Covid 19, allarme profughi in Grecia. Monsignor Bazouzou: non perdiamo la speranza

La Grecia, che secondo il conteggio della Johns Hopkins University ha 1.683 casi di coronavirus, ospita circa 100.000 richiedenti asilo. E’ scattato l’allarme per casi di contagio in due dei centri di immigrazione non lontano da Atene, dove già si vive in condizioni di estrema difficoltà. Con noi l’Amministratore apostolico monsignor Joseph Bazouzou

Fausta Speranza -Città del Vaticano

Il ministero per le Migrazioni greco ha reso noto che il campo di Malakasa, ad una quarantina di chilometri a nord-est di Atene, è stato posto in isolamento dopo che un residente afghano si è rivelato positivo al coronavirus. Il primo caso è stato quello nei giorni scorsi di una struttura a Ritsona, sempre vicino alla capitale, dove 23 persone sono risultate positive al Covid-19. Secondo il ministero, l’uomo afghano, di 53 anni, aveva personalmente cercato aiuto con i sintomi del virus presso la struttura medica all’interno del campo. Successivamente è stato portato in un ospedale di Atene dove è risultato positivo e la sua famiglia è stata messa in quarantena.

I campi sono in “completo isolamento sanitario” per 14 giorni, nessuno vi potrà entrare o uscire. Delle difficoltà, della disperazione, dei provvedimenti delle istituzioni, della vicinanza della Chiesa e della preparazione alla Pasqua, abbiamo parlato con monsignor Joseph Bazouzou,  Amministratore apostolico degli armeni cattolici in Grecia:

La concentrazione più preoccupante di persone si verifica nei campi di cinque isole del Mar Egeo vicino alla Turchia, dove ci sono oltre 36.000 persone per meno di 6.100 posti: “sono persone veramente disperate – dice monsignor Bazouzou che ha messo a disposizione la sua casa per accogliere già alcuni profughi provenienti dalla Siria – occorre incoraggiarli quanto è possibile”. Dal canto suo – aggiunge – il governo fa il possibile, ma come in tutto il mondo le difficoltà restano tante. La crisi sanitaria mondiale ha messo tutti in ginocchio e gli aiuti dall’Europa come dal governo greco sono calati, dunque queste persone – spiega – si sentono in un certo senso abbandonate. Le loro speranze dopo un viaggio pieno di pericoli erano quelle di poter finalmente “respirare”: invece ora, chiusi nei campi sovraffollati, si trovano solo nella miseria e – confida – “sperano solo in un miracolo del Signore, dati i limiti umani”.

Ripartiamo dalla speranza che viene dalla Pasqua

Infine il pensiero di monsignor Bazouzou va alla prossima Pasqua:”ci sono le privazioni, c’è il dolore, c’è l’incertezza che tanto mi rammentano i giorni di guerra vissuti in Siria”, ma c’è “l’evento centrale – dice – da non dimenticare, che è la resurrezione di Cristo. E’ Lui il centro e quanto sta accadendo – è l’auspicio finale – ci insegnerà a puntare all’essenziale, a ripartire da Lui, senso della nostra esistenza”.

da Vatican NEWS del 6 aprile 2020

La risposta dell’Ue alla crisi economica da pandemia

In Europa si discute su come far fronte comune ai costi della pandemia. Dall’Europarlamento, la Commissione (Ce) e la Banca centrale europea (Bce) sono arrivati fondi e proposte molto concreti, ma la parola spetta ai capi di Stato e di governo per avere anche politiche comuni. Si guarda al prossimo Eurogruppo del 7 aprile. Con noi l’economista Paolo Guerrieri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Secondo l’Ocse, la riduzione del Pil mondiale potrebbe essere compresa tra lo 0.5 per cento e l’1.4 per cento che in Italia – che comincia a fare i conti essendo stato il primo Paese Ue colpito dal Covid 19 – si potrebbe trasformare nel 4-5 per cento se fallissero circa 150.000 imprese a rischio, pari al 4 per cento di quelle esistenti. Un dato statistico parziale, perché tutto dipenderà dall’effettiva durata dell’emergenza.

Provvedimenti concreti già avviati

All’interno dell’Ue è stato sospeso il cosiddetto Patto di stabilità, che dal 1992 fissa il rapporto tra deficit pubblico e Pil entro la soglia del 3 per cento e il rapporto tra debito pubblico e Pil al di sotto del 60 per cento. Il 22 marzo, ad esempio, la Commissione europea ha subito approvato le misure italiane di aiuti pari a 50 milioni di euro per sostenere la produzione e la fornitura di dispositivi medici. La stessa cosa ha fatto per la Spagna.

Già due settimane fa, 37 miliardi della politica di coesione sono stati destinati alla lotta contro il coronavirus e ai sistemi sanitari, imprese e lavoratori colpiti dall’emergenza. Di questi, circa sette miliardi vanno a beneficio dell’Italia. E sono stati sospesi i debiti ai debitori colpiti dalla crisi. Altri otto miliardi di euro di investimenti sono stati destinati ad aiutare 100.000 piccole e medie imprese (Pmi) europee e imprese a media capitalizzazione. Inoltre, 137,5 miliardi sono stati destinati a sostenere la ricerca, di cui una parte già assegnata.

Ipotesi al vaglio

La proposta dei cosiddetti coronabond è difesa da Francia, Italia e Spagna ma vede al momento il veto di Germania, Olanda e Austria, contrarie a quelle che considerano una mutualizzazione del debito. L’Aia propone ora una “donazione” – non si sa di quale entità  – a favore dei Paesi più colpiti come la Spagna e l’Italia. Il governo francese sta vagliando come soluzione di compromesso la creazione di un fondo di salvataggio speciale, della durata di cinque o al massimo dieci anni, destinato ad alleviare le conseguenze economiche del coronavirus e che non esclude il contemporaneo ricorso al Fondo di Stabilità. Ci si aspetta che emerga la decisione di ulteriori misure dopo la discussione martedì prossimo al vertice tra i ministri delle Finanze dei paesi della zona euro.

Il monito della Bce a non dirottare i soldi per i cittadini

La Banca Centrale Europea ha stanziato un pacchetto di emergenza da 750 miliardi di euro per alleviare l’impatto della pandemia. Ma ha lanciato un monito agli istituti bancari dei vari Stati membri: i prestiti straordinari alle banche non devono essere utilizzati per i dividendi e i bonus ma devono essere messi a disposizione di imprese e cittadini che hanno bisogno di liquidità per far fronte alle perdite dovte all’interruzione delle attività lavorative.

Del richiamo da parte del Servizio di vigilanza della Bce a non far prevalere gli interessi di azionisti e di manager a danno dei cittadini, delle ipotesi sul tavolo dei capi di Stato e di governo in tema di fiscalità che possono essere di grande aiuto anche al di là dei cosiddetti coronabond, abbiamo parlato con Paolo Guerrieri docente di Politica economica in vari atenei europei:

Le incertezze nel commercio aggravano la fame nel mondo

In una nota congiunta, i direttori generali della Fao, dell’Oms e dell’Omc, rispettivamente Qu Dongyu, Tedros Adhan  Ghebreyesus e Roberto Azevedo, lanciano un appello a considerare le conseguenze dello stop a tanti percorsi commerciali mondiali dovuti alla chiusura delle frontiere come misura precauzionale contro il dilagare dei contagi da Covid 19.

Secondo i rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite che si occupano di fame nel mondo, di sanità e di commercio, “è necessario ridurre al minimo l’impatto potenziale sull’approvvigionamento e la sicurezza alimentare da cui dipendono i mezzi di sussistenza di milioni di persone in tutto il mondo”. L’incertezza sulla disponibilità di cibo – sottolineano   – “può innescare un’ondata di restrizioni all’export, creando carenze sul mercato globale, e reazioni simili possono alterare l’equilibrio tra domanda e offerta di alimenti, con conseguenti picchi di prezzo e maggiore volatilità dei prezzi”. L’appello è chiaro: “garantire che la risposta al Covid-19 non crei carenze ingiustificate dei prodotti di prima necessità, aggravando la fame e la malnutrizione”. “E’ giunto il momento – scrivono – di dimostrare solidarietà, di agire in modo responsabile e di aderire al nostro obiettivo comune: ottimizzare la sicurezza e la salubrità alimentare, la nutrizione e migliorare il benessere generale delle persone in tutto il mondo”

da Vatican NEWS del 3 aprile 2020

Primo accordo per un governo di unità nazionale in Israele

In tempi di Covid 19, a Tel Aviv si stanno mettendo a punto i dettagli per l’annuncio di un esecutivo che faccia fronte all’emergenza. I due principali contendenti, Netanyahu e Gantz, dovrebbero alternarsi per gestire le necessità in un Paese in cui si contano oltre 4000 casi di contagi, 16 persone morte e 70 in condizioni gravi. Con noi l’esperto di relazioni internazionali Daniele De Luca

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dopo mesi di impasse politico, il primo ministro, Benyamin Netanyahu, e il suo ex avversario, Benny Gantz, sono a buon punto per la formazione di un governo di unità nazionale in Israele.  Tra i termini dell’intesa, sembra esserci la staffetta tra i due al vertice dell’esecutivo: i primi 18 mesi affidati a Netanyahu e poi dal settembre del 2021 la responsabilità passerebbe a Gantz. Ma l’accordo prevede anche che Gantz lasci la presidenza della Knesset –  alla quale è stato nominato nei giorni scorsi – per diventare ministro degli Esteri o ministro della Difesa. Giovedì 26 marzo Benny Gantz, il principale avversario politico del primo ministro conservatore Benjamin Netanyahu, è stato eletto infatti presidente del parlamento israeliano con 74 voti a favore e 18 contrari su 120 totali.

Le reazioni politiche all’apertura di Gantz a Netanyahu

La candidatura di Gantz è stata avanzata a sorpresa e ha suscitato forti perplessità nel suo partito di opposizione, Blu e Bianco. La fazione di Blu e Bianco che fa capo all’ex giornalista televisivo Yair Lapid e quella fedele all’ex generale Moshe Ya’alon hanno chiesto formalmente la separazione dal partito di Gantz, per guidare l’opposizione al nuovo governo. Lapid ha spiegato che «la crisi causata dal coronavirus non ci dà il diritto o il permesso di abbandonare i nostri valori. Non si può strisciare in un governo del genere e dire che l’hai fatto per il bene del paese». E ancora: «Ciò che si sta formando oggi non è un governo di unità nazionale e non è un governo di emergenza. È un altro governo di Netanyahu. Benny Gantz si è arreso senza combattere». E diversi deputati e leader di opposizione hanno definito le sue parole e le sue decisioni come un tradimento. «Questo è un giorno buio», ha detto ad esempio Nitzan Horowitz, leader di Meretz, l’unico partito di sinistra presente in Parlamento.

Da parte sua, Gantz ha sottolineato: “Intendo esaminare e promuovere in ogni modo l’istituzione di un governo di emergenza nazionale, ma non scenderemo a compromessi sui principi per cui più di un milione di cittadini hanno votato. Netanyahu lo sa bene”.

Un esecutivo solo per l’emergenza Coronavirus

In questi giorni Netanyahu ha adottato nuove misure restrittive a causa del coronavirus, incaricando tra l’altro i servizi segreti di individuare le persone contagiate, e ha rinviato il processo a suo carico – avviato a novembre 2019 per tre atti d’accusa: corruzione, frode e abuso d’ufficio – suscitando accuse da parte dell’opposizione di “golpe di Stato”.

La prospettiva di un governo di unità nazionale può essere finalizzata solo a gestire l’emergenza. Non potranno essere affrontate altre questioni come quella del conflitto israelo-palestinese, in cui lo stallo determinatosi da anni è stato scosso di recente dalle prese di posizione dell’amministrazione statunitense. Donald Trump ha deciso lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e poi ha presentato una proposta di accordo di pace che prevede in sostanza di consegnare Gerusalemme a Israele. Questa ed altre sfide dovranno rimanere sullo sfondo di un governo ipotizzato solo per gestire la vicenda Covid 19, nella quale Israele può svolgere un ruolo nella regione perché si tratta di una democrazia con mezzi di comunicazione liberi, come spiega Daniele De Luca, presidente dei corsi di studi  in relazioni internazionali all’Università del Salento:

Insieme in autoambulanza e nella preghiera anche se con fedi diverse

Intanto, due paramedici del Magen David Adom – equivalente israeliano della Croce Rossa internazionale – sono rimasti stupiti nell’apprendere che ha avuto una diffusione internazionale una immagine che li riprendeva mentre erano assorti in preghiera accanto alla loro ambulanza. Abraham Mintz indossava il ‘talled’ ebraico, mentre il suo compagno Zohar Abu Jana, un musulmano, era genuflesso per terra davanti al proprio tappetino. Quella pausa religiosa ha catturato l’attenzione dei media internazionali ed ha avuto eco anche negli Stati Uniti. Da un anno Abraham e Zohar prestano servizio assieme nella zona di Beer Sheva, nel sud di Israele. “Non compendiamo il clamore suscitato dalla foto” ha detto Abraham alla televisione Ch. 12. “Semplicemente pregavamo assieme. Questa è la nostra realtà quotidiana”. “Quando è il momento – ha aggiunto Zohar – fermiamo l’ambulanza per alcuni minuti. Ognuno prega anche per l’altro. In questo lavoro è normale lasciare da parte la politica perchè siamo chiamati ad aiutare persone in difficoltà”

No al decimo anno di carneficina in Siria

Drammatico appello dell’Onu perché “non proseguano le stesse atrocità e la stessa violazione dei diritti umani” cui abbiamo assistito finora nell’ambito del conflitto in Siria. Il segretario generale Guterres parla di reiterata “crudeltà” e invoca il ritorno a un processo di pace. Per l’Oms indegno il numero di attacchi alle strutture sanitarie. Con noi l’esperto di geopolitica Germano Dottori

 Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Abbiamo visto atrocità orribili, compresi crimini di guerra”, afferma il segretario generale delle Nazioni Unite chiedendo a gran voce che “non ci sia impunità”. All’inizio del decimo anno di guerra, il 15 marzo prossimo, Guterres  sottolinea che “i passi per porre fine alla sofferenza del popolo siriano sono ben noti ma devono essere realizzati”. In primo luogo, il protocollo aggiuntivo del 5 marzo al memorandum sulla stabilizzazione della situazione nell’area di Idlib, concordato tra Russia e Turchia, deve portare a una cessazione duratura delle ostilità che spiani la strada a un cessate il fuoco permanente a livello nazionale. Guterres ribadisce: “Le parti devono tornare al processo politico facilitato dall’Onu, che rimane l’unica strada percorribile per porre fine al conflitto e offrire una pace duratura al popolo”.

Per un’analisi delle ragioni del conflitto, delle implicazioni per l’area regionale, del ruolo delle potenze straniere coinvolte e del peso della crisi umanitaria, abbiamo intervistato Germano Dottori, docente di Studi strategici all’Università Luiss:

Un conflitto su tanti fronti

Nel marzo del 2011 sono iniziate le prime dimostrazioni pubbliche contro il governo di Damasco che si sono poi trasformate in rivolte su scala nazionale e quindi in guerra civile.  Le forze del sedicente Stato islamico (Is) sono state arginate tra il 2017 e il 2018 ma le armi non si sono fermate. La crisi siriana rimane una delle più grandi crisi mondiali, con sei milioni di sfollati interni e oltre cinque milioni di siriani registrati come rifugiati nei Paesi vicini, Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto. Circa un milione sono arrivati in Germania e alcune migliaia in altri Paesi europei.

La sofferenza indicibile della popolazione

Il segretario dell’Onu l’ha definita “una crisi umanitaria di proporzioni monumentali”.  Basti dire che il servizio sanitario è stato distrutto: oltre metà delle strutture sono completamente fuori uso. In alcune zone del Paese le strutture sanitarie in genere, sono tuttora i luoghi meno sicuri perché costantemente presi di mira da attacchi aerei e bombardamenti. Lo sottolinea l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che rileva come “i dati sugli attacchi ai servizi sanitari in Siria sono una triste testimonianza di una palese mancanza di rispetto per il diritto umanitario internazionale e per la vita dei civili e degli operatori sanitari”.  Richard Brennan, direttore regionale delle emergenze per l’Ufficio dell’Oms nel Mediterraneo orientale parla di 500 attacchi a strutture sanitarie in quattro anni.

Tra il 2016 e il 2019, due terzi degli attacchi, 337, sono stati registrati nella Siria nord-occidentale, tra le ultime aree del Paese che non sono sotto il controllo del governo. Sono state le città di Idlib, Aleppo e Hama a subire le maggiori distruzioni, osserva l’Oms. La Siria nordoccidentale conta anche il più alto numero di decessi in questi quattro anni, con oltre 300 morti su un totale di 470 vittime. Inoltre, 1000 persone sono rimaste ferite e rese disabili dagli attacchi in tutta la Siria tra il 2016 e il 2019. L’Oms ritiene che, ”tra tutti i conflitti armati del mondo, la Siria rappresenti da anni uno dei peggiori esempi di violenza che colpisce l’assistenza sanitaria”. Ciò che preoccupa, inoltre, secondo l’Oms è che si è arrivati al punto in cui gli attacchi alla salute, che la comunità internazionale non dovrebbe tollerare, ”sono ora considerati la normalità”.

Inoltre, Le Nazioni Unite hanno calcolato che oltre l’83 per cento della popolazione vive ormai stabilmente in condizioni di grave povertà, con un tasso di disoccupazione schizzato al 57 per cento e circa 12 milioni di persone rimaste senza alcuna fonte di guadagno.

Il drammatico capitolo della provincia di Idlib

L’ultima offensiva è stata lanciata dal presidente siriano Assad e dal suo alleato russo Putin nella regione di Idlib, nel nordovest del Paese, scatenando la reazione da parte della Turchia. La tensione è massima proprio perché nelle ultime settimane sono saltate sul campo alcune delle alleanze contro i ribelli: le forze turche hanno attaccato le stesse forze siriane parlando di sconfinamenti alla frontiera fissata per la zona di de-escalation.

Dallo scorso dicembre ad oggi si calcola che siano circa 1 milione e 300.000 gli sfollati che sono scappati per provare ad entrare in Turchia. A proposito della situazione delle strutture sanitarie, nel governatorato di Idlib due ospedali sono stati attaccati solo due settimane fa, e la violenza ha causato il ferimento di quattro operatori sanitari e la sospensione dei servizi. Con così tanta violenza nella Siria nord-occidentale, solo la metà delle 550 strutture sanitarie rimane aperta sia a causa dell’insicurezza, sia dei danni causati da precedenti attacchi, sia delle minacce di futuri attacchi.

da Vatican NEWS del 14 marzo 2020

Sale il numero dei contagi da Coronavirus ma anche dei guariti

L’emergenza coronavirus continua a toccare 110 Paesi mentre le Borse europee ieri sono crollate. Salgono i numeri dei morti e dei contagi ma anche delle persone guarite. In Cina è la svolta: solo otto casi. In Italia, che è stato il secondo Paese in pieno allarme, i casi sono oltre 12.000 ma quanti hanno superato l’infezione sono di più di quanti non ce l’hanno fatta.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Negli Stati Uniti 1.600 contagiati, 41 morti. E arriva il fatidico annuncio della chiusura delle scuole: per il momento a San Francisco. In Europa l’annuncio rimbalza dopo la prima decisione in Italia: l’ultimo in ordine di tempo in Belgio che ha serrato anche ristoranti e bar. Ieri anche la Francia ha sospeso le attività in scuole e università, mentre il presidente Macron ha confermato lo svolgimento delle elezioni dei sindaci domenica prossima.

Nomi noti  tra i contagiati

Intanto, ci sono nomi noti della politica tra i contagiati, dopo quello del presidente della regione Lazio in Italia Zingaretti. In Spagna due ministre e il leader di Vox positivi. In Canada contagiata la moglie del premier e anche Trudeau è in quarantena. E l’Iran fa sapere che anche il consigliere per gli affari internazionali della guida suprema Ali Khamenei risulta affetto dal Covid 19.

E mentre Pechino registra ormai l’80 per cento delle guarigioni con solo otto casi tra le province di Hubei e di Shandong, dalla Cina sono arrivati a Roma ieri sera materiali sanitari e medici a supporto dell’Italia, dove il governo sta varando un provvedimento a carattere finanziario per sostenere i medici, imprese e cittadini.

La rete della Croce rossa internazionale

Tra la strumentazione sanitaria assicurata dal primo Paese in cui è scoppiata l’emergenza, ci sono nove  bancali con ventilatori, materiali respiratori, elettrocardiografi, decine di migliaia di  mascherine.  Con l’aereo da Shanghai è arrivata anche una task-force di nove medici specializzati: sei uomini e tre donne guidati dal vicepresidente della Croce Rossa cinese, Yang Huichuan, e dal professore di rianimazione cardiopolmonare, Liang Zongan. Sono rianimatori, pediatri, infermieri e figure che hanno gestito con successo la crisi in Cina. Dalla Croce rossa internazionale il plauso alla capacità di fare rete. Lo ha sottolineato Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa Italiana presente ieri sera all’aeroporto di Fiumicino.

da Vatican NEWS del 13 marzo 2020

Libano in default finanziario

Proseguono le proteste popolari a Beirut e a Tripoli dopo le manifestazioni, cortei e sit-in che si sono svolti durante il fine settimana. Il governo ha annunciato che il sistema finanziario è incapace di assolvere i suoi impegni nei confronti di creditori esteri. Con noi Luigi Serra, esperto dell’area del Mediterraneo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il debito pubblico del Libano è pari a circa 77 miliardi di euro e corrisponde al 150 per cento del Prodotto interno lordo. I flussi delle entrate necessarie per finanziare la spesa pubblica si sono notevolmente ridotti. Il primo ministro libanese, Hassan Diab, ha fatto sapere che lunedì 9 marzo il Libano non è in grado di pagare la rata da 1,2 miliardi di dollari di interessi e cercherà nuovi accordi con i creditori. E’ la prima volta che il Libano, che da anni attraversa una grave crisi economica, non paga una rata del suo debito e rappresenta un segnale delle difficoltà nel Paese. In un discorso tenuto al termine di un lungo incontro con i suoi ministri e i rappresentanti delle banche del Paese, sabato 7 marzo, Diab ha spiegato che «il debito è diventato più grande di quanto il Libano possa sostenere ed è impossibile per i libanesi pagare gli interessi» sottolineando che sono in corso incontri con i creditori per ristrutturare l’enorme debito pubblico ed evitare la bancarotta.

Gli antefatti del default

Dopo anni di crescita, la crisi economica in Libano è cominciata nel 2011. Certamente l’impegno ad accogliere più di un milione di profughi in fuga dalla guerra in Siria – in un Paese di poco più del doppio di abitanti – non ha contribuito a stabilizzare l’economia, ma il punto centrale è che si sono ridotte da tempo le riserve di valuta straniera necessaria per ripagare debitori esteri. Le banche hanno imposto grossi limiti ai prelievi e si sono rifiutate di convertire la lira libanese in dollari. Tutti questi fattori hanno ridotto la capacità del Paese di importare beni dall’estero, riducendo le merci disponibili e rendendo ancora più grave la crisi economica. Si tratta di decidere se continuare a usare le sue riserve di valuta per ripagare il debito o saltare il pagamento di lunedì e conservarle per le importazioni.

Per ricordare cosa rappresenti il Libano in tutta l’area mediorientale e per spiegare alcuni degli elementi alla base della crisi economica, abbiamo intervistato Luigi Serra, docente all’Università Orientale di Napoli:

Quanto sta accadendo in Libano si inquadra nel difficile orizzonte pan mediterraneo di paesi in crisi politica ed economica, tra disagi, drammi, compreso quello dei morti in mare. Il Libano è circondato da scenari tragici e da Paesi gestiti da regimi e toccati dal terrorismo.  Finora ha rappresentato nell’area una sponda di libertà, di tranquillità, di una gestione più meno democratica della vita, un esempio di solidarietà con i profughi.

Il malessere della gente nelle proteste di ottobre

I problemi per l’economia del Paese sono stati già al centro delle manifestazioni scoppiate ad ottobre scorso: gli slogan erano diretti contro la corruzione e contro il carovita. Il default di oggi arriva da lontano. Di fronte alle proteste sono state fatte promesse che non risulta si possano mantenere.

Negli anni Settanta il Libano era considerato la Svizzera del Medio Oriente. Era un luogo dove depositi finanziari arrivavano da molti altri paesi perché ritenuto sicuro. Poi è arrivata la guerra civile (1975-1990) e da allora il paese non si è mai davvero ripreso, anche se non si pensava in questi anni che il Libano arrivasse al crollo dell’economia. Certamente negli ultimi vent’anni è cambiato il flusso finanziario e sono cambiati i paesi di provenienza. In alcuni casi si è trattato di transiti non ufficiali, non sempre legalmente controllati

da Vatican NEWS del 9 marzo 2020

Il volto femminile della fratellanza umana

Esponenti delle diverse religioni rilanciano insieme l’impegno a dare attuazione al Documento di Abu Dhabi, firmato il 4 febbraio 2019 da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar. Si sono ritrovate a Roma per firmare una Dichiarazione congiunta per la pace mondiale e la convivenza umana. Con noi rappresentanti della prospettiva musulmana, buddista, ebraica e cattolica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

“Donne costruttrici di fratellanza umana”: questo il titolo dell’incontro organizzato a Roma – il 3 marzo in prossimità della Giornata internazionale della donna – dall’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche (Umofc) in collaborazione con il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Un incontro per promuovere l’impegno comune e concreto delle donne di fede sulla via dell’attuazione di quanto contenuto nel Documento firmato da Francesco e dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb circa un anno fa. Come ha sottolineato allora lo stesso Francesco, il 4 febbraio del 2019, per la prima volta, un Pontefice ha messo piede nella penisola arabica ed è stato il Papa che ha scelto il nome del poverello di Assisi che, ottocento anni prima, in tempo di crociate, si era recato senza armi in terra musulmana a parlare di pace.

A ricordare la straordinarietà dell’evento di Abu Dhabi e le tappe storiche che lo hanno preceduto è stata la teologa iraniana Shahrazad Houshmand:

Dell’importanza di un impegno interreligioso e del ruolo delle donne ha parlato la vice presidente dell’Unione italiana buddisti Reverenda Elena Seishin Viviani:

La consigliera dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei) Sabrina Coen ha sottolineato l’importanza di un impegno a difesa dei valori di fratellanza in un momento storico segnato da un diffuso senso di crisi:

Nella prospettiva femminile è centrale l’impegno educativo, come ha spiegato la Servidora Presidente generale dell’Umofc, Maria Lia Zervino. Nella nostra intervista tra l’altro, sottolinea che il valore principale della Dichiarazione è di essere una risposta alla “chiamata” di Papa Francesco rappresentata dal Documento sulla fratellanza umana:

No alla dittatura dell’algoritmo

“Call for AI Ethics”, appello per un’etica dell’intelligenza artificiale: si chiama così la Carta firmata dall’Accademia per la vita, i vertici di Microsoft, di Ibm, con la partecipazione del Parlamento europeo e della Fao, a conclusione del convegno in Vaticano intitolato “The good Algorithm?”. Con noi monsignor Vincenzo Paglia

Fausta Speranza – Città del Vaticano

L’umanità usi la tecnologia e non viceversa, perché non sia “dittatura dell’algoritmo”. Oltre 450 persone – tra informatici e filosofi, teologi e dirigenti di azienda – si sono ritrovati concordi nel condividere questa raccomandazione che nasce dalla consapevolezza della sfida rappresentata dalla crescente diffusione dei sistemi a cosiddetta intelligenza artificiale. Centrale la riflessione del Papa affidata al messaggio letto in aula dal presidente dell’Accademia per la vita.

 

Per un’intelligenza artificiale umanistica

Salute e diritti: di questo si è parlato in particolare nella seconda giornata del convegno dedicato all’intelligenza artificiale, organizzato in Vaticano dal 26 al 28 febbraio. Oltre 450 gli studiosi a discutere di scienza e di etica. Con noi l’accademico Francesco Profumo.

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Fondamenti teorici, metodologie, programmi che fanno sì che un elaborato elettronico assicuri prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’ingegno umano.

E’ questo sostanzialmente quello che si intende per “intelligenza artificiale”. E il punto – dibattuto sotto vari aspetti al convegno, dall’amministrazione a un settore chiave come quello della salute –  è che non si può prescindere da un discorso etico. Il rischio è che si perda la prospettiva di bene comune e – ha sottolineato lo studioso Jay Shaw del Canada – ad esempio valori come la solidarietà. Stephen Hawking  –  fra i più autorevoli e conosciuti fisici teorici al mondo –  nel 2014 ha messo in guardia riguardo ai pericoli in tema di intelligenza artificiale, definendola una potenziale minaccia per la sopravvivenza dell’umanità. L’imprenditore e inventore informatico Elon Musk ha detto: «Dobbiamo essere super attenti all’intelligenza artificiale: potenzialmente più pericolosa del nucleare.»

Delle prospettive problematiche Fabio Colagrande ha parlato con José Juan  Garcia, studioso dell’Accademia per la vita:

Ma non ci sono solo rischi. Con il professor Francesco Profumo del Politecnico di Torino, che è stato presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche e  ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, abbiamo parlato dell’evoluzione del concetto di intelligenza artificiale, del rapporto con il grande tema dell’educazione e delle potenzialità:

Di responsabilità, di regole abbiamo parlato con Pier Luigi Dal Pino, portavoce di Microsoft:

Far sì che prevalgano le implicazioni positive rispetto ai rischi è proprio l’obiettivo della carta firmata, a conclusione del convegno in Vaticano, dall’Accademia per la vita, i vertici di Microsoft, di Ibm, del Parlamento europeo. Per un’intelligenza artificiale “umanistica”.

da Vatican NEWS del 27 febbraio 2020

A Idlib in Siria è guerra tra potenze regionali

Il presidente Recep Tayyip Erdoğan ribadisce che le forze turche “non faranno un passo indietro” e intanto chiama ad Ankara il presidente russo Vladimir Putin per un bilaterale sull’escalation di violenza nel nord ovest della Siria. E’ fallita per il momento l’iniziativa di un vertice a quattro con i leader di Turchia, Russia, Francia e Germania. Con noi l’esperta di politiche del Mediterraneo Stefania Panebianco

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Intensi scontri armati sono in corso nella Siria nord-occidentale tra forze governative sostenute dalla Russia e milizie ribelli appoggiate dalla Turchia. E il presidente, Recep Tayyip Erdoğan, in un discorso al gruppo parlamentare del suo partito Akp ha ribadito: “Faremo arretrare il regime siriano dietro i limiti definiti” della zona di de-escalation negli accordi con la Russia e “permetteremo il ritorno dei civili nelle proprie case”. L’inasprimento militare in corso da settimane, secondo l’Onu, ha già causato 900.000 sfollati.

Attacchi aerei e via terra

Raid aerei di Mosca e Damasco sono diretti contro le zone ancora controllate da combattenti delle opposizioni armate a sud e a est di Idlib. Razzi terra-terra hanno colpito un convoglio militare turco nella zona di Jabal Zawiya danneggiando alcuni mezzi. Almeno 25 persone sono morte e 80 sono state ferite negli attacchi compiuti ieri.

Impasse della politica

In serata sono attesi ad Ankara i colloqui turco-russi. La scorsa settimana il presidente Erdoğan aveva annunciato per il 5 marzo un vertice tra Turchia, Russia, Francia e Germania che però ieri il Cremlino ha smentito. Al momento non ci sono i termini per un confronto rispettivamente tra i leader Erdoğan, Putin, Macron e Merkel. Resta la situazione critica nella provincia nord occidentale della Siria dove l’offensiva che l’esercito di Damasco ha lanciato da aprile si è intensificata a febbraio. La tensione è massima perché nelle ultime settimane sono saltate sul campo alcune delle alleanze contro i ribelli: le forze turche hanno attaccato le stesse forze siriane parlando di sconfinamenti alla frontiera fissata per la zona di de-escalation. In questi giorni un numero imprecisato di soldati turchi sono stati uccisi e altri sono rimasti feriti nei raid aerei russi e governativi. L’offensiva delle truppe governative va avanti con il sostegno di Mosca. Ieri il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, ha respinto gli inviti a una tregua nella provincia siriana di Idlib. “Sarebbe capitolare di fronte ai terroristi, e persino ricompensarli per le loro attività in violazione dei trattati internazionali e di numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu”, ha detto Lavrov al Consiglio per i diritti umani Onu a Ginevra.

Peggiora la crisi umanitaria

Preoccupa la situazione dei civili. Secondo Medici senza frontiere sono state colpite scuole che ospitano famiglie sfollate. Anche Save the Children denuncia il bombardamento di dieci scuole, in cui sono morti una bambina e altre 9 persone. Secondo l’Ong e il suo partner sul campo Hurras Network, alcune scuole colpite erano in funzione, altre erano in pausa per un giorno e altre ancora venivano utilizzate come rifugi. Dall’inizio dell’anno sono già 22 le scuole bombardate, di cui quasi la metà nelle ultime ore. Save the Children e i partner locali stanno continuando a verificare le informazioni sugli attacchi che sarebbero stati lanciati per la maggior parte durante l’orario scolastico. Almeno tre insegnanti sono stati uccisi, mentre decine di altri bambini e almeno sette insegnanti sono rimasti feriti.

Dell’impasse sul piano politico e dell’emergenza umanitaria, abbiamo parlato con Stefania Panebianco, professoressa associata di Politiche di sicurezza nel Mediterraneo:

R. – Mi sembra evidente che la politica che il presidente  Erdoğan sta svolgendo e conducendo nell’area mediorientale – estendosi peraltro fino alla Libia – rappresenta una tradizionale forma di potenza regionale affermata attraverso una guerra tradizionale. In un conflitto “by proxy”, giocato cioè in territorio straniero da due chiari attori quali Russia e Turchia, Erdoğan sta riportando la tradizionale Real politik al centro di tutto. Sta utilizzando tradizionali strumenti di guerra. Non ha timore a utilizzare il suo esercito anche “lontano da casa”. Sono vecchi schemi.

Che margine c’è per altri attori internazionali?

R. – Speriamo che l’intervento dell’Iran che sta tentando di essere una sorta di paciere possa avere un peso. Noi speriamo che possa rientrare in altri sforzi di diplomazia tradizionale, ma la diplomazia tradizionale è in crisi. Per quanto riguarda l’Unione Europea, il nuovo Alto Commissario per gli Affari esteri e le politiche di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, ha avuto il suo esordio con la Conferenza di Berlino. E’ all’inizio del suo mandato. L’Europa appare debole – e tanto più in relazione alla Brexit – e incapace di fare da leader per una soluzione diplomatica. E dunque l’impasse allo stato rimane l’unica situzione possibile.

Professoressa, resta la drammatica situazione umanitaria a Idlib…

R. – E’ questo il vero problema! Nel momento in cui ci sono attacchi alle scuole, agli asili e dunque i civili sono utilizzati come bersaglio, sono scardinate tutte le regole in base alle quale i civili dovevano essere protetti, dovevano essere lasciati fuori dai conflitti.

da Vatican NEWS del 26 febbraio 2020