Peggiora la condizione dell’infanzia in tutto il mondo

Nessun Paese sta proteggendo adeguatamente la salute dei bambini, l’ambiente in cui vivono e il loro futuro. E’ la denuncia che emerge dal rapporto stilato da oltre 40 esperti della salute dei minori nel mondo, incaricati da una Commissione nominata dall’Oms, dall’Unicef e dalla rivista Lancet. Con noi l’economista Franco Bruni

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Non sono solo conflitti e siccità a minacciare salute e futuro dell’infanzia in alcune aree più povere del mondo, ma ci sono altri fattori che minano lo sviluppo nelle zone più ricche: dal degrado ecologico alle pratiche abusive di marketing che spingono i giovani consumatori verso i fast food, le bevande zuccherate, l’alcol e il tabacco.

Il dramma dei Paesi poveri

Il rapporto degli esperti fotografa una situazione drammaticamente ben nota nei Paesi a medio e basso reddito: 250 milioni di bambini sotto i cinque anni   rischiano di non raggiungere il loro potenziale di sviluppo, secondo misurazioni indicative sulla malnutrizione cronica e la povertà. In questo caso lo sviluppo, che significa il futuro stesso di questa fetta di umanità è messo a rischio da crisi umanitarie, conflitti, disastri naturali, problemi sempre più legati al cambiamento climatico.

L’inquinamento dell’aria e del cibo nei Paesi più avanzati

Quello che colpisce di più è che la preoccupazione in tema di infanzia riguarda anche i Paesi ad alto reddito dove il marketing commerciale dannoso colpisce i giovanissimi e dove il numero di bambini e adolescenti obesi è aumentato dagli 11 milioni del 1975 ai 124 milioni del 2016. Si tratta di un aumento di 11 volte.

Devono far riflettere alcuni dati: i ragazzini vedono ben 30.000 annunci pubblicitari solo in televisione in un anno. In particolare negli Stati Uniti in due anni l’esposizione dei giovani alla pubblicità delle sigarette elettroniche è aumentata di oltre il 250 per cento, raggiungendo più di 24 milioni di ragazzi. In Australia – solo in un anno di programmi televisivi di calcio, cricket e rugby – gli spettatori minori sono stati esposti a 51 milioni di pubblicità di alcolici.

Se l’ambiente diventa una minaccia

Si deve parlare di questione ambientale e di freno delle potenzialità di sviluppo non solo per le zone degradate dove immaginiamo un inquinamento non regolamentato in nessun modo. Si deve considerare   che per quanto concerne le emissioni di CO2 pro-capite, gli Stati Uniti d’America, l’Australia e l’Arabia Saudita sono tra i dieci Paesi con i dati peggiori. Per quanto riguarda l’Europa, offre la “migliore casa” al mondo per i primi anni di un bambino nato oggi –  otto tra i primi dieci Paesi nell’indice che misura la sopravvivenza e il benessere sono europei –  ma non si può dire altrettanto vincente quando si tratta di misurare le prospettive di un futuro sostenibile. L’intensificarsi dei cambiamenti climatici minaccia il futuro di ogni bambino – Il rapporto include un nuovo indice globale di 180 paesi, comparando i risultati sullo sviluppo dell’infanzia – che comprende le misurazioni della sopravvivenza e del benessere dei bambini, come la salute, l’istruzione e la nutrizione – con l’indice della sostenibilità, una misurazione indicativa delle emissioni di gas serra, e dell’equità, o i divari di reddito. Tutte le questioni citate non possono essere affrontate soltanto dal punto di vista umanitario o sociologico, abbiamo chiesto la valutazione dell’economista Franco Bruni professore ordinario di Teoria e Politica monetaria internazionale all’Università Bocconi di Milano,   vicepresidente dell’Ispi e Co-Head dell’Osservatorio Europa e Governance Globale:

R. – Stiamo parlando della questione al centro del problema economico principale: il mondo ha scarsa attenzione al futuro, il futuro più lontano e questo si riflette immediatamente su una scarsa attenzione all’infanzia. Noi stiamo mettendo il peso della nostra disattenzione e concretamente dei nostri debiti sulle prossime generazioni. E non ci sarebbe niente di più importante dal punto di vista economico e politico di guardare il medio-lungo periodo. L’attenzione a tutto quello che sarà domani purtroppo risulta lontano rispetto alla prospettiva dei periodi elettorali con la quale i nostri politici guardano i problemi.

Che cosa comporterà il fatto che il mondo stia fallendo nel fornire ai bambini una vita sana e un clima adatto al loro futuro?

R. – Pensiamo ai problemi medici dovuti alla cattiva nutrizione, per un verso o per un altro: è un problema ovviamente umano ma anche un problema economico, per l’aumento dei costi e la minore produttività di una generazione esposta a varie forme di inquinamento. Ci sarà   una generazione che sarà costosissima per se stessa, per la sanità pubblica. E’ un problema umano, sociale ed economico. Dovremmo pensare quasi solo alle prossime generazioni e invece stiamo pensando a noi con una visione molto poco lungimirante.

Inoltre, va detto che i paesi in via di sviluppo o emergenti hanno dei problemi diversi da quelli dei Paesi più avanzati ma man mano che in quelle zone del mondo aumenta l’industrializzazione e un certo sviluppo aumentano anche i problemi legati per esempio al cibo spazzatura o all’inquinamento atmosferico.

“Nonostante la salute dei bambini e degli adolescenti sia migliorata negli ultimi 20 anni, i progressi si sono fermati, e sono destinati a tornare indietro”, ha dichiarato Helen Clark, ex primo ministro della Nuova Zelanda e Copresidente della Commissione.  “I paesi devono rivedere il loro approccio alla salute dei bambini e degli adolescenti, per garantire che non solo ci prenderemo cura dei nostri bambini oggi, ma che proteggeremo il mondo che erediteranno in futuro”, ha aggiunto Clark.

Per capire quale sia e quale dovrebbe essere il ruolo della comunità internazionale, abbiamo parlato con Francesco Cherubini, docente di Organizzazioni internazionali e diritti umani all’Università Luiss:

Massacri in Camerun tra spinte secessioniste e terrorismo

Ancora violenza nelle province anglofone del Camerun, Paese a maggioranza francofona che, da tre anni, è sconvolto da tensioni etnico-linguistiche. Nell’attacco ad un villaggio sono stati massacrati donne e bambini. Il Paese è scosso da tensioni interne in una situazione politica di apparente stabilità e intanto si fa sempre più incombente la pressione dalla Nigeria del gruppo terroristico Boko Haram. Intervista all’africanista Anna Bono

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Strage in un villaggio nel nord-ovest del Camerun: uccise 22 persone per lo più bambini, al di sotto dei cinque anni, e donne, una anche incinta. A riferire del massacro è stato James Nunan, capo dell’Ufficio dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) per le regioni nord-occidentali e sud-occidentali del Camerun. «Qualunque gruppo abbia fatto questo ha aperto una stagione di nuove violenze – hanno detto alcuni funzionari delle Nazioni Unite – e le persone con cui abbiamo parlato sono traumatizzate e non se lo aspettavano». Nessuno ha rivendicato l’assalto, ma un partito di opposizione ha chiamato in causa esponenti dell’esercito. Il governo del Camerun ha però negato qualunque coinvolgimento.  In una dichiarazione, uno dei principali partiti dell’opposizione del Paese, The Movement for the Rebirth of Camerun, ha accusato quello che ha definito “il regime dittatoriale” e il capo delle forze di sicurezza. E Agbor Mballa, figura di spicco nel movimento separatista, ha accusato le forze di difesa dello Stato. Un portavoce dell’esercito ha risposto definendo “false” le accuse.

Delle laceranti tensioni interne,  dell’incombere del gruppo terroristico di Boko Haram e del processo elettorale abbiamo parlato con la studiosa africanista Anna Bono:

Questione anglofona e terrorismo

Non c’è pace nelle due province anglofone di un Paese francofono. Il Presidente del Camerun  Paul Biya  – in carica dal 1982 – è stato accusato di violazioni dei diritti umani nel conflitto nelle province nord-occidentali, dove la maggior parte della popolazione parla inglese ed è legata a tradizioni amministrative britanniche. I gruppi di separatisti armati hanno iniziato a combattere contro le forze dell’ordine di Yaoundé nel 2017 e hanno dichiarato l’indipendenza della cosiddetta Ambazonia, ma il Presidente del Camerun, Biya, ha etichettato i gruppi come “terroristi”. Più di 3.000 persone sono morte nei combattimenti e almeno 70.000 persone sono fuggite dalle loro case.

Ma c’è anche la minaccia terroristica.  Molti villaggi camerunensi vicini al confine nigeriano sono stati distrutti da Boko Haram, il gruppo terrorista di matrice islamica che ormai da qualche anno ha varcato i confini della Nigeria e terrorizza i Paesi vicini, oltre al Camerun, il Niger e il Ciad. Nel solo 2019 il gruppo terroristico ha commesso più di 100 attacchi in Camerun, uccidendo oltre un centinaio di civili. E oltre 270.000 camerunensi sono sfollati a causa delle violenze di Boko Haram. La povertà, l’insicurezza e la mancanza di prospettive future rende i ragazzi obiettivi facili da manipolare per i jihadisti.

La sfida elettorale

In tutto questo contesto, il 9 febbraio 2020 si sono svolte le elezioni legislative e municipali. L’affluenza è stata molto ridotta e non soltanto nelle zone colpite dalle violenze.  La Commissione nazionale per il censimento generale dei voti ha iniziato i suoi lavori oggi, 17 febbraio, più di una settimana dopo le elezioni legislative e municipali. L’annuncio dei risultati deve avvenire entro e non oltre il 29 febbraio dopo aver esaminato gli appelli dei partiti politici che denunciano le irregolarità in cui queste elezioni sembra siano state contaminate. Quaranta richieste di annullamento parziale o totale del doppio scrutinio delle elezioni legislative e comunali del 9 febbraio sono state depositate nel registro del Consiglio costituzionale. A presentare i ricorsi sono stati una dozzina di partiti politici, tra cui il Fronte socialdemocratico (Sdf), l’Alleanza nazionale per la democrazia e il progresso (Andp e persino il Raduno democratico del popolo camerunese (Rdpc), un partito al potere, ma accreditato con un grande anticipo alla prossima Assemblea Nazionale, secondo le prime proiezioni dei risultati.

da Vatican NEWS del 17 febbraio 2020

Preoccupazione per l’escalation di tensione in Siria

Mosca tenta una mediazione tra Damasco e Ankara. Il presidente turco Erdoğan non esclude attacchi in qualunque zona della Siria se soldati turchi “subiranno danni”. Si aggrava la preoccupazione per i civili nella provincia di Idlib, mentre risultano a rischio non soltanto il Memorandum di Sochi ma principi basilari del diritto internazionale. Con noi l’esperto di geopolitica Alfonso Giordano

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il Cremlino ha fatto sapere che i Presidenti, Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan, hanno discusso al telefono della situazione nella provincia siriana di Idlib e hanno sottolineato la necessità della “piena attuazione degli accordi esistenti tra Russia e Turchia”, compreso il memorandum di Sochi del 17 settembre 2018.

Mosca è intervenuta dopo la forte dichiarazione di Erdoğan ieri. Il Presidente turco ha parlato al gruppo parlamentare del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) ad Ankara.  “Da oggi in poi, se i nostri soldati nelle postazioni di osservazione (a Idlib, ndr) subiranno danni, colpiremo le forze del regime siriano ovunque, senza essere vincolati ai confini del memorandum di Sochi”, ha detto sottolineando che l’intervento sarebbe “sul terreno e con l’aviazione”. Dei reali obiettivi di Ankara e della gravità di quanto sta accadendo, abbiamo parlato con Alfonso Giordano, docente di geopolitica e flussi migratori all’Università Luiss:

R. – Questa minaccia viene fatta in maniera deliberata al di fuori di quello che sono i principi del diritto internazionale. Queste cose accadevano anche in passato, ma non venivano così deliberatamente dichiarate. Quindi, in realtà, c’è una voglia di affermazione di potenza regionale da parte della Turchia, a prescindere da quelli che sono i dettami del diritto internazionale, perché è chiaro che si tratta di territorio legalmente siriano. È evidente che si approfitta della debolezza della Siria, ovviamente a causa del conflitto che ha subito negli ultimi anni, ma l’idea di fondo è che c’è una dichiarazione a prescindere da quelli che sono i dettami del diritto internazionale. Quello che manca effettivamente è un coordinamento internazionale e il rispetto delle regole di diritto. La geopolitica cruenta sta avendo il meglio su quello che è il rispetto del diritto internazionale.

Qual è l’obiettivo in questo momento di Ankara?

R. – L’obiettivo è quello di creare quella che adesso loro chiamano zona di descalation, ma che in realtà non è altro che la vecchia zona cuscinetto, cioè un’area controllata da diverse forze per evitare che diventi ancora un’area di criticità, per esempio per gli sfollati; si discute di circa 700.000 persone che si potrebbero dirigere verso il confine turco. Bisogna ricordare che la Turchia, in base all’accordo con l’Europa, accoglie già oltre tre milioni di siriani. Infatti Recep Tayyip Erdoğan ha lanciato un altro messaggio e in questo caso all’Europa. Il messaggio è questo: “Guardate che se disturbate le mie operazioni in quest’area geografica, io posso anche aprire le mie porte verso l’Europa e quindi riversarvi quei siriani e quegli altri rifugiati che invece sto tenendo in casa mia grazie all’accordo fatto dall’Europa con la Turchia”. Bisogna ricordare che quell’area è un’area abitata anche dall’etnia curda. È chiaro che la Turchia ha un problema interno non risolto con l’etnia curda che abita tutta la parte est della Turchia e naturalmente alcune altre aree di Paesi vicini come quello del nord ovest della Siria. Controllare quell’aria significa mantenere i curdi in quell’area, controllare l’area di passaggio appunto tra la Turchia e la Siria significherebbe per Ankara non cedere a un controllo totale dei siriani, come il diritto internazionale vorrebbe, visto che quello è territorio siriano. L’obiettivo è di creare appunto questa zona di descalation utile a controllare geopoliticamente l’area geografica dal punto di vista sia dei flussi migratori sia della presenza dei curdi e di possibili tensioni che possono nascere.

Professore, ricordiamo brevemente i termini del memorandum di Sochi?

R. – Il memorandum implicava appunto una serie di accordi tra i Paesi di quell’area che prevedeva la possibilità di sedersi a un tavolo qualora ci fossero stati degli scontri,  e possibilità di intervento umanitario. Questa intesa evidentemente è saltata, quindi la Turchia vuole affermare la sua potenza regionale, la Russia si presenta come il nuovo unico attore geostrategico di tutta l’area mediorientale di sbocco sul Mediterraneo. E tutto questo è anche dovuto al fatto che c’è l’assenza degli Stati Uniti.

Sembra evidente che nel momento in cui bisognava combattere l’Is erano tutti d’accordo mentre adesso che in qualche modo ci sarà da spartire zone di potere in Siria pensiamo ai porti e ai pozzi petroliferi, questi Paesi poi non sono affatto d’accordo…

R. – È evidente che molte potenze regionali e –  possiamo dire – una potenza più che regionale come la Russia, stanno attendendo di dividere quegli spazi geografici; chi appunto per l’accesso al mare, chi per il controllo dell’area strategicamente vitale per i flussi migratori, chi per controllare un’area abitata e questo è l’interesse soprattutto dei curdi. E’ evidente che quando si trattava di combattere i terroristi questi Paesi avevano trovato l’accordo. Oggi che invece c’è una possibilità di spartizione post guerra della Siria si fanno conteggi e accordi diversi.

da Vatican NEWS del 12 febbraio 2020

Ifad, sostegno ai piccoli agricoltori per combattere la fame e difendere l’ambiente

Ogni giorno 820 milioni di persone soffrono la fame e il divario tra poveri e ricchi aumenta sempre di più. Di questo passo – tra distorsioni delle strategie economiche e disastri ambientali – sarà difficile raggiungere i primi due Obiettivi di sviluppo sostenibile, ovvero eliminare fame e povertà assoluta entro il 2030. Secondo l’Ifad una via c’è: puntare sui piccoli agricoltori . Con noi gli esperti dell’Ifad, Federica Cerulli e Paolo Silveri

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Conflitti e catastrofi naturali stanno diventando la nuova norma. Sono le persone più emarginate a soffrire maggiormente delle conseguenze dei cambiamenti climatici, ma Gilbert F. Houngbo, Presidente del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad)  sottolinea chiaramente che “la minaccia esistenziale riguarda i sistemi alimentari di tutti”. I dati – presentati nell’ambito del Consiglio dei governatori l’11 e il 12 febbraio  – sono sotto gli occhi di tutti: 45 milioni di persone costrette a fare i conti con una grave crisi alimentare in Africa, terreni agricoli devastati da alluvioni in Europa, l’Australia arsa dalle fiamme. Il quadro è preoccupante ma dal rapporto dell’Ifad 2020 non emergono solo le criticità: si trova un’indicazione precisa di una possibile via da percorrere. Si legge: “La speranza è rappresentata dai piccoli agricoltori che producono reddito e cibo per le persone più povere della terra.”

Le potenzialità dei piccoli agricoltori

Circa la metà delle calorie alimentari del mondo vengono prodotte dai piccoli agricoltori, che coltivano solo il 30 per cento delle terre agricole esistenti al mondo. Questi agricoltori sono fortemente motivati a ottenere il massimo dalle loro terre e dal loro lavoro. Hanno anche la tendenza a coltivare una varietà più ampia di colture adatte alle condizioni locali. Indubbiamente l’agricoltura è influenzata dalle condizioni climatiche e le pratiche agricole hanno un impatto sul clima. Il punto è che l’importanza a livello globale di investire nella piccola agricoltura è spesso sottovalutata. La ricorda ai nostri microfoni Federica Cerulli, funzionaria dell’Ifad:

L’Ifad invita a considerare alcuni elementi chiave: una maggiore varietà nelle colture rende i sistemi agricoli meno vulnerabili alle epidemie causate da parassiti e malattie, migliora la fertilità del suolo e rafforza la capacità di resilienza a siccità e alluvioni. Inoltre, le pratiche agricole rispettose dell’ambiente riducono le emissioni di gas serra e favoriscono la cattura del diossido di carbonio, possono rigenerare le falde acquifere e prevenire frane e tempeste di sabbia.  Il prosperare delle piccole aziende agricole non solo fornisce cibo, ma crea anche lavoro, oltre ad alimentare una domanda di beni e servizi prodotti localmente. E questa domanda, a sua volta, genera opportunità, crescita economica e società più stabili.

Investimenti e strategie

In concreto, il Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo chiede di riconoscere l’importanza dei piccoli agricoltori e di investire su di loro. E gli studiosi dell’Ifad fanno anche un calcolo preciso: per eliminare la fame nel mondo è necessario investire ogni anno nell’agricoltura 115,6 miliardi di dollari. Eppure all’agricoltura sono destinati solo circa 10 miliardi all’anno, in forma di aiuti pubblici allo sviluppo. L’appello è chiarissimo: se si vogliono davvero eliminare fame e povertà, queste cifre non sono sufficienti. Tra la quantità di investimenti necesari e quella stanziata c’è grande differenza, in particolare in un’area critica come quella dell’America Latina, come spiega nell’intervista Paolo Silveri, economista regionale della Divisione America Latina e Caraibi del Dipartimento per i programmi Ifad:

Puntare sui più deboli invece di trascurarli

L’obiettivo, dunque, è investire proprio sulle persone che hanno maggiore probabilità di essere lasciate indietro: i poveri, i piccoli agricoltori, le donne, i giovani e le popolazioni indigene che vivono in aree rurali isolate, raggiunte di rado dalle iniziative di sviluppo. La modalità possibile è quella di lavorare in partenariato con i governi e con le popolazioni rurali stesse per migliorare le loro possibilità di accedere a servizi finanziari, tecnologia e formazione e far sì che l’agricoltura diventi un’attività sostenibile e che quanti vivono nelle aree rurali abbiano maggiori capacità di resilienza rispetto a condizioni climatiche imprevedibili. Dal rapporto 2020 dell’Ifad si capisce che servono maggiori finanziamenti, più partenariati, modelli finanziari migliori e approcci più inclusivi. L’Ifad sta sollecitando i governi ad adempiere agli impegni presi investendo di più, in modo da permetterci di raddoppiare il nostro impatto entro il 2030.

da Vatican NEWS dell’11 febbraio 2020

In Siria il dramma dei civili nel nord del Paese

Il recente appello del Papa all’Angelus domenicale per la fine delle violenze nel nord della Siria è stato accolto con commozione dalle poche centinaia di cristiani rimasti nella regione della città di Idlib. Supporto materiale e spirituale viene fornito dai Francescani di Terra Santa rimasti sul territorio nonostante il conflitto. Drammatica in genere la situazione di tutti i civili. La nostra intervista.

Fausta Speranza e Manuela Affeeje – Città del Vaticano

Al nono anno di conflitto in Siria, da due mesi l’attenzione si è concentrata nel nord, in particolare nella zona occidentale. L’ultimo aggiornamento dell’agenzia ufficiale siriana, Sana, attesta che le forze armate di Damasco hanno ripristinato il controllo su un’area di 600 chilometri quadrati nelle province di Aleppo e Idlib. Nei giorni scorsi le truppe siriane avevano già ripreso in mano la città di Saraqib, punto chiave nella provincia di Idlib e strategicamente importante per la sua posizione all’incrocio delle autostrade internazionali M4 (Latakia-Aleppo) e M5 (Damasco-Aleppo). Il memorandum firmato nel 2018 da Russia e Turchia prevede il riavvio del traffico automobilistico lungo queste autostrade, per garantire la libera circolazione di persone e merci. L’offensiva è partita nella parte occidentale di Aleppo a gennaio in risposta – spiega Damasco – a bombardamenti di ribelli contro aree residenziali della città, costati la vita a decine di civili. Poi tra il 3 e il 5 febbraio, si è consumato lo strappo tra Damasco e Ankara, fino a quel momento alleati, anche con Mosca, contro le forze di opposizione.  Le tensioni si sono palesate quando  le posizioni delle truppe turche vicino alla città Saraqib sono state bersagliate dall’esercito siriano e l’aviazione e l’artiglieria della Turchia hanno risposto attaccando decine di obiettivi a Idlib.

Civili in fuga dalle violenze

Alla luce degli ultimi eventi, la zona di Idlib è diventata una sorta di zona chiusa, da dove, a causa delle violenze in corso, non si può entrare, nè tantomeno uscire. Suor Maria Lucia Ferreira, religiosa portoghese, che vive in Siria, nel Monastero di San Giacomo Mutilato a Qara, 90 km a nord di Damasco, afferma che ci sono centinaia di cristiani ostaggi nella regione d Idlib. “Ci sono fedeli cristiani – afferma la suora – trattenuti e presi in ostaggio nella zona di Idlib e la situazione potrebbe esplodere da un momento all’altro”. Altrettanto drammatica la situazione dei civili. Attualmente sono circa 90 mila gli sfollati da Idlib negli ultimi giorni, che si sono diretti verso la frontiera turca a seguito dei raid siriani e russi contro la roccaforte ribelle nel nord-ovest del Paese. Secondo l’Onu, da dicembre gli sfollati da Idlib sono circa mezzo milione. Suor Maria Lucia si è detta inoltre preoccupata per la situazione in tre villaggi abitati da cristiani nella zona, dove ci sono persone che “non sono mai riuscite ad andarsene o ad avere contatti con le loro famiglie da quando i terroristi hanno occupato l’area sei o sette anni fa”.

La vicinanza dei francescani ai cristiani e al resto della popolazione sirana

La testionianza di Suor Maria Lucia è confermata da fra Ibrahim Al Sabbagh, parroco di Aleppo della Custodia francescana di Terra Santa. Manuela Affeeje lo ha intervistato.

R. – L’esercito avanza e sta cercando di arrivare alla città di Idlib. Però anche dalla nostra parte, dalla parte di Aleppo, sentiamo che ci sono tantissimi bombardamenti sulla gente, sui civili, che si sono intensificati nell’ultimo mese. Sicuramente la guerra non fa differenza, e ci sono tanti morti: chi paga, alla fine, sono i civili. E allora, da una parte ci sono i missili che cadono da Idlib verso Aleppo, dall’altra ci sono anche le avanzate dell’esercito regolare, con altri bombardamenti sui gruppi armati deill’opposizione.

Ci sono ancora cristiani a Idlib?

R. – Nella provincia di Idlib ci sono circa 700 cristiani in diversi villaggi. Sono rimasti sempre lì: volevano custodire le loro proprietà e si sono rifiutati di andare via. Hanno sicuramente difficoltà, ma resistono in attesa di un futuro migliore. I frati francescani, che sono rimasti sempre con questi cristiani nella provincia di Idlib, servono tutte le comunità, quindi non solo la comunità latina, ma anche la comunità armena e quella greco-ortodossa e stanno cercando in tutti i modi di aiutare, sia a livello umanitario, sia anche a livello spirituale, tutta questa gente: infatti, lì non ci sono più sacerdoti di altri riti, ma soltanto di rito latino, ovvero i francescani della Custodia di Terra Santa.

Ieri, all’Angelus, il Papa ha fatto un accorato appello per la popolazione civile di Idlib …

R. – Ogni volta che il Santo Padre parla di noi, chiedendo preghiere o facendo appelli per la pace, avvertiamo una grande consolazione nel cuore, perché sentiamo la sua vicinanza e di tutta la Chiesa universale, accanto a noi in questo momento molto, molto doloroso. Purtroppo, ci si dimentica che cosa vuol dire la guerra; sembra che tutta la comunità internazionale non abbia imparato dalle due guerre mondiali e da tantissimi altri conflitti. Chi paga sono i più vulnerabili. E poi la sofferenza la vediamo anche con i nostri occhi, la tocchiamo ogni giorno nella nostra gente ad Aleppo e in altre città: è una sofferenza terribile. E quindi l’appello che ha fatto il Papa riscalda i cuori nostri e ci lascia veramente molta consolazione nella nostra sofferenza. E’ vero che è un momento molto doloroso per noi, per la gente, per tutta la Siria, per tutti quanti. Questo è il cammino che fa la Chiesa, dire sempre “no” alla guerra, ad alta voce, per difendere sempre i civili e chiamare tutti a vivere in pace e in concordia.

da Vatican NEWS del 10 febbraiio 2020

Nel dramma della tratta l’orrore del traffico di organi

In ricordo di santa Giuseppina Bakhita, la Giornata di preghiera e sensibilizzazione contro l’ignobile sfruttamento di esseri umani. Dalla prostituzione al caporalato, fino all’indicibile crimine del traffico di organi. Con noi il criminologo Antonio Leggiero

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Una Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratta di esseri umani. Ricorre l’8 febbraio, nel giorno che ricorda la memoria liturgica di santa Giuseppina Bakhita, suora di origini sudanesi che era stata resa schiava a sette anni. L’ignobile sfruttamento di 40 milioni di persone nel mondo si declina in diverse modalità. Ne abbiamo parlato con il criminologo Antonio Leggiero, tra i docenti e collaboratori dell’Amministrazione Penitenziaria italiana:

R. – La questione del traffico di esseri umani che per la verità non è un fenomeno criminologico esclusivo della nostra era ma purtroppo c’è sempre stato. Basti ricordare le odiose tratte dei neri, le tratte degli schiavi, fenomeno antico come l’essere umano. Oggi chiaramente è tra l’altro maggiormente evidente perché è l’era delle comunicazioni globali.

Professor Leggiero, la questione dei trafficanti di esseri umani è complessa, presenta aspetti di disumanità, di crudeltà configurabili in reati e crimini. Ci aiuta a mettere a fuoco, quali siano proprio i crimini da denunciare?

R. – E’ indubbiamente un crimine ripugnante, estremamente ripugnante. Si parte da un crimine di base che è quello della tratta, la compravendita – è duro dirlo e a maggior ragione è duro comprenderlo – è un po’ il punto di partenza. Poi vi sono ulteriori sviluppi criminosi. Si evolve in varie fenomenologie: la fenomenologia criminosa della schiavitù, quella della prostituzione che come è noto riguarda trasversalmente un po’ tutti i Paesi del mondo e a varie latitudini; poi c’è quella dell’utilizzo di “manodopera” per lo spaccio di stupefacenti; poi ancora il fenomeno del collegamento con i caporalati. E poi c’è la punta dell’iceberg in una ipotetica escalation di nefandezze che è il traffico di organi. Chiaramente è la punta dell’iceberg della ripugnanza del fenomeno della tratta.

Professor Leggiero, cerchiamo di chiarire: accade il prelievo di organi per la vendita, con ricatti o violenze su persone in vita ma anche da persone decedute, pensiamo ai naufragi o altre morti sui percorsi della disperazione dei migranti, ad esempio…

R. – Sì c’è anche questa tipologia. In generale si predilige il trapianto di organi dal corpo di soggetti che si tengono “in disponibilità”, intendo magari sequestrati per diversi giorni e tenuti in condizioni tali da preservare nelle migliori condizioni l’organo che si vuole asportare. E’ terribile ma è così: al momento deciso si procede con l’espianto. E’ invece più difficile per le complesse tecniche operatorie lo scenario dell’asportazione da soggetti non più in vita, in particolare per quelli morti in mare. E’ più “facile” tenere poveri esseri umani sequestrati per diverse settimane, appunto alimentarli anche bene per tutelare l’utilità e l’efficacia degli organi e poi procedere all’espianto.

Professore,  da criminologo lei sa che ci sono stati casi in cui criminali sono arrivati tempestivamente sulla scena del naufragio per prelevare organi? … Non parliamo di casi ipotetici…

R. – Casi sporadici di sciacallaggio estremo, quale è quello appunto dell’asportazione di organi e quindi del prelievo da cadaveri in queste terrificanti sciagure marittime, ci sono stati. Casi isolati. Su questo ci sono scenari internazionali che si aprono.

C’è anche lo scenario di chi queste persone le trattiene nei lager per prelevare organi la cui asportazione non è compatibile con il restare in vita di queste persone….

R. – Certo, certo questo è un altro aspetto. Diciamo che è una realtà effettivamente molto composita, poliedrica da definire sullo sfondo di una tragicità estrema.

In particolare, dobbiamo anche parlare di minori che scompaiono. Quando sentiamo le cifre di quanti sfuggono al controllo dopo essere stati ad esempio registrati al termine di un viaggio dall’Africa all’Europa, dobbiamo pensare anche a questo indicibile scenario?

R. – Sicuramente. C’è un’aliquota rispetto alle cifre sui minori scomparsi in qualunque tratta nel mondo. Ovviamente in particolare in Paesi e zone del mondo dove i controlli sono molto labili. C’è un’aliquota di minori che scompare e che purtroppo è destinata al traffico di organi.

da Vatican NEWS dell’8 febbraio 2020

Coronavirus e fake news

Rischio “infodemia”: a coniare il termine è stata l’Organizzazione Mondiale della Sanità. In questi giorni ha denunciato la diffusione, troppo spesso incontrollata, di notizie false in relazione alla pandemia del coronavirus. Le notizie oggettive di vittime sono accompagnate dalle più varie fake news. Con noi il generale Giuseppe Morabito, analista della Nato

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Sono almeno 565 i morti per il coronavirus nel mondo mentre i contagi a livello globale ammontano a oltre 28.000 casi e le persone guarite sono già 1.147. Sono quasi tremila i nuovi casi nella provincia di Hubei, dove si sono registrate 70 nuove vittime. La diffusione non arretra in molte zone, mentre, nonostante gli scambi ormai planetari, in tanti altri Paesi si è riusciti a porre un argine.  Intanto, è stato reso noto che sulla nave da crociera  della Carnival Japan in quarantena nella baia di Yokohama, al largo del Giappone, ci sono anche 35 italiani di cui 25 membri dell’equipaggio: venti persone sono risultate positive al test.  Le autorità sanitarie nipponiche hanno sottoposto a test 273 dei circa 3.700 passeggeri, oltre all’equipaggio. Il Giappone aveva messo due giorni fa la nave in quarantena perché alcune persone avevano sviluppato i sintomi del morbo dopo lo sbarco di un contagiato a Hong Kong il 25 gennaio scorso.

Oltre i dati le fake news

In ogni caso, sono tante le falsità circolate soprattutto sui social: casi di contagio inesistenti, cure miracolanti alla candeggina, presunte infezioni attraverso il cibo. E poi c’è chi ha ipotizzato che il virus sia stato pensato come arma batteriologica: sarebbe una versione potenziata della Sars realizzata in un laboratorio di Wuhan a scopo militare. La struttura effettivamente esiste e si chiama Wuhan National Biosafety Laboratory. Il centro è stato realizzato nell’ottica di un memorandum tra Cina e Francia e si occupa di biosicurezza. Ma per capire cosa significhi parlare davvero di armi batteriologiche, abbiamo intervistato il generale Giuseppe Morabito, membro del Direttorato della Nato Defence College Foundation:

R. – Le armi batteriologiche non sono facili da trovare: vanno “costruite”, sintetizzate in laboratorio. E vanno anche conservate in un certo modo. Ci sono tre tipi di armi da considerare in questo contesto: le armi nucleari, le armi chimiche, le armi batteriologiche. Non è facile procurarsi   nessuna di queste armi. Quelle batteriologiche sono le più infide perché può andare in tutto il mondo: non c’è possibilità reale di controllo sulla diffusione, come può essere per quelle chimiche che originano in un’area e lasciano immaginare l’espansione.  La diffusione del contagio è molto meno prevedibile. O non c’è una direzione data dal vento per esempio come per l’arma nucleare o dal fall out. L’arma batteriologica può andare ovunque. Ma sono armi di difficile “fabbricazione” ma ancora di più di difficile trasporto e utilizzazione. Bisogna essere esperti. Un’arma batteriologica si contamina in breve tempo, facilmente anche solo per sbalzi di temperatura: bisogna dunque essere in grado di proteggere in un certo modo la sostanza e chi la trasporti. Non è facile.

Generale, parliamo di processi verso il disarmo considerando le armi più o meno  “tradizionali” – con tappe in avanti ma anche passi indietro – ma ci sono strategie di cooperazione a livello internazionale anche in tema di armi batteriologiche?

R. – Ci sono convenzioni internazionali che pongono regole e limitazioni. Le convenzioni ci sono ma bisogna vedere se la singola nazione o la singola organizzazione le rispettano. Non è sempre detto che una nazione che firma una convenzione poi la rispetti.

Generale, una sua riflessione a proposito di questa espressione “infodemia” coniata dall’Oms…

R. – E’ una parola nuova con la quale l’Oms ha voluto lanciare un messaggio. Certamente l’informazione si è moltiplicata, in particolare su internet e sui social, a proposito dell’infezione, la pandemia da coronavirus. Ma dobbiamo ricordarci che il fenomeno riguarda una parte del mondo ma non tutto. Parliamo di informazione e dunque di infodemia per le zone dove arrivano le connessioni digitali e internet, dove arrivano   anche tv e giornali. Ma non è così dappertutto. Possiamo essere sicuri che in Africa, in India, o anche in alcune zone della Cina, sia arrivata la stesa informazione? Possiamo immaginare che in tutte le zone del mondo ci sia la stessa informazione o ci siano le stesse strutture di risposta ad una pandemia? Pensiamo a territori agricoli a ridosso di zone equatoriali dove le informazioni di cui parliamo non sono arrivate: né fake news ma neanche la corretta informazione. Non possiamo dimenticare, ad esempio, che il continente che vive la maggiore penetrazione da parte della Cina è l’Africa: si tratta di penetrazione economica, sfruttamento delle materie prime, commercio. Ci sono scambi commerciali continui con la Cina e anche con la città cinese di Wuhan. Speriamo che non ci siano stati contagi. Per non parlare delle zone del Sahel,   del Corno d’Africa, ma anche ad esempio dell’Afghanistan. Ci sono aree del mondo dove ad esempio le radio non possono essere diffuse per restrizioni imposte. Ecco, dobbiamo parlare di infodemia, delle fake news, ma ricordandoci che in alcune zone del mondo il problema è opposto: non troppa informazione ma troppo poca.

da Vatican NEWS del 6 febbraio 2020

Jeffrey Sachs: non arrendersi alle distorsioni dell’economia

In un tempo di disuguaglianze sociali, è necessario recuperare la solidarietà tra i popoli, i governi e le organizzazioni internazionali. E’ la sfida di cui si discute all’incontro tra esponenti del mondo economico in corso alla Casina Pio IV in Vaticano. Con noi l’economista Jeffrey Sachs

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Solidarietà e finanza speculativa: sono tra i termini che tornano al workshop in corso in Vaticano intitolato “Nuove forme di fraternità solidale, di inclusione, integrazione e innovazione” cui oggi è intervenuto anche Papa Francesco con un lungo e articolato discorso. Si parla di regole del gioco economico internazionale che generano disuguaglianze e si cerca di indicare la via per correggere le distorsioni strutturali del sistema. La solidarietà è uno dei tre pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa, assieme alla sussidiarietà e al bene comune. Ma anche da altri punti di vista dovrebbe essere evidente la non sostenibilità di un’economia in cui – sono dati Onu – l’1 per cento della popolazione di 18 Paesi detiene oltre il 20 per cento della ricchezza mondiale. Tra i tanti relatori, esponenti della politica o accademici, abbiamo intervistato Jeffrey Sachs, economista e saggista statunitense:

R. – La strada da percorrere inizia con una presa di coscienza a livello globale, con la comprensione della necessità di un quadro morale per l’economia. Papa Francesco ha convocato centinaia di giovani economisti da tutto il mondo ad Assisi, alla fine di marzo, per “l’economia di Francesco”: questa sarà un’opportunità importante per stabilire nuove basi morali per la scienza e l’insegnamento dell’economia, che è una cosa di cui abbiamo veramente bisogno. E la Pontificia Accademia delle Scienze sociali insieme alla Pontificia Accademia delle Scienze hanno ospitato già molti incontri ai quali hanno partecipato capi dell’industria, e Papa Francesco ha parlato, per esempio, con i rappresentanti dell’industria del petrolio e ha detto loro: “Voi avete una responsabilità nei riguardi della Creazione, della tutela dell’umanità”, e io so che molti di loro gli hanno dato ascolto – purtroppo, non tutti in maniera sufficiente – ma molti l’hanno ascoltato.

Secondo lei, abbiamo più bisogno di idee o di intenzioni?

R. – Le idee sono estremamente importanti; è importante che le idee siano idee valide che contribuiscano alla formazione dei giovani. La Chiesa lo definisce “discernimento” mentre Aristotele lo definiva “coltivare le virtù”. Credo che le idee e l’insegnameno ai giovani svolgano un ruolo molto importante.

Ma in concreto, cosa possiamo fare? Quali sono gli scopi e quali le sfide?

R. – Lo scopo è quello che la Chiesa definisce “sviluppo umano integrale” e che l’Onu definisce “sviluppo sostenibile”. Significa che le nostre economie dovrebbero essere non soltanto produttive ma anche socialmente inclusive. L’Onu dice: “Non lasciare indietro nessuno”, e la Chiesa chiede “dignità per tutte le persone”, e certamente rispetto in tema ambientale. Abbiamo quindi un’agenda veramente impegnativa, come ad esempio l’Accordo di Parigi sul clima che Papa Francesco aveva sostenuto con tanta forza e alla cui realizzazione ha contribuito. Potrebbe guidarci in maniera molto pratica indicandoci cosa dobbiamo fare.

Ci sono tanti dibattiti economici nel mondo: c’è un valore aggiunto in questo dibattito?

R. – Questo dibattito è profondamente segnato dal Magistero sociale della Chiesa, ispirato da Papa Francesco e avviene riflettendo sulla “Laudato si’”. Per questo, è una discussione di carattere unico. E’ un contributo veramente molto, molto alto offerto al mondo. E’ significativo quello che disse Papa Francesco quando pubblicò la Laudato si’: “Non è soltanto per i credenti, per i fedeli della nostra Chiesa: questa [enciclica] è intesa a originare un dialogo globale” – perché – egli disse ancora – l’interdipendenza ci obbliga a pensare ad un progetto comune e questo è al servizio del dialogo globale.

da Vatican NEWS del 5 febbraio 2020

Siria: la drammatica situazione nella provincia di Idlib

Si intensifica lo scontro nel nord ovest della Siria tra forze di Damasco e truppe di Ankara. E si aggrava la crisi umanitaria. Centinaia di migliaia gli sfollati, in maggioranza donne e bambini. Delicata la posizione di Mosca, da sempre alleata della Siria e impegnata con la Turchia nella strategia di de-escalation. Con noi l’esperto di geopolitica Daniele De Luca

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Un grave scontro diretto tra le forze siriane e quelle turche è in atto nel nord ovest della Siria. L’escalation si è scatenata nella notte nel cuore della provincia  di Idlib, dove da settimane si è concentrata l’offensiva di Damasco contro le forze ribelli. Sembra aver provocato decine di morti su entrambi i fronti.

Tensione tra Ankara e Mosca

Il pattugliamento congiunto tra forze siriane e truppe russe previsto oggi a Kobane è stato annullato. Secondo Mosca, Ankara non ha comunicato in tempo i suoi movimenti, mentre l’esercito turco assicura di essersi coordinato come sempre. La Russia, alleata della presidenza Assad, continua a esprimere “preoccupazione” per la presenza di “terroristi” nell’area ma intende confermare il suo impegno di garante dell’area di de-escalation concordata a Sochi e Astana. Da parte sua, il Presidente Recep Tayyip Erdoğan chiede a Mosca di rispettare “i suoi obblighi. I colloqui nella capitale del Kazakhstan hanno visto protagonisti proprio la Turchia, la Russia e l’Iran.

Sempre più allarmante la crisi umanitaria

Da quando l’offensiva è aumentata di intensità, nelle ultime tre settimane, circa 200.000 persone hanno dovuto abbandonare le loro case o i campi profughi dove si erano rifugiati. E David Swanson, portavoce dell’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite (Ocha), ha confermato che dall’inizio di dicembre, circa 520.000 persone sono sfollate, di cui l’80% circa sono donne e bambini.  Secondo la Turchia, gli sfollati da Idlib solo nell’ultima settimana sono stati 151.000, andando ad alimentare la nuova ondata migratoria, finora contenuta, nelle zone sotto controllo turco del nord della Siria, specie nella provincia di Aleppo. Peraltro, in queste ore il presidente turco Erdoğan ha ribadito che non intende farsene carico.

Il conflitto da non dimenticare

A quasi nove anni dallo scoppio della guerra in Siria, si può parlare di sconfitta del sedicente Stato islamico (Is) ma non di conclusione imminente del conflitto, come conferma nella nostra intervista, Daniele De Luca, docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento:

Ascolta l’intervista al professor Daniele De Luca

R. – Assolutamente sì. Mi dispiace dirlo ma l’attenzione si è spostata su altri problemi dando quasi per scontato la guerra in Siria che dura da tantissimo tempo, da nove anni. Magari si potesse considerare conclusa con la sconfitta del presunto califfato! Almeno sul terreno è stato sconfitto, ma la guerra in Siria continua.

Se l’Is è stato sconfitto chi sono queste forze che le truppe siriane combattono?

R. – Sono sacche di resistenza dell’opposizione all’interno del territorio siriano. Le rivolte in Siria nulla avevano a che fare con le cosiddette primavere arabe, ma nascevano da una questione di sovra-rappresentazione della minoranza alawita a fronte di una sotto-rappresentazione – di poco potere – per la maggioranza di sunniti e sciiti.

In ogni caso a questo punto è – come dire – un braccio di ferro tra potenze per capire quale influenza avrà ognuna sul territorio nel futuro: parliamo di porti, di pozzi petroliferi e così via…

R. – Ormai credo sia sotto gli occhi di tutti che quell’area – e direi anche un’area più allargata del cosiddetto Medio Oriente – è sotto il controllo turco-russo. Gli Stati Uniti su quell’area sembrano non voler più avere un contatto diretto, un’influenza diretta. Si sono “spostati” più a sud nel tentativo di risolvere l’annoso conflitto tra palestinesi e israeliani, quindi lasciando praticamente il terreno a un controllo turco e russo, con una fortissima ingerenza anche da parte dell’Iran.

Ricordiamo che i colloqui ad Astana, capitale del Kazakistan – paralleli a quelli a Ginevra – erano tra Turchia, Russia e Iran. Il ruolo di Teheran resta, dunque, fondamentale per quanto riguarda la Siria?

R. – E’ assolutamente fondamentale. Bisogna considerare una cosa: la minoranza alawita in Siria è una minoranza che i sunniti considerano come una sorta di cugini diretti degli sciiti e la maggioranza sunnita non l’ha mai accettato. Quindi il ruolo dell’Iran è fondamentale, in questi equilibri. Ed è importante anche in Libano dove ci sono le forze di Hezbollah che potrebbero ricominciare a premere sul confine settentrionale di Israele. Si potrebbe mettere a forte rischio l’area di pacificazione e l’area di salvaguardia e potrebbero essere coinvolte tra l’altro le truppe internazionali presenti, tra cui ci sono forze Italiane.

da Vatican NEWS del 4 febbraio 2020

Un’Europa unita senza Londra

Via libera dal Parlamento europeo al piano di uscita del Regno Unito dall’Ue. A oltre tre anni e mezzo dal referendum, i britannici si preparano alla Brexit effettiva

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Dal 1 febbraio inizia il periodo di transizione che durerà fino alla fine del 2020. Almeno fino al 31 dicembre di quest’anno, il Regno Unito continuerà a operare in base alle norme europee e non sono previsti cambiamenti immediati nella libera circolazione delle persone. I cittadini europei potranno, quindi, continuare a entrare e uscire dal Regno Unito come sempre, con passaporto o carta d’identità. Le patenti di guida, ad esempio, manterranno la propria validità. Per quanto, invece, accadrà alla fine del periodo di transizione restano incertezze. Bisognerà capire se Londra e Bruxelles raggiungeranno un nuovo accordo commerciale o meno. Delle prospettive concrete e delle incognite, abbiamo parlato con Carlo Altomonte, docente di Politiche economiche all’Università Bocconi:

R. – Abbiamo sicuramente la necessità di chiudere un accordo con il Regno Unito per evitare una serie di costi molto alti, sia per quel che riguarda la Gran Bretagna sia anche per quello che riguarda l’Europa, in particolare la Germania. Diciamo che ci sono in ballo diverse centinaia di migliaia di posti di lavoro tra l’Europa e il Regno Unito, qualcuno in più ancora nel Regno Unito. Sicuramente la questione è quella di provare a chiudere il negoziato commerciale che generi un’area di libero scambio da qui a dicembre di quest’anno, perché, se non si chiude questo negoziato commerciale, avremo quella che chiamiamo “hard Brexit”, cioè l’uscita dal Regno Unito comunque, senza un accordo e quindi con le tariffe che l’Unione Europea applica normalmente a tutti i Paesi del mondo.

Che cosa succede in questo anno di transizione?

R. – Fino a dicembre 2020 non cambia niente; l’unico problema è che, appunto, questa scadenza non sembra rinviabile: un po’ perché le parti non hanno più intenzione di rinviare la questione e un po’ perché comunque nel nuovo accordo che è stato fatto dev’essere il governo britannico a chiedere il rinvio e deve farlo entro giugno di quest’anno. E, a quanto ne sappiamo, il premier Boris Johnson ha detto che non ci sarà assolutamente nessun rinvio e che quindi o si chiude un accordo commerciale con l’Unione Europea entro dicembre 2020, quindi durante il periodo di transizione, oppure il Regno Unito uscirà: uscirà dall’accordo con l’Unione Europea, perché in realtà è già uscito dall’Ue.

Abbiamo visto alcune aziende spostare la propria sede centrale, il quartier generale dalla City. Di fatto, che cosa è successo dal punto di vista economico?

R. – Sì, sì: tante aziende statunitensi e non solo hanno già lasciato la City soprattutto per la parte relativa a quei servizi finanziari che non si potranno comunque più fare da Londra nel momento in cui il Regno Unito esce dall’Unione Europea: quindi in realtà abbiamo già avuto diverse migliaia di persone che hanno lasciato la City di Londra per spostarsi a Parigi, Francoforte e Dublino: sono queste tre le città che hanno ricevuto i “fuoriusciti” dalla City di Londra. Ovviamente, in funzione del tipo di accordo che andremo a scrivere con l’Unione Europea, potranno seguire altre aziende. Punto chiave del negoziato è: in che misura, oltre al libero scambio con gli altri e le abolizioni delle tariffe, l’Ue consente al Regno Unito di avere in qualche modo una continuità legislativa con il mercato interno europeo? Cioè, nei prossimi anni il Regno Unito si impegna o no all’armonizzazione delle regole con il mercato europeo, o vuole andare per la sua strada? L’Unione Europea chiede che ci sia questo impegno legislativo in maniera tale che gli standard e tutto il nostro commercio avvenga sulla stessa base giuridica. Il Regno Unito sembra meno disposto a concedere questa cosa; vorrebbe solo zero-tariffe ma poi seguire i suoi standard. Su questo punto si determinerà quanto commercio effettivo poi si potrà fare tra i due Paesi, perché dal punto di vista manifatturiero io posso esportare un bene e non avere nessuna tariffa, ma da un punto di vista, per esempio, di un servizio finanziario devo essere sicuro che lo standard di produzione di quel servizio sia lo stesso, come dal punto di vista dell’Ict, del software o quant’altro: c’è tutta una serie di requisiti che devono essere in qualche modo corroborati tra le due sponde della Manica.

Chi ci perde e chi ci guadagna?

R. – Dal 31 gennaio non succede niente, quindi siamo “amici” come prima. Da fine dicembre 2020, se non ci sarà l’accordo, nel breve periodo ci perderà il Regno Unito, nel medio periodo ci perdiamo tutti e due.