Pandemia, più gravi i rischi per le zone rurali

A livello internazionale si discute molto del rallentamento economico in conseguenza del Covid-19. In particolare, è grave l’allarme per la sussistenza delle persone più vulnerabili della terra: i coltivatori. Da oggi attivo un nuovo fondo dell’ Ifad a questo scopo: ne parliamo con uno dei dirigenti dell’organismo delle Nazioni Unite, Paolo Silveri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Nel mondo, circa l’80 per cento delle persone più povere e a rischio di insicurezza alimentare vivono nelle aree rurali. Anche prima dello scoppio della pandemia, oltre 820 milioni di persone soffrivano la fame ogni giorno. Oggi l’impatto economico del coronavirus a livello mondiale potrebbe ridurre in povertà altri 500 milioni di persone. L’Ifad ha già ricevuto dai governi di oltre 65 Paesi richieste urgenti di aiuto: a rischio sono prosperità, stabilità globale e tutti i progressi ottenuti negli ultimi anni sul fronte della riduzione della povertà.

La complicazione dei trasporti

A causa della limitazione degli spostamenti, imposta per contenere il diffondersi della malattia, molti piccoli agricoltori non sono in condizione di raggiungere i mercati per vendere i loro prodotti o comprare gli strumenti necessari, come sementi o fertilizzanti. La chiusura delle principali vie di trasporto commerciale e i divieti di esportazione condizionano negativamente i sistemi agroalimentari. Intere catene di produzione rischiano di essere interrotte. Tra le categorie più vulnerabili ci sono i braccianti e quanti lavorano in piccole aziende o imprese informali, e molto spesso si tratta di donne e giovani. Inoltre, il ritorno dei lavoratori dalle città dove le attività economiche e commerciali sono state chiuse rappresenta un aggravio ulteriore per le famiglie delle aree rurali, che smetteranno anche di ricevere le rimesse di cui avevano estremo bisogno.  Per evitare danni gravi alle economie rurali, è essenziale garantire che l’agricoltura, le catene alimentari, i mercati e il commercio continuino a funzionare, come  spiega Paolo Silveri responsabile per l’Ifad dell’area dell’America Latina e dei Caraibi:

L’impegno rinnovato dell’Ifad

Lo Strumento a sostegno dei poveri delle aree rurali contro il Covid-19, stanziato oggi dall’Ifad (Fondo Internazionale delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Agricolo) aperto al contributo di molteplici donatori, intende mitigare gli effetti della pandemia sulla produzione alimentare, sull’accesso ai mercati e sull’occupazione nelle zone rurali. Intende assicurare ai contadini dei paesi più vulnerabili partecipazione tempestiva a fattori di produzione, informazione, mercati e liquidità. Ma oltre a questo proprio contributo, l’Ifad intende raccogliere almeno altri 200 milioni di dollari da Stati membri, fondazioni e settore privato. D’altra parte, non si può dimenticare che investire maggiormente sullo sviluppo rurale è una delle condizioni essenziali per pensare di raggiungere il secondo Obiettivo di sviluppo sostenibile del millennio: eliminare la fame. Ma una risposta tempestiva alla pandemia può anche essere  un’opportunità per ripensare, ricostruire i sistemi alimentari mondiali su basi più sostenibili e inclusive.

Obiettivi e priorità

Il principale obiettivo in questa fase è impedire che l’emergenza sanitaria che si vive in tutto il mondo si trasformi in una crisi alimentare. Si deve ricordare che la maggior parte delle persone più povere della terra già soffriva, prima della pandemia,  le conseguenze del cambiamento climatico oltre che il moltiplicarsi negli ultimi anni  di conflitti. E non si tratta di un allarme che tocca solo i poveri, perché una recessione economica nelle aree rurali potrebbe generare più fame e maggiore instabilità in Paesi fragili con ripercussioni per i Paesi vicini. In particolare, lo Strumento a sostegno dei poveri delle aree rurali dell’Ifad individua precise linee di intervento. Innanzitutto  si vuole fornire ai piccoli agricoltori i fattori di produzione necessari alla coltivazione dei campi, all’allevamento e alla pesca, affinché possano far fronte agli effetti immediati della crisi economica. Nello stesso tempo si pensa ad agevolare l’accesso ai mercati per aiutare i piccoli agricoltori a vendere i loro prodotti nonostante le limitazioni degli spostamenti, offrendo supporto logistico e possibilità di stoccaggio delle merci. Per far questo devono essere assicurati fondi e quindi si dovrebbe sospendere il rimborso dei prestiti al fine di mantenere servizi, mercati e posti di lavoro per i poveri delle aree rurali. C’è anche un aspetto tecnologico:  è urgente utilizzare servizi digitali per condividere informazioni essenziali su produzione, clima, finanza e mercati.

da Vatican NEWS del 20 aprile 2020

Se politica e economia accolgono l’appello del Papa

La “strada giusta” è quella “a favore della gente”. Con queste parole Papa Francesco richiama il mondo alle priorità nell’attuale gestione della crisi da pandemia e indica la via del futuro, per quando il contagio sarà passato ma resterà la crisi economica. Nel Lunedì dell’Angelo, Francesco ha anche rivolto un pensiero forte alle donne ricordando “quanto fanno in questo tempo di emergenza”. Con noi l’economista Luigino Bruni

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Papa Francesco, all’omelia della Messa mattutina del Lunedì dell’Angelo, ha lanciato un forte appello a “governanti, scienziati, politici” ricordando il dramma della corruzione.

Al momento della recita del Regina Coeli, Papa Francesco ha ricordato il ruolo delle donne in prima fila nella cura – a diverso titolo – che l’emergenza Covid 19 ha richiesto: dalle donne del settore medico-sanitario o delle forze dell’ordine alle impiegate in negozi di beni primari, o a quante gestiscono le situazioni nell’isolamento delle case dove troppe volte subiscono violenze.

Approfondendo i tanti spunti offerti dal Papa, si deve parlare delle possibili strategie di gestione della crisi, dei mali profondi delle diseguaglianze e della corruzione, ma anche del ruolo che potrebbero avere donne che portassero una logica diversa da quella del potere del più forte in politica.

Bruni: servono alternative alle logiche del potere economico

Bisogna guardare ai problemi che dilagano con maggiore gravità nei Paesi dove non c’è sinergia tra politica e scienza e dove non si ascoltano i bisogni della gente comune, sostiene ai nostri microfoni Luigino Bruni, docente di Economia politica all’Università Lumsa. Non si può dimenticare che qualunque priorità dell’economia o del capitale non può mai valere tanto quanto la vita di una persona. Inoltre, è doveroso mettere in luce alcune responsabilità che aggravano le conseguenze e le sofferenze legate alla pandemia: le profonde diseguaglianze sociali, la corruzione e l’evasione fiscale. Senza questi mali, ad esempio, un Paese come l’Italia potrebbe essere più attrezzato nel fronteggiare l’emergenza e soprattutto più forte nel relazionarsi con gli altri Paesi dell’Ue. E poi, afferma ancora Bruni, c’è il richiamo al bisogno assoluto di un’alternativa a logiche aride di potere che, in un mondo finora guidato da uomini, sono in qualche modo logiche maschili: in questo senso, c’è bisogno di logiche alternative, logiche femminili di dialogo, di mediazione, di ricerca del bene comune:

da Vatican NEWS del 13 aprile 2020

In Bosnia la centrale elettrica preoccupa quanto il Covid 19

Crescono i contagi da coronavirus in Bosnia e le strutture sanitarie sono già in gravi difficoltà. A preoccupare, in particolare, è la situazione della zona di Tuzla, dove la gente, nonostante la pandemia, scende in piazza contro la discussa centrale a carbone che nel silenzio generale incrementa l’attività e il livello delle pericolose scorie prodotte. Con noi lo scrittore esperto dell’area dei Balcani Luca Leone

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Bosnia Erzegovina ha decretato lo stato di emergenza, ha chiuso i propri confini e ha iniziato ad applicare misure restrittive per fare fronte alla diffusione del Covid 19 già da una settimana. Ufficialmente i contagi da Coronavirus ad oggi sono circa un migliaio con una quarantina di decessi, ma le cifre sono destinate ad aumentare.

La guerra e i suoi strascichi

Il conflitto in Bosnia ed Erzegovina è scoppiato nell’ambito delle cosiddette guerre jugoslave, tra il 1º marzo 1992 e il 14 dicembre 1995, quando la stipula dell’accordo di Dayton ha posto ufficialmente fine alle ostilità tra serbi, croati, bosgnacchi, cioè bosniaci musulmani. Da allora è storia di difficile ricostruzione mentre centinaia e centinaia di giovani lasciano ogni anno il Paese per mancanza di prospettive. Lamentano un alto tasso di disoccupazione e di corruzione nel Paese che conta circa 3 milioni di abitanti.

Al momento della guerra, l’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha parlato di “una guerra mondiale nascosta”, spiegando che tutte le forze mondiali erano “implicate direttamente o indirettamente” e aggiungendo: “sulla Bosnia ed Erzegovina si sono spezzate tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo millennio”.

Di quel conflitto la Bosnia ancora sta pagando care le conseguenze, a partire da strutture sanitarie che già normalmente sono insufficienti rispetto ai bisogni della popolazione e che di fronte alla pandemia stanno palesando tutte le carenze. E ancora sembra avvertire il coinvolgimento di tante realtà internazionali, visti gli interessi sul territorio da parte di tanti Paesi. Dell’emergenza coronavirus, delle più importanti questioni sociali aperte, degli investimenti in corso, abbiamo parlato con Luca Leone, giornalista che da anni racconta le vicende dei Balcani nei suoi reportage e che di recente ha pubblicato per Infinito Edizioni il volume “La pace fredda”, dedicato alla Bosnia ed Erzegovina:

La vicenda della centrale

Nonostante l’emergenza coronavirus, nei pressi di Tuzla, terza cittadina del Paese, decine e decine di persone sono scese in piazza per bloccare i lavori di costruzione della nuova discarica per le polveri di carbone della centrale termoelettrica programmata nella frazione di Bukinje. La zona di Tuzla ha un passato industriale e un presente di forte inquinamento e disoccupazione. La minaccia per la salute pubblica proviene dall’imponente centrale a carbone da 715 megawatt, con sei unità costruite tra gli anni Sessanta e Settanta, una miniera di carbone a cielo aperto e una discarica delle polveri e di altri residui della centrale, situata appena fuori dalla città.

“Nessuno ha informato gli abitanti di Bukinje che le scorie solide e le polveri di produzione della centrale di Tuzla sarebbero state depositate qui, dove già viviamo nella polvere e nel fango” ha denunciato Goran Stojak, presidente della circoscrizione di Bukinje. Da anni gli abitanti protestano contro l’inquinamento generato dall’impianto, che, secondo uno studio indipendente realizzato dalla coalizione Europe Beyond Coal, sarebbe stato causa di almeno 274 morti premature.

da Vatican NEWS del 14 aprile 2020

La questione petrolio tra geopolitica e risvolti sociali

Un G20 straordinario a livello di ministri dell’Energia per discutere della questione petrolio, non di poco conto negli scenari problematici per l’economia globale in seguito alla pandemia. L’accordo tra Arabia Saudita e Russia è solo uno dei fattori in gioco di una “partita” geopolitica che coinvolge anche altri attori a livello internazionale e che ha effetti sull’economia reale di molti Paesi tra cui anche quelli emergenti. Con noi l’esperto di politiche economiche Carlo Altomonte

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Ultimo aggiornamento 11.04.2020

Russia e Arabia Saudita hanno concordato una riduzione della produzione del greggio che possa difendere i prezzi. Sembra si tratti di un taglio di 10 milioni barili al giorno per due mesi. E’ quanto contenuto nella bozza d’intesa emersa giovedì nel corso dell’incontro virtuale Opec +, ovvero del cartello dei Paesi esportatori allargato a una serie di membri esterni. L’accordo prevede che Riad riduca la sua produzione di quattro milioni di barili al giorno, Mosca di due milioni e che tutti i membri si impegnino per una compressione del 23 per cento. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump nei giorni scorsi aveva fatto pressione affinché si arrivasse al compromesso spiegando che anche la produzione record degli Stati Uniti si ridurrà “automaticamente” in base alla domanda di mercato. Mosca chiede che Washington faccia di più.

In video conferenza i ministri del G20

Dopo settimane di tensione che hanno provocato il crollo dei listini e la possibile intesa tra Riad e Mosca, di petrolio si  è parlato al G20 straordinario dei ministri dell’Energia presieduto ieri dall’Arabia Saudita senza il raggiungimento di alcuna intesa nonstante l’intesa parziale tra Stati Uniti e Messico. Dei protagonisti degli equilibri geopolitici coinvolti, delle possibili ripercussioni anche sulle economie di tanti Paesi in Medio Oriente, in Africa, in America Latina, ma anche del piano finanziario, e dunque degli scenari di rischio per la Borsa di New York, o delle prospettive di energie rinnovabili da non perdere di vista nell’emergenza pandemia, abbiamo parlato con Carlo Altomonte, docente di Politiche economiche all’Università Bocconi:

Gli sviluppi di settimane di tensione

In questo inizio di anno segnato dall’epidemia in Cina e poi dalla pandemia, il prezzo del greggio ha avuto significative oscillazioni, dopo anni in cui ci ha abituato a ridimensionare il valore sul mercato. Il 9 marzo i sauditi, primi produttori al mondo, hanno deciso a sorpresa di aumentare la produzione deprimendo ulteriormente i prezzi già in caduta libera per il collasso della domanda (in particolare cinese) causato dall’epidemia. L’annuncio ha causato il crollo del prezzo, sia sul mercato azionario che obbligazionario, più pronunciato dal 1991, ovvero dalla prima guerra del Golfo. La settimana precedente Mosca aveva respinto la richiesta dell’Opec di tagliare la produzione per sostenere i corsi, sciogliendo di fatto un patto di mutuo soccorso siglato quattro anni fa.

Gli interessi geopolitici

Il crollo del prezzo conseguente alla decisione di Riad, secondo gli analisti, poteva avere ripercussioni anche per gli Stati Uniti: che scommettono da tempo sullo shale oil, cioè un petrolio non convenzionale prodotto dai frammenti di rocce di scisto bituminoso. Si tratta di una tecnica sostenibile se il prezzo del greggio estratto non scende sotto i 50 dollari al barile. A Mosca potrebbe non dispiacere vedere in difficoltà su questo tema Washington che ha imposto sanzioni su Rosneft, la compagnia petrolifera di proprietà in maggioranza del governo russo, ma il danno per le casse della Russia sarebbe stato oneroso.

I rischi per i Paesi emergenti

La questione petrolio ha ripercussioni di tipo geopolitico – ne sono investiti in particolare Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti – ma non solo: ci sono profonde ripercussioni anche per l’economia di alcuni Stati meno protagonisti sullo scacchiere internazionale. Basti pensare alle difficoltà in Venezuela, dove il tracollo economico degli ultimi anni ha certamente anche altre radici tra cui un’economia troppo dominata dalla risorsa del greggio, ma sicuramente ha avuto un ruolo estremamente significativo il crollo del prezzo. A catena, ci sono state ripercussioni e ci potrebbero essere in futuro per Paesi emergenti, in Medio Oriente, in Africa, in Indonesia.

Non dimenticare l’impegno per le energie rinnovabili

La Banca europea per gli investimenti smetterà di finanziare progetti basati su petrolio, gas e carbone nel 2021. E’ solo uno degli impegni previsti a livello di Unione europea per dirottare l’economia verso il consumo di energie rinnovabili, per contrastare i disastri provocati dall’inquinamento dei combustibili fossili. Sappiamo che i Paesi emergenti non saranno pronti a una conversione verso un’economia verde per almeno i prossimi dieci anni, ma è fondamentale che l’Europa porti avanti nel mondo questa battaglia. Il rischio è che nella crisi economica in conseguenza della pandemia proprio per il vecchio continente scarseggino le risorse per puntare a un’economia verde. In realtà, l’infezione da Covid 19 mostra al mondo i rischi di alterazioni dei cicli naturali. Sembra emergere, tra l’altro, un dato: la polmonite interstiziale causata dal coronavirus è stata più letale in zone ad alto inquinamento.

da Vatican NEWS del 10 aprile

L’urgenza di nuovi modelli economici di fronte alla pandemia

La gravità e l’urgenza delle conseguenze del Covid 19 per la salute pubblica e per l’economia richiedono misure immediate e specifiche. Ma soprattutto la crisi che stiamo vivendo a livello planetario esige un significativo ripensamento dei modelli economici e delle priorità in tema di flussi finanziari. Con noi l’esperto di relazioni internazionali Matteo Luigi Napolitano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

A causa del coronavirus sono in difficoltà i sistemi sanitari dei Paesi ricchi con conseguenze economiche che già si palesano serie e certamente non possiamo pensare che ce la facciano da soli i Paesi poveri. L’emergenza economica non può essere risolta fino a quando non sarà stata risolta l’emergenza sanitaria e questa non finirà solo battendo la malattia in un Paese, ma garantendo il recupero dal contagio di Covid 19 in tutti i Paesi.

Appello ai leader mondiali

In una lettera ai leader del G20, alcuni politici e intellettuali – tra questi l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, gli ex presidenti della Commissione europea José Manuel Barroso e Romano Prodi,  ex capi di governo o ex presidenti di Paesi europei e dell’America Latina – chiedono che venga messa in moto un’azione coordinata immediata a livello. Chiedono aiuti di emergenza per iniziative sanitarie globali che siano gestite dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e misure di emergenza per ripristinare l’economia in tutto il mondo. In sostanza ricordano che è necessario che i leader mondiali si impegnino a finanziare importi ben superiori all’attuale capacità delle istituzioni internazionali.

L’importanza di strategie nuove

Si parla tanto di sussidi alle imprese in difficolta’, di aiuti ai poveri, ma non puo’ essere solo questione di sovvenzioni emergenziali. Bisogna ripensare alcune priorità. L’urgenza di dare una risposta nell’immediato deve essere accompagnata da un ripensamento dei modelli economici così come li abbiamo elaborati finora. Ad esempio, bisogna capire che ci vogliono più soldi alla ricerca e meno alle armi o che i Paesi poveri si possono davvero aiutare cancellando il loro debito che non saranno mai in grado di estinguere. Inoltre, il rispetto per l’ambiente non dovrebbe essere piu’ un valore teorico ma un paradigma di sopravvivenza. Di tutte queste sfide da raccogliere abbiamo parlato con Matteo Luigi Napolitano, docente di diplomazia e relazioni internazionali all’Università degli studi del Molise:

da Vatican NEWS dell’8 aprile 2020

Anche suprematisti bianchi nella lista nera di Washington

Per la prima volta gli Stati Uniti hanno inserito un movimento di suprematisti bianchi tra le organizzazioni tacciate di terrorismo. Si tratta di un gruppo nato a Mosca che ha contatti e affiliati fuori della Russia e che promuove ideali neonazisti. Con noi l’esperto di questioni della difesa Pietro Batacchi

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Ormai ufficialmente il Movimento imperiale russo e tre dei suoi leader, Stanislav Vorobiev, Denis Gariev e Nikolai Trushchalov, compaiono tra i sospetti terroristi. Il vecchio sito web del gruppo è stato bandito in Russia per estremismo, ma il movimento stesso non è considerato “terrorista” da Mosca. Washington lo accusa di  fornire addestramento paramilitare ai neonazisti e ai suprematisti bianchi in due centri di San Pietroburgo, e di aver così addestrato alcuni svedesi che hanno poi effettivamente effettuato attacchi nel loro Paese tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017. Il coordinatore dell’antiterrorismo al Dipartimento di Stato, Nathan Sales, ha sottolineato che “la misura mostra quanto seriamente l’amministrazione di Donald Trump prenda seriamente la minaccia che rappresenta”. L’Amministrazione Trump ritiene che questo gruppo “svolga un ruolo importante nel tentativo di radunare europei e statunitensi in un fronte comune contro coloro che percepiscono come nemici”, ha affermato il diplomatico.

Propaganda di violenza

 Il movimento che si definisce monarchico afferma di essere in grado di allenarsi nella lotta con i coltelli e nelle arti marziali e considera “una debolezza criminale per un uomo moderno in Russia non essere un guerriero”. Lo ha ricordato Nathan Sales commentando: “Vogliamo assicurarci che non sia in grado di fare lo stesso qui negli Stati Uniti. “Gli Stati Uniti non sono immuni da questa minaccia” del “terrorismo legato al suprematismo bianco”, che si è diffuso in tutto il mondo dal 2015, ha ammesso il diplomatico.

Per una riflessione sui significati di questa decisione dell’Amministrazione Trump, abbiamo intervistato Pietro Batacchi, Direttore della Rivista Italiana Difesa:

Il pensiero va ai recenti attacchi contro le sinagoghe a Pittsburgh, dove 11 persone sono morte nell’ottobre 2018, e a Poway, in California, dove un suprematista bianco di 19 anni ha ucciso una donna e tre persone ferite nel mezzo della Pasqua ebraica nel 2019. Ma bisogna ricordare anche la sparatoria dell’estate scorsa a El Paso. In quel caso, il killer, prima di uccidere 22 clienti del supermercato, aveva scritto un manifesto in cui denunciava “un’invasione ispanica del Texas”.Per anni, molti analisti statunitensi hanno sottolineato che veniva  trascurato il cosiddetto terrorismo interno, che ha ucciso più negli Stati Uniti dal 2002 del jihadismo. A luglio scorso il direttore della polizia federale, Christopher Wray, ha assicurato che erano state aperte 850 inchieste per “terrorismo interno” e che i suoi agenti avevano effettuato cento arresti.

da Vatican NEWS del 7 aprile 2020

Centuplicati i casi di coronavirus negli Usa

Gli Stati Uniti hanno raggiunto in 24 ore il triste record di 1150 morti per Covid 19, mentre la Cina annuncia di aver azzerato le vittime. Sono in crescita i contagi in America Latina e in Africa. Dal Regno Unito la notizia che il premier Johnson è in terapia intensiva, mentre in Italia arrivano centinaia di milioni per le imprese in difficoltà e si intravede la fase discendente. Appello dell’Onu contro i mercati di fauna selvatica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In 20 giorni negli Stati Uniti i casi si sono centuplicati e si parla di blocco dei voli interni. A New York, preoccupante epicentro, in uno dei piani di emergenza si ipotizzano fosse comuni nei parchi di fronte all’emergenza sepolture. Da Chicago un dato: più della metà dei casi è nella comunità afroamericana, anche se rappresenta solo il 30 per cento della popolazione. In America Latina salgono i numeri, in Brasile resta uno solo dei 27 stati senza contagi. In Venezuela, l’allarme ha messo in moto migliaia di rimpatri dai paesi vicini, con conseguenti difficoltà.

Difficoltà nel Regno Unito

Nel Regno Unito i contagi sono circa 50.000, di cui un quinto solo a Londra. E le funzioni di capo del governo sono passate, come da regolamento, al ministro degli Esteri Dominic Raab, dopo che si sono aggravate le condizioni del primo ministro britannico, Boris Johnson, trasferito in un’unità di terapia intensiva all’ospedale St. Thomas di Londra.

Le misure economiche per l’Italia

In Italia il Consiglio dei ministri ha assegnato 450 milioni di euro al Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza. Nella penisola per il momento non c’è una data di riapertura delle attività anche se i dati fanno ben sperare: i ricoveri sono calati del 90 per cento e la terapia intensiva del 2 per cento. Austria e Danimarca, invece, annunciano il riavvio delle scuole dopo Pasqua.

I timori per l’Africa

In Africa sono stati colpiti 51 dei 54 Stati del continente e hanno registrato un totale di 9400 contagi e 442 decessi. Comore, Lesotho, Sao Tomé e Principe sono le uniche nazioni che non hanno annunciato alcuna infezione. Si tratta di numeri limitati, considerato che in Africa vivono 1,3 miliardi di persone e che il continente ha consistenti e regolari rapporti con la Cina. Ufficialmente, i tre paesi più colpiti del continente sono Sudafrica, Algeria ed Egitto. Tuttavia, il timore è che la fragilità dei sistemi sanitari del continente e la scarsità di medici – secondo l’Oms in Africa è presente solo il 3 per cento del personale medico mondiale, nonostante siano presenti sul suo territorio il 24 per cento delle malattie a livello globale – siano del tutto inadeguati ad affrontare una pandemia globale. In Kenya c’è un solo medico ogni 5.000 abitanti, mentre in Uganda c’è un solo letto di terapia intensiva per ogni milione di cittadini. Se finora il continente è stato relativamente risparmiato, non è detto che il coronavirus non possa diffondersi con conseguenze devastanti. A sottolinearlo è il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus.

Intanto, dall’Onu arriva un monito importante: il capo della Convenzione sulla biodiversità ha chiesto un divieto globale sui mercati della fauna selvatica – come quello di Wuhan, in Cina, che si ritiene sia stato il punto di partenza dell’epidemia   – per prevenire future pandemie.

da Vatican NEWS del 7 aprile 2020

Covid 19, allarme profughi in Grecia. Monsignor Bazouzou: non perdiamo la speranza

La Grecia, che secondo il conteggio della Johns Hopkins University ha 1.683 casi di coronavirus, ospita circa 100.000 richiedenti asilo. E’ scattato l’allarme per casi di contagio in due dei centri di immigrazione non lontano da Atene, dove già si vive in condizioni di estrema difficoltà. Con noi l’Amministratore apostolico monsignor Joseph Bazouzou

Fausta Speranza -Città del Vaticano

Il ministero per le Migrazioni greco ha reso noto che il campo di Malakasa, ad una quarantina di chilometri a nord-est di Atene, è stato posto in isolamento dopo che un residente afghano si è rivelato positivo al coronavirus. Il primo caso è stato quello nei giorni scorsi di una struttura a Ritsona, sempre vicino alla capitale, dove 23 persone sono risultate positive al Covid-19. Secondo il ministero, l’uomo afghano, di 53 anni, aveva personalmente cercato aiuto con i sintomi del virus presso la struttura medica all’interno del campo. Successivamente è stato portato in un ospedale di Atene dove è risultato positivo e la sua famiglia è stata messa in quarantena.

I campi sono in “completo isolamento sanitario” per 14 giorni, nessuno vi potrà entrare o uscire. Delle difficoltà, della disperazione, dei provvedimenti delle istituzioni, della vicinanza della Chiesa e della preparazione alla Pasqua, abbiamo parlato con monsignor Joseph Bazouzou,  Amministratore apostolico degli armeni cattolici in Grecia:

La concentrazione più preoccupante di persone si verifica nei campi di cinque isole del Mar Egeo vicino alla Turchia, dove ci sono oltre 36.000 persone per meno di 6.100 posti: “sono persone veramente disperate – dice monsignor Bazouzou che ha messo a disposizione la sua casa per accogliere già alcuni profughi provenienti dalla Siria – occorre incoraggiarli quanto è possibile”. Dal canto suo – aggiunge – il governo fa il possibile, ma come in tutto il mondo le difficoltà restano tante. La crisi sanitaria mondiale ha messo tutti in ginocchio e gli aiuti dall’Europa come dal governo greco sono calati, dunque queste persone – spiega – si sentono in un certo senso abbandonate. Le loro speranze dopo un viaggio pieno di pericoli erano quelle di poter finalmente “respirare”: invece ora, chiusi nei campi sovraffollati, si trovano solo nella miseria e – confida – “sperano solo in un miracolo del Signore, dati i limiti umani”.

Ripartiamo dalla speranza che viene dalla Pasqua

Infine il pensiero di monsignor Bazouzou va alla prossima Pasqua:”ci sono le privazioni, c’è il dolore, c’è l’incertezza che tanto mi rammentano i giorni di guerra vissuti in Siria”, ma c’è “l’evento centrale – dice – da non dimenticare, che è la resurrezione di Cristo. E’ Lui il centro e quanto sta accadendo – è l’auspicio finale – ci insegnerà a puntare all’essenziale, a ripartire da Lui, senso della nostra esistenza”.

da Vatican NEWS del 6 aprile 2020

La risposta dell’Ue alla crisi economica da pandemia

In Europa si discute su come far fronte comune ai costi della pandemia. Dall’Europarlamento, la Commissione (Ce) e la Banca centrale europea (Bce) sono arrivati fondi e proposte molto concreti, ma la parola spetta ai capi di Stato e di governo per avere anche politiche comuni. Si guarda al prossimo Eurogruppo del 7 aprile. Con noi l’economista Paolo Guerrieri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Secondo l’Ocse, la riduzione del Pil mondiale potrebbe essere compresa tra lo 0.5 per cento e l’1.4 per cento che in Italia – che comincia a fare i conti essendo stato il primo Paese Ue colpito dal Covid 19 – si potrebbe trasformare nel 4-5 per cento se fallissero circa 150.000 imprese a rischio, pari al 4 per cento di quelle esistenti. Un dato statistico parziale, perché tutto dipenderà dall’effettiva durata dell’emergenza.

Provvedimenti concreti già avviati

All’interno dell’Ue è stato sospeso il cosiddetto Patto di stabilità, che dal 1992 fissa il rapporto tra deficit pubblico e Pil entro la soglia del 3 per cento e il rapporto tra debito pubblico e Pil al di sotto del 60 per cento. Il 22 marzo, ad esempio, la Commissione europea ha subito approvato le misure italiane di aiuti pari a 50 milioni di euro per sostenere la produzione e la fornitura di dispositivi medici. La stessa cosa ha fatto per la Spagna.

Già due settimane fa, 37 miliardi della politica di coesione sono stati destinati alla lotta contro il coronavirus e ai sistemi sanitari, imprese e lavoratori colpiti dall’emergenza. Di questi, circa sette miliardi vanno a beneficio dell’Italia. E sono stati sospesi i debiti ai debitori colpiti dalla crisi. Altri otto miliardi di euro di investimenti sono stati destinati ad aiutare 100.000 piccole e medie imprese (Pmi) europee e imprese a media capitalizzazione. Inoltre, 137,5 miliardi sono stati destinati a sostenere la ricerca, di cui una parte già assegnata.

Ipotesi al vaglio

La proposta dei cosiddetti coronabond è difesa da Francia, Italia e Spagna ma vede al momento il veto di Germania, Olanda e Austria, contrarie a quelle che considerano una mutualizzazione del debito. L’Aia propone ora una “donazione” – non si sa di quale entità  – a favore dei Paesi più colpiti come la Spagna e l’Italia. Il governo francese sta vagliando come soluzione di compromesso la creazione di un fondo di salvataggio speciale, della durata di cinque o al massimo dieci anni, destinato ad alleviare le conseguenze economiche del coronavirus e che non esclude il contemporaneo ricorso al Fondo di Stabilità. Ci si aspetta che emerga la decisione di ulteriori misure dopo la discussione martedì prossimo al vertice tra i ministri delle Finanze dei paesi della zona euro.

Il monito della Bce a non dirottare i soldi per i cittadini

La Banca Centrale Europea ha stanziato un pacchetto di emergenza da 750 miliardi di euro per alleviare l’impatto della pandemia. Ma ha lanciato un monito agli istituti bancari dei vari Stati membri: i prestiti straordinari alle banche non devono essere utilizzati per i dividendi e i bonus ma devono essere messi a disposizione di imprese e cittadini che hanno bisogno di liquidità per far fronte alle perdite dovte all’interruzione delle attività lavorative.

Del richiamo da parte del Servizio di vigilanza della Bce a non far prevalere gli interessi di azionisti e di manager a danno dei cittadini, delle ipotesi sul tavolo dei capi di Stato e di governo in tema di fiscalità che possono essere di grande aiuto anche al di là dei cosiddetti coronabond, abbiamo parlato con Paolo Guerrieri docente di Politica economica in vari atenei europei:

Le incertezze nel commercio aggravano la fame nel mondo

In una nota congiunta, i direttori generali della Fao, dell’Oms e dell’Omc, rispettivamente Qu Dongyu, Tedros Adhan  Ghebreyesus e Roberto Azevedo, lanciano un appello a considerare le conseguenze dello stop a tanti percorsi commerciali mondiali dovuti alla chiusura delle frontiere come misura precauzionale contro il dilagare dei contagi da Covid 19.

Secondo i rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite che si occupano di fame nel mondo, di sanità e di commercio, “è necessario ridurre al minimo l’impatto potenziale sull’approvvigionamento e la sicurezza alimentare da cui dipendono i mezzi di sussistenza di milioni di persone in tutto il mondo”. L’incertezza sulla disponibilità di cibo – sottolineano   – “può innescare un’ondata di restrizioni all’export, creando carenze sul mercato globale, e reazioni simili possono alterare l’equilibrio tra domanda e offerta di alimenti, con conseguenti picchi di prezzo e maggiore volatilità dei prezzi”. L’appello è chiaro: “garantire che la risposta al Covid-19 non crei carenze ingiustificate dei prodotti di prima necessità, aggravando la fame e la malnutrizione”. “E’ giunto il momento – scrivono – di dimostrare solidarietà, di agire in modo responsabile e di aderire al nostro obiettivo comune: ottimizzare la sicurezza e la salubrità alimentare, la nutrizione e migliorare il benessere generale delle persone in tutto il mondo”

da Vatican NEWS del 3 aprile 2020

Primo accordo per un governo di unità nazionale in Israele

In tempi di Covid 19, a Tel Aviv si stanno mettendo a punto i dettagli per l’annuncio di un esecutivo che faccia fronte all’emergenza. I due principali contendenti, Netanyahu e Gantz, dovrebbero alternarsi per gestire le necessità in un Paese in cui si contano oltre 4000 casi di contagi, 16 persone morte e 70 in condizioni gravi. Con noi l’esperto di relazioni internazionali Daniele De Luca

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo mesi di impasse politico, il primo ministro, Benyamin Netanyahu, e il suo ex avversario, Benny Gantz, sono a buon punto per la formazione di un governo di unità nazionale in Israele.  Tra i termini dell’intesa, sembra esserci la staffetta tra i due al vertice dell’esecutivo: i primi 18 mesi affidati a Netanyahu e poi dal settembre del 2021 la responsabilità passerebbe a Gantz. Ma l’accordo prevede anche che Gantz lasci la presidenza della Knesset –  alla quale è stato nominato nei giorni scorsi – per diventare ministro degli Esteri o ministro della Difesa. Giovedì 26 marzo Benny Gantz, il principale avversario politico del primo ministro conservatore Benjamin Netanyahu, è stato eletto infatti presidente del parlamento israeliano con 74 voti a favore e 18 contrari su 120 totali.

Le reazioni politiche all’apertura di Gantz a Netanyahu

La candidatura di Gantz è stata avanzata a sorpresa e ha suscitato forti perplessità nel suo partito di opposizione, Blu e Bianco. La fazione di Blu e Bianco che fa capo all’ex giornalista televisivo Yair Lapid e quella fedele all’ex generale Moshe Ya’alon hanno chiesto formalmente la separazione dal partito di Gantz, per guidare l’opposizione al nuovo governo. Lapid ha spiegato che «la crisi causata dal coronavirus non ci dà il diritto o il permesso di abbandonare i nostri valori. Non si può strisciare in un governo del genere e dire che l’hai fatto per il bene del paese». E ancora: «Ciò che si sta formando oggi non è un governo di unità nazionale e non è un governo di emergenza. È un altro governo di Netanyahu. Benny Gantz si è arreso senza combattere». E diversi deputati e leader di opposizione hanno definito le sue parole e le sue decisioni come un tradimento. «Questo è un giorno buio», ha detto ad esempio Nitzan Horowitz, leader di Meretz, l’unico partito di sinistra presente in Parlamento.

Da parte sua, Gantz ha sottolineato: “Intendo esaminare e promuovere in ogni modo l’istituzione di un governo di emergenza nazionale, ma non scenderemo a compromessi sui principi per cui più di un milione di cittadini hanno votato. Netanyahu lo sa bene”.

Un esecutivo solo per l’emergenza Coronavirus

In questi giorni Netanyahu ha adottato nuove misure restrittive a causa del coronavirus, incaricando tra l’altro i servizi segreti di individuare le persone contagiate, e ha rinviato il processo a suo carico – avviato a novembre 2019 per tre atti d’accusa: corruzione, frode e abuso d’ufficio – suscitando accuse da parte dell’opposizione di “golpe di Stato”.

La prospettiva di un governo di unità nazionale può essere finalizzata solo a gestire l’emergenza. Non potranno essere affrontate altre questioni come quella del conflitto israelo-palestinese, in cui lo stallo determinatosi da anni è stato scosso di recente dalle prese di posizione dell’amministrazione statunitense. Donald Trump ha deciso lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e poi ha presentato una proposta di accordo di pace che prevede in sostanza di consegnare Gerusalemme a Israele. Questa ed altre sfide dovranno rimanere sullo sfondo di un governo ipotizzato solo per gestire la vicenda Covid 19, nella quale Israele può svolgere un ruolo nella regione perché si tratta di una democrazia con mezzi di comunicazione liberi, come spiega Daniele De Luca, presidente dei corsi di studi  in relazioni internazionali all’Università del Salento:

Insieme in autoambulanza e nella preghiera anche se con fedi diverse

Intanto, due paramedici del Magen David Adom – equivalente israeliano della Croce Rossa internazionale – sono rimasti stupiti nell’apprendere che ha avuto una diffusione internazionale una immagine che li riprendeva mentre erano assorti in preghiera accanto alla loro ambulanza. Abraham Mintz indossava il ‘talled’ ebraico, mentre il suo compagno Zohar Abu Jana, un musulmano, era genuflesso per terra davanti al proprio tappetino. Quella pausa religiosa ha catturato l’attenzione dei media internazionali ed ha avuto eco anche negli Stati Uniti. Da un anno Abraham e Zohar prestano servizio assieme nella zona di Beer Sheva, nel sud di Israele. “Non compendiamo il clamore suscitato dalla foto” ha detto Abraham alla televisione Ch. 12. “Semplicemente pregavamo assieme. Questa è la nostra realtà quotidiana”. “Quando è il momento – ha aggiunto Zohar – fermiamo l’ambulanza per alcuni minuti. Ognuno prega anche per l’altro. In questo lavoro è normale lasciare da parte la politica perchè siamo chiamati ad aiutare persone in difficoltà”