Al voto in Siria

 Tra  violenze e crisi economica

Domani, domenica 19 luglio, si vota per le legislative in Siria, dove, dopo nove anni di guerra non si muore più come prima, ma non si può ancora parlare di completa pacificazione. In particolare, le armi non tacciono nel nord ovest del Paese e anche nell’est resta molto alta la tensione. Intanto, l’80 per cento della popolazione è caduto sotto la soglia di povertà. Con noi l’esperto dell’area Lorenzo Trombetta

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Circa 19 milioni di siriani sono chiamati alle urne domani, domenica 19 luglio, in 7.313 seggi elettorali distribuiti in tutto il Paese per eleggere 250 deputati tra 2.100 candidati. Sono stati creati seggi elettorali anche per le province di Idlib, Raqqa e parti della campagna settentrionale, di Aleppo che non sono ancora completamente sotto il controllo delle forze governative per la presenza di sacche di forze ribelli. Di questo appuntamento elettorale e della situazione del Paese abbiamo parlato con l’inviato dell’Ansa nel Vicino Oriente Lorenzo Trombetta:

In questi anni – ricorda Trombetta – si sono svolte altre elezioni e il governo centrale di Damasco, in particolare dopo la proclamazione tra il 2018 e il 2019 della sconfitta del sedicente Stato islamico, rivendica non solo la legittimità del suo potere, ma anche di aver ripreso il controllo del territorio. In realtà, se nella provincia di Idlib è ancora confronto aperto tra le varie potenze straniere che sono entrate in campo, anche nell’est restano alti la tensione e il rischio che possano riesplodere violenze per la presenza di forze legate al sedicente Stato Islamico. Trombetta ricorda il ruolo delle varie potenze interessate da questo conflitto ormai al decimo anno e descrive poi la situazione sociale. La popolazione – spiega – risente della forte frantumazione del tessuto sociale e comunitario ed è stremata, oltre che dal dramma della morte vissuta da vicino in questi anni, anche dalla crisi economica che è stata perfino aggravata dalle misure restrittive dovute alla pandemia. Tanto che – ricorda Trombetta – nei rapporti dell’Onu si parla dell’80 per cento della popolazione che ormai si trova sotto la soglia di povertà.

Il dramma della provincia di Idlib

Gli investigatori delle Nazioni Unite denunciano crimini contro la popolazione civile di Idlib, ultimo territorio nelle mani della rivolta, nella provincia nord occidentale del Paese. Secondo un rapporto dell’Onu pubblicato la settimana scorsa si tratta di crimini di guerra, e forse crimini contro l’umanità, in particolare se si considera le conseguenze sulla popolazione civile dell’offensiva lanciata tra novembre 2019 e aprile di quest’anno dall’esercito di Damasco e dalle forze russe alleate. Il rapporto, che si basa su materiale fotografico e video, parla di almeno 52 attacchi di questo tipo e riporta oltre 300 testimonianze. In particolare, nei mesi sui quali ha indagato l’Onu sono stati colpiti 17 presidi sanitari, 14 scuole, 9 mercati e 12 edifici civili, la maggior parte dei quali dalle forze del regime e dai loro alleati di Mosca. E il punto è proprio che sono stati “sistematicamente attaccati ospedali, scuole, mercati”. Stando al rapporto, inoltre, le forze governative hanno anche usato bombe a grappolo. Secondo Paulo Sérgio Pinheiro, presidente della commissione d’inchiesta Onu sulla Siria, “alcuni bambini sono stati bombardati mentre erano a scuola,  civili sono stati bombardati mentre facevano la spesa al mercato, pazienti sono stati bombardati nei loro letti d’ospedale e alcune famiglie sono state colpite mentre fuggivano verso luoghi più sicuri”. L’offensiva delle forze del presidente Bachar al-Assad ha provocato un milione di profughi e più di 500 morti secondo il rapporto. “Nel corso di questa campagna le forze del regime hanno violato in modo flagrante le leggi della guerra e dei diritti dei civili siriani”, dice ancora Pinheiro. Mentre, sempre secondo il rapporto, alcuni “bombardamenti indiscriminati”, in particolare quelli su Maarat Al-Nouman, “potrebbero rientrare nella categoria dei crimini contro l’umanità”. Gli autori del rapporto hanno anche accusato la milizia islamista Hayat Tahrir al Sham (Hts), che controlla parte di Idlib, di bombardamenti nelle aree sotto il controllo del governo, nei quali hanno perso la vita oltre 200 civili. I miliziani, inoltre, si sono macchiati di crimini di guerra come saccheggi, rapimenti, torture e omicidi di civili.

L’appello delle Nazioni Unite

In questi giorni si è svolta a Ginevra la 44esima Sessione del Consiglio dei Diritti Umani ed è emerso l’appello alle parti in conflitto a rispettare pienamente il diritto internazionale umanitario e proteggere la popolazione e le infrastrutture civili, incluso scuole ed ospedali. Inoltre, è stata sottolineata l’importanza che le forniture di aiuti umanitari siano garantite in maniera imparziale e senza discriminazioni, attraverso il pieno utilizzo di tutti i canali assistenziali possibili, inclusi i meccanismi emergenziali “crossborder”.

La questione aiuti

Il consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato la settimana scorsa una risoluzione che proroga la fornitura degli aiuti umanitari alla Siria dalla Turchia, ma solo attraverso un solo punto di passaggio. E’ quanto ha chiesto la Russia, che nei giorni scorsi insieme con la Cina aveva messo il veto a tutte le proposte per mantenere i due ‘crossing point’ previsti nella risoluzione scaduta venerdì scorso. Secondo Mosca sarebbe stata una violazione della sovranità di Damasco.

L’incubo pandemia

Il coronavirus è arrivato anche a Idlib: un medico di 30 anni è risultato positivo due giorni fa e sono in corso accertamenti su coloro che sono entrati in contatto con lui. L’ospedale è stato temporaneamente chiuso. Già a marzo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva inviato un team per monitorare un’area potenzialmente esplosiva: su tre milioni di abitanti, oltre un milione di persone sono ammassate in tende e alloggi di fortuna, tra malnutrizione e malattie, con un sistema sanitario notevolmente decimato.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2020-07/siria-guerra-pandemia-crisi-economica-armi.html

Le misure legali che creano povertà

La denuncia della Caritas Internationalis

Cancellare il debito dei Paesi poveri e rivedere le sanzioni che colpiscono i civili senza portare altri frutti: è l’appello della Caritas Internationalis, emerso nella conferenza stampa streaming di presentazione del suo Rapporto annuale. Il presidente, cardinale Tagle, ha auspicato una nuova speranza di solidarietà per il futuro, oltre l’emotività della crisi sanitaria, chiedendo che si lavori per “un cessate il fuoco globale”.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Debito e restrizioni commerciali tagliano i ponti delle possibilità di riscatto di intere popolazioni ben oltre i confini dei Paesi direttamente colpiti. Un esempio è sotto gli occhi di tutti: il Libano, che certamente paga anni di politiche economiche miopi, si trova però sotto scacco anche per le ripercussioni delle sanzioni imposte al governo siriano, che da anni mortificano gli scambi commerciali. Per Beirut, Damasco rappresentava il primo partner commerciale della regione. E’ solo uno dei risvolti di cui si è parlato nella conferenza stampa streaming di presentazione del Rapporto annuale di Caritas Internationalis che si è svolta ieri pomeriggio. Hanno partecipato il presidente, il cardinale Luis Antonio Gokim Tagle; il segretario generale di Caritas Internationalis, Aloysius John; il cardinale Wilfrid Fox Napier, presidente di Caritas Sud Africa e Rita Rhayem, direttore di Caritas Libano.

Un orizzonte nuovo nelle parole del cardinale Tagle

Il cardinale Tagle ha mandato un messaggio di speranza, nella convinzione che “i tanti cambiamenti che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo siano un’occasione per il futuro” per costruire una “nuova connessione di solidarietà”. Siamo “una sola famiglia umana” – ha ricordato il presidente di Caritas Internationalis – e la sensazione di vicinanza che ha suscitato la pandemia, colpendo tutti, non può essere dimenticata senza lasciare un segno: e quel segno dovrebbe essere la capacità di dare nuove risposte. Non solo emotività nel momento della crisi sanitaria – è il messaggio del cardinale Tagle –  ma anche capacità di combattere con forza condizioni drammatiche come la fame nel mondo, le guerre, le violenze, che calpestano vite umane e la dignità delle persone. E dunque – ha spiegato – significa recuperare lo sguardo inclusivo di Papa Francesco nella Laudato Si’ e adoperarsi per azioni concrete come quella di “un cessate il fuoco globale”.

Lo sguardo particolare al Medio Oriente

Ad illustrare il quadro che emerge dal Rapporto Caritas Intrnationalis 2019 è stato il segretario generale dell’organizzazione, Aloysius John, che ha sottolineato come “la situazione in Medio Oriente è peggiorata drasticamente negli ultimi sei mesi e le sanzioni economiche e l’embargo sulla Siria hanno contribuito ad aggravare la tendenza”. La convinzione di Aloysius John è chiara: “Le sanzioni unilaterali senza dialogo o negoziati non sono mai servite allo scopo, al contrario, sono state controproducenti”. Ha spiegato che gli effetti delle sanzioni come strumento politico non hanno sortito gli effetti sperati e piuttosto hanno dimostrato un enorme potere di distruzione delle vite delle persone più vulnerabili”. I prezzi sono saliti alle stelle, le persone non hanno i mezzi per comprare cibo, la malnutrizione si sta diffondendo e c’è una crescente rabbia contro la comunità internazionale. La situazione è peggiore per i più vulnerabili, in particolare i bambini, le donne e gli anziani, già profondamente colpiti da guerre, tensioni, fondamentalismo e dal Covid-19. “I più poveri – ha ricordato – sono quelli che pagano sempre il prezzo più alto”. In questi giorni “guardiamo tutti con particolare preoccupazione al Libano, che è sempre stato un modello di equilibrio per l’intero Medio Oriente”, ha sottolineato Aloysius John. Un Paese che è sempre stato un “messaggio di libertà e un esempio di pluralismo per Oriente e Occidente”, come diceva San Giovanni Paolo II.

Significativi i dati sul Libano

Oggi in Libano – ha ribadito Rita Rhayem, direttore della Caritas del Paese dei cedri – il 75 per cento della popolazione ha bisogno di assistenza e la valuta locale ha perso l’80 per cento del suo valore. “Ma – ha proseguito Aloysius John – questo non è l’unico motivo per cui siamo fortemente preoccupati per la crisi libanese”, aggiungendo: “Il Libano è sempre stato un centro essenziale per l’invio di aiuti umanitari a Paesi come la Siria e l’Iraq, e se la situazione non migliora, le conseguenze per l’intera regione saranno catastrofiche”.

Le richieste concrete

Essenziale il richiamo al Papa: più volte Papa Francesco ha invitato le nazioni ricche a riconsiderare la cancellazione dei debiti per le nazioni più povere, ha ricordato il segretario generale. Il debito delle nazioni più povere è spesso pagato dal sudore e dalla fatica dei più poveri. Sono altamente vulnerabili e sono facili prede di tutti i tipi di problemi di salute a causa della loro fragilità. La Caritas chiede la riduzione del debito delle nazioni più povere e la riallocazione dei fondi alle organizzazioni affidabili che lavorano con queste comunità. “Solo la riduzione del debito e la sua riallocazione per lo sviluppo alla base – è stato ribadito durante l’incontro telematico – consentiranno il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile e garantiranno la dignità dei più poveri”. “È inconcepibile – ha affermato Aloysius John – che misure affrettate messe in atto senza alcun dialogo con gli attori regionali siano fatali per i più poveri”. Dunque, i rappresentanti della Caritas si sono uniti al grido del Papa, “per fermare qualunque violenza e  conflitto” e chiedere “l’immediata sospensione delle sanzioni”.

Parole dure contro le sanzioni

Aloysius John ha affermato che le sanzioni opprimono i più poveri e sono, in sostanza, strumenti per “l’uccisione passiva di civili innocenti”.  Ha definito le sanzioni “misure ingiuste che colpiscono le persone più vulnerabili, soprattutto in questo momento del Covid-19” e ha affermato che “stanno creando terreno fertile per il terrorismo”. “Le persone che fuggono da situazioni difficili diventano migranti illegali che vengono respinti dai Paesi vicini e dall’Europa”. In sostanza, Aloysius John ha ricordato che “la lotta contro la fame, la povertà e l’ingiustizia è l’obiettivo principale della confederazione in quanto garantisce il benessere e la dignità umana dei più vulnerabili”.

L’impegno dell’organismo ecclesiale in tempo di pandemia

Per fronteggiare l’emergenza Covid, la Caritas Internationalis ha finanziato 23 progetti e altri 14 sono già stati approvati. Grazie ad essi, le famiglie sono state aiutate con l’assistenza alimentare di base, kit per l’igiene, sapone, pannolini e assistenza in contanti per pagare l’affitto e altri bisogni urgenti. E’ solo un esempio di centinaia di azioni piccole, ma molto importanti, che contribuiscono alla prevenzione della propagazione del virus. Al momento, Caritas Internationalis sta aiutando quasi 9 milioni di persone in 14 Paesi, inclusi Ecuador, India, Palestina, Bangladesh, Libano e Burkina Faso. Sono circa 2 milioni di persone, inoltre, i beneficiari dei programmi di fondi per un totale di 9 milioni di euro in differenti parti del mondo. Purtroppo però i responsabili della Caritas sanno bene che ci sono altre centinaia di migliaia di persone che hanno bisogno di aiuto.

L’allarme del Fmi in vista del G20

E’ stato ricordato che il lockdown a diverso titolo ha paralizzato l’economia globale, con forti ripercussioni in Europa, Stati Uniti, Cina, Giappone. Il punto è che la Caritas torna a richiamare tutti ad una consapevolezza: quella di essere davanti a un’emergenza atipica in cui Paesi che normalmente sono tra i maggiori donatori sono anche i più colpiti dal virus. Anche per questo motivo, l’utilizzo degli aiuti internazionali per rispondere ai bisogni nazionali “non rappresenta la giusta soluzione”, non può essere sufficiente. L’incertezza resta alta anche se qualche segnale di ripresa c’è. E’ quanto afferma il Fondo monetario internazionale (Fmi) nel documento preparato per il G20 dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali, che si terrà virtualmente il 18 luglio. Al G20 il Fondo chiede “sforzi collettivi”: “Sono essenziali per mettere fine alla crisi finanziaria e rilanciare la crescita”. Anche l’Europarlamento chiede un approccio nuovo. Nel comunicato pubblicato la settimana scorsa durante la Plenaria, si legge che in Siria, dopo un decennio di conflitto, è giunto per l’Europa il momento di ripensare i propri interessi e la propria politica. Oltre al sostegno al rinnovo del meccanismo delle Nazioni Unite (che fornisce aiuti transfrontalieri alla Siria), “l’Europa dovrebbe sviluppare delle politiche parallele che possano gradualmente andare oltre la semplice fornitura di aiuti umanitari”. Questo “potrebbe consistere nell’autorizzare gli attori locali a realizzare progetti di recupero attraverso un sostegno diretto, utilizzare istituti di microfinanza per erogare prestiti agli agricoltori e alle cooperative agricole o sostenere le capacità delle piccole aziende farmaceutiche per soddisfare le esigenze locali”.

A rischio fame 230 milioni di persone

Secondo il World Food Program, il numero di persone che rischia la fame nel mondo per le conseguenze della pandemia potrebbe raddoppiare fino ad arrivare a 230 milioni di persone. In Africa manca il cibo e in molti Paesi si stanno aggiungendo inondazioni, siccità, invasioni di locuste e raccolti scarsi. In alcuni Stati del Medio Oriente, dell’America Latina e dell’Asia sta già aumentando la malnutrizione infantile e il numero di adulti che soffrono la fame. Tra le categorie più a rischio i migranti, gli sfollati interni, i rifugiati e i rimpatriati, come quelli in Venezuela. Particolarmente critica la situazione dei migranti irregolari perché non rientrano in nessuna delle categorie che possono ottenere aiuti.

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2020-07/caritas-medio-oriente-libano-siria-pandemia.html

Nasce la Rete contro l’odio social

Viene definito hate speech: è il linguaggio carico di aggressiva ostilità che caratterizza molti dei contenuti che girano sui social network o su Internet. Vari Paesi d’Europa hanno emanato leggi ad hoc, in Italia ancora non c’è una normativa precisa, ma nasce la Rete che riunirà agenzie educative e associazioni di studi giuridici per monitorare il fenomeno dell’odio sui social e studiare gli strumenti per contrastarlo. Con noi l’esperto di linguistica Federico Faloppa

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La neonata Rete, presentata oggi con una conferenza stampa online, si occuperà di ricerca, condivisione di buone pratiche di narrazione corretta e accurata, di promozione di percorsi educativi e formativi per sensibilizzare la società civile su un fenomeno galoppante, al quale non ci si può abituare. Tra i promotori tre ong che operano a livello internazionale (Action Aid Italia Onlus, Amnesty International Italia, COSPE Onlus), che hanno coinvolto diverse asociazioni e studiosi. Del fenomeno e della doverosa reazioni a tutti i livelli della società, abbiamo parlato con Federico Faloppa, docente di Linguistica all’Università Reading in Gran Bretagna:

Sono i numeri – spiega Federico Faloppa – che raccontano l’ampiezza della compagine che ha dato vita alla prima Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio. I numeri – 5000 denunce in pochi anni – evidenziano l’importanza e la forza del progetto, unico nel suo genere, perché capace di riunire le più importanti realtà che da diverso tempo si occupano di mappare e combattere i discorsi e i fenomeni di odio: di particolare rilievo, l’approccio multidisciplinare che consente di coprire tutti i territori che è necessario presidiare per un’efficace azione, dalla ricerca alla proposta normativa, fino agli interventi nelle scuole per combattere bullismo, discriminazioni e intolleranze e per favorire la cultura dell’inclusione. Di fronte alla sempre più violenta e pericolosa pervasività dei discorsi e dei fenomeni di odio ad essi collegati – sottolinea – diventa urgente coordinare le diverse iniziative per dar vita a una risposta davvero incisiva. Da qui, la creazione della Rete, tra le cui finalità spiccano gli elementi individuati anche dall’Unesco e dal Consiglio d’Europa come necessari per affrontare il fenomeno dello hate speech: dal contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio, dai fenomeni di disinformazione da cui essi traggono origine alla creazione e promozione di narrazioni corrette e accurate e narrazioni alternative.

Le prime adesioni all’iniziativa

Oltre alle ong hanno aderito all’iniziativa otto associazioni tra cui ASGI-Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, ARCI, Associazione Carta di Roma, Associazione Giulia Giornaliste, Lunaria, Pangea Onlus, Vox-Osservatorio italiano sui Diritti, etc. Partecipano inoltre ricercatori provenienti da otto università (Bicocca, Bologna, Firenze, Padova, Reading (Uk), Statale Milano, Trento, Verona) e tre centri di ricerca (Cnr Palermo; Centro per le scienze religiose e Centre for information and communication technology della Fondazione Bruno Kessler); un centro studi (Cestudir Venezia); due osservatori (Oscad-Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, Osservatorio di Pavia); il Consiglio Nazionale Forense e la Commissione diritti fondamentali della Camera penale di Venezia. Partecipa al confronto promosso dalla Rete l’Unar – Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali.

Dell’impegno sul piano della formazione, parla Silvia Brena, giornalista e docente di Facoltà di Teorie e tecniche della Comunicazione all’Università Cattolica di Milano:

Silvia Brena spiega che, tra i vari progetti per assicurare una narrazione alternativa a quella che rientra nella definizione di hate speech, la Rete promuoverà da settembre una serie di webinair su tematiche inerenti. L’obiettivo – sottolinea Brena – è quello di assicurare un’informazione e una formazione che possano contrastare le fake news, che sono il primo grave scalino dell’incitamento all’odio. La disinformazione purtroppo dilaga e – spiega Brena – quella che è imperversata attraverso whatsap durante il periodo di lockdown è stata incredibilmente condivisa e ripostata. Dare false notizie è il modo più facile e immediato per alimentare rancore e risentimento nelle persone. Dunque, Brena spiega che i seminari online si riprometteranno di offrire seria informazione su quei temi sui quali invece si ritrovano più distorsioni sui social.

da Vatican NEWS del 14 luglio 2020

Fao: a rischio fame 130 milioni di persone in più. La Santa Sede chiede solidarietà

Fame cronica e malnutrizione non solo non spariscono ma aumentano, rendendo sempre più difficile il raggiungimento degli Obiettivi di assistenza alimentare per tutti entro il 2030. E il 2020 potrebbe segnare il drammatico record di 130 milioni di nuove vittime di carenze alimentari per le ripercussioni economiche del Covid-19. La Santa Sede chiede solidarietà, maggiore cooperazione internazionale, strategie a favore dei piccoli produttori e politiche di riduzione dei prezzi degli alimenti nutrienti. Con noi l’Osservatore Permanente presso la Fao, monsignor Fernando Chica Arellano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Quasi 690 milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2019, con un aumento di 10 milioni rispetto al 2018 e di 60 milioni negli ultimi cinque anni. E’  quanto denuncia l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), nel documento intitolato “State of Food Security and Nutrition in the World”, pubblicato oggi. Il rapporto sullo Stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo è il più autorevole monitoraggio globale degli studi sui progressi verso l’obiettivo indicato della fine della fame e della malnutrizione nel mondo. È elaborato grazie al lavoro congiunto della Fao, del Fondo internazionale per l’agricoltura (Ifad), del Fondo per l’infanzia (Unicef), del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam) e dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). Nella prefazione, i capi delle cinque agenzie avvertono che “cinque anni dopo che i leader mondiali si sono impegnati a porre fine alla fame, all’insicurezza alimentare e a tutte le forme di malnutrizione, siamo ancora fuori strada rispetto all’obiettivo fissato entro il 2030″. Dei dati emersi e della necessità di rafforzare la cooperazione internazionale abbiamo parlato con l’Osservatore Permanente della Santa Sede, monsignor Fernando Chica Arellano:

Monsignor Arellano sottolinea che il rapporto mette in evidenza quanto siamo lontani dallo sconfiggere la fame nel mondo, mostra che “non siamo sulla buona strada”. Dalla valutazione dei dati emerge che l’impegno assunto nel 2015 con l’obiettivo di risultati concreti entro il 2030 non è riuscito a portare reali progressi. E l’Osservatore Permanente della Santa Sede sottolinea che l’emergenza è su due fronti: per chi soffre di denutrizione e per quanti soffrono di malattie provocate dalla malnutrizione, quindi ad esempio il consumo eccessivo di sostanze grasse non salutari, cibi insalubri. A questo proposito, monsignor Chica Arellano parla soprattutto di bambini e sottoline al’importanza di una corretta educazione alimentare, ricordando che anche Papa Francesco ha parlato di questo nella Laudato sì, affrontando diverse questioni legate all’ambiente.  Poi l’Osservatore Permanente presso la Fao spiega quale potrebbe essere la via da percorrere. Innanzitutto, bisogna rafforzare la cooperazione internazionale – spiega – per assicurare solidarietà nel mondo, lavorando per sconfiggere povertà, disuguaglianze, ingiustizie. “Ci vogliono politiche giuste”. E indica poi delle possibili strategie concrete: sostenere i piccoli produttori, ridurre il costo di alimenti di base ricchi di nutrienti. E’ chiaro – ricorda – che il problema della malnutrizione è strettamente collegato a quello della povertà.

Le aree del mondo più colpite

L’Asia è tristemente la patria del maggior numero di denutriti (381 milioni). L’Africa è seconda (250 milioni), seguita da America Latina e Caraibi (48 milioni). La percentuale complessiva di persone affamate è cambiata poco, ma i numeri assoluti sono in deciso aumento e questo si spiega perchè negli ultimi cinque anni la fame è cresciuta al passo con la popolazione globale. Questo, dunque, significa che si rilevano grandi disparità regionali: in termini percentuali, l‘Africa è la regione più colpita: arriva al 19,1 per cento della sua gente denutrita. Si tratta di un tasso più che doppio rispetto a quello registrato in Asia (8,3 per cento) e a quello rilevato in America Latina e Caraibi (7,4 per cento). Considerando, però, i trend riscontrati in ogni continente, gli studiosi che hanno redatto il rapporto affermano che nel 2030 sarà l’Africa ad ospitare più della metà della fame cronica del mondo.

Il prezzo della pandemia

Secondo le previsioni del rapporto, la pandemia di Covid-19 potrebbe spingere oltre 130 milioni di persone ad aggiungersi ai casi di fame cronica entro la fine dell’anno. Il maggior numero di persone alle prese con drammatiche carenze nell’alimentazione si riscontrano in Asia, ma il fenomeno si sta espandendo rapidamente in Africa. Man mano che i progressi nella lotta contro la fame dopo aver rallentato si stanno arrestando, la pandemia da Covid-19 sta moltiplicando le vulnerabilità e favorendo le inadeguatezze dei sistemi alimentari globali, intendendo le attività e i processi che incidono sulla produzione, sulla distribuzione e sul consumo di alimenti. Certamente è troppo presto per valutare il pieno impatto delle varie misure di blocco delle attività, del cosiddetto lockdown in atto con modalità diverse ma analoghe in vari contesti, il rapporto al momento fotografa 83 milioni di persone destinate a finire in condizioni di fame, ai quali potrebbero aggiungersi altri fino ad arrivare a 132 milioni di persone che potrebbero finire nel computo di quanti soffrono la fame nel 2020 a causa della recessione economica innescata dalle conseguenze dell’infezione da coronavirus.

Non è solo una questione umanitaria

Il rapporto delle Nazioni Unite avverte: garantire una dieta sana a quanti non possono permettersela non sarebbe solo un dovere della comunità internazionale nei confronti di altri esseri umani ma anche un provvedimento “utile” a risparmiare miliardi di costi per le conseguenze in termini sociali. Si stima che il contenimento della fame nel mondo potrebbe assicurare ogni anno un risparmio di 1,3 miliardi di dollari. E si legge anche che una diversa gestione delle risorse e dei meccanismi della catena alimentare potrebbe contribuire a ridurre del 75 per cento le emissioni di gas a effetto serra, che si stima abbiano un costo di 1,7 miliardi di dollari ogni anno. Prezzi elevati per l’approvvigionamento di cibi sani significa anche che miliardi di persone non possono permettersi di mangiare in modo equilibrato e nutriente. E questo provoca negli anni ricadute pesanti in termini di costi sociali. Bisogna superare la malnutrizione in tutte le sue forme: dalla denutrizione con carenze di sostanze nutrienti – come quelle contenute ad esempio nei latticini, nella frutta, verdura e cibi ricchi di proteine che sono i gruppi alimentari più costosi a livello globale – ma si parla di disfunzioni nutrizionali e danni gravi per la salute anche nel casi di un’alimentazione scorretta o povera che porta sovrappeso e obesità, a volte per eccesso di aminoacidi a basso costo o per eccesso di zuccheri, bibite adulcorate o cibi grassi nelle fasce sociali più basse di Paesi ricchi come gli Stati Uniti e l’ Europa. Non si tratta solo di assicurare cibo sufficiente per sopravvivere: è fondamentale affrontare la questione di cosa le persone mangino e, soprattutto, valutare ciò che mangiano i bambini. Il rapporto evidenzia che una dieta sana costa molto di più di 1,90 dollari al giorno, cifra stabilità a livello internazionale quale soglia di povertà. E le ultime stime indicano che l’incredibile cifra di 3 miliardi di persone o più non può permettersi una dieta sana. Nell’Africa sub-sahariana e in Asia meridionale, questo è il caso del 57 percento della popolazione, ma il fenomeno non risparmia, anche se non in queste percentuali, il Nord America e il vecchio continente.

L’obesità altra faccia della fame

Secondo il rapporto, nel 2019, tra un quarto e un terzo dei bambini sotto i cinque anni nel mondo – 191 milioni – denunciavano carenze della crescita. Altri 38 milioni di minori sempre sotto i cinque anni di vita, erano in sovrappeso. Nel rapporto si legge anche che “tra gli adulti, nel frattempo, l’obesità è diventata globale pandemia a sé stante”.

La parabola degli ultimi anni 

Gli esperti scrivono che gli aggiornamenti dei dati critici relativi alla Cina – che ha un quinto della popolazione mondiale – e altri Paesi densamente popolati hanno portato a un taglio del numero globale di persone affamate agli attuali 690 milioni rispetto agli 822 milioni del 2019. Tuttavia – spiegano – non c’è stato alcun cambiamento nella tendenza di crescita che si è ripresentata a partire dal 2014 dopo che dal 2000 si era registrata invece una diminuzione. Le edizioni 2017 e 2018 di questo rapporto hanno mostrato che i conflitti e la variabilità climatica minano gli sforzi per porre fine alla fame, all’insicurezza alimentare e alla malnutrizione. Nel 2019, il rapporto ha mostrato che sono sopraggiunte anche le fasi di rallentamento dell’economia a frenare ulteriormente. Nel 2020, la pandemia da Covid-19, nonché alcuni casi di invasione di locuste senza precedenti nell’Africa orientale, stanno gettando un’ombra sulle prospettive economiche in termini che nessuno avrebbe potuto prevedere e la situazione potrebbe solo peggiorare se non si agisce con urgenza e non si intraprendono azioni senza precedenti.

Un invito all’azione

Il rapporto sollecita una trasformazione dei sistemi alimentari per ridurre i costi degli alimenti nutrienti e aumentare l’accessibilità economica di diete sane. Mentre le soluzioni specifiche differiranno da Paese a paese, e anche al loro interno, le risposte generali si trovano con interventi lungo l’intera catena di approvvigionamento alimentare, nell’ambiente e nelle politiche economiche che modellano il commercio, la spesa pubblica e gli investimenti a livello sociale. Lo studio invita i governi a rivedere le strategie in tema di alimentazione e agricoltura; a lavorare per ridurre i fattori di aumento dei costi nella produzione, stoccaggio, trasporto, distribuzione e commercializzazione di prodotti alimentari, anche riducendo le inefficienze e gli sprechi di cibo e la gestione dei rifiuti; a sostenere i produttori locali di piccole dimensioni che vogliono coltivare e vendere alimenti più nutrienti e garantire loro accesso ai mercati; a dare la priorità all’alimentazione dei bambini in quanto categoria più bisognosa; a promuovere nuovi comportamenti attraverso le agenzie educative e i media; a far rientrare la nutrizione nei sistemi di protezione sociale nazionali e nelle strategie di investimento. I capi delle cinque agenzie delle Nazioni Unite assicurano il loro impegno a sostenere i governi per uno sviluppo sostenibile per le persone e per il pianeta.

da Vatican NEWS del 13 luglio 2020

Il Sud Sudan nel difficilissimo processo di normalizzazione

Il 9 luglio del 2011 nasceva il Paese più piccolo dell’Africa che resta ad oggi il più “giovane” al mondo. Ma di questi nove anni di autonomia rispetto al Sudan, il Sud Sudan ne ha vissuti cinque in aperto conflitto armato e gli ultimi due, dopo gli accordi di pace, in una difficilissima fase di transizione. La Caritas sottolinea l’emergenza dal punto di vista umanitario anche in considerazione dell’arrivo dell’infezione da Covid-19, ricordando i ripetuti appelli alla riconciliazione di Papa Francesco e della Chiesa locale. Con noi l’africanista Angelo Turco

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Un’economia tra le più fragili al mondo, una qualità della vita fra le più basse: sono due tristi caratteristiche del Sud Sudan. La popolazione è ancora sostanzialmente dentro un conflitto cominciato nel dicembre del 2013. Si stimano 2,2 milioni di rifugiati nei Paesi limitrofi, 1,7 milioni di sfollati interni e ben 7,5 milioni di persone in difficoltà su una popolazione che ne conta in totale circa 11 milioni. La situazione è grave e si appesantisce con il diffondersi del coronavirus. Dei motivi della conflittualità, delle prospettive di pace aperte con gli accordi del 2018, ma anche del contesto regionale abbiamo parlato con Angelo Turco, geografo africanista, professore emerito dell’Università Iulm di Milano:

L’appello della Caritas

Una “pace a singhiozzo”: così la Caritas Italiana definisce i tentativi di riconciliazione parlando di “un popolo stremato dalla guerra, in un continente affamato dalla pandemia”, nel dossier pubblicato in questo anniversario dell’indipendenza da Khartoum, che si sofferma sulle ombre che oscurano l’orizzonte della più giovane nazione africana: “Una guerra civile che ha lasciato centinaia di migliaia di morti; una popolazione stremata e in fuga con milioni di sfollati interni e di rifugiati che gravano su Paesi vicini altrettanto fragili; un territorio privo di infrastrutture importanti e delle ricchissime risorse naturali che non riescono a garantire sicurezza e stabilità; un lento processo di pace, tra firme di accordi e cessate il fuoco mai rispettati, più volte rinviati e sfociati sempre in nuovi scontri di cui pagano le conseguenze tanti poveri; una crisi tra le più dimenticate”.

L’invito alla riconciliazione di Francesco e della Chiesa locale

La Caritas ricorda i tanti appelli lanciati da Papa Francesco e dalla Chiesa locale che “hanno alzato le loro voci, appellandosi al perdono e al dialogo per il superamento delle divisioni etniche e degli interessi di pochi e per tornare all’unità” nazionale. Il tutto mentre “la pandemia di Covid-19 accresce la fame più di quanto non affolli i pochi ospedali”. “Se il Paese vuole avere futuro – spiega il dossier – occorre un impegno comune verso i seguenti obiettivi: formazione e riconciliazione a livello politico, militare e comunitario; trasparenza nella gestione delle risorse naturali e lotta alla corruzione; coerenza delle politiche e approccio integrato tra risposta umanitaria, riabilitazione, sviluppo e pace; investimenti efficaci in infrastrutture e servizi primari, priorità a giovani e donne come attori di cambiamento”. La Caritas Italiana da trent’anni è impegnata nella regione, in particolare in Darfur e nella zona dei Monti Nuba, e di recente ha avvitato un piano triennale di assistenza nelle sette diocesi del Paese.

da Vatican NEWS del 9 luglio 2020

Non dimenticare l’obiettivo della copertura sanitaria globale

A dieci anni dal 2030, data fissata dalle Nazioni Unite per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdgs), sembra ancora più difficile soddisfare il punto che riguarda la copertura sanitaria globale dopo la pandemia. Il numero di persone in difficoltà si è moltiplicato in modo esponenziale ed è diventato doveroso ragionare sui sistemi sanitari nel mondo, nelle aree povere dove sono carenti e nelle zone ricche dove la salute rischia di diventare una questione di potere a scapito del diritto di tutti, riconosciuto in Europa, alle cure. Con noi il presidente della European Medical Association, Vincenzo Costigliola

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Metà della popolazione mondiale può contare solo sul cinque per cento della spesa sanitaria globale, mentre appena nove dei 49 Paesi a basso reddito possono garantire ai propri cittadini servizi sanitari essenziali. Già prima della pandemia, l’Onu denunciava che nei Paesi ad alto reddito si spendeva circa 270 dollari pro-capite per la salute dei propri cittadini, in quelli più poveri non si arrivava a 20 dollari, e che milioni di persone restavano senza alcuna copertura sanitaria. Si tratta dei dati emersi all’High level Meeting sulla Copertura sanitaria universale (Universal Health Coverage) svoltosi – a livello di capi di Stato e di governo – il 23 settembre 2019, a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. Ci si chiede quali saranno i dati se ci si riunirà a settembre prossimo, esattamente a dieci anni dal fatidico 2030, indicato per il raggiungimento dei cosiddetti Obiettivi del Millennio.

La road map indicata prima del Covid-19

Mentre le Nazioni Unite chiedevano ai governi di investire adeguatamente sui servizi sanitari, è arrivata la pandemia a mettere drammaticamente il tema al centro del dibattito. L’emergenza non è ancora finita ma è importante non dimenticare il Global action plan, il documento presentato circa un anno fa che andava oltre l’analisi per proporre un piano di azione davvero globale, che implicava il coinvolgimento di tutte le agenzie specializzate dell’Onu, per una copertura sanitaria globale. A ottobre 2018, su impulso dei governi di Germania, Norvegia e Ghana, 12 delle principali agenzie specializzate delle Nazioni Unite, inclusa l’Oms, la Banca mondiale e l’Unicef, avevano concordato una road map per massimizzare le convergenze e favorire l’efficienza degli interventi.

Sette le questioni su cui accelerare

Riconoscendo la grande distanza da colmare per raggiungere l’ambizioso Obiettivo di sviluppo (Sdg3) sulla salute, queste organizzazioni avevano identificato sette principali tematiche su cui “accelerare”. Non è un caso che nella terminologia di lavoro inglese siano definite proprio “accelerators”. Le sette tematiche in questione coprono macroaeree, come il sistema di finanziamento per la salute, o argomenti più tecnici, come la ricerca per favorire l’innovazione e la produzione di nuovi farmaci. Hanno come filo rosso la necessità di semplificare la macchina burocratica internazionale per essere più rapidi e attrezzati a supportare i governi e la popolazione.

Dopo lo tsunami della pandemia

La pandemia ha aggravato la situazione e ha anche messo in luce l’urgenza di intervenire su diversi livelli. L’efficacia del piano, dopo il drammatico impatto dell’infezione da Covid-19 e delle conseguenze economiche, andrà di pari passo con una rinnovata volontà politica, non solo delle Agenzie, ma di tutta la comunità internazionale, di cambiare finalmente il sistema. Intanto, la pandemia ha messo in luce le discrepanze anche tra sistemi sanitari diversi nell’ambito dell’Occidente più ricco, mentre la salute dovrebbe essere un bene di tutti, come sottolinea ai nostri microfoni Vincenzo Costigliola, presidente dell’Associazione Medici Europei:

Nella stessa Unione europea non c’è un sistema sanitario europeo, ma tanti diversi, sottolinea Costigliola spiegando che ognuno fa riferimento a impostazioni differenti. Sostanzialmente una differenza sta nel presupporre che tutti in assoluto debbano essere curati o preoccuparsi di assicurare le cure mediche ai lavoratori o ad altre categorie di cittadini. Nel frattempo, mentre i Paesi dell’est cercavano di uniformarsi allo standard minimo europeo  – spiega – si sono fatte strade ovunque le assicurazioni mediche, sullo stile di un’impostazione statunitense. La pandemia certamente ha risvegliato l’attenzione al tema e, secondo Costigliola, nel Vecchio continente si deve tornare a immaginare un sistema europeo unico. Il presidente dell’Associazione di medici europei ribadisce, infatti, che serve una regia unica europea e che questo è stato evidente quando i vari Paesi hanno dovuto dare una risposta all’infezione e lo hanno fatto in ordine sparso perché non c’era l’uniformità che permettesse una risposta unitaria. Nell’immediato, in particolare, una risposta unitaria sarebbe stata invece fondamentale, sostiene. Castigliola poi afferma che in ogni caso in Europa c’è un presupposto per tutti: il diritto alla salute di ogni persona. Cita il contesto degli Stati Uniti dove invece una qualche assicurazione è necessaria per chiedere di essere curati. E raccomanda che il mondo guardi al modello europeo. Con tutti i limiti che ci sono e con le differenze tra Stati dell’Ue, Costigliola sottolinea che in Europa la salute non è fondamentalmente un business ma un servizio alla persona. E questo non deve cambiare. Anzi dovrebbe essere il modello per tutte le regioni del mondo.

Al centro la salute e la persona

A proposito dell’obiettivo di copertura sanitaria comune, Costigliola, tra l’altro, sottolinea che la pandemia ha reso evidente che purtroppo le strutture non sono sufficienti ovunque. E ribadisce che la comunità internazionale deve impegnarsi sempre di più per raggiungere l’obiettivo della copertura sanitaria globale e deve farlo cercando di svincolare il più possibile la logica del diritto alle cure dalle dinamiche politiche tra Stati. Per esempio, a partire dalla partecipazione all’interno dell’Oms o di altre organizzazioni internazionali. Il criterio dominante dovrebbe essere la difesa del diritto di ognuno ad essere curato e il dibattito dovrebbe essere aperto a tutti. Inoltre, Costigliola afferma che nessuna logica politica dovrebbe prevalere sul diritto alla salute. La cura delle persone è quello per cui giurano i medici, ricorda Costigliola che raccomanda che la salute “non cada in pasto ai politici”, non sia vittima della logica che fa della questione della salute una questione di potere.  Castigliola, da medico, chiede che si permetta ai medici e ai sanitari di mettere la persona e la salute sempre al centro.

da Vatican NEWS del 7 luglio 2020

Ue: urgenza dell’accordo sul Recovery Fund

Il cancelliere tedesco, signora Angela Merkel, torna a sollecitare un negoziato veloce in Europa sui provvedimenti economici per far fronte alla crisi determinata dalla pandemia, riassunti nel cosiddetto Recovery fund. Dopo la conferenza stampa, ieri, con Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ribadisce oggi che “la strada è dissestata e servirà molta disponibilità al compromesso”, in vista del Consiglio Europeo del 17 luglio prossimo. Con noi lo studioso Giorgio Banchieri

Fausta Speranza

“Deve esserci comunque per questa estate un accordo, non so immaginare un’altra variante”: con queste parole il cancelliere tedesco, Angela Merkel, nel corso della sua prima conferenza stampa nella veste di presidente di turno dell’Ue, ha ribadito ieri la determinazione a “raggiungere un accordo rapido e ambizioso sul piano di rilancio europeo”, parlando di “massima priorità dell’Ue per le prossime settimane”.  Le ha fatto eco il presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen.

La proposta del Consiglio Europeo

Charles Michel, il presidente del Consiglio Europeo, dopo il suo primo giro di consultazioni con un colloquio con il presidente francese, Emmanuel Macron, ha fatto sapere che nella seconda metà della prossima settimana  presenterà il cosiddetto negobox, cioè una proposta in cui, secondo indiscrezioni di stampa, confermerà lo stanziamento di 750 miliardi proposto dalla Commissione per il piano NextgenerationEu (il Recovery fund) e ridurrà di qualche decina di miliardi, rispetto ai 1.094 dello scorso febbraio, la dotazione del bilancio pluriennale 2021-2027 (tecnicamente chiamato Quadro finanziario pluriennale, Qfp). Quest’ultima mossa vorrebbe dare soddisfazione al gruppo dei cosiddetti Paesi “frugali” (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia). Così come in favore dei quattro più forti oppositori dei trasferimenti a fondo perduto gioca l’idea di confermare loro i rebates, cioè gli sconti sul bilancio Ue. Novità dovrebbero arrivare  anche sul fronte dei criteri di allocazione dei fondi europei previsti per sostenere la ripresa. L’idea è quella di dividere il totale in due tranche. Per la ripartizione della prima, pari al 70 % del totale, saranno presi come riferimento il Pil e il tasso di disoccupazione degli ultimi anni passati. Per la seconda, nel 2022 si prenderanno come riferimento i dati del 2020 e 2021, numeri che – spiegano gli addetti ai lavori – certificheranno non solo l’impatto dell’emergenza Covid-19, ma anche quello della Brexit. Resta tra le altre un’incognita a proposito di un’intesa sulle quote di fondi destinati ai prestiti e ai trasferimenti, ora pari rispettivamente a 250 e 500 miliardi di euro. Un argomento che sembra tra i più ostici per il primo ministro olandese, Mark Rutte.

L’impegno della Commissione e Europarlamento

La Presidente von der Leyen ha deciso di attivare l’art.324 del Trattato, che prevede di convocare, su iniziativa della Commissione, incontri tra i presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione nell’ambito delle procedure di bilancio. Nel frattempo la Conferenza dei presidenti dei gruppi politici è chiamata a negoziare i termini per un accordo ambizioso. L’obiettivo è proprio quello di stabilire il punto di vista di Commissione ed Europarlamento prima della riunione del Consiglio Europeo del 17/18 luglio. Questo consentirà ai capi di Stato e di Governo di avere chiare le condizioni irrinunciabili del Parlamento per poter esprimere un voto favorevole”.  In definitiva, nei prossimi giorni, l’attività negoziale e diplomatica, finalizzata al raggiungimento di un’intesa, deve registrare un’ulteriore accelerazione. Degli obiettivi, delle prospettive di accordo e compromesso abbiamo parlato con Giorgio Banchieri, docente di Scienze Sociali e di Economia all’Università Luiss:

Lo studioso Banchieri, che innazitutto spiega i due piani di discussione – il Recovery Fund e il Bilancio – afferma che il margine di compromesso tra Paesi del Sud Europa, con l’Italia in prima linea, e i Paesi del Nord, in primis l’Olanda, c’è. L’importante, a suo avviso, è che l’Italia in particolare possa accogliere le richieste che arrivano per colmare alcune lacune strutturali, come i problemi della burocrazia e le lungaggini della giustizia, che rendono difficile agli investitori credere che le risorse fornite possano servire a rilanciare il Paese.

da Vatican NEWS del 3 luglio 2020

Chiude la centrale simbolo del nucleare in Francia

E’ prevista per oggi la seconda operazione destinata a chiudere l’impianto per la produzione di energia nucleare più vecchio della Francia. Si tratta della struttura di Fessenheim, nel dipartimento dell’Alto Reno. Un’occasione in più per riflettere sulle risorse energetiche e sul rapporto tra uomo e natura. Con noi il ricercatore Romolo Infusino

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A confermare la decisione è stata la compagnia elettrica Edf, che ha in gestione l’impianto, ricordando che la chiusura del primo reattore è avvenuta il 22 febbraio 2020. Una centrale situata presso la città di Fessenheim, in Alsazia, con due reattori PWR da 880 MW ognuno, che sono i due più vecchi finora funzionanti in Francia. La centrale è sorta presso una centrale idroelettrica fluviale, questo le ha consentito di non dover utilizzare torri di refrigerazione in caso di basso apporto di acqua dal bacino. Ma le considerazioni che hanno portato in particolare alla chiusura di questo impianto, ormai vecchio, sono l’occasione per altre considerazioni in un momento in cui diventa sempre più urgente un ripensamento serio del rapporto tra uomo e natura, come chiesto dalla Laudato si’ di Papa Francesco, pubblicata cinque anni fa, e come drammaticamente evidenziato dall’emergenza sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19. Ne abbiamo parlato con Romolo Infusino, già ricercatore dell’Enea e membro del consiglio scientifico di Ambientevivo:

R. – Dal mio punto di vista è l’avvio verso una nuova epoca e il tramonto del nucleare. Il nucleare ha fatto la storia dell’energia in parte del Dopoguerra. Dopo la crisi di Hiroshima, sono state avviate le centrali per produrre energia elettrica in primis negli Stati Uniti. Poi la Francia ha sviluppato un sistema energetico basato sul nucleare, anche perché funzionale al progetto nucleare-militare francese, che ha prodotto una grande quantità di energia. Questa energia, comunque, ha presentato il suo conto. Si è partito dall’ipotesi che l’energia nucleare fosse più economica rispetto all’energia da combustibili fossili; questo non era del tutto vero, nel senso che non si prendevano in considerazione i costi del decommissioning, dello smantellamento, della chiusura del ciclo nucleare, che ha dei costi esorbitanti. Per cui l’energia nucleare va in pensione, oltre che per motivi di sicurezza, soprattutto perché non è più vantaggiosa dal punto di vista economico. Quindi la tecnologia chiude il suo ciclo sulla base della valenza, della convenienza e dell’economicità. Le fonti rinnovabili si stanno facendo strada, c’è una grande speranza per il futuro. Sono convinto che nel futuro si possa fare a meno dell’energia nucleare, soprattutto perché non conviene più economicamente.

In che modo questa sorta di evento spartiacque del Covid-19 ha riportato l’attenzione sull’ambiente, sul rapporto tra uomo e ambiente e sul nucleare in particolare?

R. – Il rapporto fra uomo e ambiente è fondamentale. Sembra accertato che il coronavirus sia stato scatenato dal cattivo utilizzo di risorse alimentari di origine animale selvatica. Quindi l’attenzione all’ambiente è fondamentale per la salvaguardia della salute mondiale. Considerando che le realtà sono interconnesse, non si può dimenticare che qualsiasi pandemia in qualsiasi parte del mondo si diffonde ormai a una velocità inimmaginabile rispetto alle pandemie storiche che ci sono state. Il problema che si pone adesso è ripartire dal punto di vita economico, ridisegnare un nuovo progetto economico a livello nazionale e anche mondiale, basato sulla sostenibilità. Quindi il Covid-19 è un acceleratore di questo processo di cambiamento del sistema energetico e anche del sistema di produzione. Ritengo che d’ora in poi in qualsiasi organizzazione industriale, in qualsiasi rilancio di progetto industriale, venga fatta una valutazione su base delle sostenibilità, l’unica base che può dare un futuro al pianeta e anche al sistema produttivo industriale perché l’impatto non sia letale. Il Covid è uno spartiacque. È stato una sciagura per l’umanità, ma è un momento di riflessione per ripensare una nuova umanità più rispettosa dell’ambiente, che possa progettare i suoi servizi – perché di servizi ne ha bisogno – nell’ambito di una convivenza con gli equilibri naturali anche sulla base di quanto il Santo Padre ha detto nella sua enciclica Laudato sì, con la sua tanta attenzione sull’ambiente come rilancio di una nuova umanità.

Dottor Infusino, lei vede in questo momento una ricerca, in senso globale nel mondo e in particolare in Europa, attenta, basata sulla consapevolezza che vada recuperato un equilibrio uomo-natura diverso?

R. – Le nuove tecnologie ci permettono orizzonti soft. Ciò che era pesante non ha più ragione di esistere. Intanto le tecnologie informatiche faranno una rivoluzione su altre tecnologie soft, leggere, praticamente immateriali. Dal punto di vista energetico ritengo che vada valorizzato il progetto “idrogeno”, che vuol dire produrre energia senza inquinare l’ambiente. Ci sono progetti di ricerca per la produzione di idrogeno da fonti fotovoltaiche o da fonti rinnovabili ed è prevista la sua utilizzazione poi nel ciclo energetico, per uso industriale e nella mobilità. L’auto elettrica sta facendo progressi inimmaginabili prima. Ritengo che l’auto a idrogeno possa avere un futuro molto interessante per una mobilità a dimensione umana, per esempio.

da Vatican NEWS del 30 giugno 2020

Il valore della relazione madre-bambino da difendere

“Finché non sorsi come madre”: questa espressione, tratta dal Libro dei Giudici, è il titolo scelto dalla collega Debora Donnini per il suo volume, edizione Chirico-Cantagalli, che propone un viaggio dalle origini del pensiero cristiano ai testi degli ultimi Papi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In modo giornalistico, preciso nelle citazioni della Bibbia e dei testi di San Giovanni Paolo II e di Papa Francesco in tema di donne e madri, il libro di Debora Donnini propone un percorso di tipo culturale e spirituale che lascia emergere la specificità del pensiero delle madri e che chiede alla società di ascoltarlo. Di come sia nata l’esigenza di scriverlo, delle tante sollecitazioni proposte, abbiamo parlato con l’autrice, che fa parte della nostra redazione di Vatican News:

R. – Ho respirato a un certo punto, nel  2018,  un  attacco  alla madre  trasversale e su  piani  differenti. Questo  mi  ha  preoccupato e mi sono chiesta dapprima “perché”, poi ho voluto confrontarmi con il magistero, con  il  pensiero  cristiano. Dunque ho intrapreso  un  “viaggio”  alle  radici  del  pensiero  cristiano che nella sua  fecondità ha  portato  nei secoli, in modi diversi, a concepire la  tutela  di donne e bambini. Ho riletto il  pensiero dei  Papi con quella ricchezza e quella difesa netta della maternità che ritenevo assimilata, ma forse non ancora sufficientemente.

Dalla lettura del libro emerge  la consapevolezza che il  pensiero  della  madre  può  dare  un  contributo  essenziale  allo  sviluppo  sociale. In che modo?

R. – La  nostra  società  è  fatta  di nuclei e il primo nucleo è la famiglia che è quello che permette di allevare i  bambini e sostenere gli anziani. E le madri sono coloro che,  più di ogni altra  persona, si devono  necessariamente abituare a un pensiero sistemico, devono esercitarlo per far funzionare queste relazioni. Penso al  mettere insieme il lavoro  e la crescita  dei  figli,  e  così via. Svolgono un ruolo centrale nel welfare,  che forse è troppo poco riconosciuto. Si ritrovano non sostenute, spesso lacerate in qualche modo, fra le esigenze della famiglia e quelle del  lavoro. Ecco  penso  che  in un  mondo  complesso  come  il  nostro,  anche con le nuove sfide che ha portato ad esempio la pandemia, sia importante sentire, ascoltare, prendere  in  seria considerazione quello che chiamo “il  pensiero  della  madre”. Faccio un esempio concreto: la  questione  del lavoro a casa durante il  lockdown non è un problema da poco con le scuole chiuse. In questo senso ascoltare  le  madri aiuterebbe ad affrontare i nodi e le sfide che ci  troviamo davanti. Affinché il mondo sia più  fecondo  e perché  non  siamo  monadi.  Poi ovviamente c’è la questione dell’apporto delle donne sulla tenerezza e la pace – come  ricorda  spesso  Papa  Francesco  – e sull’amore  viscerale  che  richiama anche la  fonte  della  misericordia di cui parla don Francesco Giosuè Voltaggio nella postfazione del libro.

Tutto questo  lancia  un  messaggio  potente  alla  politica  perché  si  occupi   di  ascoltare  di  più  la  voce  delle  madri. Però il tuo libro va oltre…

R. –  Sottolineo che non è un  libro “politico”. Voglio  fare un  discorso  culturale. Mi  piacerebbe che i cristiani e non solo,  potessero leggere questo libro per comprendere più profondamente quello che appunto proprio  Papa Francesco e San Giovanni Paolo II suggeriscono in tema di  tutela  delle  madri e delle donne. Faccio  un  esempio ricordando quello  che  Papa  Francesco  ha  detto  in  una  catechesi  dell’udienza generale del  2015  dedicata  proprio  alla  madre:  “La madre, però, pur essendo molto esaltata dal punto di vista simbolico, – tante poesie, tante cose belle che si dicono poeticamente della madre – viene poco ascoltata e poco aiutata nella vita quotidiana, poco considerata nel suo ruolo centrale nella società. Anzi, spesso si approfitta della disponibilità delle madri a sacrificarsi per i figli per ‘risparmiare’ sulle spese sociali”. Questa riflessione è interessante,  bisogna  partire   da  qui. Dice  anche  che bisognerebbe comprendere di più la lotta quotidiana per essere  efficienti al lavoro e affettuose in  famiglia. Credo che queste parole di Papa Francesco siano molto importanti e che debbano, però, essere  assimilate  di  più,  a  360 gradi. Penso che i giovani dovrebbero conoscerle e rileggerle, così come un po’ tutto il magistero in materia.

Puoi dirci qualcosa del titolo del libro?

R. – “Finché non sorsi come madre” è  una  frase  di Debora nel Libro dei Giudici,  una figura del Vecchio Testamento  molto  interessante. Era una donna giudice già secoli prima di Cristo  e questo la dice lunga sulla profondità di un pensiero che nasce già con il popolo di  Israele e viene espresso con Gesù Cristo con  una  chiarezza  estrema. Se da allora guardo ad oggi, mi colpisce molto anche la  questione  della  violenza  sulle  donne e,  seguendo  l’attività di Papa Francesco, ho  percepito tutta la sua preoccupazione e il suo dolore nel  vedere la donna  attaccata in modo tanto  brutale. Nell’omelia del primo gennaio 2020 ha detto che “ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna”. E se ci confrontiamo con la triste  attualità siamo portati a riflettere su questo. Credo che dobbiamo ritrovare un pensiero e un agire nuovi, per fare qualcosa concretamente. Francesco ha anche  sottolineato che da come trattiamo il corpo della donna si comprende il nostro livello di umanità. Ed è tanto più grave la violenza se ad assistere ci sono bambini. Quanto male può fare loro! Ecco, mi ha colpito tanto tornare anche alla Mulieris  Dignitatem di San Giovanni Paolo II,  proprio sul tema della relazione madre-bambino che  vedo  minacciata. Come dicevo, il libro nasce proprio da  questa sensazione di minaccia che c’è.

San Giovanni Paolo II sottolinea poi il ruolo fondamentale della madre. E scrive: “Si ritiene comunemente che la donna più dell’uomo sia capace di attenzione verso la persona concreta e che la maternità sviluppi ancora di più questa disposizione. L’uomo – sia pure con tutta la sua partecipazione all’essere genitore – si trova sempre «all’esterno» del processo della gravidanza e della nascita del bambino, e deve per tanti aspetti imparare dalla madre la sua propria «paternità». Questo – si può dire – fa parte del normale dinamismo umano dell’essere genitori, anche quando si tratta delle tappe successive alla nascita del bambino, specialmente nel primo periodo. L’educazione del figlio, globalmente intesa, dovrebbe contenere in sé il duplice contributo dei genitori: il contributo materno e paterno. Tuttavia, quello materno è decisivo per le basi di una nuova personalità umana”. Anche io lo credo e specialmente per quanto riguarda i bambini piccoli, il primo sviluppo. Ovviamente questo non vuol dire che la figura del padre non resti fondamentale. Ritengo che, proprio a  partire  anche da  questa  riflessione,  le  donne oggi vadano sostenute. Aggiungo che senza le madri non c’è  futuro per l’umanità. Se ad esempio guardiamo all’Italia, il numero medio di figli per donna è di 1,29 nel 2019. In questo modo non può esserci nemmeno sostenibilità delle pensioni, se parliamo di dati anche solo strettamente economici. E poi al di là dei numeri, anche in un’ottica di ecologia integrale, va recuperata la  cura  per il rapporto madre-bambino.  E’ ancora Papa Francesco a dire che “una società senza madri sarebbe una società disumana”.

da Vatican NEWS del 27 giugno 2020

Preghiera per la pace in Corea a 70 anni dallo scoppio della guerra

Dal Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) l’invito a pregare per una vera pace nella Penisola coreana. Si tratta di un messaggio diffuso in occasione del settantesimo anniversario dell’inizio della guerra di Corea. E’ stato diramato nel corso di un evento online, ieri, sugli impegni ecumenici per la pace in Corea, promosso dai consigli di Chiese di tutto il mondo.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Guarigione” e “futuro comune” sono le parole chiave del messaggio per la Penisola, sottoscritto dalle Chiese di Corea, America, Canada, Australia, Europa, Asia, Africa. La guerra di Corea viene ricordata come un “terribile conflitto distruttivo”, dopo il quale non è mai stato firmato alcun trattato di pace. L’appello è chiaro: “Sette decenni dopo, è tempo di riconoscerne la fine”.  Nel frattempo, sono sorte nuove sfide per la pace e la stabilità nella regione. La convinzione che emerge dal comunicato è che “questi processi non saranno facilitati finché resterà aperto quel conflitto vecchio di 70 anni”.

Occasioni particolari di preghiera

Per tutto il 2020, il Consiglio ecumenico delle Chiese e il Consiglio nazionale delle Chiese in Corea osservano una Campagna di preghiera globale. Tutte le Chiese e tutti i cristiani sono invitati a pregare per una fine formale della guerra di Corea, attraverso la sostituzione dell’accordo di armistizio del 1953 con un vero e proprio trattato di pace.

A Seoul

Si sono celebrate oggi messe in tutta la Corea del Sud.   Nell’arcidiocesi di Seoul, la più grande con 1,52 milioni di fedeli,  nella cattedrale di Myeongdong,  il cardinale Andrew Yeom Soo-jung, arcivescovo di Seoul, ha detto che “sebbene raggiungere la vera pace che tutti desideriamo sia una cosa molto difficile, non è assolutamente impossibile”.  Il vescovo Lee Ki-heon, capo del Comitato per la riconciliazione del popolo coreano della Conferenza episcopale coreana, ha rilasciato una dichiarazione in cui chiede al governo della Corea del Sud di trovare modi per compiere passi in avanti nelle relazioni intercoreane.  “Ma prima di ogni cosa – ha detto il presule – occorre adottare un trattato di pace e ciò può essere stabilito solo con una dichiarazione di fine guerra”.

Prospettive concrete dalla Dichiarazione di Pyongyang

Il messaggio ricorda l’importanza di rispettare la sospensione e la cancellazione di esercitazioni militari e poi chiede che si realizzino gli intenti di tutti gli accordi che hanno dato importanti speranze di progresso verso la pace nella penisola coreana.  E poi nella preghiera è forte l’intenzione “per la realizzazione di una Penisola coreana e di un mondo completamente liberi dalle minacce nucleari”. In particolare il 2018 è stato un anno  promettente:  ad aprile c’è stata la dichiarazione di Panmunjom, seguita a settembre dalla Dichiarazione congiunta di Pyongyang. Il Presidente della Commissione Affari di Stato della Repubblica Popolare Democratica di Corea Kim Jong Un e il Presidente della Repubblica di Corea Mun Jae In, infatti, hanno tenuto un vertice nella capitale della Corea del Nord dal 18 al 20 settembre 2018. Dopo la storica Dichiarazione di Panmunjom, sono stati registrati  passi in avanti sulla via del dialogo, negoziati tra le autorità del nord e del sud, scambi e cooperazione multilaterali tramite Ong e misure per la distensione militare. Nella Dichiarazione si legge che “il nord e il sud si sono impegnati a dirigere il termine delle ostilità militari nell’area dello scontro, ivi inclusa la Zona Demilitarizzata, fino alla rimozione fondamentale di ogni sostanziale pericolo di guerra e di ostilità nell’intera penisola coreana”. Il nord e il sud hanno condiviso il programma di rendere la penisola coreana una zona di pace libera dalle armi nucleari e dalla minaccia nucleare e di assicurare una necessaria avanzata pratica a tale scopo. La parte nord ha concordato di chiudere permanentemente la piattaforma di test di motori e missili di Tongchang-ri, con la partecipazione di esperti dei relativi Paesi, come prima cosa.

Il conflitto

La guerra scoppiò nel 1950 a causa dell’invasione della Corea del Sud, stretta alleata degli Stati Uniti, da parte dell’esercito della Corea del Nord comunista. Per tutta risposta, su mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, gli Stati Uniti, affiancati da altri 17 Paesi, intervennero militarmente nella penisola per impedire una rapida vittoria delle forze comuniste. Dopo grandi difficoltà iniziali, le forze statunitensi, comandate dal generale Douglas MacArthur, respinsero l’invasione e proseguirono l’avanzata fino a invadere gran parte della Corea del Nord. A questo punto, però, intervennero nel conflitto anche le forze di altri Paesi e le truppe statunitensi furono costrette a ripiegare in Corea del Sud. La guerra, quindi, si arrestò sulla linea del 38esimo parallelo dove continuò con battaglie di posizione e sanguinose perdite per altri due anni fino all’armistizio di Panmunjom, che confermò la divisione della Corea senza stabilire un vero e proprio accordo di pace. Durante il conflitto coreano la guerra fredda raggiunse uno dei suoi momenti più critici.

da Vatican NEWS del 25 giugno 2020