il suo contributo alla pacificazione in Irlanda del Nord e uno tra i più noti politici nordirlandesi per oltre 30 anni, è morto oggi all’età di 83 anni. Il suo nome si lega agli accordi del 10 aprile 1998, passati alla storia come gli accordi del Venerdì Santo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

John Hume, un cattolico ex insegnante e attivista per i diritti umani, è stato per diversi anni, fino al 2001, il leader del Partito socialdemocratico e laburista (Sdlp), di cui era stato tra i fondatori nel 1970. Nel 1998, l’anno della firma dell’accordo di pace in Irlanda del Nord, è stato insignito del Premio Nobel insieme al dirigente del Partito unionista dell’Ulster, David Trimble. Nel 2004 ha lasciato la politica in seguito ad una malattia. Ne traccia un profilo la giornalista Francesca Lozito, che da anni segue da vicino lo scenario irlandese:

R. – Ha fatto tantissimo per la pace, un lavoro instancabile. Hume era l’uomo che ci credeva e più di tutti aveva una visione: proprio dalla martoriata Derry chiedeva che il Nord Irlanda raggiungesse la pace. Ha lavorato per il dialogo con l’altra componente, quella protestante. Una cosa straordinaria. Hume è stato un uomo della visione, colui che ha trattato con gli Stati Uniti perché potessero essere i mediatori più importanti nel processo di pace in Nord Irlanda. Un uomo grande e umile fino all’ultimo.

Un cattolico profondamente credente …

R. – Finché ha potuto è stato visto in chiesa. Le sue condizioni di salute erano già compromesse durante gli anni delle lunghe ed estenuanti trattative che hanno portato poi alla sigla dell’accordo del Venerdì Santo, nel 1998. Ma fino all’ultimo a Derry lo si poteva trovare nella Cattedrale di Saint Eugene dove pregava e, insieme alla moglie, prendeva parte alla celebrazione della Messa.

Cosa dire della sua visione negli anni più bui della questione nordirlandese?

R. – L’SDLP era il partito in cui Hume militava. Purtroppo l’eredita oggi è flebile; si dice che i due partiti, repubblicani e unionisti, che hanno contribuito al processo di pace sono stati in un certo modo sacrificati per il raggiungimento di questa pace. Il contributo di Hume è stato attivo, militante nel sostenere il raggiungimento della pace in uno scenario difficile: erano gli Anni Settanta e la legislazione del Nord Irlanda risaliva al 1920. Lui ha contribuito ad andare oltre le regole ormai passate rispetto ai tempi che stavano cambiando. Prima del Bloody Sunday, il movimento di protesta, soprattutto quello che stava crescendo nella parte cattolica di Derry, chiedeva diritti civili sulla scia di quanto stava accadendo negli Stati Uniti con i neri americani che protestavano; pensiamo al Reverendo Martin Luther King. Tutta una scia di pacifiche proteste prima che scoppiassero i Troubles, prima che scoppiasse il conflitto in Nord Irlanda. Hume si inserì in quella linea, in quello scenario e vi operò fino alla fine anche durante la difficoltà degli anni dei Troubles lavorò perché si riaffermassero i diritti attraverso una via pacifica. Nei suoi scritti si legge: “… purché le decisioni siano in mano alle persone, e non a qualche appartenenza, in mano non a chi cerca la divisione, ma a chi cerca l’unità”. E Hume aveva anche una visione di unità dell’Europa. Aveva trovato in David Trimble, la parte unionista che contribuì al processo di pace, un alleato ideale. Le loro visioni combaciavano nel cercare la pace tanto che, non potendo pronunciare due discorsi a Stoccolma, Hume lasciò a Trimble la parola. Ma non è stato solo la voce di una parte: è stato la voce sola del popolo del Nord Irlanda.

In questo momento lascia un’eredità che può essere una testimonianza importante: la fase storica è molto differente ma c’è bisogno di uomini di pace …

R. – C’è tanto bisogno di uomini di pace. Ho visto l’eredità di Hume soprattutto nella base, nelle persone che lo hanno amato tanto e che sono sicura ai suoi funerali parteciperanno in tanti. Vedo la sua eredità più che nella politica del Nord Irlanda, nella gente comune, in quelle persone che sono preoccupate per gli effetti che la Brexit può avere sul loro futuro e per gli effetti che la situazione, aggravata anche dalla pandemia, possono avere sulle generazioni successive. Vedo soprattutto lì l’eredità di John Hume e sono sicura che in questi giorni, nelle prossime ore, il tributo più grande sarà proprio quello della gente comune che lo vedeva come uno di loro. Non era sicuramente un notabile, tutt’altro. Era un uomo che si poneva con umiltà. La pace vera la vogliono veramente in tanti ora, soprattutto le giovani generazioni che la chiedono insieme alla pace.

Chiede voti e non rivoluzione la candidata dell’opposizione in Bielorussia

Manifestazioni di piazza a Minsk a pochi giorni dal voto presidenziale fissato il 9 agosto, ma per il quale alcune operazioni di voto postale potrebbero cominciare martedì prossimo. Le opposizioni si sono compattate intorno al nome di Svetlana Tikhanovskaja, al suo esordio in politica dopo che il marito, noto blogger, è stato arrestato. Si tratta di sfidare il presidente Lukashenko, che si candida per il sesto mandato. Intanto, è tensione nei rapporti tra Lukashenko e il presidente russo Putin.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’opposizione vuole “elezioni corrette e non una rivoluzione”. Così la trentasettenne Svetlana Tikhanovskaja ha parlato alla folla che a Minsk si è riunita in questi giorni per esprimerle appoggio. Ha rigettato le accuse che le ha mosso Lukashenko di voler provocare disordini con l’assistenza di Paesi stranieri. Tre giorni fa le autorità bielorusse hanno arrestato 32 persone, affermando che si tratta di mercenari russi, che stavano pianificando attentati alla vigilia delle elezioni. Il governo di Minsk ha accusato Thikhanovsky e un altro dissidente, Mikola Statkevich, di aver agito insieme ai 32 presunti mercenari russi, considerati appartenenti al gruppo Wagner.

La situazione sociale

Secondo l’organizzazione per i diritti umani bielorussa Viasna, almeno 60 mila persone hanno partecipato giovedì a Minsk a quella che viene definita la più grande manifestazione nell’ex repubblica sovietica da 26 anni guidata da Lukashenko. Per capire l’attuale momento politico, ma anche la situazione sociale, abbiamo intervistato l’esperto dell’area ex sovietica, Giuseppe D’Amato:

D’Amato spiega che le opposizioni per questo voto hanno scelto di compattarsi intorno al nome della moglie del noto blogger Sergei Tikhanovskij, che si definisce una casalinga stanca di un Paese difficile e che si candida con altre due donne. L’obiettivo dichiarato – sottolinea D’Amato – è quello di portare presto il Paese a elezioni libere. Lukashenko chiede invece di essere riconfermato per quello che sarebbe il sesto mandato, rivendicando di aver dato e di poter assicurare ancora stabilità al Paese. Certamente, afferma D’Amato, c’è stabilità anche economica, ma è una situazione di economia ferma in cui gli stipendi restano molto bassi e per la popolazione la vita è comunque cara. Per questo si registra, fuori dalle città una forte spinta migratoria in particolare verso la vicina Polonia. Per quanto riguarda il coronavirus, D’Amato riferisce che dalla Bielorussia arrivano conferme che il contagio è stato contenuto, che il presidente stesso ha ammesso di essere risultato positivo al Covid-19, ma di essere stato asintomatico. A proposito della vicenda dei presunti mercenari russi arrestati, D’Amato spiega che si tratta di un episodio che conferma come nella stretta alleanza tra Minsk e Mosca si stia vivendo un momento di “scollamento” per quanto riguarda i rapporti tra Lukashenko e Putin.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-08/bielorussia-russia-elezioni-opposizione.html

Mai così tante armi in Medio Oriente dalla guerra mondiale

Sempre più significativa è la militarizzazione nell’area mediorientale e nell’Africa settentrionale da dieci anni a questa parte, tanto che si assiste attualmente alla maggiore proliferazione di armi mai registrata dalla fine del secondo conflitto mondiale. E’ quanto emerso dal seminario di studio della Nato Foundation College svoltosi in questi giorni a Roma, insieme con la consapevolezza che la pace si costruisce attraverso impegni concreti. Con noi, i protagonisti del dibattito

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Dalla seconda guerra mondiale e in particolare dalla dissoluzione dell’Urss nel 1991, stiamo vivendo il momento più delicato per il futuro dell’area del Mediterraneo e dell’Unione europea”. E’ la convinzione espressa da Youssef Cherif, vicedirettore del Columbia Global Centers, di Tunisi.

Il moltiplicarsi delle armi in campo è parallelo al moltiplicarsi degli attori non statuali, cioè eserciti e milizie legate a personaggi non governativi, o a gruppi terroristici veri e propri, o a varie organizzazioni criminali, o al soldo di privati, precisamente di aziende da difendere. Tutto questo minaccia fortemente la stabilità della Regione, indebolisce l’azione multilaterale della comunità internazionale e soprattutto offre terreno fertile per l’espandersi di potenze regionali, al di là dei principi del diritto internazionale. Alla conferenza intitolata “Quale futuro per il Medio Oriente?”, alla quale hanno partecipato esponenti dell’Alleanza Atlantica e studiosi internazionali, si è parlato di sovranismo e di radicalismo come di due facce della stessa medaglia. Ne abbiamo parlato con lo studioso di Medio Oriente Gilles kepel, docente presso Atenei a Parigi e a Lugano:

Kepel spiega che “questo misto di islamismo politico, nazionalismo e dimensione militare rappresenta la vera sfida alla pace”. Aggiunge che è davvero difficile immaginare oggi come “ristrutturare un progetto di pace” parlando di “enorme. Ma poi sottolinea che la ricerca della pace può passare attraverso un impegno concreto sul campo e cita quello che definisce lo “straordinario esempio di un cristiano”: il lavoro dell’arcivescovo di Mosul, il padre domenicano Najib Mikhael Moussa. Kepel ricorda che grazie al suo impegno è stata salvata la Biblioteca di Mosul e soprattutto sottolinea la sua capacità di creare dialogo e di portare una parola e un gesto di pace.

L’area più complessa del mondo

Condivide la delicatezza del momento Mitchel Belfer, presidente dell’Euro-Gulf Information Centre, che ha parlato delle “difficoltà di una Nato con rivalità al suo interno”, della distanza degli Stati Uniti – anche per le difficoltà economico-sanitarie legate alla pandemia, per la mancata auspicata autonomia in termini di approvvigionamento energetico da shale oil, per l’impegno della campagna elettorale – e di un’Europa impegnata sul fronte interno della crisi. In questo contesto, a consolidare il potere sono potenze regionali come la Turchia o internazionali come la Russia e la Cina che – è stato sottolineato – hanno leadership che rappresentano interlocutori stabili nel tempo. Del ruolo di Washington e Bruxelles, abbiamo parlato con l’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, già Vice Segretario Generale della Nato e Presidente della Nato Defense College Foundation, che sottolinea però innanzitutto la complessità dell’area:

Secondo Minuto Rizzo, l’area mediorientale è “la più complessa del mondo”, sicuramente estremamente strategica, dove avvengono conflitti che “sono perfino più difficili da capire di quanti si registrano ad esempio in Africa”. L’ambasciatore spiega che per gli Stati Uniti il Mediterraneo non è una priorità e viene visto come un contesto chiave per l’Ue, mentre per quanto riguarda in particolare il Golfo, la penisola arabica, lì Washington ha forti interessi. Di fatto, Minuto Rizzo fotografa il progressivo allontanamento degli Stati Uniti dall’area, ricordando che in ogni caso l’unico interessamento corretto da parte di chiunque, dovrebbe essere espresso con lo spirito di cooperazione, perseguendo, piuttosto che grandi intenti, piccoli progetti per volta che creino fiducia.

Le prospettive per l’Alleanza

C’è attesa per il risultato delle presidenziali di novembre negli Stati Uniti, che chiarirà quale sarà la leadership a Washington e, dunque, le scelte statunitensi in tema di Nato. Il generale Giuseppe Morabito, membro del direttivo della Nato Foundation College, ci ha confermato che “le elezioni del 3 novembre dopo quattro anni di presidenza Trump sono un’incognita”, sottolineando che “i margini di manovra sono in linea con lo spirito del tempo”. Morabito ci ha spiegato che “se ci sarà un nuovo presidente, bisognerà vedere quale approccio avrà con la Cina e quale nei confronti degli alleati europei che continuano a ridurre le loro spese per la difesa”. In tutti i casi, “la libertà di azione della Nato dipende da quello che l’Alleanza vorrà diventare”. A questo proposito Morabito ha affermato: “Ad esempio, negli interventi della conferenza mi sembra sia emerso che, nonostante la criticità di molte situazioni presenti nel Mediterraneo, l’area non sia più una priorità come nel passato. Oggi si parla molto di Pacifico, di una Nato che si propone come player globale su questioni totalmente differenti. Ma recentemente abbiamo assistito all’esercitazione del Standing Nato Maritime Group Two (SNMG2) – attualmente sotto il comando italiano – assieme alla Marina tunisina e questo dà l’idea che ci sia ancora la volontà di collaborare con i Paesi della regione nonostante l’indecisione regni sovrana. Bisogna capire se l’Alleanza, dopo il 3 Novembre, saprà cogliere le occasioni che si potrebbero presentare o se prevarranno gli interessi nazionali a discapito della stabilità dell’area”. Una considerazione di fondo: “Il Mare Nostrum continuerà a restare lì in ogni caso: se non ci interesseremo oggi, dovremo comunque farlo in futuro”, ha sottolineato Morabito citando “i flussi migratori incontrollati lo dimostrano quotidianamente”.

Il ruolo della Nato oggi

Alla domanda su cosa possa fare la Nato oggi per la difesa del diritto internazionale di fronte alle pressioni di potenze regionali che si muovono autonomamente, il generale Morabito ha risposto: “Niente, o comunque molto poco. La Nato è un’Alleanza politico-militare, tutto quello che si decide al suo interno è vincolante solo ed esclusivamente per i Paesi membri. Però la domanda mi fornisce lo spunto per rilevare che oggi siamo in una fase d’incertezza su questo punto. Il concetto strategico non si tocca, come confermato anche dal Segretario Generale, ma si sta pensando a operare extra-mandato, anche se non si ancora bene come. Poi incombe la questione delle risorse. Per condurre certe attività serve un budget preciso e condiviso da tutti. Intanto, tutti compresa la Cina continueranno a comportarsi come fanno.” Ma qual è la “linea rossa” che la Turchia che – ricordiamo – è stato Membro – non deve superare per non far perdere credibilità all’Alleanza? La Turchia – spiega Morabito – è un alleato particolare: negli ultimi tempi il presidente Erdogan si è avvicinato al presidente russo Putin, poi lo scorso marzo è tornato a chiedere agli alleati supporto sotto il “cappello” dell’art. 4 del Trattato dell’Alleanza, in seguito al confronto con le truppe siriane a Idlib. E si è scontrato con Macron in seguito alle tensioni per il caso della fregata francese Courbet che ha intercettato la nave battente bandiera della Tanzania scortata da tre navi turche”. Seondo Morabito, “tutti in Europa protestano ma fanno poco o nulla”. Dunque, “con Erdogan non esistono linee rosse: la Turchia è un alleato importante per la Nato”. Morabito si è detto “sicuro che nemmeno lo scempio della Basilica di Santa Sofia riconvertita in Moschea, possa minare la posizione di Ankara nei confronti dell’Alleanza. Non ci si può permettere di non avere un luogo di confronto costante con la Turchia come quello offerto dalla Nato a Brussels.” Il punto è “che Paesi europei come anche l’Italia hanno perso anni in Libia lasciando spazio alla Turchia”. E nelle parole di Morabito una citazione di Albert Einstein: “Il mondo non sarà distrutto dai malvagi ma da coloro che rimangono a guardare senza fare nulla”.

La domanda di giustizia della società civile

A dare voce in tutto questo alla società civile è stata la giornalista freelance Sonia Batarrani che ha trascorso diversi anni in Iraq e che ha raccomandato di non dimenticare la richiesta di associazionismo che viene dal basso. Ha ricordato come agli albori delle primavere arabe si sia avvertita una domanda di giustizia e legalità e di come nel corso del 2019 si sia assistiti a nuove manifestazioni di piazza pacifiche, per esempio in Algeria e in Sudan, ma anche in Iraq. Oltre al proliferano di milizie di varia natura – ha sottolineato – c’è anche il moltiplicarsi di ong e di associazioni per i diritti umani, che si spera rappresentino una voce di speranza, in particolare dei giovani, in una zona del mondo che ancora paga problemi legati ai processi innescati dai conflitti mondiali, dalla decolonizzazione, dalla guerra fredda.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-07/medio-oriente-armi-pace-cristiani-mosul.html

 

Giornata contro la tratta, Czerny: terribile aumento durante il lockdown

Uomini, donne e bambini vittime di lavoro forzato, prostituzione, traffico di organi. Crimini che non si sono fermati con la pandemia e che vanno combattuti a tutti i livelli della società. Il cardinale sottosegretario del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale riflette sull’impegno della Chiesa e sull’urgenza di mettere in discussione comportamenti sociali che alimentano la “domanda” di sfruttamento

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Si stima che circa 40 milioni di persone siano vittime nel mondo di tratta. Secondo il Rapporto sul traffico di esseri umani dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc), quasi un terzo sono minori. Inoltre, il 71% del totale è costituito da donne e bambine. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) denuncia che 21 milioni di persone siano vittime di lavoro forzato, spesso collegato anche allo sfruttamento sessuale. C’è poi il drammatico fenomeno del traffico degli organi che sfugge alle stime, ma che resta un innegabile risvolto. Della drammaticità e della pervasività del fenomeno, che interessa tutti i Paesi, di origine, di transito o di destinazione delle vittime, abbiamo parlato con il cardinale Michael Czerny, sottosegretario della Sezione migranti e rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale:

 Ascolta l’intervista con il cardinale Michael Czerny:

R. La più grande risposta da parte di tutta la Chiesa si trova nell’impegno delle suore della rete Thalita Khum. E così, per la Sezione rifugiati e migranti del Dicastero, la prima priorità è accompagnare la rete, collaborare, appoggiare, suggerire, facilitare… Facciamo ciò che possiamo perché in tanti Paesi del mondo le suore stanno rispondendo veramente a nome della Chiesa e a nome di Cristo. É importantissimo riconoscere questo lavoro, perché loro non parlano, ma agiscono. Noi allora possiamo parlarne un po’.

Indubbiamente la pandemia ha rappresentato un fattore di complicazione di tutto questo impegno…

R. – Certo. Ha complicato l’impegno delle suore, ma grazie a Dio, grazie all’aiuto dello Spirito Santo, loro hanno trovato sempre i mezzi per continuare a portare avanti il ministero. Non si sono rassegnate a tre mesi o sei mesi di lockdown. No: hanno cambiato mezzi o metodi e hanno continuato. La grande tristezza è che in questi mesi di pandemia si è assistito ad un terribile aumento della tratta e questo deve scandalizzarci. Mentre tutti noi – “i buoni” – siamo rinchiusi in casa, come mai la domanda aumenta e non diminuisce? Questo indica che le radici del problema si trovano nelle case, nel cuore delle persone, dei cittadini, di fratelli e sorelle che ci sono intorno. Questa connessione fra la tratta e la vita apparentemente normale di persone apparentemente normali è un grande scandalo che deve farci riflettere, chiedere perdono a Dio, per cercare la necessaria conversione per ridurre e eliminare la domanda che è il motore della tratta.

Diciamo che i due fronti sono il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale, quindi donne e bambini in tutti e due i casi sono in prima linea, anche insieme con tanti uomini ovviamente…

R. – Esatto. Lei ha menzionato la prostituzione, che include adesso, in modo particolare, tutto lo sfruttamento online e il lavoro forzato; include anche il traffico di organi, un crimine per il quale non ci sono parole, e altri aspetti, come l’uso delle persone per trasportare la droga … Tutti questi sono impegni o “imprese” della tratta.

Eminenza, dal 2013 ricordiamo la Giornata internazionale voluta dall’Onu contro la tratta di esseri umani. Nel 2015 c’è stato un impegno sottoscritto dai governi del mondo a combattere questo che spesso viene definito un fenomeno, ma – lo ricordiamo – è un crimine vero e proprio. In questi anni che cosa è stato fatto e che cosa invece non viene affrontato davvero?

R. – Questa è una buona domanda, uno spunto per approfondire. Voglio dire che alla fine la somma degli sforzi potrebbe essere meno importante dei singoli sforzi specifici, perché sono persone, uomini, donne e bambini, le vittime della tratta, i quali vengono sfruttati e abusati. In questo senso, voglio dire che ciò che è interessante è l’aumento di coscienza, direi mondiale; questo per noi è l’aspetto più importante. E in questi anni si è visto lo sviluppo di consapevolezza. Vediamo anche lo sviluppo di tanti nuovi ministeri della Chiesa per affrontare questa piaga: dalla prevenzione, al riscatto, alla riabilitazione, all’integrazione delle persone. E’ importante per tutti a tutti i livelli, renderci conto di ciò che noi stessi diciamo, appoggiamo e provochiamo con le nostre scelte. Il nostro impegno non deve essere quello di contare i numeri, ma di renderci conto che sono le scelte che io faccio che appoggiano in qualche modo e contribuiscono alla tratta. E non dico di guardare solo agli altri o ai cattivi, ma alle scelte di ognuno. Io, che scelte faccio, ad esempio quando compro un telefonino? Quando faccio un viaggio? Quando mi permetto un piacere? E non entro nel dettaglio.

Eminenza, per il cristiano è scontato o dovrebbe essere scontato che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, quindi il rispetto della persona. In una società che vanta la proliferazione, la rivendicazione di tanti diritti, questo non è più scontato, non è più così condivisibile…

R. – Sì, forse. Io penso che ogni diritto ha qualcosa di vero. Forse tutti non vanno così bene nell’insieme, o forse non tutti i diritti hanno lo stesso livello o valore, ma in genere non sono cattivi in quanto tali. Il punto è la cultura dello scarto, una cultura del piacere non istantaneo o necessario, obbligatorio. Dobbiamo riflettere su alcuni “bisogni”, quando si sente dire “ho bisogno di questo piacere, di questo prodotto, ho bisogno di questo prezzo basso” … Penso che queste compulsioni siano più al cuore del problema della tratta che la proliferazione dei diritti o cosiddetti diritti.

L’esperienza di Thalita Khum in tempo di pandemia

Alla grande risposta della Chiesa alla piag della tratta appartiene dunque l’esperienza di Talitha Kum, rete mondiale della vita consacrata impegnata contro la tratta di persone . Suor Gabriella Bottani, coordinatrice internazionale dell’organizzazione, sottolinea che le condizioni di vulnerabilità stanno aumentando e toccando un maggior numero di persone, soprattutto a causa di situazioni di povertà estrema che, a loro volta, facilitano l’attività dei trafficanti. Tra i principali gruppi colpiti vi sono le donne, i bambini, le minoranze etniche, i cittadini stranieri, soprattutto quelli senza documenti, e le popolazioni indigene. Oltre alla diffusione del virus, il principale fattore che contribuisce a incrementare tale vulnerabilità è la perdita del lavoro. Il mercato del lavoro è un settore chiave per i reclutatori al fine di trascinare le persone nella rete dello sfruttamento. Secondo i dati di Thalita Khum, la violenza domestica contro le donne e i bambini risulta in aumento. Pur non facendo parte del traffico in quanto tale, questa può causarlo indirettamente, perché la violenza domestica può costringere le persone ad accettare qualsiasi via di fuga. In aggiunta, alcune delle misure sociali e sanitarie attuate a livello mondiale per contenere il Covid-19 hanno avuto un impatto sui migranti, soprattutto quelli senza documenti e senza permesso di soggiorno. Tra questi ci sono molte vittime di tratta. La pandemia, peraltro, ha avuto effetti sul lavoro di Thalitha Kum: missionari e volontari si sono rivolti ai social media per continuare la missione mantenendo il contatto umano con le vittime della tratta in modo virtuale, e a tal fine si è resa necessaria una formazione specifica.


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L’appello Caritas: misure urgenti e mirate

Il segretario generale di Caritas Internationalis, Aloysius John, afferma che “in questo momento di diffusione del Covid-19,  le persone vulnerabili sono maggiormente a rischio di divenire vittime della tratta”.  La Confederazione delle 162 Caritas nazionali e la rete anti-tratta cristiana sottolineano come il Covid-19 abbia focalizzato l’attenzione dei governi in ambito sanitario, impedendo tuttavia che potesse essere prestata sufficiente attenzione ai danni collaterali della pandemia globale, specialmente sui migranti e lavoratori informali, ora più esposti alla tratta e allo sfruttamento. Caritas Internationalis e Coatnet chiedono, dunque, misure urgenti e mirate per sostenere quanti lavorano in settori informali, tra cui i collaboratori domestici e gli operai agricoli e edili, tra i quali si trovano i lavoratori più vulnerabili, come ad esempio i migranti privi di documenti.

La denuncia di Save the children

Ben 10 milioni delle vittime di tratta nel mondo, ossia 1 su 4, hanno meno di 18 anni e, in un caso su 20, addirittura le vittime hanno meno di 8 anni. La forma più diffusa di sfruttamento resta quella sessuale (84,5 per cento) che vede principalmente come vittime donne e ragazze. Rispetto al totale, il 95 per cento ha un’età compresa tra i 15 e i 17 anni. Il fenomeno però resta prevalentemente sommerso e, con l’emergenza Covid-19, ha visto trasformare alcuni modelli tipici della tratta e dello sfruttamento dei minori. I gruppi criminali dediti allo sfruttamento sessuale in particolare, sottolinea Save the Children, sono stati ovunque rapidissimi nell’adattare il loro modello operativo attraverso l’uso intensivo della comunicazione online e dello sfruttamento nelle case, “indoor”, e il lockdown ha costretto le istituzioni e le organizzazioni non governative ad affrontare maggiori difficoltà nelle attività di prevenzione e supporto alle vittime. Inoltre, dai dati di Save the children emerge che in Europa, è boom di pedopornografia.

Onu: un percorso di consapevolezza e di intenti

Nel 2010, l’Assemblea Generale ha adottato un Piano Globale d’Azione per la lotta alla tratta di esseri umani e ha esortato i governi di tutti i Paesi a intraprendere azioni coordinate e coerenti per sconfiggere questa piaga. Il Piano esprime la necessità di includere la lotta al traffico nei programmi più ampi delle Nazioni Unite, affinché lo sviluppo e la sicurezza a livello mondiale vengano rafforzati. Una delle principali disposizioni del Piano è la creazione di un fondo fiduciario volontario delle Nazioni Unite, in particolare per donne e bambini. Nel 2013 l’Assemblea Generale ha tenuto un incontro di alto livello per la valutazione del Piano Globale d’Azione. I Paesi Membri hanno adottato la risoluzione A/RES/68/192, designando il 30 luglio come ricorrenza per la Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani. La risoluzione l’importanza di questa ricorrenza “nel far conoscere la situazione delle vittime della tratta di esseri umani e nella promozione e protezione dei loro diritti”. E, a settembre 2015, i governi di tutto il mondo hanno aderito all’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile accogliendo anche gli obiettivi e i target che riguardano la tratta. Si chiede di porre fine al più presto al traffico e alla violenza sui bambini, di mettere in atto misure atte a eliminare qualsiasi forma di violenza e di sfruttamento di donne e bambini. Un altro importante avvenimento è stato il Summit per i Rifugiati e i Migranti che ha portato alla Dichiarazione di New York che contiene 19 “promesse” di cui tre sono volte ad azioni concrete contro la tratta di esseri umani.

15 anni fa il disarmo dell’Ira

Il 28 luglio 2005, l’Irish Republican Army, l’Esercito repubblicano irlandese, decide di cessare ogni attività militare nell’Irlanda del Nord avviando parallelamente e gradualmente lo smantellamento del suo arsenale. E’ una tappa decisiva del difficile processo di pacificazione dopo il sanguinoso confronto tra nazionalisti repubblicani e unionisti fedeli alla corona britannica passato alla storia come “Troubles”

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Un confronto, quello tra le due fazioni, che si trascina da anni ed anni e che si palesa nel 1921, quando le 26 contee dell’Irlanda del sud, a stragrande maggioranza cattolica, si dichiarano Stato libero. Seguono due anni di guerra civile. Le contee del nord (Ulster), a maggioranza protestante, restano fedeli al Regno Unito.

Le tappe principali

Negli anni Sessanta i cattolici si mobilitano per i diritti civili, segue il conseguente invio dei militari di Londra nell’Ulster per riportare la pace e sedare disordini e violenze. Poi avviene il riarmo dell’Ira all’inizio degli anni Settanta, il Bloody Sunday del 30 gennaio 1972, quando a Derry (Londonderry per Westminster), 14 cattolici vengono uccisi dalle truppe di Londra. Arriva poi il tempo dello scioglimento del parlamento di Stormont di fronte all’aumento degli attentati, l’attentato che nel 1979 uccide Lord Mountbatten, cugino della regina Elisabetta e ultimo vicerè dell’India, il sacrificio di Bobby Sands, membro dell’Ira detenuto nel carcere di Maze, eletto al parlamento di Westminster, che preferisce morire dopo più di due mesi di sciopero della fame. Poi la svolta dell’inizio degli anni Novanta, con l’inizio dei negoziati che riuniscono per la prima volta i partiti unionisti e il governo irlandese, e la storica intesa del 1993 sul futuro politico della Regione, tra il premier britannico John Major e il premier irlandese Albert Reynolds. L’Ira proclamerà un primo cessate il fuoco nel 1994, seguito in ottobre dalle milizie protestanti. Poi un periodo di alti e bassi di quasi un decennio, con le prime istituzioni autonomiste, l’Assemblea dell’Irlanda del Nord, la bomba che compie una strage a Omagh da parte della ‘Real Ira’, scheggia terrorista che non accetta l’accordo di pace, l’insediamento del governo condiviso fra cattolici e protestanti, le mancate soluzioni del disarmo, le perquisizioni negli uffici dello Sinn Fein nell’Assemblea di Belfast alla ricerca di prove di spionaggio a favore del terrorismo, l’apertura da parte del premier Blair e del premier irlandese Bertie Ahern. Fino al 28 luglio 2005, quando viene annunciato lo storico disarmo e l’impegno ad una soluzione politica per l’Irlanda del Nord. Il risultato di quella giornata ha reso possibile la formazione a Belfast, già nel 2007, di un governo regionale presieduto dal leader degli unionisti, reverendo Ian Paisley, e dal vice Martin McGuinness, ex dirigente dell’Ira.

L’uccisione della reporter e la “nuova Ira”

Il 18 aprile 2019 a Derry in un momento in cui le forze di polizia si fronteggiano con militanti della Oglaigh na hEireann, ovvero la “nuova” Ira, gli spari di militanti della formazione nazionalista colpiscono la reporter Lyra McKee. Aveva 29 anni, era nata a Belfast, era considerata tra i più autorevoli osservatori della situazione in Irlanda del Nord, scriveva per diverse riviste.  Per la sua uccisione, la polizia ha arrestato due giovani di 18 e 19 anni residenti a Derry. E’ il momento più tragico al quale ha legato finora il suo nome la New Ira, gruppo formato nel 2012 unendo diverse realtà nazionaliste armate ancora attive. In altre occasioni ha provocato diversi attacchi ma senza vittime. Questo gruppo armato è piccolo, ma letale. Le origini della New Ira  risalgono all’assemblea straordinaria che i vertici dell’Ira organizzarono nel 1997, sei mesi prima dell’accordo di pace, in un piccolo villaggio del Donegal. Le decisioni di Gerry Adams non furono approvate all’unanimità. Alcuni se ne andarono in segno di protesta, sentendosi traditi. Erano contrari alla linea della leadership del Sinn Féin e volevano dichiaratamente continuare a battersi con la forza per la riunificazione dell’isola.

Per ricordare il significato della decisione dell’Ira, 15 anni fa, e per sapere quale sia la sensibilità oggi tra le persone sul territorio, abbiamo parlato con la collega Francesca Lozito che da anni segue le vicende in Irlanda del Nord:

Lozito spiega che nel 2005, dopo gli Accordi del Venerdì Santo, si è compiuto un passo che è stato decisivo per la pacificazione. Ricorda i protagonisti a livello regionale ma anche internazionale di tutto il lungo processo di dialogo e poi sottolinea quanto tra la popolazione sia stato importante il lavoro delle chiese locali in tuti questi anni fino ai nostri giorni, sottolineando che viene definito sul territorio “l’ecumenismo del quotidiano”. La giornalista Lozito inoltre spiega che il processo della Brexit, che tanta tensione ha portato nel Regno Unito, paradossalmente in Irlanda ha giocato a favore del dialogo e della collaborazione tra le parti, perché è stato un fattore di unificazione della popolazione irlandese. Problematiche quali la disoccupazione e il carovita hanno prevalso, tra le priorità.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-07/irlanda-dialogo-brexit-nordirlanda.html

Al voto in Siria

 Tra  violenze e crisi economica

Domani, domenica 19 luglio, si vota per le legislative in Siria, dove, dopo nove anni di guerra non si muore più come prima, ma non si può ancora parlare di completa pacificazione. In particolare, le armi non tacciono nel nord ovest del Paese e anche nell’est resta molto alta la tensione. Intanto, l’80 per cento della popolazione è caduto sotto la soglia di povertà. Con noi l’esperto dell’area Lorenzo Trombetta

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Circa 19 milioni di siriani sono chiamati alle urne domani, domenica 19 luglio, in 7.313 seggi elettorali distribuiti in tutto il Paese per eleggere 250 deputati tra 2.100 candidati. Sono stati creati seggi elettorali anche per le province di Idlib, Raqqa e parti della campagna settentrionale, di Aleppo che non sono ancora completamente sotto il controllo delle forze governative per la presenza di sacche di forze ribelli. Di questo appuntamento elettorale e della situazione del Paese abbiamo parlato con l’inviato dell’Ansa nel Vicino Oriente Lorenzo Trombetta:

In questi anni – ricorda Trombetta – si sono svolte altre elezioni e il governo centrale di Damasco, in particolare dopo la proclamazione tra il 2018 e il 2019 della sconfitta del sedicente Stato islamico, rivendica non solo la legittimità del suo potere, ma anche di aver ripreso il controllo del territorio. In realtà, se nella provincia di Idlib è ancora confronto aperto tra le varie potenze straniere che sono entrate in campo, anche nell’est restano alti la tensione e il rischio che possano riesplodere violenze per la presenza di forze legate al sedicente Stato Islamico. Trombetta ricorda il ruolo delle varie potenze interessate da questo conflitto ormai al decimo anno e descrive poi la situazione sociale. La popolazione – spiega – risente della forte frantumazione del tessuto sociale e comunitario ed è stremata, oltre che dal dramma della morte vissuta da vicino in questi anni, anche dalla crisi economica che è stata perfino aggravata dalle misure restrittive dovute alla pandemia. Tanto che – ricorda Trombetta – nei rapporti dell’Onu si parla dell’80 per cento della popolazione che ormai si trova sotto la soglia di povertà.

Il dramma della provincia di Idlib

Gli investigatori delle Nazioni Unite denunciano crimini contro la popolazione civile di Idlib, ultimo territorio nelle mani della rivolta, nella provincia nord occidentale del Paese. Secondo un rapporto dell’Onu pubblicato la settimana scorsa si tratta di crimini di guerra, e forse crimini contro l’umanità, in particolare se si considera le conseguenze sulla popolazione civile dell’offensiva lanciata tra novembre 2019 e aprile di quest’anno dall’esercito di Damasco e dalle forze russe alleate. Il rapporto, che si basa su materiale fotografico e video, parla di almeno 52 attacchi di questo tipo e riporta oltre 300 testimonianze. In particolare, nei mesi sui quali ha indagato l’Onu sono stati colpiti 17 presidi sanitari, 14 scuole, 9 mercati e 12 edifici civili, la maggior parte dei quali dalle forze del regime e dai loro alleati di Mosca. E il punto è proprio che sono stati “sistematicamente attaccati ospedali, scuole, mercati”. Stando al rapporto, inoltre, le forze governative hanno anche usato bombe a grappolo. Secondo Paulo Sérgio Pinheiro, presidente della commissione d’inchiesta Onu sulla Siria, “alcuni bambini sono stati bombardati mentre erano a scuola,  civili sono stati bombardati mentre facevano la spesa al mercato, pazienti sono stati bombardati nei loro letti d’ospedale e alcune famiglie sono state colpite mentre fuggivano verso luoghi più sicuri”. L’offensiva delle forze del presidente Bachar al-Assad ha provocato un milione di profughi e più di 500 morti secondo il rapporto. “Nel corso di questa campagna le forze del regime hanno violato in modo flagrante le leggi della guerra e dei diritti dei civili siriani”, dice ancora Pinheiro. Mentre, sempre secondo il rapporto, alcuni “bombardamenti indiscriminati”, in particolare quelli su Maarat Al-Nouman, “potrebbero rientrare nella categoria dei crimini contro l’umanità”. Gli autori del rapporto hanno anche accusato la milizia islamista Hayat Tahrir al Sham (Hts), che controlla parte di Idlib, di bombardamenti nelle aree sotto il controllo del governo, nei quali hanno perso la vita oltre 200 civili. I miliziani, inoltre, si sono macchiati di crimini di guerra come saccheggi, rapimenti, torture e omicidi di civili.

L’appello delle Nazioni Unite

In questi giorni si è svolta a Ginevra la 44esima Sessione del Consiglio dei Diritti Umani ed è emerso l’appello alle parti in conflitto a rispettare pienamente il diritto internazionale umanitario e proteggere la popolazione e le infrastrutture civili, incluso scuole ed ospedali. Inoltre, è stata sottolineata l’importanza che le forniture di aiuti umanitari siano garantite in maniera imparziale e senza discriminazioni, attraverso il pieno utilizzo di tutti i canali assistenziali possibili, inclusi i meccanismi emergenziali “crossborder”.

La questione aiuti

Il consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato la settimana scorsa una risoluzione che proroga la fornitura degli aiuti umanitari alla Siria dalla Turchia, ma solo attraverso un solo punto di passaggio. E’ quanto ha chiesto la Russia, che nei giorni scorsi insieme con la Cina aveva messo il veto a tutte le proposte per mantenere i due ‘crossing point’ previsti nella risoluzione scaduta venerdì scorso. Secondo Mosca sarebbe stata una violazione della sovranità di Damasco.

L’incubo pandemia

Il coronavirus è arrivato anche a Idlib: un medico di 30 anni è risultato positivo due giorni fa e sono in corso accertamenti su coloro che sono entrati in contatto con lui. L’ospedale è stato temporaneamente chiuso. Già a marzo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva inviato un team per monitorare un’area potenzialmente esplosiva: su tre milioni di abitanti, oltre un milione di persone sono ammassate in tende e alloggi di fortuna, tra malnutrizione e malattie, con un sistema sanitario notevolmente decimato.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-07/siria-guerra-pandemia-crisi-economica-armi.html

Le misure legali che creano povertà

La denuncia della Caritas Internationalis

Cancellare il debito dei Paesi poveri e rivedere le sanzioni che colpiscono i civili senza portare altri frutti: è l’appello della Caritas Internationalis, emerso nella conferenza stampa streaming di presentazione del suo Rapporto annuale. Il presidente, cardinale Tagle, ha auspicato una nuova speranza di solidarietà per il futuro, oltre l’emotività della crisi sanitaria, chiedendo che si lavori per “un cessate il fuoco globale”.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Debito e restrizioni commerciali tagliano i ponti delle possibilità di riscatto di intere popolazioni ben oltre i confini dei Paesi direttamente colpiti. Un esempio è sotto gli occhi di tutti: il Libano, che certamente paga anni di politiche economiche miopi, si trova però sotto scacco anche per le ripercussioni delle sanzioni imposte al governo siriano, che da anni mortificano gli scambi commerciali. Per Beirut, Damasco rappresentava il primo partner commerciale della regione. E’ solo uno dei risvolti di cui si è parlato nella conferenza stampa streaming di presentazione del Rapporto annuale di Caritas Internationalis che si è svolta ieri pomeriggio. Hanno partecipato il presidente, il cardinale Luis Antonio Gokim Tagle; il segretario generale di Caritas Internationalis, Aloysius John; il cardinale Wilfrid Fox Napier, presidente di Caritas Sud Africa e Rita Rhayem, direttore di Caritas Libano.

Un orizzonte nuovo nelle parole del cardinale Tagle

Il cardinale Tagle ha mandato un messaggio di speranza, nella convinzione che “i tanti cambiamenti che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo siano un’occasione per il futuro” per costruire una “nuova connessione di solidarietà”. Siamo “una sola famiglia umana” – ha ricordato il presidente di Caritas Internationalis – e la sensazione di vicinanza che ha suscitato la pandemia, colpendo tutti, non può essere dimenticata senza lasciare un segno: e quel segno dovrebbe essere la capacità di dare nuove risposte. Non solo emotività nel momento della crisi sanitaria – è il messaggio del cardinale Tagle –  ma anche capacità di combattere con forza condizioni drammatiche come la fame nel mondo, le guerre, le violenze, che calpestano vite umane e la dignità delle persone. E dunque – ha spiegato – significa recuperare lo sguardo inclusivo di Papa Francesco nella Laudato Si’ e adoperarsi per azioni concrete come quella di “un cessate il fuoco globale”.

Lo sguardo particolare al Medio Oriente

Ad illustrare il quadro che emerge dal Rapporto Caritas Intrnationalis 2019 è stato il segretario generale dell’organizzazione, Aloysius John, che ha sottolineato come “la situazione in Medio Oriente è peggiorata drasticamente negli ultimi sei mesi e le sanzioni economiche e l’embargo sulla Siria hanno contribuito ad aggravare la tendenza”. La convinzione di Aloysius John è chiara: “Le sanzioni unilaterali senza dialogo o negoziati non sono mai servite allo scopo, al contrario, sono state controproducenti”. Ha spiegato che gli effetti delle sanzioni come strumento politico non hanno sortito gli effetti sperati e piuttosto hanno dimostrato un enorme potere di distruzione delle vite delle persone più vulnerabili”. I prezzi sono saliti alle stelle, le persone non hanno i mezzi per comprare cibo, la malnutrizione si sta diffondendo e c’è una crescente rabbia contro la comunità internazionale. La situazione è peggiore per i più vulnerabili, in particolare i bambini, le donne e gli anziani, già profondamente colpiti da guerre, tensioni, fondamentalismo e dal Covid-19. “I più poveri – ha ricordato – sono quelli che pagano sempre il prezzo più alto”. In questi giorni “guardiamo tutti con particolare preoccupazione al Libano, che è sempre stato un modello di equilibrio per l’intero Medio Oriente”, ha sottolineato Aloysius John. Un Paese che è sempre stato un “messaggio di libertà e un esempio di pluralismo per Oriente e Occidente”, come diceva San Giovanni Paolo II.

Significativi i dati sul Libano

Oggi in Libano – ha ribadito Rita Rhayem, direttore della Caritas del Paese dei cedri – il 75 per cento della popolazione ha bisogno di assistenza e la valuta locale ha perso l’80 per cento del suo valore. “Ma – ha proseguito Aloysius John – questo non è l’unico motivo per cui siamo fortemente preoccupati per la crisi libanese”, aggiungendo: “Il Libano è sempre stato un centro essenziale per l’invio di aiuti umanitari a Paesi come la Siria e l’Iraq, e se la situazione non migliora, le conseguenze per l’intera regione saranno catastrofiche”.

Le richieste concrete

Essenziale il richiamo al Papa: più volte Papa Francesco ha invitato le nazioni ricche a riconsiderare la cancellazione dei debiti per le nazioni più povere, ha ricordato il segretario generale. Il debito delle nazioni più povere è spesso pagato dal sudore e dalla fatica dei più poveri. Sono altamente vulnerabili e sono facili prede di tutti i tipi di problemi di salute a causa della loro fragilità. La Caritas chiede la riduzione del debito delle nazioni più povere e la riallocazione dei fondi alle organizzazioni affidabili che lavorano con queste comunità. “Solo la riduzione del debito e la sua riallocazione per lo sviluppo alla base – è stato ribadito durante l’incontro telematico – consentiranno il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile e garantiranno la dignità dei più poveri”. “È inconcepibile – ha affermato Aloysius John – che misure affrettate messe in atto senza alcun dialogo con gli attori regionali siano fatali per i più poveri”. Dunque, i rappresentanti della Caritas si sono uniti al grido del Papa, “per fermare qualunque violenza e  conflitto” e chiedere “l’immediata sospensione delle sanzioni”.

Parole dure contro le sanzioni

Aloysius John ha affermato che le sanzioni opprimono i più poveri e sono, in sostanza, strumenti per “l’uccisione passiva di civili innocenti”.  Ha definito le sanzioni “misure ingiuste che colpiscono le persone più vulnerabili, soprattutto in questo momento del Covid-19” e ha affermato che “stanno creando terreno fertile per il terrorismo”. “Le persone che fuggono da situazioni difficili diventano migranti illegali che vengono respinti dai Paesi vicini e dall’Europa”. In sostanza, Aloysius John ha ricordato che “la lotta contro la fame, la povertà e l’ingiustizia è l’obiettivo principale della confederazione in quanto garantisce il benessere e la dignità umana dei più vulnerabili”.

L’impegno dell’organismo ecclesiale in tempo di pandemia

Per fronteggiare l’emergenza Covid, la Caritas Internationalis ha finanziato 23 progetti e altri 14 sono già stati approvati. Grazie ad essi, le famiglie sono state aiutate con l’assistenza alimentare di base, kit per l’igiene, sapone, pannolini e assistenza in contanti per pagare l’affitto e altri bisogni urgenti. E’ solo un esempio di centinaia di azioni piccole, ma molto importanti, che contribuiscono alla prevenzione della propagazione del virus. Al momento, Caritas Internationalis sta aiutando quasi 9 milioni di persone in 14 Paesi, inclusi Ecuador, India, Palestina, Bangladesh, Libano e Burkina Faso. Sono circa 2 milioni di persone, inoltre, i beneficiari dei programmi di fondi per un totale di 9 milioni di euro in differenti parti del mondo. Purtroppo però i responsabili della Caritas sanno bene che ci sono altre centinaia di migliaia di persone che hanno bisogno di aiuto.

L’allarme del Fmi in vista del G20

E’ stato ricordato che il lockdown a diverso titolo ha paralizzato l’economia globale, con forti ripercussioni in Europa, Stati Uniti, Cina, Giappone. Il punto è che la Caritas torna a richiamare tutti ad una consapevolezza: quella di essere davanti a un’emergenza atipica in cui Paesi che normalmente sono tra i maggiori donatori sono anche i più colpiti dal virus. Anche per questo motivo, l’utilizzo degli aiuti internazionali per rispondere ai bisogni nazionali “non rappresenta la giusta soluzione”, non può essere sufficiente. L’incertezza resta alta anche se qualche segnale di ripresa c’è. E’ quanto afferma il Fondo monetario internazionale (Fmi) nel documento preparato per il G20 dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali, che si terrà virtualmente il 18 luglio. Al G20 il Fondo chiede “sforzi collettivi”: “Sono essenziali per mettere fine alla crisi finanziaria e rilanciare la crescita”. Anche l’Europarlamento chiede un approccio nuovo. Nel comunicato pubblicato la settimana scorsa durante la Plenaria, si legge che in Siria, dopo un decennio di conflitto, è giunto per l’Europa il momento di ripensare i propri interessi e la propria politica. Oltre al sostegno al rinnovo del meccanismo delle Nazioni Unite (che fornisce aiuti transfrontalieri alla Siria), “l’Europa dovrebbe sviluppare delle politiche parallele che possano gradualmente andare oltre la semplice fornitura di aiuti umanitari”. Questo “potrebbe consistere nell’autorizzare gli attori locali a realizzare progetti di recupero attraverso un sostegno diretto, utilizzare istituti di microfinanza per erogare prestiti agli agricoltori e alle cooperative agricole o sostenere le capacità delle piccole aziende farmaceutiche per soddisfare le esigenze locali”.

A rischio fame 230 milioni di persone

Secondo il World Food Program, il numero di persone che rischia la fame nel mondo per le conseguenze della pandemia potrebbe raddoppiare fino ad arrivare a 230 milioni di persone. In Africa manca il cibo e in molti Paesi si stanno aggiungendo inondazioni, siccità, invasioni di locuste e raccolti scarsi. In alcuni Stati del Medio Oriente, dell’America Latina e dell’Asia sta già aumentando la malnutrizione infantile e il numero di adulti che soffrono la fame. Tra le categorie più a rischio i migranti, gli sfollati interni, i rifugiati e i rimpatriati, come quelli in Venezuela. Particolarmente critica la situazione dei migranti irregolari perché non rientrano in nessuna delle categorie che possono ottenere aiuti.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-07/caritas-medio-oriente-libano-siria-pandemia.html

Nasce la Rete contro l’odio social

Viene definito hate speech: è il linguaggio carico di aggressiva ostilità che caratterizza molti dei contenuti che girano sui social network o su Internet. Vari Paesi d’Europa hanno emanato leggi ad hoc, in Italia ancora non c’è una normativa precisa, ma nasce la Rete che riunirà agenzie educative e associazioni di studi giuridici per monitorare il fenomeno dell’odio sui social e studiare gli strumenti per contrastarlo. Con noi l’esperto di linguistica Federico Faloppa

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La neonata Rete, presentata oggi con una conferenza stampa online, si occuperà di ricerca, condivisione di buone pratiche di narrazione corretta e accurata, di promozione di percorsi educativi e formativi per sensibilizzare la società civile su un fenomeno galoppante, al quale non ci si può abituare. Tra i promotori tre ong che operano a livello internazionale (Action Aid Italia Onlus, Amnesty International Italia, COSPE Onlus), che hanno coinvolto diverse asociazioni e studiosi. Del fenomeno e della doverosa reazioni a tutti i livelli della società, abbiamo parlato con Federico Faloppa, docente di Linguistica all’Università Reading in Gran Bretagna:

Sono i numeri – spiega Federico Faloppa – che raccontano l’ampiezza della compagine che ha dato vita alla prima Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio. I numeri – 5000 denunce in pochi anni – evidenziano l’importanza e la forza del progetto, unico nel suo genere, perché capace di riunire le più importanti realtà che da diverso tempo si occupano di mappare e combattere i discorsi e i fenomeni di odio: di particolare rilievo, l’approccio multidisciplinare che consente di coprire tutti i territori che è necessario presidiare per un’efficace azione, dalla ricerca alla proposta normativa, fino agli interventi nelle scuole per combattere bullismo, discriminazioni e intolleranze e per favorire la cultura dell’inclusione. Di fronte alla sempre più violenta e pericolosa pervasività dei discorsi e dei fenomeni di odio ad essi collegati – sottolinea – diventa urgente coordinare le diverse iniziative per dar vita a una risposta davvero incisiva. Da qui, la creazione della Rete, tra le cui finalità spiccano gli elementi individuati anche dall’Unesco e dal Consiglio d’Europa come necessari per affrontare il fenomeno dello hate speech: dal contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, dai fenomeni di disinformazione da cui essi traggono origine alla creazione e promozione di narrazioni corrette e accurate e narrazioni alternative.

Le prime adesioni all’iniziativa

Oltre alle ong hanno aderito all’iniziativa otto associazioni tra cui ASGI-Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, ARCI, Associazione Carta di Roma, Associazione Giulia Giornaliste, Lunaria, Pangea Onlus, Vox-Osservatorio italiano sui Diritti, etc. Partecipano inoltre ricercatori provenienti da otto università (Bicocca, Bologna, Firenze, Padova, Reading (Uk), Statale Milano, Trento, Verona) e tre centri di ricerca (Cnr Palermo; Centro per le scienze religiose e Centre for information and communication technology della Fondazione Bruno Kessler); un centro studi (Cestudir Venezia); due osservatori (Oscad-Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, Osservatorio di Pavia); il Consiglio Nazionale Forense e la Commissione diritti fondamentali della Camera penale di Venezia. Partecipa al confronto promosso dalla Rete l’Unar – Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali.

Dell’impegno sul piano della formazione, parla Silvia Brena, giornalista e docente di Facoltà di Teorie e tecniche della Comunicazione all’Università Cattolica di Milano:

Silvia Brena spiega che, tra i vari progetti per assicurare una narrazione alternativa a quella che rientra nella definizione di hate speech, la Rete promuoverà da settembre una serie di webinair su tematiche inerenti. L’obiettivo – sottolinea Brena – è quello di assicurare un’informazione e una formazione che possano contrastare le fake news, che sono il primo grave scalino dell’incitamento all’odio. La disinformazione purtroppo dilaga e – spiega Brena – quella che è imperversata attraverso whatsap durante il periodo di lockdown è stata incredibilmente condivisa e ripostata. Dare false notizie è il modo più facile e immediato per alimentare rancore e risentimento nelle persone. Dunque, Brena spiega che i seminari online si riprometteranno di offrire seria informazione su quei temi sui quali invece si ritrovano più distorsioni sui social.

da Vatican NEWS del 14 luglio 2020