Prime elezioni in Burundi senza Nkurunziza candidato

Si vota in Burundi, tra le raccomandazioni internazionali: Unione africana, Onu e Ue, infatti, per l’occasione hanno fatto appello a tutte le parti politiche affinché si astengano da violenze, evitino atti di incitamento all’odio e favoriscano il dialogo. Il richiamo è agli impegni presi nel codice di condotta elettorale firmato a dicembre dello scorso anno. Le elezioni presidenziali si svolgono il 20 maggio come previsto da tempo nonostante il rischio pandemia. Con noi l’africanista Aldo Pigoli

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Principali candidati sono Evariste Ndayishimiye, portavoce del partito al governo, e Agathon Rwasa, storico esponente dell’opposizione. In ogni caso, le elezioni metteranno formalmente fine a 15 anni di governo di Pierre Nkurunziza, che ha solo 55 anni e che due anni fa è stato insignito dal suo partito del titolo di “Guida suprema eterna”. Una legge speciale gli ha assegnato una buonuscita di 530.000 dollari e una lussuosa residenza. Nel 2015 ha forzato la legislazione dandosi la possibilità di un ulteriore mandato di cinque anni. Nei due anni successivi la repressione degli oppositori ha causato 1200 morti e la fuga in Tanzania di 400.0.00 persone. Più di 140 membri del partito di Rwasa sono stati arrestati dall’inizio della campagna elettorale il 27 aprile, secondo il gruppo indipendente Sos media Burundi.

Le decisioni sullo svolgimento del voto

Le autorità hanno confermato il regolare appuntamento elettorale ad eccezione del voto all’estero, sospeso con la motivazione del coronavirus. Una decisione che ha significato escludere soprattutto quanti hanno lasciato il Paese perché vicini all’opposizione. Sempre a causa della pandemia, il il governo del Burundi ha vietato alla maggior parte dei giornalisti stranieri di entrare nel Paese per seguire le elezioni. Inoltre, govedì sono stati espulsi i rappresentanti dell’Oms, che avevano messo in guardia contro il rischio di contagio durante i comizi elettorali. Mancano anche osservatori internazionali del voto, bloccati dalla richiesta di una quarantena di 14 giorni. Ufficialmente ci sono solo 42 casi di coronavirus in questo piccolo Paese stretto fra Congo, Ruanda, Tanzania e il lago Tanganica.

La preoccupazione della comunità internazionale

Nell’imminenza delle elezioni, le Nazioni Unite hanno avvertito che il Burundi è a rischio di una nuova ondata di violenze con una crisi politica irrisolta e un presidente sempre più rappresentato come sovrano “divino”. “Oggi è estremamente pericoloso parlare criticamente in Burundi”, ha detto il capo della Commissione Doudou Diene in una nota. “Le elezioni del 2020 rappresentano un grave rischio”, si legge nel rapporto dell’Onu.

Le violenze nei mesi scorsi

Ad ottobre scorso le forze di sicurezza del Burundi hanno ucciso 14 membri di un gruppo ribelle e sequestrato un ingente quantitativo di armi dopo pesanti scontri scoppiati nel distretto di Musigasi, nella provincia nord-occidentale di Bubanza. Secondo quanto riportato da Al Jazeera, il portavoce della polizia burundese, Moise Nkurunziza, ha dichiarato all’emittente di stato RTNB che gli uomini, provenienti probabilmente dalla vicina Repubblica Democratica del Congo (Rdc), erano entrati nella provincia e avevano intenzione di sferrare un attacco nella provincia nord-occidentale. Il Ministero della Sicurezza burundese ha poi precisato che i combattenti uccisi appartenevano al gruppo RED Tabara, Résistance pour un État de Droit au Burundi. Si tratta di una fazione ribelle al governo di Nkurunziza ed è nata subito dopo la crisi politica del 2015. Secondo i media locali, alcuni scontri avrebbero coinvolto anche le Forze popolari del Burundi (Forebu), opposte al governo, le Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr), milizie mercenarie ruandesi di etnia hutu protagoniste del genocidio con i rivali di etnia tutsi in Ruanda nel 1994 poi entrate in Burundi con il presunto consenso del presidente Nkurunziza, e le Imborenakure, le milizie in mano alle Fdlr nate dal settore giovanile del partito al potere in Burundi (il Cndd-Fdd, Consiglio nazionale per la Difesa della democrazia – Forze per la difesa della democrazia).

L’ombra del conflitto dopo quasi trent’anni

Sia il presidente uscente che i due possibili successori sono stati leader di gruppi ribelli durante la guerra civile, che ha insanguinato questo piccolo Paese africano di 11 milioni di abitanti fra il 1993 e il 2004. Tutti e tre sono di etnia hutu. Fra conflitto e successiva repressione dei dissidenti, si calcola che vi siano stati 300.000 morti e centinaia di migliaia di profughi fuggiti all’estero. Gli oppositori accusano Ndayishimiye di controllare la milizia giovanile degli Imbonerakure, responsabile della violenta repressione del dissenso.

Il Paese più povero del mondo

Nelle statistiche il Burundi risulta il Paese con il Pil più basso al mondo. Ma ci sono anche altri numeri: nel 2019 il settore minerario ha generato 78 milioni di dollari, rispetto a 59 milioni nel 2018. Per l’anno appena iniziato, si prevede un aumento di produzione con l’entrata in attività di miniere a Marangara, nella provincia settentrionale di Ngozi, in particolare per il coltan e derivati. Attività esplorative sono inoltre in corso a Waga e a Nyabikere, nel centro, e a Mabanda, nel Sud. Nonostante un grande potenziale, e nonostante la progressione, il settore minerario burundese è ancora poco sviluppato e fino a pochi anni fa era confinato nella sfera dell’estrazione artigianale, arcaica e informale, non di rado connessa ad attività di contrabbando. Gli ultimi anni hanno visto l’ingresso di aziende interessate al potenziale minerario burundese, ma la crisi politico-militare del 2015 ha frenato alcuni   investimenti. Sono presenti in grandi quantità nel suolo burundese nichel, vanadio, oro, cassiterite, coltan terre rare, ma anche fosfati e altri minerali industriali.

L’ombra del genocidio sulla zona dei Grandi Laghi

Il  6 aprile 1994 l’aereo presidenziale del Rwanda con a bordo il Presidente Juvénal Habyarimana ma anche il suo omologo burundese Cyprien Ntaryamira viene abbattuto nella fase di atterraggio da due missili terra–aria sparati dalla collina adiacente all’aeroporto internazionale di Kigali. Nei cento giorni seguenti furono sterminati in Rwanda 300.000 hutu moderati e 700.000 tutsi su una popolazione di circa 6 milioni di persone. Più di due milioni di persone di etnia Hutu si rifugiarono entro i confini dei Paesi confinanti, in particolare in Zaire governato da Mobutu – poi il Paese è diventato la Repubblica Democratica del Congo –  nella speranza di salvarsi dalle violenze delle milizie dell’etnia Tutsi, supportate dalle forze del Burundi e dell’Uganda, erano decise a vendicare le violenze subite dagli Hutu. Nello Zaire, oltre ai rifugiati, si nascosero tuttavia numerosi guerriglieri Hutu che iniziarono a dare la caccia ai Tutsi di nazionalità congolese. A quel punto nel 1996 scoppiò la Prima guerra del Congo. Poi sia il Rwanda che il Burundi hanno preso parte attivamente alla cosiddetta grande guerra africana o seconda guerra del Congo che  si è svolta tra il 1998 e il 2003 nella Repubblica Democratica del Congo.  E al genocidio in Rwanda è legato l’arresto, avvenuto 23 anni dopo, il 16 maggio scorso in Francia, del banchiere e uomo d’affari ruandese Félicien Kabuga, uno dei latitanti più ricercati al mondo, accusato nel 1997 dal Tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite per il Rwanda di averlo finanziato.

Del Burundi oggi, delle sue condizioni economico-sociali, del peso del contesto regionale, della prospettiva dei risultati del voto, abbiamo parlato con Aldo Pigoli, docente di Culture politiche e Storia dell’Africa contemporanea all’Università Cattolica:

da Vatican NEWS del 20 maggio 2020

Stenta l’impegno Ue contro il traffico di armi nel Mediterraneo

Non ha ancora preso forma la missione Irini, voluta per far rispettare l’embargo delle Nazioni Unite nelle acque della Libia. Doveva partire il 4 maggio, ma, oltre alla pandemia, ci sono questioni irrisolte tra i Paesi membri a creare ostacoli. Intanto, proseguono gli scontri sul terreno, mentre sembra sempre più ardua l’avanzata di Haftar verso Tripoli. Le nostre interviste

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Al momento, risultano impegnati una nave francese e due velivoli da pattugliamento, uno lussemburghese ed uno polacco, mentre nei giorni scorsi Malta si è ritirata e l’Italia, che ne detiene il Comando e ne ospita il Quartier generale, deve ancora completare l’iter del Decreto Missioni con il passaggio, forse anche in settimana, in Parlamento. L’Onu ha decretato l’embargo dal 2011: non devono arrivare armi al Governo di alleanza nazionale di Tripoli, guidato da Fayez al-Sarraj e neanche alle truppe del generale Khalifa Haftar a Bengasi. Per cercare di far rispettare l’embargo fin qui violato, l’Unione Europea ha lanciato a febbraio la missione Irini, mandando in pensione quella denominata Sophia, che aveva l’obiettivo di contrastare il traffico di esseri umani nel Mar Mediterraneo. Il comando di Irini, che in greco significa pace, è affidato all’Ammiraglio Fabio Agostini e dovrebbe chiamare in campo 500 uomini, oltre a prevedere da parte italiana una nave, un MPA P-72A, un Uav Reaper per un dispositivo complessivo di circa 500 uomini.

L’abbandono di Malta

A Bruxelles l’Alto rappresentante della politica estera e di difesa europea, Josep Borrell, sta cercando di far desistere Malta dal suo ritiro promettendo aiuti e finanziamenti per far fronte a nuovi flussi di migranti (che attualmente sono molto scarsi per il virus e la guerra in Libia). Il Governo di Malta ha deciso di uscire dall’impegno di Irini, adducendo questioni finanziarie. I media scrivono, però, che La Valletta teme che con l’avvio della missione nel prossimo futuro, in caso di un’eventuale ripresa dei flussi migratori, la Guardia costiera libica non aiuti più i maltesi a bloccare le partenze, scaricando sulle autorità maltesi il compito di controllare i flussi.

La contrarietà della Libia

Il governo presieduto da Fayez al Serraj sostiene che Irini, essendo una missione sostanzialmente navale, finirebbe col bloccare solo i rifornimenti che arrivano via mare dalla Turchia e non quelli ad Haftar che arrivano via terra dall’Egitto e via aerea dagli Emirati. Per questi ultimi vi sarebbe solo la possibilità di puntare l’indice sui violatori dell’embargo (Egitto ed Emirati) con il meccanismo del “naming e shaming” davanti al Comitato sanzioni delle Nazioni Unite che sarà presieduto tra breve dalla Germania. Delle criticità e delle potenzialità della missione Irini, degli interessi nazionali che hanno impedito finora un’azione coesa europea, della necessità di perseguire anche in parallelo il dialogo intralibico, coinvolgendo però i tanti attori dello scenario politico-sociale del Paese nordafricano, abbiamo parlato con Michela Mercuri, docente di Storia contemporanea dei Paesi del Mediterraneo all’Università di Macerata:

A sottolineare quanto sia arduo il compito di osteggiare il traffico di armi per le implicazioni diplomatiche, ma anche a ricordare proprio l’importanza e l’urgenza di farlo con un reale impegno politico, è il giornalista Francesco Terreri, che ha curato diverse pubblicazioni in tema di armi. Terreri, innanzitutto ribadisce che l’embargo non è rispettato:

Intanto non si fermano gli scontri sul terreno

Il generale Khalifa Haftar ha perso ieri una base aerea – quella di Watiya – conquistata dalle forze del primo ministro Fayez al Sarraj, che ha potuto così definire più vicina una “vittoria”. La struttura, situata a 130 chilometri a sud-ovest della capitale libica, era considerata strategica per il generale della Cirenaica, che dall’aprile dell’anno scorso sta cercando invano di prendere Tripoli. La scorsa settimana, almeno due persone sono morte e sei sono rimaste ferite nell’attacco a Tripoli che ha colpito un centro profughi. Le persone del rifugio di Fornaj provengono principalmente dal vicino distretto di Ain Zara. Secondo le forze del governo di accordo nazionale di Fayez al-Serraj, l’attacco è arrivato dopo che l’aviazione della capitale aveva distrutto una contraerea russa recentemente consegnata proprio alla base militare di Al Watya, a sud della capitale.

A ricevere una battuta di arresto sono gli aiuti

Circa 400 mila libici sono stati sfollati dall’inizio del conflitto nove anni fa, circa la metà dei quali nell’anno passato, da quando l’attacco alla capitale, Tripoli, è cominciato. Prima che il coronavirus rendesse tutto ancora più complicato, a marzo scorso, i partner umanitari hanno riportato un totale di 851 restrizioni di accesso ai movimenti di personale e aiuti umanitari all’interno e verso la Libia. I rappresentanti di Unhcr, Oms, Oim, Unicef, Ocha, Unfpa e Wfp, in una dichiarazione congiunta, hanno chiesto la fine dei combattimenti in Libia e la protezione dei civili: ”Nonostante gli appelli ripetuti per un cessate il fuoco umanitario, anche dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, – si legge – le ostilità continuano senza sosta, impedendo l’accesso e la consegna di aiuti umanitari fondamentali”.

da Vatican NEWS del 18 maggio 2020

L’Ue chiede farmaci per tutti e prevenzione

La Commissione europea invita i 27 Stati membri a collaborare in tema di farmaci perché non ci sia carenza per nessun cittadino o struttura medica. Lo fa in videconferenza con i ministri della Salute e consulenti scientifici di tutta Europa, dai quali arriva il monito a non abbassare troppo la guardia sul Covid-19. Con noi lo pneumologo Lorenzo Tramaglino

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Limitare la dipendenza da singoli produttori o Paesi e produrre medicinali essenziali all’interno dell’Ue”. Il Commissario alla Salute, Stella Kyriakides, ha sintetizzato così le principali linee della strategia allo studio a Bruxelles in tema di farmaci, spiegando che la “roadmap” dovrebbe essere pronta entro la fine dell’anno, ma anche raccomandando ai ministri della Salute di renderla in qualche modo operativa da subito. L’emergenza Covid-19, infatti – ha spiegato in videoconferenza il Commissario – “ha amplificato o esacerbato i problemi che già esistevano e di cui si stava già discutendo, tra cui la immediata disponibilità per tutti e l’accessibilità dei prezzi”.

Medicinali a prezzi accessibili priorità per ogni Recovery Plan

“Ora è più che mai evidente che abbiamo bisogno di un approccio strategico perché “già da prima di questa pandemia, la carenza di medicinali rappresenta un problema in molti Stati membri”. I ministri Ue del settore hanno confermato la necessità di “identificare soluzioni che rafforzeranno i meccanismi di coordinamento e le catene di approvvigionamento dei medicinali”. Non c’è dubbio che su questo tema si debba parlare di “una responsabilità collettiva”, hanno ribadito, chiedendo in sostanza che “i medicinali devono essere disponibili in modo tempestivo in tutta l’Ue a prezzi accessibili” e sottolineando che questo principio va sostenuto tanto quanto l’Economic Recovery Plan, stanziato in seguito alla crisi economica, oltre che sanitaria, determinata dalla pandemia.

Gli esperti invitano a non abbassare la guardia

Nessun allarme, ma un avvertimento dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc): bisogna usare precauzioni per “essere pronti  ed evitare il peggio in caso di una seconda ondata di contagi di coronavirus, ipotizzabile anche in autunno”. “Non è una previsione – spiegano gli esperti che hanno partecipato alla videoconferenza – ma una “eventualità che gli Stati devono considerare”.  “Gli studiosi del Centro Ecdc stanno facendo analisi in vista di una possibile seconda ondata per misure di risposta”, ha confermato Stefan de Keersmaecker, portavoce della Commissione europea per le questioni di salute pubblica. In realtà non si tratta di una novità. Il rapporto del Centro  datato 23 aprile già metteva in guardia su quanto raccomandato in videoconferenza. È una probabilità, certo, ma sufficientemente alta da indurre a mettersi al riparo da brutte sorprese.

Le misure per evitare una seconda ondata

“Gli Stati sono invitati a monitorare i cosiddetti pazienti ambulatoriali sentinella, ossia i casi gravi potenzialmente evitabili; rafforzare la sorveglianza ospedaliera, in particolare per le infezioni respiratorie acute gravi e per la terapia intensiva; potenziare le strutture di assistenza a lungo termine e quella che in termine tecnico si chiama la “sorveglianza della mortalità”. Secondo de Keersmaecker, “c’è anche la necessità di far sì che i cittadini capiscano che esiste il rischio di una nuova ondata” e adottino accorgimenti e comportamenti necessari, come il distanziamento sociale, l’uso di mascherine e il rigoroso rispetto di basilari norme igieniche.

Per capire a che punto siamo in tema di farmaci e di vaccino e per una riflessione su quanto questa pandemia dovrebbe insegnarci sotto tanti punti di vista, abbiamo intervistato Lorenzo Tramaglino, pneumologo in prima linea contro il Covid-19 all’Ospedale San Giovanni Addolorata di Roma:

R. – Direi che il comportamento biologico del virus, soprattutto riguardo alla durata dell’incubazione, fa sì che ogni giorno noi abbiamo – relativamente al numero dei contagiati – la fotografia dei giorni precedenti. E questo lo diciamo con grande circospezione perché le infezioni da Covid-19 hanno avuto modalità di comparsa a volte molto variabili. In ogni caso, se nella prima settimana di Fase2 registriamo un calo dei contagi, possiamo dire che ciò riflette sostanzialmente il distanziamento sociale, il lockdown della fase precedente. Recentemente sono stati pubblicati dei modelli statistici inglesi e cinesi che, pur con tutti i limiti connaturati a questo tipo di studi perché sono modelli matematici, ci dicono che con la riapertura anche parziale delle attività potrebbe concretizzarsi il rischio di una seconda ondata di epidemia. Ma questi scenari piuttosto catastrofici si contrappongono ad altre evidenze, quali quella di un possibile depotenziamento su base climatica del virus, che colpirebbe quindi in maniera meno violenta il soggetto infettato. Direi che non c’è nulla di certo, per il momento. La cosa migliore rimane quella di evitare il contagio. Quindi, pur rientrando al lavoro, pur con la riapertura delle varie attività, suggerirei di continuare il distanziamento sociale, di indossare correttamente le mascherine nei luoghi confinati, anche per strada se il distanziamento a più di un metro non è possibile, e di continuare a curare l’igiene, soprattutto l’igiene delle mani.

Alla Videoconferenza, ieri, tra ministri della salute dell’Unione europea e infettivologi si è parlato anche di una possibile ondata nel prossimo autunno: senza particolari allarmi, ma c’è l’invito a non sottovalutare …

R. – Assolutamente, assolutamente. E questo poi si lega anche a un altro problema, che è quello del vaccino. Ci sono voci di una possibile disponibilità del vaccino già nei prossimi mesi: direi che sono scettico, al riguardo. Gran Bretagna e Stati Uniti appaiono in vantaggio, ma i progetti nel mondo sono tanti, molteplici, coinvolgono tanti Paesi tra cui il nostro. Ma per avere un vaccino efficace, sicuro ci vuole tempo, per la sperimentazione. Per essere chiari, sarebbe già un attimo risultato disporne per la primavera dell’anno prossimo. Poi subentrerebbero ulteriori considerazioni in merito alla distribuzione perché se il vaccino è prodotto all’estero potrebbe arrivare in Italia anche più tardi. Questo non vuol dire che non si debba pervicacemente continuare sulla strada della ricerca e della sperimentazione: ci potrebbe essere una seconda ondata epidemica durante l’autunno. Per questo sono favorevole a una grande, precoce campagna vaccinale contro l’influenza, nel prossimo autunno. Sarà più facile identificare, isolare e trattare precocemente i casi di coronavirus.

Abbiamo inesorabilmente bisogno del vaccino?

R. – Se la pandemia da Covid-19 nei prossimi mesi dovesse riaccendersi e progredire velocemente sul modello della spagnola degli anni ’18 – ’20 del secolo scorso, per intenderci, in questo caso avremmo, sì, una grande necessità del vaccino. La stessa Organizzazione mondiale della sanità ricorda, qualora ce ne fosse bisogno, che solo un vaccino può interrompere definitivamente la trasmissione del coronavirus. Poi, a causa delle mutazioni stagionali del coronavirus, allo stesso modo dei virus influenzali, potrebbe rendersi necessario un aggiornamento annuale del vaccino.

Parliamo anche dei farmaci in uso attualmente, o perlomeno in sperimentazione…

R. –Per quanto riguarda il trattamento farmacologico, a soli sei mesi dall’inizio della pandemia non disponiamo ancora di farmaci specificamente diretti contro questo nuovo agente virale. E così la comunità degli operatori sanitari ha sperimentato, in via empirica, sulla base di alcune esperienze pregresse, una serie di farmaci. Abbiamo sperimentato l’idrossicoclorochina, che è un antimalarico con un’azione antinfiammatoria, alcuni farmaci antivirali come il Remdesivir, che era già stato utilizzato contro l’Ebola; e poi l’eparina, antibiotici utilizzati per contrastare la tendenza alla microembolia e per contrastare super-infezioni batteriche. Insomma, in mancanza di certezze, ci siamo arrangiati; ci siamo scambiati tra medici informazioni ed esperienze in chat, in rete. Crediamo di avere agito bene, data la situazione d’emergenza, ma adesso bisognerà passare dall’aneddotica alle sperimentazioni su una scala più ampia, alla medicina basata sull’evidenza. Non sarà semplice, ci vorrà del tempo. Un ultimo accenno lo vorrei fare alle polemiche, assolutamente sterili, che hanno accompagnato la sperimentazione sulla somministrazione di plasma, avvenuta a Pavia e a Mantova. I colleghi hanno utilizzato lo stesso criterio per cui in presenza di ferite potenzialmente infette, si somministrano le gammaglobuline antitetaniche. Certo, è una terapia che è gravata da rischi connaturati negli emoderivati: ci sono rischi concreti di allergie, di anafilassi, ci sono problemi relativi all’approvvigionamento. Non è un’alternativa al vaccino e viceversa, il vaccino non è un’alternativa alla plasmoterapia. Sono due aspetti di uno stesso fenomeno, di uno stesso problema. Alla lunga, se ulteriori trial clinici ne confermassero l’efficacia, potrebbero costituire una possibilità complementare ai farmaci, in alcuni pazienti e in alcune fasi della malattia. Parlo con aperto spirito scientifico, basato sull’evidenza.

Quanto è importante la cooperazione sanitaria internazionale in tema di prevenzione di pandemie?

R. – Ha un ruolo chiave. Siamo immersi in un momento storico estremamente critico, in un contesto globalizzato dove si intrecciano problematiche come la crisi economica, i movimenti migratori, i cambiamenti climatici, le emergenze sanitarie. Bisognerà continuare a investire e a intervenire perché tutti questi ambiti sono collegati tra loro. E bisognerà farlo con estremo rigore e con estrema severità perché oggi non disponiamo delle risorse di qualche mese fa: siamo tutti più poveri. Ma continuare a esercitare il sistema della cooperazione, specialmente verso i Paesi più fragili ed esposti al ricorrere delle ondate epidemiche, sarà fondamentale per noi stessi, per la nostra salute, per la tenuta dei nostri sistemi sanitari. Insomma, ai Paesi sviluppati conviene, conviene molto  aiutare i Paesi con sistemi sanitari deboli.

Cinque anni fa, la Laudato si’, un’indicazione di quale dovrebbe essere il rapporto di equilibrio tra uomo e natura. Da questa drammatica esperienza della pandemia, che cosa davvero potremmo e dovremmo imparare?

R. – Penso che il danno che infliggiamo all’ambiente perseguendo il mito di una crescita smodata si ripercuota direttamente sulle nostre vite. Ora, nel dibattito sull’argomento di vaste proporzioni mi terrei collegato a evidenze del mio campo. Ricordo soltanto che il legame tra inquinamento atmosferico e severità delle malattie broncopolmonari è noto da almeno 70 anni. In queste ultime settimane, alcuni studi italiani – indipendenti – stanno ipotizzando una correlazione tra la severità della malattia da Covid-19 e le esposizioni a elevati livelli atmosferici di polveri sottili e di inquinanti come, ad esempio, il biossido di azoto. Questo potrebbe spiegare la particolare aggressività della malattia in alcune province del Nord Italia dove tradizionalmente si registrano spesso picchi di concentrazione di inquinanti molto al di là dei limiti legali. E per contro, dare anche una spiegazione della ridotta aggressività del virus nell’ultimo scorcio della Fase1, che è stato caratterizzato da un dimezzamento delle concentrazioni degli inquinanti nelle province padane in Lombardia: questo è un effetto dovuto al lockdown. Quindi, direi che, insomma, il legame con l’ecologia è notevolmente importante.

In questo contesto, l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato un monito: bisogna vietare i mercati di fauna selvatica, i mercati con animali vivi che vengono uccisi al momento, come quello di Wuhan, in Cina, da cui sembra essere partita l’epidemia divenuta pandemia. Lei cosa ne pensa?

R. – Una delle poche e generiche certezze sul coronavirus è la sua provenienza da serbatoi animali e la possibilità di effettuare lo spin-over, cioè il salto di specie. E’ accaduto anche per altre epidemie del coronavirus, come la Sars nel 2003, ed è accaduto anche con alcuni virus influenzali, come l’H1N1, l’influenza suina. Ora, non è ancora chiaro se le autorità cinesi intendano vietare questi mercati soltanto in via transitoria oppure se intendano farlo in modo permanente. Ci sono naturalmente pressioni da parte dell’Onu e dell’Organizzazione mondiale della sanità per una chiusura permanente, e mi auguro che questo avvenga.

da Vatican NEWS del 13 maggio 2020

Sessant’anni fa, “l’anno dell’Africa”

Nel 1960 ben 17 Paesi, per lo più colonie francesi, ottenevano l’indipendenza. Si apriva un decennio di grande entusiasmo politico, di risultati positivi in termini di crescita, seguito però da anni di braccio di ferro nel contesto della guerra fredda e dall’esplosione di conflitti e di nuove povertà. Con noi lo storico Eugenio Capozzi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Nel 1957 il Ghana è il primo Stato dell’Africa non mediterranea ad acquistare l’indipendenza, segue la Guinea nel 1958, ma è il 1960 l’anno dell’Africa: Camerun, Congo ex francese, Gabon, Ciad, Repubblica Centroafricana, Togo, Costa d’Avorio, Alto Volta, Niger, Nigeria, Senegal, Mali, Madagascar, Somalia, Mauritania e Congo ex belga ottengono l’indipendenza.

Le premesse

Dopo decenni passati sotto il controllo dei più potenti Paesi europei, la cui attività di colonizzazione era iniziata tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, e a dieci anni dall’inizio della decolonizzazione in Asia, è il secondo conflitto mondiale ad accelerare il processo di risveglio dei popoli africani. Le promesse di rinnovamento politico vengono mantenute solo in parte dalle potenze coloniali. Francia e Gran Bretagna introducono riforme amministrative che non riescono però a fermare il sorgere di movimenti nazionalisti. Il processo di indipendenza si svolge abbastanza rapidamente tra il 1956 e il 1962. Nel 1951 in Libia viene restaurata la monarchia, nel 1956 Marocco e Tunisia sono indipendenti. Falliscono i tentativi di Parigi di creare una Comunità Francese in Africa e i tentativi inglesi di dare vita a Federazioni nell’Africa Occidentale e nell’Africa Centrale. In Europa nella seconda metà degli anni Cinquanta matura la convinzione che non fosse utile né possibile mantenere gli imperi così com’erano. In un primo momento, infatti, durante i primi anni dopo la seconda guerra mondiale, le potenze coloniali europee avevano fatto il massimo sforzo per conservare i loro imperi. All’inizio della cosiddetta guerra fredda e poi negli anni più significativi del braccio di ferro tra i due grandi antagonisti, Stati Uniti e Unione sovietica, il tema del colonialismo viene politicizzato fortemente e l’accelerazione del 1960 è anche una risposta politica del mondo occidentale.

Si forma una leadership preparata

Si cerca per la prima volta il modo di utilizzare le colonie per fare gli interessi economici delle potenze europee e contemporaneamente renderle politicamente accettabili per le popolazioni che le abitavano. Le colonie africane, oltre ad essere mercati garantiti verso cui indirizzare la macchina industriale europea, erano anche grosse fonti di materie prime indispensabili per l’industria e per il commercio. Ma questo processo comporta che, di fatto, a un certo punto, per la prima volta soprattutto la Francia e il Regno Unito investono nelle colonie. Si lavora per la creazione di istituzioni politiche che potessero avere come orizzonte teorico l’autogoverno, proprio per mantenere il legame.

Dieci anni prima la decolonizzazione in Asia

L’India diventa indipendente nel 1947 e negli anni successivi lo stesso avviene per la gran parte delle colonie dell’Asia meridionale e del sud-est asiatico. I movimenti indipendentisti in Africa, invece, comparvero tardi. Fu solo dopo la seconda guerra mondiale che si costituirono delle forme di organizzazione propriamente politiche legate all’osservazione e alla condivisione di ciò che era successo in Asia. Prima di allora, nessuno immaginava che gli Stati africani potessero essere indipendenti, ma che al massimo potessero sviluppare forme di rappresentatività della popolazione, di autogoverno e di autonomia, dentro dei confini molto circoscritti. Alla decolonizzazione asiatica si lega la conferenza di Bandung del 1955, che ha avuto un ruolo importante nella formazione di una coscienza comune di quello che iniziava a chiamarsi il Terzo mondo e che ha funzionato da detonatore anche per una certa classe politica africana.

L’importanza di alcune personalità

I risultati non sono gli stessi in tutti i Paesi perché le premesse non sono le stesse. Ad esempio, nell’anglofono Ghana, grande produttore di cacao e caffè, l’attività politica e la proprietà della terra erano già nelle mani degli abitanti, mentre i britannici si occupavano della commercializzazione del prodotto. Inoltre, se è il primo Paese dell’Africa subsahariana a ottenere l’indipendenza è anche grazie alla figura di Kwame Nkrumah, che, ispirandosi a Gandhi, fa della resistenza passiva uno strumento politico. Tra altre personalità africane che in quegli anni si distinguono per spessore culturale e per lo  slancio programmatico, va citato innnazitutto il politico e poeta senegalese Lèopold Sédar Senghor,  primo presidente del Senegal, in carica dal 1960 al 1980.   

Le aspettative deluse

Molti Paesi si ritrovarono indebitati, con un’industrializzazione che non era ancora decollata, e in situazioni in cui gli investimenti avevano assorbito moltissime risorse, a scapito della produzione agricola. Tutto ciò causa una crisi finanziaria complessiva a danno degli investimenti che sarebbero stati più necessari: nell’educazione, nell’alfabetizzazione, nel sistema sanitario e nell’assistenza sociale. Con l’entrata in crisi dei bilanci pubblici, si trovano in estrema difficoltà. Dal 1973, quando l’economia mondiale rallenta ed entra in crisi, tutte le fragilità emergono.

Delle energie migliori che hanno messo in moto il processo di decolonizzazione dell’Africa, delle personalità africane che si sono distinte in quel periodo, dell’accezione positiva dell’espressione Terzo mondo e delle dinamiche oppressive della guerra fredda, della parabola che dagli Anni Ottanta arriva ai giorni d’oggi tra nuove povertà e moltiplicazione dei conflitti, abbiamo parlato con Eugenio Capozzi, docente di Storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli:

Sempre più a rischio la libertà di stampa. Il Papa: dare voce a chi non ce l’ha

“Nella crisi attuale abbiamo bisogno di un giornalismo libero al servizio di tutte le persone, specialmente di quelle che non hanno voce; un giornalismo che si impegni nella ricerca della verità e apra vie di comunione e di pace”. Così il Papa in un tweet in occasione della odierna Giornata per la libertà di stampa. Dal Consiglio d’Europa il forte appello alla protezione del giornalisti a confronto con nuove misure restrittive in diversi Paesi

Fausta Speranza – Città del Vaticano


Nel messaggio diffuso in occasione della Giornata mondiale della libertà di stampa, la Segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejčinović Burić, chiede ai governi dei Paesi membri di “evitare indebite restrizioni”. Nel corso di questa crisi sanitaria, alcuni governi hanno fatto arrestare i giornalisti che avevano pubblicato notizie critiche nei confronti della gestione della pandemia e hanno anche ampliato notevolmente la sorveglianza e approvato nuove leggi per punire notizie “false”. Tra le altre problematiche messe in rilievo, ci sono anche le misure che rendono più difficile la protezione delle proprie fonti da parte dei giornalisti e le continue minacce all’indipendenza delle emittenti pubbliche, oltre a iniziative per ridurre i finanziamenti e le interferenze politiche nella governance.

L’effetto pandemia

 “La pandemia di Covid-19 sottolinea e amplifica le molte crisi che minacciano il diritto a un’informazione libera, indipendente, varia e affidabile”. È quello che si legge nell’edizione 2020 del World Press Freedom Index, pubblicata da Reporters Sans Frontières (RSF) il 21 aprile scorso. Il decennio – sottolinea Reporter Sans Frontières – sarà molto delicato e importante per il mondo del giornalismo, poiché la pandemia evidenzia e aggrava le crisi che non sempre sono denunciate liberamente a causa delle pressioni governative. Delle sfide attuali che si sono presentate con il coronavirus, della questione aperta da tempo delle interferenze delle fake news, del fondamentale rapporto tra libertà di stampa e democrazia, abbiamo parlato con il direttore della Scuola di giornalismo di Urbino, Giampiero Gramaglia:

Dati in Europa

Aumentano violenze e intimidazioni contro i media in molti dei 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa, al punto che gli attacchi alla libertà di stampa rischiano di diventare una nuova normalità. E’ quanto emerge dal rapporto annuale della Piattaforma del Consiglio d’Europa per la protezione del giornalismo e la sicurezza dei giornalisti, redatto da 14 Ong per la libertà di stampa. Nell’ultimo anno sono state documentate 142 gravi minacce, di cui 33 attacchi fisici, 17 nuovi casi di detenzione (alla fine del 2019 erano 105 i giornalisti incarcerati, 91 nella sola Turchia), 43 casi di molestie e intimidazioni, e 2 nuovi casi di impunità per omicidio. In particolare nei Paesi dell’Unione Europea, secondo Reporters Sans Frontières (Rsf), la libertà di stampa è considerata per lo più “positiva” o “soddisfacente”. Finlandia, Danimarca, Svezia e Paesi Bassi continuano a registrare i gudizi migliori, mentre Croazia, Romania, Malta, Ungheria, Bulgaria occupano le posizioni più arretrate della classifica. La Segretaria generale del Consiglio d’Europa sottolinea come i media “possono aiutare a prevenire la diffusione di panico e a mettere in luce gli esempi positivi di solidarietà nelle nostre società”.

Dati nel mondo 

Le minacce spesso si traducono in omicidi, come confermano i dati dei primi mesi del 2020: 11 i giornalisti uccisi. Nel 2019 sono stati 49 gli operatori dell’informazione assassinati. Si tratta del numero più basso degli ultimi 16 anni, ma non va necessariamente interpretato come un dato positivo per la libertà di stampa. perché in alcuni Paesi a grande rischio potrebbe significare il venir meno dell’impegno investigativo dei giornalisti. In ogni caso ci sono alcuni dati positivi, ma la situazione generale della libertà di stampa nel mondo è peggiorata, mentre è cresciuta l’ostilità nei confronti dei giornalisti.

Il numero di Paesi considerati sicuri continua a scendere: solo il 24 per cento tra i 180 Paesi ha registrato un livello di libertà di stampa ottimale o soddisfacente nel 2019, rispetto al 26 per cento del 2018 e il 27 per cento del 2017.  Nel confronto con l’anno scorso, il rapporto 2020 conferma la Cina al 177esimo posto della sua classifica, individua l’Iran al 173esimo posto (in discesa di tre posizioni), l’Iraq al 162simo (sceso di sei posizioni). Ci sono poi Medio Oriente e Nord Africa, che continuano ad essere le regioni del mondo più pericolose per gli operatori dell’informazione, mentre la regione Asia-Pacifico ha registrato il più grande aumento di violazioni alla libertà di stampa con un incremento dei casi pari all’1,7 per cento. Chiude la fila la Corea del Nord, sotto il regime di Kim Jong-un, al 180esimo posto.

La scelta del 3 maggio per la Giornata della libertà di stampa

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 3 maggio Giornata mondiale della libertà di stampa per ricordare ai governi il loro dovere di sostenere e far rispettare la libertà di espressione sancita dall’Articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. Come data si è scelto l’anniversario della Dichiarazione di Windhoek. Si tratta del documento sull’importanza fondamentale dei principi in difesa del pluralismo e dell’indipendenza dei media promulgato dai giornalisti africani a Windhoek, capitale della Namibia, a conclusione del seminario organizzato dall’Unesco dal 29 aprile al 3 maggio 1991. Il documento rappresenta il primo di una serie di dichiarazioni in tutto il mondo sull’impegno per la libertà di stampa.

da Vatican NEWS del 3 maggio 2020

Tra le mosse a sorpresa di Haftar arriva il cessate il fuoco

In Libia il generale che controlla le forze militari della Cirenaica, Khalifa Haftar, ha annunciato la “cessazione delle operazioni militari” durante il Ramadan. Si tratta di un gesto inatteso dopo che lunedì 27 aprile il generale era comparso in televisione per proclamarsi a “capo di tutta la Libia”. Nostra intervista allo studioso di geopolitica Domenico Fracchiolla

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il portavoce militare di Haftar ha sottolineato che nonostante la pausa in tutte le operazioni militari “si risponderà immediatamente e in modo duro ad ogni violazione da parte delle milizie terroristiche”. Altre volte dichiarazioni della dirigenza militare della Cirenaica non sono state applicate travolte dagli eventi sul terreno. E soprattutto questa dichiarazione di tregua arriva due giorni dopo che Haftar ha annunciato di essere stato acclamato alla guida di tutta la Libia e ha dichiarato conclusi gli accordi di Skhirat del 2015, sulla base dei quali era nato il “governo di accordo nazionale” di Tripoli. Questo passo indietro rispetto agli accordi è stato condannato dall’Onu, dagli Stati Uniti e da altri Paesi tra cui anche la Russia tradizionalmente vicina al generale.

Gli ultimi sviluppi sul campo

In questi giorni le milizie alleate del governo di Fayez Serraj, il primo ministro riconosciuto di Tripoli, circondano la città di Tarhuna, che ha rappresentato finora il più importante avamposto dello schieramento di Haftar in Tripolitania. E’ considerata la base da cui le forze della Cirenaica alimentano le linee che assediano Tripoli. Le truppe fedeli a Serraj sembrano pronte a sferrare l’attacco per conquistare Tarhuna, con il dichiarato sostegno della Turchia, ma sono in corso negoziati per evitare un bagno di sangue e la devastazione della città.

Le proposte del presidente del Parlamento per il dialogo

Il capo della Camera dei rappresentanti libica (Hor), Aqila Saleh, ha ribadito di mantenere valida la sua proposta di dialogo politico in otto punti che ha avanzato giovedì scorso. Saleh ha confermato che “non vi sono divergenze” con Haftar. Lo scrive il sito Libyan Address sintetizzando dichiarazioni fatte dopo l’annuncio di Haftar di voler prendere il potere in Libia in quello che è stato definito da più parti una sorte di golpe. Il generale Haftar, nell’annuncio dell’altro ieri sera, aveva dichiarato anche la “fine dell’accordo di Skhirat” del dicembre 2015 riconosciuto dall’Hor e questo aveva autorizzato molti a parlare di rivolta di Haftar contro il Parlamento di Tobruk, peraltro già indebolito dalla scissione di una trentina di deputati che si riuniscono a Tripoli. Saleh ha affermato che la propria iniziativa politica “non contraddice le recenti dichiarazioni di Haftar”.

L’appello della Tunisia 

Di fronte agli ultimi sviluppi della situazione in Libia, la Tunisia ribadisce “la sua posizione costante nei confronti della crisi libica basata sulla legalità internazionale e sul rispetto della volontà del popolo libico”. E’ quanto si legge nel comunicato del ministero degli Esteri di Tunisi. Il Paese nordafricano sottolinea la necessità di “rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, in particolare la n. 2259 del 23 dicembre 2015, che determina le istituzioni legali riconosciute a livello internazionale come previsto dall’accordo politico libico, il quadro giuridico per una soluzione politica”. In questo delicato contesto, attraversato dalla vicina Libia, la Tunisia ribadisce la sua richiesta di una soluzione politica globale e duratura basata su un dialogo inter-libico che esprima la volontà del popolo libico sotto gli auspici delle Nazioni Unite e lontano da qualsiasi intervento straniero”. Nella nota si legge inoltre che Tunisi chiede “un accordo che preservi l’integrità territoriale e la sovranità della Libia e risparmi il suo popolo dagli effetti tragici del conflitto e del caos”.

Per riflettere sulle ultime dichiarazioni e decisioni di Haftar, sul ruolo delle forze in campo, sulle potenze internazionali coinvolte, sui rischi di una situazione esplosiva che richiederebbe un approccio realmente multilaterale e una roadmap precisa, abbiamo intervistato Domenico Fracchiolla, docente di Relazioni internazionali alla Luiss e all’Università di Salerno:

da Vatican NEWS del 30 aprile 2020

Medio Oriente: centinaia di migliaia di persone accanto ai “Combattenti per la pace”

200.000 persone si sono collegate ieri sera via web per seguire la 15esima edizione della cerimonia di Combatants for peace, l’organizzazione che riunisce israeliani e palestinesi che rifiutano la logica della violenza, promuovendo la conoscenza e l’ascolto reciproci. Con noi Maya di Tel Aviv e Osama di Ramallah

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A causa della pandemia, non c’è stato alcun incontro fisico in uno dei luoghi tra Israele e Territori palestinesi che da 15 anni ospitano la Memorial Ceremony in ricordo di tutte le vittime del conflitto israelo-palestinese. A livello virtuale, grazie ai social media, l’abbraccio tra israeliani e palestinesi c’è stato e, anzi, quest’anno è stato davvero virale: alla piattaforma hanno aderito migliaia e migliaia di persone non solo dalle zone interessate ma da tutto il mondo.

Si tratta di una cerimonia voluta dall’associazione Combattenti per la pace nello stesso giorno – il quarto del mese di lyar, cioè l’ottavo del mese ebraico – in cui da decenni Israele celebra lo Yom HaZikaron, una giornata per le vittime di violenza.

La sfida della pace e l’esperienza dell’isolamento

L’obiettivo dell’associazione Combatants for peace non è di elaborare o sostenere strategie politiche, ma di offrire un’alternativa all’odio che può scaturire dal dolore e far levare la voce di quanti, da una parte e dall’altra, rifiutano armi e violenza. In tanti raccontano la stessa sensazione di fronte all’uccisione di persone care: di essere a un bivio, di dover scegliere se lasciare che lo strazio diventi rancore, oppure farne uno strumento di lotta contro ogni logica di conflitto.

La particolare situazione dovuta ai rischi del Covid-19 è stata un’occasione in più: ne è convinta Maya Katz, che nove anni fa ha aderito a Combatants for peace dopo aver perso in un attentato amici fraterni. L’abbiamo raggiunta telefonicamente a Tel Aviv:

R. – Ho deciso di essere parte di questo gruppo perché saremmo stati insieme, israeliani e palestinesi – e all’improvviso ho riconosciuto il collegamento speciale, la responsabilità speciale che in questo gruppo ognuno ha nei riguardi dell’altro. Ed è stata una sensazione veramente forte, potente …

Secondo te, qual è il cammino verso la pace?

R. – Non so come rispondere a questa domanda. Credo che non lo sappia nessuno … Io però so che qualcosa potrà cambiare solamente con il cambiamento nelle persone, nei rapporti tra le persone sul terreno; so che potremo risolvere questo problema soltanto se uniremo le forze e se cammineremo insieme, israeliani e palestinesi.

Che significato ha avuto la cerimonia quest’anno in piena pandemia?

R. Questa è la sola via per rompere questo cerchio di violenze. In realtà ci troviamo in una situazione unica, particolare, perché ambedue le parti si trovano di fronte alla stessa minaccia, alla stessa violenza e penso che il Covid-19 ci ha fornito un’ulteriore ragione per la quale dovremmo impegnarci al massimo per comunicare e per agire insieme, perché ora c’è in gioco qualcosa di più grande di noi.

 Come Maya, anche Osama Elawat sottolinea l’urgenza di spezzare la spirale di violenza che si innesta con le guerre. Anche Osama piange suoi familiari e suoi amici vittime delle armi, mentre il processo di pace israelo-palestinese è da anni in stallo, e spiega così il senso della sua adesione a Combatants for peace:

R. – Il significato è quello di far sì che stiamo insieme e ricordiamo le nostre vittime, le persone care che hanno perso la vita in questo conflitto. E’ un messaggio alla gente, ai combattenti, a tutti i governi: noi non vogliamo perdere altre vite. Non importa chi ha ragione e chi ha torto. Capisco tutto, ma cerchiamo di difendere la nostra umanità e smettiamo di ucciderci gli uni con gli altri, per qualsiasi ragione sia. Difendiamo le famiglie, le madri, i padri, le sorelle che hanno perso persone che amavano in questo conflitto e uniamoci per sostenerci a vicenda, perché siamo esseri umani. Io ho perso tantissimi cari: ho perso i vicini, ho perso gli amici, ho perso persone che erano molto care al mio cuore, non voglio perderne altre. E le persone che fanno questi discorsi come me sono famiglie che hanno perso i figli, le figlie, i padri, i fratelli, le persone amate. In realtà, anche gli altri come me parlano per esperienza e loro stanno scegliendo un’altra via. Loro sanno che questo circolo di violenza non ci porterà a niente. Ci sono persone di questa terra, che vivono qui e che credono nella pace e che vogliono vivere in pace. Noi non vogliamo armi e non vogliamo denaro: vogliamo che si prendano decisioni che portino cambiamenti, che ci si assumano responsabilità e che si assicuri la possibilità, in tutti e due i Paesi, in Israele e in Palestina, di vivere in pace. Vi prego, impegnatevi per noi, sosteneteci e ascoltate la nostra voce.

da Vatican NEWS del 28 aprile 2020

Non più pena di morte per i minori in Arabia Saudita

Dopo aver abolito di fatto la fustigazione, Riad cancella la pena capitale per i crimini commessi da minori. L’anno scorso il numero di esecuzioni capitali è diminuito nel mondo ma l’Arabia Saudita ha raggiunto invece un triste record. Con noi Riccardo Noury portavoce di Amnesty International

Fausta  Speranza – Città del Vaticano

Una nota dal presidente della Commissione per i Diritti Umani, Awwad Alawwad, spiega che la pena di morte viene eliminata in Arabia Saudita per i crimini commessi quando il condannato era minorenne. La decisione rientra nella spinta riformista promossa dal principe Mohammed bin Salman. L’anno scorso Riad ha raggiunto un triste record in termini di esecuzioni capitali con 184 persone messe a morte ha raggiunto il valore più alto mai registrato da Amnesty International, in un anno, nel Paese.

La pena capitale nel mondo

In generale nel mondo diminuiscono le esecuzioni: l’ultimo rapporto pubblicato nei giorni scorsi da Amnesty international ha documentato un 5 per cento in meno rispetto al 2018, confermando una riduzione in corso negli ultimi anni. E Riad con Teheran e Baghdad rappresentano i tre Stati che da soli sono responsabili dell’81 per cento delle sentenze capitali nel mondo. Sono state almeno 657 le esecuzioni nel mondo lo scorso anno e oltre 2300 le condanne a morte comminate. Nelle statistiche non compare la Cina dove i dati sulla pena capitale continuano a essere classificati come segreto di Stato. Tra le tendenze più incoraggianti, il calo, per la prima volta dal 2011, del numero di Paesi esecutori nella regione Asia e Pacifico con Giappone e Singapore che hanno ridotto drasticamente il numero di persone messe a morte, l’annuncio da parte del Presidente della Guinea Equatoriale della presentazione di un progetto di legge per l’abolizione della pena capitale, l’eliminazione della pena di morte con mandato obbligatorio nelle Barbados.

Cosa sta cambiando in Arabia Saudita

Al posto dell’esecuzione, “il condannato riceverà invece una pena detentiva per non oltre 10 anni in una struttura carceraria per minorenni”: è quanto si specifica nella nota della Commissione per i diritti umani.  Dovrebbero essere risparmiati alla pena capitale, dunque, tredici condannati, tra cui sei rappresentanti della minoranza sciita nel Paese, tutti minorenni al momento della sentenza, come sottolinea Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, che commenta  anche altri provvedimenti di Riad, ma che innanzitutto si augura che l’annuncio della Commissione diventi presto un decreto reale:

da Vatican NEWS del 27 aprile 2020

Via libera del Consiglio Ue al Recovery Fund

Il Consiglio europeo ha approvato il fondo di aiuti insieme con gli altri provvedimenti economici presi, ad esempio, contro la disoccupazione, per venire incontro ai Paesi più colpiti dal Coronavirus. Il pacchetto di misure consiste in cifre considerevoli ma non è ancora deciso se la parte del cosiddetto Recovery Fund sarà in qualità di finanziamento o di prestito. Con noi l’economista Paolo Guerrieri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

I capi di Stato e di governo riuniti (virtualmente) nel Consiglio europeo hanno subito approvato le misure su cui i loro ministri delle Finanze avevano già trovato l’accordo. Hanno approvato anche il cosiddetto Recovery Fund ma dando l’incarico di concretizzare le modalità alla Commissione europea, che è chiamata a presentare proposte entro il 6 maggio.

Le misure subito operative

Via libera al pacchetto fino a 540 miliardi di euro con nuovi prestiti per le imprese da parte della Banca europea per gli investimenti (Bei) e al cosiddetto Sure (sicuro) da 100 miliardi per integrare i fondi per la cassa integrazione nei Paesi membri e al Fondo salva-Stati (Mes) per le spese sanitarie. Queste misure saranno operative entro inizio giugno. A frenare il nervosismo dei mercati è stata la Banca centrale europea (Bce).

L’approvazione del Recovery Fund

Due settimane fa, i ministri delle Finanze si erano trovati d’accordo solo nel dire che di Recovery Fund se ne sarebbe parlato più avanti in occasione del prossimo Consiglio. Questa era già stata una concessione strappata in extremis ai Paesi del Nord, a partire dall’Olanda, da sempre contrari a qualsiasi forma di mutualizzazione dei debiti. In queste ultime settimane, però, i timori sulle conseguenze del lockdown sull’economia e sull’occupazione si sono esasperati anche per i drammatici dati sulla perdita del Pil forniti, tra gli altri, dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Bce. E’ arrivato, dunque, anche il via libera per il Recovery Fund, ma è stato dato mandato alla Commissione di elaborare una proposta entro due settimane che possa delineare i dettagli tecnici.

I nodi da sciogliere

Si dovranno definire questioni di non poco conto. Innanzitutto, quella dell’ammontare complessivo del Fondo. Alcuni leader si sono spinti a dire che non si tratterà solo di miliardi, ma di migliaia di miliardi, senza però fornire ulteriori chiarimenti. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha affermato che i versamenti degli Stati potrebbero addirittura raddoppiare, quanto meno per alcuni anni. Non è chiaro però se l’aumento sarà uguale per tutti i Paesi. L’idea è quella di poter usare il (più consistente) bilancio Ue quale garanzia per una emissione comune di titoli tripla A, sui quali, quindi, pagare un basso tasso di interesse. Non è chiaro come verranno ripagati i titoli in scadenza. Una parte potrebbe venire da nuove risorse proprie della Commissione (ad esempio tramite imposte comuni su attività inquinanti), mentre un’altra parte potrebbe essere pagata dai Paesi sulla base di quanto avranno ricevuto. In definitiva, bisogna capire se si tratterà di finanziamenti o di prestiti da ripagare. Un altro punto chiave è la tempistica. Per utilizzare il bilancio Ue 2021-2027 questo dovrebbe essere approvato in fretta. Ma, anche se così fosse, potrebbe essere utilizzato solo a partire dal prossimo anno. I Paesi del Sud hanno insistito nel sottolineare l’assoluta urgenza del fondo auspicandone l’attivazione nella seconda metà di quest’anno. Si potrebbe trovare un modo per utilizzare prima, almeno in parte, risorse comuni destinate al periodo 2021-2027. Delle incognite che restano, delle misure già messe in campo dalla Banca centrale europea (Bce), di quelle previste per inizio giugno, ma anche delle dinamiche politiche che accompagnano il dibattito tra Paesi europei e della solidarietà, che non solo è doverosa ma conviene a tutti, abbiamo parlato con l’economista Paolo Guerrieri:

I dati mostrano quanto la crisi per l’emergenza Covid-19 ovviamente sia simmetrica ma con potenziali diverse conseguenze nei vari Paesi: più pesanti per la Spagna e per l’Italia, molto meno per i Paesi del Nord. Il divario tra Nord e Sud aumenterà anche in relazione alla disoccupazione. Un gap che rischia di diventare socialmente e politicamente insopportabile  se non si trovano ingenti risorse di sostegno all’economia e all’occupazione. Inizia a delinearsi anche l’enorme impatto del lockdown in termini di indebitamento su tutti i Paesi membri, che sarà ancora una volta maggiore (di molto) per quelli del Sud. Sull’impennata dell’indebitamento poco potrà fare il pacchetto di misure già approvato. Anzi, sia il Sure che il Mes opereranno concedendo prestiti ai Paesi e ne faranno quindi lievitare il debito pubblico, anche se meno rispetto al reperimento delle stesse risorse sui mercati. Con le sue ultime misure – a partire dal programma di acquisto dei titoli (Pepp) che mette in campo oltre 1.000 miliardi – sta guadagnando tempo prezioso. Purtroppo però l’intervento della Bce non potrà proseguire all’infinito. Al ritmo dei recenti acquisti di titoli pubblici e privati la sua capacità potrebbe esaurirsi già entro ottobre. Inoltre, le principali agenzie di rating potrebbero declassare il debito dei Paesi del Sud dell’Eurozona (Italia inclusa) fino a rendere impossibile l’acquisto dei relativi titoli da parte della Bce in quanto junk bond. Già oggi la Bce sta derogando alla regola che gli imporrebbe di acquistare da ogni Paese una percentuale di titoli non superiore alla quota che il Paese detiene nel capitale della banca stessa. Una deroga che però non può essere a tempo indeterminato perché le regole europee lo vietano. L’eccesso di acquisti di titoli da un Paese dovrebbe essere compensato da un maggiore acquisto di titoli dagli altri Paesi in un momento successivo. La Corte di Giustizia europea o, a livello nazionale, anche una alta Corte (non ultima la Corte costituzionale tedesca) potrebbero bloccare l’intervento della Bce ritenendolo (invero con qualche ragione) un salvataggio di uno o più Paesi membri, cosa proibita dai Trattati. Insomma, come da tempo va ripetendo la stessa presidente Lagarde, la Bce fa la sua parte ma non può fare tutto da sola. Da qui l’esigenza del Recovery Fund.

da Vatican NEWS del 24 aprile 2020

Dieci anni fa la marea nera nel Golfo del Messico

E’ stato subito considerato il più grave disastro ambientale nella storia degli Stati Uniti, ma i danni causati dalla perdita di petrolio dalla piattaforma Deepwater Horizon nell’aprile del 2010, nelle acque del Golfo del Messico, sono stati il 30 per cento superiori a quanto stimato allora. Le interviste a Emanuele Riccardi, giornalista sul luogo, e Giorgia Monti di Greenpeace

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo l’esplosione, avvenuta esattamente il 20 aprile di dieci anni fa sulla piattaforma della British Petroleum (Bp) e costata la vita a 11 dei 126 uomini a bordo, per 87 giorni proseguì lo sversamento in mare del petrolio. Il mondo si allarmò e la compagnia petrolifera si impegnò a contenere i danni e a gestire la bonifica. Ma lo studio pubblicato nei giorni scorsi su “Science Advances” – redatto da ricercatori delle Università di Miami, della Georgia e del South Florida – documenta che “il petrolio tossico e invisibile si diffuse ben oltre l’impronta satellitare resa nota subito dopo la fuoriuscita di petrolio dalla Deepwater Horizon”. I danni della marea nera nel Golfo del Messico, dunque, sono stati sottostimati.

L’impatto sul momento

Il 15 luglio 2010, la BP dichiarava di essere riuscita a tappare la perdita del greggio, pur non essendo ancora sicura di quanto tempo avrebbe potuto resistere quest’ultima soluzione. Secondo le stime della BP stessa, al 15 luglio erano già stati riversati in mare tra i 3 e i 5 milioni di barili di petrolio, ovvero tra le 460.000 e le 800.000 tonnellate. Due mesi dopo, a settembre, il pozzo sarebbe stato definitivamente sigillato. La pubblicazione su “Science Advances” fa notare che subito dopo il disastro furono valutate le immagini satellitari che si basavano sui dati del National environmental satellite, data, and information service (Nesdis). Era difficile rendersi conto dell’entità della fuoriuscita non recuperabile, come conferma Emanuele Riccardi, corrispondente dell’agenzia Ansa inviato sul luogo subito dopo la notizia dell’esplosione:

La reale entità delle conseguenze per l’ecoambiente

Oggi il team di ricerca delle tre università statunitensi ha utilizzato simulazioni al computer tridimensionali per tracciare il petrolio, notando discrepanze sostanziali tra i nuovi risultati e le stime precedenti, perché alcune concentrazioni di petrolio più piccole spesso sfuggono alle rilevazioni satellitari. Hanno confrontato i dati emersi dalle tecniche di modellazione del trasporto di petrolio con i dati di telerilevamento e campionamento in mare per fornire una visione completa dello sversamento di petrolio. E’ emerso che una parte della perdita di petrolio è rimasta invisibile per i satelliti ma non per questo meno “tossica per la fauna marina”. La Bp ha fatto sapere di aver stanziato nei due anni successivi circa sette miliardi per risarcire privati e circa 25 miliardi per i governi degli Stati coinvolti. Nulla può cancellare i danni per l’ecosistema marino, per le specie animali aquatiche ma anche per uccelli migratori, per le popolazioni interessate, per le attività produttive,  come spiega Giorgia Monti, responsabile della campagna mare di Greenpeace-Italia:

Il petrolio e le sostanze chimiche disperdenti rilasciate sul luogo del disastro contaminano la popolazione locale nel breve e medio termine per via inalatoria; nel lungo termine per via orale, come conseguenza dell’accumulo degli idrocarburi nella catena alimentare. Le prime specie animali vittime del disastro sono state quelle di dimensioni più piccole e alla base della catena alimentare, come ad esempio il placton. Sono seguite le specie di dimensioni via via maggiori che sono state contaminate direttamente dagli idrocarburi e dalle sostanze chimiche disperdenti oppure indirettamente per essersi alimentate di animali contaminati. Fra le specie coinvolte, numerose specie di pesci e varie specie di uccelli delle rive o migratori come i pellicani. Gli agenti disperdenti,  ovvero le sostanze chimiche utilizzate per disperdere gli idrocarburi in parti più piccole e per farli precipitare sul fondale del mare, hanno consentito di eliminare la marea nera della superficie tuttavia non riducendo la quantità di greggio disperso nell’ambiente e depostosi sul fondo a oltre 1600 metri di profondità.

Il più grave ma non l’ultimo dei disastri nella zona

Lo sversamento di dieci anni fa superò oltre dieci volte per entità quello della petroliera Exxon Valdez che era avvenuto nel 1989, diventando il disastro ambientale più grave, noto come la “marea nera”. Ma non è stato l’ultimo in ordine di tempo nel Golfo del Messico. Ce ne sono stati almeno due molto seri. Il primo, anche se contenuto nei danni, è avvenuto solo quattro mesi e mezzo dopo quello della Deepwater Horizon. Un’altra piattaforma petrolifera è andata in fiamme nel Golfo del Messico, a pochi chilometri dal luogo dell’esplosione della piattaforma della Bp. Il panico si è diffuso rapidamente tra la popolazione del Golfo all’idea di un’altra catastrofe ambientale, ma l’incidente non ha causato vittime e non ha provocato forti perdite di petrolio nel mare. Salvi i 13 operai presenti. Ci sono state invece conseguenze quando tra l’11 e il 12 ottobre 2017, oltre 9.000 barili di petrolio si sono riversati nelle acque del Golfo del Messico a causa dello scoppio di condutture sottomarine avvenuto a circa 65 chilometri di distanza dalle coste di Venice, in Louisiana.

da Vatican NEWS del 21 aprile