Non più pena di morte per i minori in Arabia Saudita

Dopo aver abolito di fatto la fustigazione, Riad cancella la pena capitale per i crimini commessi da minori. L’anno scorso il numero di esecuzioni capitali è diminuito nel mondo ma l’Arabia Saudita ha raggiunto invece un triste record. Con noi Riccardo Noury portavoce di Amnesty International

Fausta  Speranza – Città del Vaticano

Una nota dal presidente della Commissione per i Diritti Umani, Awwad Alawwad, spiega che la pena di morte viene eliminata in Arabia Saudita per i crimini commessi quando il condannato era minorenne. La decisione rientra nella spinta riformista promossa dal principe Mohammed bin Salman. L’anno scorso Riad ha raggiunto un triste record in termini di esecuzioni capitali con 184 persone messe a morte ha raggiunto il valore più alto mai registrato da Amnesty International, in un anno, nel Paese.

La pena capitale nel mondo

In generale nel mondo diminuiscono le esecuzioni: l’ultimo rapporto pubblicato nei giorni scorsi da Amnesty international ha documentato un 5 per cento in meno rispetto al 2018, confermando una riduzione in corso negli ultimi anni. E Riad con Teheran e Baghdad rappresentano i tre Stati che da soli sono responsabili dell’81 per cento delle sentenze capitali nel mondo. Sono state almeno 657 le esecuzioni nel mondo lo scorso anno e oltre 2300 le condanne a morte comminate. Nelle statistiche non compare la Cina dove i dati sulla pena capitale continuano a essere classificati come segreto di Stato. Tra le tendenze più incoraggianti, il calo, per la prima volta dal 2011, del numero di Paesi esecutori nella regione Asia e Pacifico con Giappone e Singapore che hanno ridotto drasticamente il numero di persone messe a morte, l’annuncio da parte del Presidente della Guinea Equatoriale della presentazione di un progetto di legge per l’abolizione della pena capitale, l’eliminazione della pena di morte con mandato obbligatorio nelle Barbados.

Cosa sta cambiando in Arabia Saudita

Al posto dell’esecuzione, “il condannato riceverà invece una pena detentiva per non oltre 10 anni in una struttura carceraria per minorenni”: è quanto si specifica nella nota della Commissione per i diritti umani.  Dovrebbero essere risparmiati alla pena capitale, dunque, tredici condannati, tra cui sei rappresentanti della minoranza sciita nel Paese, tutti minorenni al momento della sentenza, come sottolinea Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, che commenta  anche altri provvedimenti di Riad, ma che innanzitutto si augura che l’annuncio della Commissione diventi presto un decreto reale:

da Vatican NEWS del 27 aprile 2020

Via libera del Consiglio Ue al Recovery Fund

Il Consiglio europeo ha approvato il fondo di aiuti insieme con gli altri provvedimenti economici presi, ad esempio, contro la disoccupazione, per venire incontro ai Paesi più colpiti dal Coronavirus. Il pacchetto di misure consiste in cifre considerevoli ma non è ancora deciso se la parte del cosiddetto Recovery Fund sarà in qualità di finanziamento o di prestito. Con noi l’economista Paolo Guerrieri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

I capi di Stato e di governo riuniti (virtualmente) nel Consiglio europeo hanno subito approvato le misure su cui i loro ministri delle Finanze avevano già trovato l’accordo. Hanno approvato anche il cosiddetto Recovery Fund ma dando l’incarico di concretizzare le modalità alla Commissione europea, che è chiamata a presentare proposte entro il 6 maggio.

Le misure subito operative

Via libera al pacchetto fino a 540 miliardi di euro con nuovi prestiti per le imprese da parte della Banca europea per gli investimenti (Bei) e al cosiddetto Sure (sicuro) da 100 miliardi per integrare i fondi per la cassa integrazione nei Paesi membri e al Fondo salva-Stati (Mes) per le spese sanitarie. Queste misure saranno operative entro inizio giugno. A frenare il nervosismo dei mercati è stata la Banca centrale europea (Bce).

L’approvazione del Recovery Fund

Due settimane fa, i ministri delle Finanze si erano trovati d’accordo solo nel dire che di Recovery Fund se ne sarebbe parlato più avanti in occasione del prossimo Consiglio. Questa era già stata una concessione strappata in extremis ai Paesi del Nord, a partire dall’Olanda, da sempre contrari a qualsiasi forma di mutualizzazione dei debiti. In queste ultime settimane, però, i timori sulle conseguenze del lockdown sull’economia e sull’occupazione si sono esasperati anche per i drammatici dati sulla perdita del Pil forniti, tra gli altri, dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Bce. E’ arrivato, dunque, anche il via libera per il Recovery Fund, ma è stato dato mandato alla Commissione di elaborare una proposta entro due settimane che possa delineare i dettagli tecnici.

I nodi da sciogliere

Si dovranno definire questioni di non poco conto. Innanzitutto, quella dell’ammontare complessivo del Fondo. Alcuni leader si sono spinti a dire che non si tratterà solo di miliardi, ma di migliaia di miliardi, senza però fornire ulteriori chiarimenti. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha affermato che i versamenti degli Stati potrebbero addirittura raddoppiare, quanto meno per alcuni anni. Non è chiaro però se l’aumento sarà uguale per tutti i Paesi. L’idea è quella di poter usare il (più consistente) bilancio Ue quale garanzia per una emissione comune di titoli tripla A, sui quali, quindi, pagare un basso tasso di interesse. Non è chiaro come verranno ripagati i titoli in scadenza. Una parte potrebbe venire da nuove risorse proprie della Commissione (ad esempio tramite imposte comuni su attività inquinanti), mentre un’altra parte potrebbe essere pagata dai Paesi sulla base di quanto avranno ricevuto. In definitiva, bisogna capire se si tratterà di finanziamenti o di prestiti da ripagare. Un altro punto chiave è la tempistica. Per utilizzare il bilancio Ue 2021-2027 questo dovrebbe essere approvato in fretta. Ma, anche se così fosse, potrebbe essere utilizzato solo a partire dal prossimo anno. I Paesi del Sud hanno insistito nel sottolineare l’assoluta urgenza del fondo auspicandone l’attivazione nella seconda metà di quest’anno. Si potrebbe trovare un modo per utilizzare prima, almeno in parte, risorse comuni destinate al periodo 2021-2027. Delle incognite che restano, delle misure già messe in campo dalla Banca centrale europea (Bce), di quelle previste per inizio giugno, ma anche delle dinamiche politiche che accompagnano il dibattito tra Paesi europei e della solidarietà, che non solo è doverosa ma conviene a tutti, abbiamo parlato con l’economista Paolo Guerrieri:

I dati mostrano quanto la crisi per l’emergenza Covid-19 ovviamente sia simmetrica ma con potenziali diverse conseguenze nei vari Paesi: più pesanti per la Spagna e per l’Italia, molto meno per i Paesi del Nord. Il divario tra Nord e Sud aumenterà anche in relazione alla disoccupazione. Un gap che rischia di diventare socialmente e politicamente insopportabile  se non si trovano ingenti risorse di sostegno all’economia e all’occupazione. Inizia a delinearsi anche l’enorme impatto del lockdown in termini di indebitamento su tutti i Paesi membri, che sarà ancora una volta maggiore (di molto) per quelli del Sud. Sull’impennata dell’indebitamento poco potrà fare il pacchetto di misure già approvato. Anzi, sia il Sure che il Mes opereranno concedendo prestiti ai Paesi e ne faranno quindi lievitare il debito pubblico, anche se meno rispetto al reperimento delle stesse risorse sui mercati. Con le sue ultime misure – a partire dal programma di acquisto dei titoli (Pepp) che mette in campo oltre 1.000 miliardi – sta guadagnando tempo prezioso. Purtroppo però l’intervento della Bce non potrà proseguire all’infinito. Al ritmo dei recenti acquisti di titoli pubblici e privati la sua capacità potrebbe esaurirsi già entro ottobre. Inoltre, le principali agenzie di rating potrebbero declassare il debito dei Paesi del Sud dell’Eurozona (Italia inclusa) fino a rendere impossibile l’acquisto dei relativi titoli da parte della Bce in quanto junk bond. Già oggi la Bce sta derogando alla regola che gli imporrebbe di acquistare da ogni Paese una percentuale di titoli non superiore alla quota che il Paese detiene nel capitale della banca stessa. Una deroga che però non può essere a tempo indeterminato perché le regole europee lo vietano. L’eccesso di acquisti di titoli da un Paese dovrebbe essere compensato da un maggiore acquisto di titoli dagli altri Paesi in un momento successivo. La Corte di Giustizia europea o, a livello nazionale, anche una alta Corte (non ultima la Corte costituzionale tedesca) potrebbero bloccare l’intervento della Bce ritenendolo (invero con qualche ragione) un salvataggio di uno o più Paesi membri, cosa proibita dai Trattati. Insomma, come da tempo va ripetendo la stessa presidente Lagarde, la Bce fa la sua parte ma non può fare tutto da sola. Da qui l’esigenza del Recovery Fund.

da Vatican NEWS del 24 aprile 2020

Dieci anni fa la marea nera nel Golfo del Messico

E’ stato subito considerato il più grave disastro ambientale nella storia degli Stati Uniti, ma i danni causati dalla perdita di petrolio dalla piattaforma Deepwater Horizon nell’aprile del 2010, nelle acque del Golfo del Messico, sono stati il 30 per cento superiori a quanto stimato allora. Le interviste a Emanuele Riccardi, giornalista sul luogo, e Giorgia Monti di Greenpeace

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo l’esplosione, avvenuta esattamente il 20 aprile di dieci anni fa sulla piattaforma della British Petroleum (Bp) e costata la vita a 11 dei 126 uomini a bordo, per 87 giorni proseguì lo sversamento in mare del petrolio. Il mondo si allarmò e la compagnia petrolifera si impegnò a contenere i danni e a gestire la bonifica. Ma lo studio pubblicato nei giorni scorsi su “Science Advances” – redatto da ricercatori delle Università di Miami, della Georgia e del South Florida – documenta che “il petrolio tossico e invisibile si diffuse ben oltre l’impronta satellitare resa nota subito dopo la fuoriuscita di petrolio dalla Deepwater Horizon”. I danni della marea nera nel Golfo del Messico, dunque, sono stati sottostimati.

L’impatto sul momento

Il 15 luglio 2010, la BP dichiarava di essere riuscita a tappare la perdita del greggio, pur non essendo ancora sicura di quanto tempo avrebbe potuto resistere quest’ultima soluzione. Secondo le stime della BP stessa, al 15 luglio erano già stati riversati in mare tra i 3 e i 5 milioni di barili di petrolio, ovvero tra le 460.000 e le 800.000 tonnellate. Due mesi dopo, a settembre, il pozzo sarebbe stato definitivamente sigillato. La pubblicazione su “Science Advances” fa notare che subito dopo il disastro furono valutate le immagini satellitari che si basavano sui dati del National environmental satellite, data, and information service (Nesdis). Era difficile rendersi conto dell’entità della fuoriuscita non recuperabile, come conferma Emanuele Riccardi, corrispondente dell’agenzia Ansa inviato sul luogo subito dopo la notizia dell’esplosione:

La reale entità delle conseguenze per l’ecoambiente

Oggi il team di ricerca delle tre università statunitensi ha utilizzato simulazioni al computer tridimensionali per tracciare il petrolio, notando discrepanze sostanziali tra i nuovi risultati e le stime precedenti, perché alcune concentrazioni di petrolio più piccole spesso sfuggono alle rilevazioni satellitari. Hanno confrontato i dati emersi dalle tecniche di modellazione del trasporto di petrolio con i dati di telerilevamento e campionamento in mare per fornire una visione completa dello sversamento di petrolio. E’ emerso che una parte della perdita di petrolio è rimasta invisibile per i satelliti ma non per questo meno “tossica per la fauna marina”. La Bp ha fatto sapere di aver stanziato nei due anni successivi circa sette miliardi per risarcire privati e circa 25 miliardi per i governi degli Stati coinvolti. Nulla può cancellare i danni per l’ecosistema marino, per le specie animali aquatiche ma anche per uccelli migratori, per le popolazioni interessate, per le attività produttive,  come spiega Giorgia Monti, responsabile della campagna mare di Greenpeace-Italia:

Il petrolio e le sostanze chimiche disperdenti rilasciate sul luogo del disastro contaminano la popolazione locale nel breve e medio termine per via inalatoria; nel lungo termine per via orale, come conseguenza dell’accumulo degli idrocarburi nella catena alimentare. Le prime specie animali vittime del disastro sono state quelle di dimensioni più piccole e alla base della catena alimentare, come ad esempio il placton. Sono seguite le specie di dimensioni via via maggiori che sono state contaminate direttamente dagli idrocarburi e dalle sostanze chimiche disperdenti oppure indirettamente per essersi alimentate di animali contaminati. Fra le specie coinvolte, numerose specie di pesci e varie specie di uccelli delle rive o migratori come i pellicani. Gli agenti disperdenti,  ovvero le sostanze chimiche utilizzate per disperdere gli idrocarburi in parti più piccole e per farli precipitare sul fondale del mare, hanno consentito di eliminare la marea nera della superficie tuttavia non riducendo la quantità di greggio disperso nell’ambiente e depostosi sul fondo a oltre 1600 metri di profondità.

Il più grave ma non l’ultimo dei disastri nella zona

Lo sversamento di dieci anni fa superò oltre dieci volte per entità quello della petroliera Exxon Valdez che era avvenuto nel 1989, diventando il disastro ambientale più grave, noto come la “marea nera”. Ma non è stato l’ultimo in ordine di tempo nel Golfo del Messico. Ce ne sono stati almeno due molto seri. Il primo, anche se contenuto nei danni, è avvenuto solo quattro mesi e mezzo dopo quello della Deepwater Horizon. Un’altra piattaforma petrolifera è andata in fiamme nel Golfo del Messico, a pochi chilometri dal luogo dell’esplosione della piattaforma della Bp. Il panico si è diffuso rapidamente tra la popolazione del Golfo all’idea di un’altra catastrofe ambientale, ma l’incidente non ha causato vittime e non ha provocato forti perdite di petrolio nel mare. Salvi i 13 operai presenti. Ci sono state invece conseguenze quando tra l’11 e il 12 ottobre 2017, oltre 9.000 barili di petrolio si sono riversati nelle acque del Golfo del Messico a causa dello scoppio di condutture sottomarine avvenuto a circa 65 chilometri di distanza dalle coste di Venice, in Louisiana.

da Vatican NEWS del 21 aprile

Pandemia, più gravi i rischi per le zone rurali

A livello internazionale si discute molto del rallentamento economico in conseguenza del Covid-19. In particolare, è grave l’allarme per la sussistenza delle persone più vulnerabili della terra: i coltivatori. Da oggi attivo un nuovo fondo dell’ Ifad a questo scopo: ne parliamo con uno dei dirigenti dell’organismo delle Nazioni Unite, Paolo Silveri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Nel mondo, circa l’80 per cento delle persone più povere e a rischio di insicurezza alimentare vivono nelle aree rurali. Anche prima dello scoppio della pandemia, oltre 820 milioni di persone soffrivano la fame ogni giorno. Oggi l’impatto economico del coronavirus a livello mondiale potrebbe ridurre in povertà altri 500 milioni di persone. L’Ifad ha già ricevuto dai governi di oltre 65 Paesi richieste urgenti di aiuto: a rischio sono prosperità, stabilità globale e tutti i progressi ottenuti negli ultimi anni sul fronte della riduzione della povertà.

La complicazione dei trasporti

A causa della limitazione degli spostamenti, imposta per contenere il diffondersi della malattia, molti piccoli agricoltori non sono in condizione di raggiungere i mercati per vendere i loro prodotti o comprare gli strumenti necessari, come sementi o fertilizzanti. La chiusura delle principali vie di trasporto commerciale e i divieti di esportazione condizionano negativamente i sistemi agroalimentari. Intere catene di produzione rischiano di essere interrotte. Tra le categorie più vulnerabili ci sono i braccianti e quanti lavorano in piccole aziende o imprese informali, e molto spesso si tratta di donne e giovani. Inoltre, il ritorno dei lavoratori dalle città dove le attività economiche e commerciali sono state chiuse rappresenta un aggravio ulteriore per le famiglie delle aree rurali, che smetteranno anche di ricevere le rimesse di cui avevano estremo bisogno.  Per evitare danni gravi alle economie rurali, è essenziale garantire che l’agricoltura, le catene alimentari, i mercati e il commercio continuino a funzionare, come  spiega Paolo Silveri responsabile per l’Ifad dell’area dell’America Latina e dei Caraibi:

L’impegno rinnovato dell’Ifad

Lo Strumento a sostegno dei poveri delle aree rurali contro il Covid-19, stanziato oggi dall’Ifad (Fondo Internazionale delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Agricolo) aperto al contributo di molteplici donatori, intende mitigare gli effetti della pandemia sulla produzione alimentare, sull’accesso ai mercati e sull’occupazione nelle zone rurali. Intende assicurare ai contadini dei paesi più vulnerabili partecipazione tempestiva a fattori di produzione, informazione, mercati e liquidità. Ma oltre a questo proprio contributo, l’Ifad intende raccogliere almeno altri 200 milioni di dollari da Stati membri, fondazioni e settore privato. D’altra parte, non si può dimenticare che investire maggiormente sullo sviluppo rurale è una delle condizioni essenziali per pensare di raggiungere il secondo Obiettivo di sviluppo sostenibile del millennio: eliminare la fame. Ma una risposta tempestiva alla pandemia può anche essere  un’opportunità per ripensare, ricostruire i sistemi alimentari mondiali su basi più sostenibili e inclusive.

Obiettivi e priorità

Il principale obiettivo in questa fase è impedire che l’emergenza sanitaria che si vive in tutto il mondo si trasformi in una crisi alimentare. Si deve ricordare che la maggior parte delle persone più povere della terra già soffriva, prima della pandemia,  le conseguenze del cambiamento climatico oltre che il moltiplicarsi negli ultimi anni  di conflitti. E non si tratta di un allarme che tocca solo i poveri, perché una recessione economica nelle aree rurali potrebbe generare più fame e maggiore instabilità in Paesi fragili con ripercussioni per i Paesi vicini. In particolare, lo Strumento a sostegno dei poveri delle aree rurali dell’Ifad individua precise linee di intervento. Innanzitutto  si vuole fornire ai piccoli agricoltori i fattori di produzione necessari alla coltivazione dei campi, all’allevamento e alla pesca, affinché possano far fronte agli effetti immediati della crisi economica. Nello stesso tempo si pensa ad agevolare l’accesso ai mercati per aiutare i piccoli agricoltori a vendere i loro prodotti nonostante le limitazioni degli spostamenti, offrendo supporto logistico e possibilità di stoccaggio delle merci. Per far questo devono essere assicurati fondi e quindi si dovrebbe sospendere il rimborso dei prestiti al fine di mantenere servizi, mercati e posti di lavoro per i poveri delle aree rurali. C’è anche un aspetto tecnologico:  è urgente utilizzare servizi digitali per condividere informazioni essenziali su produzione, clima, finanza e mercati.

da Vatican NEWS del 20 aprile 2020

Se politica e economia accolgono l’appello del Papa

La “strada giusta” è quella “a favore della gente”. Con queste parole Papa Francesco richiama il mondo alle priorità nell’attuale gestione della crisi da pandemia e indica la via del futuro, per quando il contagio sarà passato ma resterà la crisi economica. Nel Lunedì dell’Angelo, Francesco ha anche rivolto un pensiero forte alle donne ricordando “quanto fanno in questo tempo di emergenza”. Con noi l’economista Luigino Bruni

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Papa Francesco, all’omelia della Messa mattutina del Lunedì dell’Angelo, ha lanciato un forte appello a “governanti, scienziati, politici” ricordando il dramma della corruzione.

Al momento della recita del Regina Coeli, Papa Francesco ha ricordato il ruolo delle donne in prima fila nella cura – a diverso titolo – che l’emergenza Covid 19 ha richiesto: dalle donne del settore medico-sanitario o delle forze dell’ordine alle impiegate in negozi di beni primari, o a quante gestiscono le situazioni nell’isolamento delle case dove troppe volte subiscono violenze.

Approfondendo i tanti spunti offerti dal Papa, si deve parlare delle possibili strategie di gestione della crisi, dei mali profondi delle diseguaglianze e della corruzione, ma anche del ruolo che potrebbero avere donne che portassero una logica diversa da quella del potere del più forte in politica.

Bruni: servono alternative alle logiche del potere economico

Bisogna guardare ai problemi che dilagano con maggiore gravità nei Paesi dove non c’è sinergia tra politica e scienza e dove non si ascoltano i bisogni della gente comune, sostiene ai nostri microfoni Luigino Bruni, docente di Economia politica all’Università Lumsa. Non si può dimenticare che qualunque priorità dell’economia o del capitale non può mai valere tanto quanto la vita di una persona. Inoltre, è doveroso mettere in luce alcune responsabilità che aggravano le conseguenze e le sofferenze legate alla pandemia: le profonde diseguaglianze sociali, la corruzione e l’evasione fiscale. Senza questi mali, ad esempio, un Paese come l’Italia potrebbe essere più attrezzato nel fronteggiare l’emergenza e soprattutto più forte nel relazionarsi con gli altri Paesi dell’Ue. E poi, afferma ancora Bruni, c’è il richiamo al bisogno assoluto di un’alternativa a logiche aride di potere che, in un mondo finora guidato da uomini, sono in qualche modo logiche maschili: in questo senso, c’è bisogno di logiche alternative, logiche femminili di dialogo, di mediazione, di ricerca del bene comune:

da Vatican NEWS del 13 aprile 2020

In Bosnia la centrale elettrica preoccupa quanto il Covid 19

Crescono i contagi da coronavirus in Bosnia e le strutture sanitarie sono già in gravi difficoltà. A preoccupare, in particolare, è la situazione della zona di Tuzla, dove la gente, nonostante la pandemia, scende in piazza contro la discussa centrale a carbone che nel silenzio generale incrementa l’attività e il livello delle pericolose scorie prodotte. Con noi lo scrittore esperto dell’area dei Balcani Luca Leone

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Bosnia Erzegovina ha decretato lo stato di emergenza, ha chiuso i propri confini e ha iniziato ad applicare misure restrittive per fare fronte alla diffusione del Covid 19 già da una settimana. Ufficialmente i contagi da Coronavirus ad oggi sono circa un migliaio con una quarantina di decessi, ma le cifre sono destinate ad aumentare.

La guerra e i suoi strascichi

Il conflitto in Bosnia ed Erzegovina è scoppiato nell’ambito delle cosiddette guerre jugoslave, tra il 1º marzo 1992 e il 14 dicembre 1995, quando la stipula dell’accordo di Dayton ha posto ufficialmente fine alle ostilità tra serbi, croati, bosgnacchi, cioè bosniaci musulmani. Da allora è storia di difficile ricostruzione mentre centinaia e centinaia di giovani lasciano ogni anno il Paese per mancanza di prospettive. Lamentano un alto tasso di disoccupazione e di corruzione nel Paese che conta circa 3 milioni di abitanti.

Al momento della guerra, l’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha parlato di “una guerra mondiale nascosta”, spiegando che tutte le forze mondiali erano “implicate direttamente o indirettamente” e aggiungendo: “sulla Bosnia ed Erzegovina si sono spezzate tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo millennio”.

Di quel conflitto la Bosnia ancora sta pagando care le conseguenze, a partire da strutture sanitarie che già normalmente sono insufficienti rispetto ai bisogni della popolazione e che di fronte alla pandemia stanno palesando tutte le carenze. E ancora sembra avvertire il coinvolgimento di tante realtà internazionali, visti gli interessi sul territorio da parte di tanti Paesi. Dell’emergenza coronavirus, delle più importanti questioni sociali aperte, degli investimenti in corso, abbiamo parlato con Luca Leone, giornalista che da anni racconta le vicende dei Balcani nei suoi reportage e che di recente ha pubblicato per Infinito Edizioni il volume “La pace fredda”, dedicato alla Bosnia ed Erzegovina:

La vicenda della centrale

Nonostante l’emergenza coronavirus, nei pressi di Tuzla, terza cittadina del Paese, decine e decine di persone sono scese in piazza per bloccare i lavori di costruzione della nuova discarica per le polveri di carbone della centrale termoelettrica programmata nella frazione di Bukinje. La zona di Tuzla ha un passato industriale e un presente di forte inquinamento e disoccupazione. La minaccia per la salute pubblica proviene dall’imponente centrale a carbone da 715 megawatt, con sei unità costruite tra gli anni Sessanta e Settanta, una miniera di carbone a cielo aperto e una discarica delle polveri e di altri residui della centrale, situata appena fuori dalla città.

“Nessuno ha informato gli abitanti di Bukinje che le scorie solide e le polveri di produzione della centrale di Tuzla sarebbero state depositate qui, dove già viviamo nella polvere e nel fango” ha denunciato Goran Stojak, presidente della circoscrizione di Bukinje. Da anni gli abitanti protestano contro l’inquinamento generato dall’impianto, che, secondo uno studio indipendente realizzato dalla coalizione Europe Beyond Coal, sarebbe stato causa di almeno 274 morti premature.

da Vatican NEWS del 14 aprile 2020

La questione petrolio tra geopolitica e risvolti sociali

Un G20 straordinario a livello di ministri dell’Energia per discutere della questione petrolio, non di poco conto negli scenari problematici per l’economia globale in seguito alla pandemia. L’accordo tra Arabia Saudita e Russia è solo uno dei fattori in gioco di una “partita” geopolitica che coinvolge anche altri attori a livello internazionale e che ha effetti sull’economia reale di molti Paesi tra cui anche quelli emergenti. Con noi l’esperto di politiche economiche Carlo Altomonte

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Ultimo aggiornamento 11.04.2020

Russia e Arabia Saudita hanno concordato una riduzione della produzione del greggio che possa difendere i prezzi. Sembra si tratti di un taglio di 10 milioni barili al giorno per due mesi. E’ quanto contenuto nella bozza d’intesa emersa giovedì nel corso dell’incontro virtuale Opec +, ovvero del cartello dei Paesi esportatori allargato a una serie di membri esterni. L’accordo prevede che Riad riduca la sua produzione di quattro milioni di barili al giorno, Mosca di due milioni e che tutti i membri si impegnino per una compressione del 23 per cento. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump nei giorni scorsi aveva fatto pressione affinché si arrivasse al compromesso spiegando che anche la produzione record degli Stati Uniti si ridurrà “automaticamente” in base alla domanda di mercato. Mosca chiede che Washington faccia di più.

In video conferenza i ministri del G20

Dopo settimane di tensione che hanno provocato il crollo dei listini e la possibile intesa tra Riad e Mosca, di petrolio si  è parlato al G20 straordinario dei ministri dell’Energia presieduto ieri dall’Arabia Saudita senza il raggiungimento di alcuna intesa nonstante l’intesa parziale tra Stati Uniti e Messico. Dei protagonisti degli equilibri geopolitici coinvolti, delle possibili ripercussioni anche sulle economie di tanti Paesi in Medio Oriente, in Africa, in America Latina, ma anche del piano finanziario, e dunque degli scenari di rischio per la Borsa di New York, o delle prospettive di energie rinnovabili da non perdere di vista nell’emergenza pandemia, abbiamo parlato con Carlo Altomonte, docente di Politiche economiche all’Università Bocconi:

Gli sviluppi di settimane di tensione

In questo inizio di anno segnato dall’epidemia in Cina e poi dalla pandemia, il prezzo del greggio ha avuto significative oscillazioni, dopo anni in cui ci ha abituato a ridimensionare il valore sul mercato. Il 9 marzo i sauditi, primi produttori al mondo, hanno deciso a sorpresa di aumentare la produzione deprimendo ulteriormente i prezzi già in caduta libera per il collasso della domanda (in particolare cinese) causato dall’epidemia. L’annuncio ha causato il crollo del prezzo, sia sul mercato azionario che obbligazionario, più pronunciato dal 1991, ovvero dalla prima guerra del Golfo. La settimana precedente Mosca aveva respinto la richiesta dell’Opec di tagliare la produzione per sostenere i corsi, sciogliendo di fatto un patto di mutuo soccorso siglato quattro anni fa.

Gli interessi geopolitici

Il crollo del prezzo conseguente alla decisione di Riad, secondo gli analisti, poteva avere ripercussioni anche per gli Stati Uniti: che scommettono da tempo sullo shale oil, cioè un petrolio non convenzionale prodotto dai frammenti di rocce di scisto bituminoso. Si tratta di una tecnica sostenibile se il prezzo del greggio estratto non scende sotto i 50 dollari al barile. A Mosca potrebbe non dispiacere vedere in difficoltà su questo tema Washington che ha imposto sanzioni su Rosneft, la compagnia petrolifera di proprietà in maggioranza del governo russo, ma il danno per le casse della Russia sarebbe stato oneroso.

I rischi per i Paesi emergenti

La questione petrolio ha ripercussioni di tipo geopolitico – ne sono investiti in particolare Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti – ma non solo: ci sono profonde ripercussioni anche per l’economia di alcuni Stati meno protagonisti sullo scacchiere internazionale. Basti pensare alle difficoltà in Venezuela, dove il tracollo economico degli ultimi anni ha certamente anche altre radici tra cui un’economia troppo dominata dalla risorsa del greggio, ma sicuramente ha avuto un ruolo estremamente significativo il crollo del prezzo. A catena, ci sono state ripercussioni e ci potrebbero essere in futuro per Paesi emergenti, in Medio Oriente, in Africa, in Indonesia.

Non dimenticare l’impegno per le energie rinnovabili

La Banca europea per gli investimenti smetterà di finanziare progetti basati su petrolio, gas e carbone nel 2021. E’ solo uno degli impegni previsti a livello di Unione europea per dirottare l’economia verso il consumo di energie rinnovabili, per contrastare i disastri provocati dall’inquinamento dei combustibili fossili. Sappiamo che i Paesi emergenti non saranno pronti a una conversione verso un’economia verde per almeno i prossimi dieci anni, ma è fondamentale che l’Europa porti avanti nel mondo questa battaglia. Il rischio è che nella crisi economica in conseguenza della pandemia proprio per il vecchio continente scarseggino le risorse per puntare a un’economia verde. In realtà, l’infezione da Covid 19 mostra al mondo i rischi di alterazioni dei cicli naturali. Sembra emergere, tra l’altro, un dato: la polmonite interstiziale causata dal coronavirus è stata più letale in zone ad alto inquinamento.

da Vatican NEWS del 10 aprile

L’urgenza di nuovi modelli economici di fronte alla pandemia

La gravità e l’urgenza delle conseguenze del Covid 19 per la salute pubblica e per l’economia richiedono misure immediate e specifiche. Ma soprattutto la crisi che stiamo vivendo a livello planetario esige un significativo ripensamento dei modelli economici e delle priorità in tema di flussi finanziari. Con noi l’esperto di relazioni internazionali Matteo Luigi Napolitano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A causa del coronavirus sono in difficoltà i sistemi sanitari dei Paesi ricchi con conseguenze economiche che già si palesano serie e certamente non possiamo pensare che ce la facciano da soli i Paesi poveri. L’emergenza economica non può essere risolta fino a quando non sarà stata risolta l’emergenza sanitaria e questa non finirà solo battendo la malattia in un Paese, ma garantendo il recupero dal contagio di Covid 19 in tutti i Paesi.

Appello ai leader mondiali

In una lettera ai leader del G20, alcuni politici e intellettuali – tra questi l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, gli ex presidenti della Commissione europea José Manuel Barroso e Romano Prodi,  ex capi di governo o ex presidenti di Paesi europei e dell’America Latina – chiedono che venga messa in moto un’azione coordinata immediata a livello. Chiedono aiuti di emergenza per iniziative sanitarie globali che siano gestite dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e misure di emergenza per ripristinare l’economia in tutto il mondo. In sostanza ricordano che è necessario che i leader mondiali si impegnino a finanziare importi ben superiori all’attuale capacità delle istituzioni internazionali.

L’importanza di strategie nuove

Si parla tanto di sussidi alle imprese in difficolta’, di aiuti ai poveri, ma non puo’ essere solo questione di sovvenzioni emergenziali. Bisogna ripensare alcune priorità. L’urgenza di dare una risposta nell’immediato deve essere accompagnata da un ripensamento dei modelli economici così come li abbiamo elaborati finora. Ad esempio, bisogna capire che ci vogliono più soldi alla ricerca e meno alle armi o che i Paesi poveri si possono davvero aiutare cancellando il loro debito che non saranno mai in grado di estinguere. Inoltre, il rispetto per l’ambiente non dovrebbe essere piu’ un valore teorico ma un paradigma di sopravvivenza. Di tutte queste sfide da raccogliere abbiamo parlato con Matteo Luigi Napolitano, docente di diplomazia e relazioni internazionali all’Università degli studi del Molise:

da Vatican NEWS dell’8 aprile 2020

Anche suprematisti bianchi nella lista nera di Washington

Per la prima volta gli Stati Uniti hanno inserito un movimento di suprematisti bianchi tra le organizzazioni tacciate di terrorismo. Si tratta di un gruppo nato a Mosca che ha contatti e affiliati fuori della Russia e che promuove ideali neonazisti. Con noi l’esperto di questioni della difesa Pietro Batacchi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Ormai ufficialmente il Movimento imperiale russo e tre dei suoi leader, Stanislav Vorobiev, Denis Gariev e Nikolai Trushchalov, compaiono tra i sospetti terroristi. Il vecchio sito web del gruppo è stato bandito in Russia per estremismo, ma il movimento stesso non è considerato “terrorista” da Mosca. Washington lo accusa di  fornire addestramento paramilitare ai neonazisti e ai suprematisti bianchi in due centri di San Pietroburgo, e di aver così addestrato alcuni svedesi che hanno poi effettivamente effettuato attacchi nel loro Paese tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017. Il coordinatore dell’antiterrorismo al Dipartimento di Stato, Nathan Sales, ha sottolineato che “la misura mostra quanto seriamente l’amministrazione di Donald Trump prenda seriamente la minaccia che rappresenta”. L’Amministrazione Trump ritiene che questo gruppo “svolga un ruolo importante nel tentativo di radunare europei e statunitensi in un fronte comune contro coloro che percepiscono come nemici”, ha affermato il diplomatico.

Propaganda di violenza

 Il movimento che si definisce monarchico afferma di essere in grado di allenarsi nella lotta con i coltelli e nelle arti marziali e considera “una debolezza criminale per un uomo moderno in Russia non essere un guerriero”. Lo ha ricordato Nathan Sales commentando: “Vogliamo assicurarci che non sia in grado di fare lo stesso qui negli Stati Uniti. “Gli Stati Uniti non sono immuni da questa minaccia” del “terrorismo legato al suprematismo bianco”, che si è diffuso in tutto il mondo dal 2015, ha ammesso il diplomatico.

Per una riflessione sui significati di questa decisione dell’Amministrazione Trump, abbiamo intervistato Pietro Batacchi, Direttore della Rivista Italiana Difesa:

Il pensiero va ai recenti attacchi contro le sinagoghe a Pittsburgh, dove 11 persone sono morte nell’ottobre 2018, e a Poway, in California, dove un suprematista bianco di 19 anni ha ucciso una donna e tre persone ferite nel mezzo della Pasqua ebraica nel 2019. Ma bisogna ricordare anche la sparatoria dell’estate scorsa a El Paso. In quel caso, il killer, prima di uccidere 22 clienti del supermercato, aveva scritto un manifesto in cui denunciava “un’invasione ispanica del Texas”.Per anni, molti analisti statunitensi hanno sottolineato che veniva  trascurato il cosiddetto terrorismo interno, che ha ucciso più negli Stati Uniti dal 2002 del jihadismo. A luglio scorso il direttore della polizia federale, Christopher Wray, ha assicurato che erano state aperte 850 inchieste per “terrorismo interno” e che i suoi agenti avevano effettuato cento arresti.

da Vatican NEWS del 7 aprile 2020

Centuplicati i casi di coronavirus negli Usa

Gli Stati Uniti hanno raggiunto in 24 ore il triste record di 1150 morti per Covid 19, mentre la Cina annuncia di aver azzerato le vittime. Sono in crescita i contagi in America Latina e in Africa. Dal Regno Unito la notizia che il premier Johnson è in terapia intensiva, mentre in Italia arrivano centinaia di milioni per le imprese in difficoltà e si intravede la fase discendente. Appello dell’Onu contro i mercati di fauna selvatica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In 20 giorni negli Stati Uniti i casi si sono centuplicati e si parla di blocco dei voli interni. A New York, preoccupante epicentro, in uno dei piani di emergenza si ipotizzano fosse comuni nei parchi di fronte all’emergenza sepolture. Da Chicago un dato: più della metà dei casi è nella comunità afroamericana, anche se rappresenta solo il 30 per cento della popolazione. In America Latina salgono i numeri, in Brasile resta uno solo dei 27 stati senza contagi. In Venezuela, l’allarme ha messo in moto migliaia di rimpatri dai paesi vicini, con conseguenti difficoltà.

Difficoltà nel Regno Unito

Nel Regno Unito i contagi sono circa 50.000, di cui un quinto solo a Londra. E le funzioni di capo del governo sono passate, come da regolamento, al ministro degli Esteri Dominic Raab, dopo che si sono aggravate le condizioni del primo ministro britannico, Boris Johnson, trasferito in un’unità di terapia intensiva all’ospedale St. Thomas di Londra.

Le misure economiche per l’Italia

In Italia il Consiglio dei ministri ha assegnato 450 milioni di euro al Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza. Nella penisola per il momento non c’è una data di riapertura delle attività anche se i dati fanno ben sperare: i ricoveri sono calati del 90 per cento e la terapia intensiva del 2 per cento. Austria e Danimarca, invece, annunciano il riavvio delle scuole dopo Pasqua.

I timori per l’Africa

In Africa sono stati colpiti 51 dei 54 Stati del continente e hanno registrato un totale di 9400 contagi e 442 decessi. Comore, Lesotho, Sao Tomé e Principe sono le uniche nazioni che non hanno annunciato alcuna infezione. Si tratta di numeri limitati, considerato che in Africa vivono 1,3 miliardi di persone e che il continente ha consistenti e regolari rapporti con la Cina. Ufficialmente, i tre paesi più colpiti del continente sono Sudafrica, Algeria ed Egitto. Tuttavia, il timore è che la fragilità dei sistemi sanitari del continente e la scarsità di medici – secondo l’Oms in Africa è presente solo il 3 per cento del personale medico mondiale, nonostante siano presenti sul suo territorio il 24 per cento delle malattie a livello globale – siano del tutto inadeguati ad affrontare una pandemia globale. In Kenya c’è un solo medico ogni 5.000 abitanti, mentre in Uganda c’è un solo letto di terapia intensiva per ogni milione di cittadini. Se finora il continente è stato relativamente risparmiato, non è detto che il coronavirus non possa diffondersi con conseguenze devastanti. A sottolinearlo è il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus.

Intanto, dall’Onu arriva un monito importante: il capo della Convenzione sulla biodiversità ha chiesto un divieto globale sui mercati della fauna selvatica – come quello di Wuhan, in Cina, che si ritiene sia stato il punto di partenza dell’epidemia   – per prevenire future pandemie.

da Vatican NEWS del 7 aprile 2020