In Sudan annuncio a sorpresa: verso un governo di civili

Il generale Abdel Fatah al-Burhan, di fatto da ottobre scorso al comando in Sudan, apre ad un bilanciamento di poteri. L’annuncio in Tv, dopo giorni di forti manifestazioni che hanno occupato pacificamente strade e piazze a Khartoum e in altre città del Paese. Dalla deposizione di Omar al-Bashir nel 2019 non è mai davvero decollata la fase di transizione politica

Fausta Speranza – Città del Vaticano

In Sudan, dopo quattro giorni di manifestazioni, costate la vita a nove dimostranti uccisi dalle forze dell’ordine, il presidente del Consiglio sovrano e di fatto capo di Stato del Sudan, il generale Abdel Fatah al-Burhan, è intervenuto inaspettatamente in TV aprendo alla possibilità di trattare con i civili il futuro del Paese arabo-africano. Il generale ha parlato di nuovo possibile scenario politico, dopo mesi e mesi di impasse politica e dure reazioni contro i manifestanti. Il leader del colpo di Stato messo in atto lo scorso ottobre ha invitato i “partiti politici e le organizzazioni rivoluzionarie sudanesi a impegnarsi in un dialogo immediato e serio per formare un governo di persone competenti, indipendenti che possano portare a termine i compiti del periodo di transizione”.

La proposta di dialogo Onu

In sostanza, il presidente del Consiglio sovrano chiede ai suoi avversari di partecipare al dialogo avviato da Nazioni Unite, Unione Africana e IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un’organizzazione politico-commerciale formata dai Paesi del Corno d’Africa), ai quali però gli oppositori del regime militare finora si sono rifiutati di partecipare, proprio per la presenza dei responsabili del golpe.  Al-Burhan ha sottolineato quello che appare come l’elemento più importante: “L’esercito non parteciperà più a questi incontri e in futuro si occuperà solamente di difesa e sicurezza nazionale”.

Le possibili tappe della transizione

Inaspettatamente il generale ha anche affermato di non escludere che il Consiglio sovrano di transizione che presiede possa essere sciolto, una volta formato il nuovo governo civile, anche se è immaginabile che un Consiglio supremo delle forze armate dovrà poi essere istituito. La formazione di un esecutivo civile è la principale richiesta delle forze rivoluzionarie che per quattro giorni hanno occupato pacificamente ma in modo massiccio strade, piazze a Khartoum e in altre città del Paese.

I fatti di ottobre

Il 25 ottobre scorso un golpe ha deposto l’ex primo ministro Abdallah Hamdok, mettendo al comando il capo dell’esercito Abdel Fattah al-Burhan. Almeno 81 manifestanti sono stati uccisi in pochi giorni nella repressione seguita alle proteste. I manifestanti hanno continuato a chiedere l’intervento della comunità internazionale per porre fine alla scia di sangue e ripristinare le libertà democratiche ma la loro richiesta di aiuto non ha portato frutti finora.

Tre anni di instabilità 

In particolare il 30 giugno scorso la folla scesa in strada a Khartoum e nelle città di Omdurman e Bahri è stata la più imponente da mesi. Si sono svolte manifestazioni anche a Wad Madani nel sud, nella regione occidentale del Darfur, negli Stati orientali di Kassala e Gedaref, nonché nella città di Port Sudan. A Omdurman, testimoni hanno riferito di gas lacrimogeni e spari mentre le forze di sicurezza hanno impedito ai manifestanti di entrare a Khartoum. In questo caso, le proteste si sono richiamate in modo speciale al terzo anniversario delle grandi manifestazioni durante la rivolta che nel 2019 ha rovesciato l’ex presidente Omar al-Bashir e ha portato a un accordo di condivisione del potere tra gruppi civili e militari. Il 30 giugno è anche il giorno in cui nel 1989 al-Bashir aveva preso il potere con un colpo di Stato.

Tanti i tentativi di accordo nel dopo al-Bashir

Dopo la deposizione di Omar al-Bashir nel 2019 si doveva avviare una transizione verso le elezioni guidata da un bilanciamento di poteri tra il primo ministro incaricato Abdalla Hamdok e i militari, avviata con l’accordo siglato il 17 agosto 2019 dall’esercito e dalle Forces for Freedom and Change (Ffc), fronte rappresentativo delle forze sociali protagoniste della sollevazione popolare. I militari avevano dato presto l’impressione di voler assumere pieni poteri interrompendo la transizione. Tralasciando altri sviluppi, va ricordato che, con un colpo di Stato, Hamdok è stato destituito ad ottobre scorso. E’ stato poi liberato a novembre e fatto rientrare in carica come primo ministro del governo di transizione sudanese fino a gennaio quando ha presentato le dimissioni non riuscendo a dare vita ad un governo di civili. Già diverse volte dunque i militari sono stati costretti a una marcia indietro dalle pressioni popolari e diplomatiche, ma hanno anche dato ripetutamente  chiari segnali della loro determinazione a utilizzare il potere di cui dispongono.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/sudan-colpo-di-stato-goveno-civili-onu-generale-proteste.html

L’Africa occidentale tra colpi di Stato e commerci

La Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) revoca le sanzioni economiche imposte al Mali dopo il golpe, mentre emerge nel Paese la prima miniera di litio della macroregione. Ci sono poi intese con il Burkina Faso per una transizione politica di due anni, mentre si conferma la pressione sulla giunta militare in Guinea-Conakry. L’area che racchiude 15 Paesi ha assistito a tre colpi di Stato in un anno e mezzo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) ha annunciato ieri decisioni significative per il Mali e non solo. Nel suo sessantunesimo vertice, che si è svolto ad Accra in Ghana,  l’Ecowas ha deciso di revocare le sanzioni imposte a Bamako, oltre a concordare con il Burkina Faso una transizione di due anni e una crescente pressione sulla Guinea-Conakry perché presenti un piano di transizione. Nell’ultimo anno e mezzo la regione dell’Africa occidentale ha subito quattro colpi di Stato: i due in Mali (agosto 2020 e maggio 2021), quello in Guinea-Conakry (settembre 2021) e l’altro in Burkina Faso (gennaio 2022). E proprio durante questo mese di giugno, l’ECOWAS ha reso effettivo il dispiegamento di una forza di riserva composta da circa 600 addetti alla sicurezza e dispiegata in Guinea-Bissau dopo il tentativo di colpo di stato che il Paese ha subito il 1° febbraio.

Riprendono le transizioni commerciali con il Mali

I leader africani riuniti della Comunità degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas-Cédéao) hanno revocato le sanzioni commerciali e finanziarie che erano state imposte al Mali lo scorso gennaio dopo i due colpi di Stato nel 2020 e 2021. La revoca ha “effetti immediati”, ha spiegato il presidente uscente della commissione ECOWAS, Jean-Claude Cassi Brou, confermando che è stata annullata la chiusura dei confini e la sospensione di tutte le transazioni commerciali con il Mali – facevano eccezione solo alcuni prodotti di base – oltre a consentire ai rispettivi ambasciatori di tornare a Bamako. Resta in vigore la sospensione del Mali per quanto riguarda tutte le attività dell’organizzazione, così come vengono confermate le sanzioni individuali contro i membri della giunta militare guidata dal colonnello Assimi Goita – responsabile del colpo di Stato nell’agosto 2020 e di quello a maggio scorso – che includono il congelamento dei loro conti nelle banche regionali. Secondo Brou, il blocco ha preso la decisione dopo aver ascoltato il suo mediatore per il Paese, l’ex presidente nigeriano Goodluck Jonathan, il quale ha sottolineato che il Mali ha compiuto progressi nella definizione di un codice elettorale e dei meccanismi di monitoraggio, nonché nella stesura di una nuova Costituzione. Tali misure sono state adottate in vista dello svolgimento delle elezioni presidenziali, per le quali le autorità di transizione hanno proposto, la settimana scorsa, la data di febbraio 2024.

Intanto anche in Mali la corsa al litio

Il Mali è uno dei Paesi africani che potrebbe essere protagonista della nuova corsa ad una delle risorse minerarie più ricercate in questa fase storica, il litio, dopo lo Zimbabwe. Il ministero delle Miniere, dell’Energia e dell’Acqua di bamako, infatti, ha annunciato a metà giugno il piano industriale per il giacimento di Goulamina,  nel sud del Mali, gestito dall’azienda australiana Leo lithium limited, in collaborazione con la cinese Ganfeng lithium, che hanno la più grande capacità di produzione di litio al mondo. Si prevede di sviluppare il giacimento di litio Goulamina a livello mondiale, in quella che sarebbe la prima miniera di litio operativa nell’Africa occidentale. Secondo il ministero maliano, “durante la fase di costruzione, di 2 anni, è prevista una forza lavoro totale di circa 1.200 dipendenti, composta da lavoratori qualificati e non”. Il governo maliano spiega che la costruzione della miniera costerà più di 160 miliardi di franchi Cfa (240 milioni di euro) precisando che quasi 91 milioni di euro saranno spesi in Mali, con aziende maliane per il calcestruzzo, la fabbricazione e l’installazione di attrezzature, la costruzione di edifici e l’avvio della miniera mentre il resto sarà utilizzato per acquistare attrezzature internazionali non disponibili nel Paese. I prezzi del litio sul mercato internazionale sono aumentati di quasi il 500 per cento nell’ultimo anno dal momento che questo minerale, soprannominato “metallo verde”, per molti rappresenta il futuro della produzione di veicoli elettrici e delle batterie.

L’intesa per il Burkina Faso

Per quanto riguarda il Burkina Faso, dove una giunta militare governa dal 24 gennaio scorso, l’ECOWAS ha annunciato di aver raggiunto un accordo con le autorità per un biennio di transizione verso nuove elezioni. Si tratta di un periodo inferiore ai 36 mesi (tre anni) che la giunta aveva precedentemente proposto. Il mediatore inviato dall’ECOWAS, l’ex presidente nigeriano Mahamadou Issoufou, ha incontrato la settimana scorsa a Ouagadougou il presidente del Burkina Faso, il tenente colonnello Paul Henri Sandaogo Damiba, che ha espresso il suo impegno per il raggiungimento di una “durata concordata” della transizione. L’ECOWAS ha tenuto conto del “rilascio totale” dell’ex presidente deposto Roch Kaboré, che era ancora soggetto a restrizioni dopo essere stato autorizzato a tornare a casa. Il suo rilascio era una delle richieste dell’organizzazione dopo il colpo di Stato.

L’impegno confermato per la Guinea-Conakry

Meno promettenti le prospettive per la Guinea-Conakry, che non ha presentato un nuovo programma di transizione più “accettabile” al posto del triennio proposto finora dalla giunta militare guidata dal colonnello Mamadi Doumbouya, bocciato sia dall’ECOWAS che dall’opposizione. Sebbene il consiglio avesse rifiutato nel novembre 2021 la nomina di un mediatore da parte dell’ECOWAS, l’organizzazione ieri ha scelto per questo ruolo l’ex presidente del Benin, Thomas Yaya Boni. Al vertice è stato chiarito che se il Paese non raggiungerà un accordo per un nuovo programma di transizione entro la fine di luglio, l’ECOWAS imporrà nuove sanzioni economiche, dopo aver già stabilito alcune misure contro i golpisti al potere dal   5 settembre.

All’interno dell’Ecowas

Al momento anche il Burkina Faso e la Guinea-Conakry restano sospesi dalle attività dell’organizzazione regionale. Il vertice straordinario ha deciso la nomina di un nuovo presidente di turno, carica che fino ad ora era stata ricoperta da Akufo-Addo, capo di stato del Ghana, e che ora sarà ricoperta dal presidente bisaugo Umaro Sissoco Embaló.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/africa-sanzioni-golpe-mali-burkina-faso-guinea-conakry.html

Ancora un giornalista ucciso in Messico

Antonio De la Cruz del quotidiano Expreso è stato colpito a morte nello Stato di Tamaulipas. Sale a dodici il numero di reporter massacrati in sei mesi. Un numero che fa del Messico il Paese più pericoloso al mondo per chi fa informazione. Un fenomeno in crescita negli ultimi anni che intreccia traffici illeciti e corruzione, che è stato oggetto di recente di una risoluzione dell’Europarlamento ma che ha bisogno di maggiore mobilitazione internazionale, sottolinea lo storico Paolo Valvo

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il giornalista messicano Antonio De la Cruz del quotidiano Expreso è stato ucciso ieri a Ciudad Victoria, capitale dello Stato settentrionale di Tamaulipas. De la Cruz è morto sotto i colpi di arma da fuoco di sicari mentre si allontanava in auto dalla sua abitazione. Fonti del giornale in cui lavorava da 20 anni hanno indicato che a bordo del veicolo c’era una delle sue due figlie, che è rimasta gravemente ferita. Un portavoce del gruppo editoriale Expreso-La Raz¢n ha ricordato che “già nel 2018 era stato ucciso un altro giornalista del quotidiano, Héctor Gonzalez”. In una conferenza stampa, il procuratore capo di Tamaulipas, Irving Barrios, ha reso noto che De la Cruz è stato raggiunto da quattro proiettili di calibro 40 millimetri sparati da un’arma che è in dotazione alle forze armate messicane e che è morto sul colpo.

Livelli di violenza da tragico record mondiale

Dall’inizio dell’anno, in Messico i giornalisti che hanno perso la vita in episodi di violenza sono almeno 12, di cui tre in maggio. Inoltre, l’organizzazione internazionale Committee to protect journalists conta decine di giornalisti scomparsi, quindici solo nel 2022. Prelevati da sconosciuti, sono spariti senza lasciare traccia. Poi ci sono infiniti casi di minacce e intimidazioni che spingono decine di reporter di zone difficili a cercare rifugio nella relativa sicurezza di Città del Messico, se non all’estero. Non è un’esagerazione definirlo il Paese più pericoloso del mondo per chi fa informazione. Si tratta di una drammatica escalation ma forse si può indicare un momento spartiacque: l’uccisione ad aprile 2012 della giornalista Regina Martinez Pérez, colpita davanti a casa sua a Xalapa, nello Stato di Veracruz. Martinez era molto nota per le sue indagini sulla corruzione e la collusione tra politici e cartelli criminali; scriveva per un quotidiano di Veracruz e per il settimanale Proceso: è stata la prima volta che veniva colpita una giornalista di una testata nazionale e che non si occupava di cronaca nera ma di indagini politiche e sociali.

Nessuna rassegnazione al silenzio

In Messico sono nate reti e collettivi di giornalisti che hanno cominciato a reagire. Gruppi che si mobilitano in aiuto dei colleghi minacciati e “sfollati” da Stati o territori regionali, per denunciare le intimidazioni e sviluppare insieme un lavoro di indagine e d’informazione. Riuniscono giornalisti di testate locali e nazionali, su carta o sul web oppure radio comunitarie. La prima rete, la più antica, è Periodistas de a pie, giornalisti a piedi, nata nel 2007 a Città del Messico. “Ci siamo chiamate così perché scrivevamo di povertà e questioni sociali”, spiega Marcela Turati Muñoz, una delle cofondatrici. Erano per lo più donne; scrivevano in diverse testate, nazionali e locali; volevano sviluppare un giornalismo capace di indagare sulla realtà sociale messicana. Turati allora scriveva da Ciudad Juárez, nel nord dello stato di Chihuahua, per il settimanale Proceso.

Un filo rosso: l’impunità

L’85 per cento degli omicidi di giornalisti degli ultimi vent’anni è rimasto senza soluzione. I reporter denunciano spesso un sistema politico fondato su clientelismo e scambi di favori e un sistema giudiziario che non ha alcuna indipendenza dal potere esecutivo. Spesso le indagini si trascinano senza esito: di rado si trova un colpevole, quasi mai un mandante. Dell’escalation del fenomeno e della difficoltà a contrastarlo abbiamo parlato con lo storico Paolo Valvo dell’Università del Sacro Cuore:

Valvo innanzitutto contestualizza a livello locale l’uccisione del giornalista Antonio De la Cruz ricordando che lo Stato settentrionale di Tamaulipas e la città di Ciudad Victoria sono proprio esempio di territori in cui la violenza è quotidiana. E ricorda che De la Cruz si occupava di varie questioni sociali e politiche che riguardano la tutela dell’ambiente e la gestione degli allevamenti. Valvo ribadisce che siamo davvero ad un tragico record: il Messico da anni si conferma il Paese più pericoloso per i giornalisti al mondo.

Delusione per le promesse di Obrador

Ricorda poi che la diminuzione delle violenze e dei narcotraffici è stata una delle principali promesse del presidente Obrador in carica da fine 2018. Purtroppo però – fa notare lo storico – durante la sua presidenza si sono registrati 1840 atti di intimidazioni seri e ben 33 omicidi di reporter.

La voce dell’Unione Europea

Lo storico Valvo intravede una via per contrastare il fenomeno in un impegno a livello internazionale: parla della necessità di una vera e propria mobilitazione internazionale ricordando che ad aprile scorso è stato il Parlamento Europeo a tentare un intervento. Sottolinea che la risoluzione presentata è stata votata praticamente all’unanimità e spiega che si tratta di un appello rivolto alla presidenza pro tempore della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici, al Segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani, all’Assemblea parlamentare euro-latinoamericana nonché al Presidente, al governo e al Congresso del Messico. Valvo precisa che nella Risoluzione si sottolinea che la libertà di parola online e offline, la libertà di stampa e la libertà di riunione costituiscono meccanismi fondamentali per il funzionamento di una democrazia sana; invita le autorità messicane ad adottare tutte le misure necessarie per garantire la protezione e la creazione di un ambiente sicuro per i giornalisti e i difensori dei diritti umani, in linea con le norme internazionali consolidate, anche affrontando a livello statale e federale la questione della corruzione diffusa, della formazione e delle risorse inadeguate, della complicità di alcuni funzionari e dei sistemi giudiziari carenti che portano a tassi di impunità così elevati.

Aggiunge che nel documento europeo si prende atto con preoccupazione delle critiche sistematiche e severe utilizzate dalle massime autorità del governo messicano nei confronti dei giornalisti e del loro lavoro e condanna i frequenti attacchi alla libertà dei media e nei confronti dei giornalisti e degli operatori dei media in particolare; ribadisce che il giornalismo può essere praticato solo in un contesto privo di minacce, aggressioni fisiche, psicologiche o morali o altri atti di intimidazione e vessazione, e invita le autorità messicane a rispettare e salvaguardare i più elevati standard di protezione della libertà di parola, della libertà di riunione e della libertà di scelta.

L’appello alle autorità messicane

Valvo sottolinea inoltre che nel testo della Risoluzione c’è un chiaro invito alle autorità ad astenersi dallo stigmatizzare i difensori dei diritti umani, i giornalisti e gli operatori dei media, dall’esacerbare l’atmosfera nei loro confronti o distorcere i filoni d’indagine, invita tali autorità a sottolineare pubblicamente il ruolo centrale svolto dai difensori dei diritti umani e dai giornalisti nelle società democratiche. Si  esorta il governo del Messico ad adottare misure concrete, tempestive ed efficaci per rafforzare le istituzioni nazionali, statali e locali e attuare una serie di strategie urgenti, globali e coerenti di prevenzione, protezione, riparazione e responsabilità per garantire che i difensori dei diritti umani e i giornalisti possano portare avanti le loro attività senza timore di rappresaglie e senza restrizioni, in linea con le raccomandazioni formulate dall’Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani e dalla Commissione interamericana dei diritti dell’uomo; raccomanda che il Messico integri una prospettiva di genere nell’affrontare la sicurezza dei giornalisti e dei difensori dei diritti umani.

Servono risorse

Inoltre, Valvo si sofferma anche su un altro punto: quello in cui si esorta il meccanismo federale per la protezione dei difensori dei diritti umani e dei giornalisti a soddisfare le sue promesse, di aumentare i finanziamenti e le risorse e a istituire processi più rapidi per includere tra i beneficiari i difensori e i giornalisti al fine di salvare vite e garantire la sicurezza di chi è minacciato, compresa la concessione di misure di sicurezza destinate alle rispettive famiglie e ai loro colleghi e avvocati. Sottolinea che le politiche di protezione pubblica dovrebbero coinvolgere efficacemente gli organi governativi e le istituzioni di ciascuno Stato e il livello locale. In particolare si incoraggia il governo messicano a intervenire per rafforzare le istituzioni statali e consolidare lo Stato di diritto nell’ottica di affrontare alcuni dei problemi strutturali che sono all’origine delle violazioni dei diritti umani, e chiede che in tale processo siano coinvolte le organizzazioni civili che operano nel campo dei diritti umani; accoglie con favore la creazione della commissione nazionale di ricerca (CNB) con l’obiettivo di cercare fosse comuni in tutto il Paese e di adottare misure per determinare e pubblicare il numero reale di persone scomparse.

Serve cooperazione internazionale

Lo studioso inoltre si sofferma su un’altra sollecitazione dell’Europarlamento sottolineando che si invita il governo messicano “a cooperare pienamente con gli organi delle Nazioni Unite e a estendere un invito permanente ai fini delle visite di tutte le procedure speciali del Consiglio dei diritti umani dell’Onu in particolare del relatore speciale delle Nazioni Unite per la libertà di opinione e di espressione, e a cooperare con loro in modo proattivo”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/messico-narcotraffico-giornalisti-corruzione-unione-europea-onu.html

Il conflitto in Ucraina tra bombe e misure economiche

Distrutto un condominio a Odessa mentre Kiev parla di successo nel Mar Nero perché i russi si sono ritirati dall’Isola dei serpenti. Intanto, Biden promette ulteriori armi all’Ucraina per 800 milioni di dollari mentre Putin firma un decreto “sull’applicazione di misure economiche speciali nel settore dei combustibili e dell’energia”

Fausta Speranza – Città del Vaticano

E’ salito a 17 il numero delle vittime provocate dai missili russo che hanno colpito un palazzo di nove piani e un centro ricreativo nell’oblast di Odessa: 14 sono morti nell’edificio residenziale a Bilhorod-Dnistrovsky e tre nel centro ricreativo della stessa area. Secondo quanto riferisce la stampa ucraina, i due missili hanno anche provocato una trentina di feriti, dei quali alcuni gravi sono stati ricoverati in ospedale. Il missile che ha colpito il condominio è stato lanciato da un aereo proveniente dal Mar Nero. Ed è proprio sul Mar Nero che Kiev parla di successo per il ritiro dei russi dall’Isola dei serpenti. L’isola è in una posizione strategica: era stata conquistata da Mosca all’inizio dell’invasione ed è stata sotto attacco dei bombardamenti ucraini da settimane. Anche dal punto di vista simbolico sembra indebolito il potere dei russi di controllare i flussi navali e di sferrare attacchi anfibi su Odessa. Secondo il presidente Zelenski, “questo ritiro non garantisce la sicurezza, non garantisce ancora che il nemico non tornerà, ma limita in modo significativo le azioni degli occupanti”.

Nuove armi a Kiev dagli Usa

Intanto, sul conflitto riecheggiano le dichiarazioni dei leader a conclusione ieri del vertice Nato. Il presidente statunitense Joe Biden ha promesso l’invio di nuove armi all’Ucraina nei prossimi giorni per un totale di 800 milioni”. Il presidente del Consiglio dei ministri italiano Draghi ha affermato che tutta l’alleanza Nato e l’alleanza del G7 è unita, molto determinata. Se c’è la disponibilità ai negoziati siamo pronti a aprirli, ha sottolineato aggiungendo: ma se l’Ucraina non si difende, non c’è pace, c’è sottomissione, schiavitù, e continuerà la guerra”.

Nancy Pelosi a Montecitorio

Sull’impegno dell’Italia ieri è intervenuto anche il presidente della Camera Fico. Per l’Ucraina l'”obiettivo” da conseguire è “raggiungere la pace nel rispetto dei diritti e delle Istituzioni del popolo ucraino”. Lo ha detto il presidente della Camera Roberto Fico dopo il suo incontro a Montecitorio con la Speaker della Camera dei Rappresentanti statunitense Nancy Pelosi. Quello del conflitto – ha spiegato Fico – è stato uno dei temi del colloquio bilaterale, che si è allargato alla situazione della Libia e del Sahel. La Speaker  Pelosi ha lodato, nell’ambito della crisi Ucraina, il “forte ruolo guida” assunto dall’Italia, improntato a un impegno “a tutto campo a favore della pace e della diplomazia”. “Non si può negare l’importanza dei negoziati in questa situazione internazionale, che devono basarsi sulla forza, e plaudo al ruolo che l’Italia ha svolto all’interno della NATO e dell’Unione Europea”, ha concluso.

Le dichiarazioni da Mosca

Da Mosca il presidente Putin afferma che la Russia in Ucraina ha esercitato il suo diritto inalienabile all’autodifesa nel rigoroso rispetto dei valori fondamentali della Carta delle Nazioni Unite, coerentemente con l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, aggiungendo che   l’Occidente sta usando “cinicamente” l’Ucraina per contenere la Russia e sabotare il suo desiderio di svilupparsi in linea con i valori tradizionali.   “Il cosiddetto Occidente collettivo –   afferma il leader del Cremlino – basa le sue azioni sulla convinzione the il suo modello di globalismo liberale non ha alternative. E questo modello non è altro che una versione rivista del neocolonialismo, un mondo in stile americano, un modo per pochi selezionati in cui i diritti di tutti gli altri sono semplicemente calpestati”.

In Russia misure economiche speciali sull’energia

E il presidente russo, Vladimir Putin, fa sapere di aver firmato un decreto “sull’applicazione di misure economiche speciali nel settore dei combustibili e dell’energia in relazione alle azioni ostili di alcuni Stati stranieri e organizzazioni internazionali”. Come riportano le agenzie russe, il documento ufficiale prevede di fatto appare come la prima nazionalizzazione di una compagnia energetica con azionisti stranieri: il documento stabilisce che la proprietà della Sakhalin Energy diventerà russa e sarà trasferita con effetto immediato a una società creata dal governo.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-07/russia-ucraina-stati-uniti-odessa-isola-dei-serpenti-energia.html

La Nato aggiorna la sua visione strategica

“La natura delle minacce ora è globale e interconnessa”. E’ quanto si legge nel documento del vertice NATO di Madrid Strategic Concept che sostituisce il precedente del 2010. Chiaro il riferimento alla guerra in Ucraina, ma non si devono trascurare altri scenari considerati come quello della “strumentalizzazione delle migrazioni” da contrastare, sottolinea l’esperto di Studi strategici Andrea Gilli

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Gli Alleati “non possono più scartare” l’ipotesi di un attacco contro la loro “sovranità e l’integrità territoriale”: è quanto si legge nel documento-guida della Nato che emerge dal vertice di Madrid. Il punto centrale del dibattito, che si conclude oggi con la firma del nuovo Fondo per l’innovazione per investire nelle tecnologie emergenti, è stata l’adesione di Finlandia e Svezia.

La reazione di Mosca

La Russia risponderà allo stesso modo se la Nato dispiegherà truppe e infrastrutture in Finlandia e Svezia dopo che si saranno unite all’Alleanza Atlantica. Lo afferma il presidente Vladimir Putin sottolineando che l’adesione dei due Paesi non è un problema ma lo sarebbe appunto il dispiegamento di truppe dell’Alleanza Atlantica.  Il via libera della Turchia L’adesione di Svezia e Finlandia ormai è possibile dopo che la Turchia ha rimosso il veto. Il presidente Recep Tayyip Erdogan, che lamentava il sostegno dei due Paesi a affiliati del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), sembra soddisfatto per aver comunque rilanciato su scala internazionale la posizione turca e in qualche modo avvisato tutti, non solo Stoccolma e Helsinki ma anche Berlino e Washington, sull’eventuale reazione per un appoggio – pur soltanto in chiave anti Isis ad esempio nel nord della Siria – a esponenti di questa organizzazione.

La nuova visione della Nato

La giornata cruciale del vertice si è conclusa ieri con la pubblicazione del cosiddetto nuovo Concetto strategico della NATO, “un progetto per l’adattamento dell’Alleanza a una nuova realtà della sicurezza per i prossimi anni” in cui si legge che “la natura delle minacce ora è  globale e interconnessa”. Ora lo ‘Strategic Concept’ è pubblico mentre in passato, ai tempi della Guerra Fredda, era considerato di natura sensibile e dunque segreto. Nel suo aspetto più pratico, presenta un nuovo modulo di forze Nato, integrato sui cinque domini (terra, mare, aria, cyber e spazio) che prevede truppe pre-assegnate a specifiche aree e Paesi (ma non dislocate), mezzi pre-posizionati ed effettivi rafforzati per le rotazioni. In tutto, secondo quanto dichiarato dal Segretario Generale Jens Stoltenberg, gli Alleati s’impegnano a fornire “entro l’anno” al comando supremo (Saceur) 260.000 forze aggiuntive a vari livelli di disponibilità.

Del documento abbiamo parlato con Andrea Gilli, docente di Studi Strategici all’Università Luiss e ricercato del Nato Defence College:

Gilli innanzitutto chiarisce che i leader a Madrid hanno licenziato l’ultima versione del documento che chiarisce la visione strategica della Nato e che va a sostituire quello di Lisbona del 2010.  I regimi autoritari sfidano gli “interessi” e “i valori democratici” dell’alleanza e al contempo investono in “sofisticate capacità militari, anche missilistiche, sia convenzionali che nucleari”.

Diversi paragrafi dedicati al ruolo di Russia e Cina

In modo inedito, si affronta espressamente “la partnership strategica, sempre più profonda” tra Pechino e Mosca, che viene vista contro “i valori e gli interessi della Nato”. La Russia torna ad essere la più “significativa minaccia diretta” per l’Alleanza, perché “punta a destabilizzare i Paesi del sud e dell’est dell’Alleanza”, pone “una sfida strategica” nell’Artico, e il rafforzamento militare nel mar Baltico, Mediterraneo, mar Nero, così come l’integrazione con la Bielorussia, rappresentano altri fronti da considerare.  Non solo crisi ucrainaLo studioso invita a considerare il documento per la riflessione che propone anche al di là del riferimento diretto alla guerra in Ucraina  che – afferma – era doveroso. E cita le nuove sfide considerate:  “cyber, ibride, spaziali”, che – spiega – nel documento sono trattate in modo approfondito. Gilli citando passi del documento spiega che quando si parla di Cina si parla di sfide e non di minacce per gli “interessi, la sicurezza e i valori” dell’Alleanza. In ogni caso, – aggiunge – si dice che Pechino usa la sua leva economica per   “creare dipendenze strategiche e aumentare la sua influenza” e che la Cina inoltre compie  operazioni  ibride e cibernetiche che colpiscono la sicurezza alleata.

Il clima “sfida primaria”

In particolare, Gilli mette in luce come il cambiamento climatico sia definito “la sfida primaria del nostro tempo”. La Nato – si legge – promette di rafforzarsi in tutti questi settori e assicura che lavorerà per identificare e ridurre “le vulnerabilità strategiche”, comprese le “infrastrutture, le catene di valore e i sistemi sanitari”; allo stesso tempo saranno rafforzati la “sicurezza energetica” e i “servizi essenziali” per le popolazioni. E si studia la messa a punto di una nuova metodologia per mappare le emissioni di gas serra militari.

No alla strumentalizzazione dei flussi migratori

Gilli parla di novità significativa quando fa riferimento a come viene trattato il tema migrazioni. Il nuovo Concetto strategico della Nato – ricorda – racchiude la “strumentalizzazione dei flussi migratori” così come “la manipolazione dei flussi energetici” tra i fattori che rappresentano “minacce ibride” per i Paesi alleati, insieme con altri aspetti come gli attacchi informatici o le notizie false: è quanto sottolineano fonti della delegazione spagnola al vertice di Madrid, indicando che il passaggio sulle migrazioni è stato inserito su proposta del governo iberico. Questo aspetto, aggiungono le stesse fonti, è uno di quelli riferiti al “fianco sud” della Nato al quale il nuovo concetto strategico presta particolare attenzione. Ad esempio, l’area del Sahel viene ora indicata come “zona a rischio”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-06/alleanza-atlantica-svezia-finlandia-ucraina-russia-migrazioni.html

 

20 giugno, Giornata Mondiale del Rifugiato

La protezione non si esaurisce nell’accesso all’asilo, ma si manifesta concretamente attraverso un processo equo di integrazione sociale ed economica. E’ il messaggio dell’Unhcr per la Giornata mondiale del Rifugiato, mentre Caritas Internationalis esprime preoccupazione in tema di solidarietà internazionale

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il 20 giugno, in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, l’UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati, “celebra il coraggio, la forza e la resilienza dei milioni di persone costrette a fuggire da conflitti, violenze, violazioni dei diritti umani e persecuzioni, e ribadisce il loro diritto di essere protette e di ricostruire la propria vita in dignità, chiunque siano e da qualsiasi luogo provengano, sempre. La Giornata del 20 giugno è stato scelta per commemorare la firma della convenzione relativa allo statuto dei rifugiati da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Non solo asilo

La protezione non si esaurisce nell’accesso all’asilo, ma si manifesta concretamente attraverso un processo equo di integrazione sociale ed economica nel Paese di accoglienza. In questa Giornata Mondiale del Rifugiato, l’UNHCR si unisce a coloro che in Italia si mettono a disposizione per individuare soluzioni durature e sostenibili che permettano ai rifugiati di superare i traumi, mettere a frutto il proprio talento e contribuire al Paese che li ha accolti”.

La protezione passa per i diritti

“Non esiste protezione reale senza l’accesso effettivo ai diritti, l’integrazione e l’inclusione sociale, ed essi sono compito e responsabilità di tutta la società nel suo complesso”, ha dichiarato Chiara Cardoletti, Rappresentante UNHCR per l’Italia, la Santa Sede e San Marino. “Solo lavorando insieme – governo, società civile e settore privato – possiamo fare la differenza”. Si parlerà di protezione e integrazione il 20 giugno durante una tavola rotonda dal titolo “Rifugiati, dall’asilo all’integrazione: partnership e soluzioni innovative per una crisi senza precedenti” al Centro Congressi Palazzo Rospigliosi, a Roma. Rappresentanti delle istituzioni, del terzo settore, del mondo accademico, rifugiati e del settore privato si confronteranno sui temi dell’integrazione e delle opportunità da offrire ai rifugiati in linea con il Global Compact sui Rifugiati. Durante la mattinata, inoltre, avverrà la consegna ufficiale della Maglia Rosa del Giro Donne 2022 dedicata a UNHCR.

L’appello della Caritas

Caritas Internationalis “leva la propria voce ed esprime preoccupazione per la mancanza di solidarietà internazionale nell’accogliere i rifugiati e i richiedenti asilo senza discriminazioni. Le richieste di sicurezza e di una vita dignitosa per i rifugiati sono rimaste per lo più inascoltate”. Nei primi mesi del 2022, più di 100 milioni di persone sono state forzatamente sfollate in tutto il mondo a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o violazioni dei diritti umani e disastri climatici, registrando i livelli più alti di sfollamento mai osservati. “Oggi vediamo anche come questi fattori – afferma Caritas Internationalis – diventino concause degli spostamenti e non possano essere considerati separatamente”. Nel periodo 2019-2021, più di 8.436 migranti, compresi i richiedenti asilo, hanno perso la vita e 5.534 migranti sono scomparsi durante il viaggio. Inoltre, la sicurezza, la dignità e i diritti umani dei richiedenti asilo “sono a rischio, a causa di accordi che hanno creato muri fisici e legali attraverso l’esternalizzazione dei controlli alle frontiere regionali e dei processi di asilo esternalizzati”. Attraverso i corridoi umanitari, i membri della Confederazione Caritas di Europa, Medio Oriente e Africa hanno assistito, insieme con altre organizzazioni religiose, i richiedenti asilo vulnerabili in fuga da conflitti e violenze, affinché raggiungessero destinazioni sicure e comunità accoglienti dove poter ricominciare la propria vita. Hanno sostenuto il salvataggio e lo sbarco sicuro e protetto delle persone a rischio di vita nel Mediterraneo e in tutto il mondo.

L’iniziativa delle città italiane

Sono molte le città italiane che illumineranno un monumento simbolo in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato aderendo alla campagna dell’Unhcr’s #WithRefugees. Nelle notti del 19 e del 20 giugno il Teatro delle Muse di Ancona, la Torre metropolitana e la  Fontana monumentale di Piazza Aldo Moro a Bari, la Porta San Giacomo di Bergamo, il Bastione di Saint Remy a Cagliari, il Balcone principale di Palazzo degli Elefanti a Catania, le Porte storiche (Torre San Niccolo, Porta alla Croce in Piazza Beccaria, Porta San Gallo in Piazza della Libertà, Porta al Prato, Porta Romana, Porta San Frediano) di Firenze, Porta Elisa a Lucca, la Mole Antonelliana a Torino e la Fontana del Nettuno a Trieste si tingeranno di blu in un’espressione di solidarietà con i rifugiati e per ribadire il loro diritto di essere protetti e di ricostruire la propria vita in dignità, chiunque siano e da qualsiasi luogo provengano, sempre. “I Comuni in Italia sono in prima linea nell’accoglienza e nell’integrazione dei rifugiati – afferma Chiara Cardoletti, Rappresentante dell’Unhcr per l’Italia, la Santa Sede e San Marino – Offrono sicurezza e, garantendo l’accesso ai servizi locali, all’istruzione e alle opportunità di lavoro, favoriscono la piena inclusione sociale dei rifugiati, gettando le basi per la costruzione di un futuro migliore.” In Italia sei comuni – Bari, Milano, Napoli, Palermo, Roma e Torino – hanno redatto e sottoscritto la Carta per l’integrazione dei rifugiati, elaborata insieme a Unhcr per potenziare la collaborazione fra le città sull’integrazione di chi è stato costretto a fuggire da guerre, violenze, persecuzioni e abusi dei diritti umani per cercare sicurezza in un altro Paese, favorendo lo scambio di pratiche, esperienze, strumenti e sviluppando i servizi già disponibili sui territori.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-06/rifugiati-unhcr-caritas-internationalis-giornata-mondiale-onu.html

L’appello del Papa per il Myanmar: chiedo rispetto per la dignità umana

Nel post Angelus, Francesco invita la comunità internazionale a non dimenticare la popolazione birmana, a fornire l’assistenza umanitaria di base e chiede che il conflitto non tocchi i luoghi di culto, ospedali, scuole

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il Papa, dopo la preghiera mariana, ha rivolto il pensiero all’amata terra del Myanmar per sottolineare il dolore di tante persone:

“Giunge ancora dal Myanmar il grido di dolore di tante persone a cui manca l’assistenza umanitaria di base e che sono costretti a lasciare le loro case perché bruciate e per sfuggire alla violenza.

Dunque l’appello in comunione con la chiesa locale:

Mi unisco all’appello ai vescovi di quell’amata terra perché la comunità internazionale non si dimentichi della popolazione birmana, perché la dignità umana e il diritto alla vita siano rispettati, come pure i luoghi di culto, gli ospedali, le scuole  e benedico la comunità birmana in Italia oggi qui rappresentata”.

Cronaca di attacchi a case e villaggi e di sfollati

Decine di chiese, comprese le chiese cattoliche negli Stati di Kayah e Chin, sono state distrutte da attacchi aerei e bombardamenti di artiglieria mentre migliaia di persone, compresi i cristiani, sono sfollati o in fuga nella vicina India. Almeno 450 case – secondo quanto riporta l’agenzia cattolica di informazione UcaNews – sono state date alle fiamme dalle truppe della giunta negli storici villaggi cattolici di Chan Thar e Chaung Yoe nella regione di Sagaing nel corso dell’ultimo mese circa. La Conferenza episcopale denuncia lo stato di ansia e la mancanza di sicurezza in cui si trovano le persone, “in particolare gli anziani, i disabili, i bambini, le donne e i malati”. I vescovi esprimono anche la loro gratitudine “ai sacerdoti, ai diaconi, alle religiose, ai catechisti e ai volontari che cercano di sostenere e assistere i civili che fuggono in luoghi più sicuri”. Solo quattro giorni fa, la chiesa cattolica di St. Matthew è stata bruciata. È una chiesa parrocchiale di Dognekhu, comune di Phruso, Stato di Kayah. A farlo sapere all’agenzia  Sir è stato padre Francisco Soe Naing, cancelliere della diocesi di Loikaw. “I terroristi legati alla  giunta sanno solo come distruggere le proprietà delle persone e bruciare case e villaggi”, dice. “Non sappiamo se ci sono i feriti. Penso che nessuno sia rimasto nel villaggio. Tutti devono fuggire all’attacco di uomini della giunta: altrimenti vengono brutalmente uccisi. Sappiamo che i parrocchiani e il parroco di quella parrocchia vivono da mesi nella giungla poiché non è sicuro vivere nel villaggio”. Il territorio della parrocchia di Dognekhu comprende 6 villaggi. Nella parrocchia esistono 473 case cattoliche dove vivono 512 famiglie cattoliche. Vi risiedono circa 2.560 fedeli cattolici. Due sacerdoti, 6 catechisti e 10 “assistenti permanenti” stanno servendo il popolo di Dio nella parrocchia.

L’appello dei vescovi

I vescovi cattolici del Myanmar hanno pubblicato, in settimana, in lingua inglese un comunicato al termine della loro assemblea generale per esprimere preoccupazione per la situazione di fragilità in cui vivono migliaia di civili a causa dell’instabilità politica e del conflitto. “La dignità umana e il diritto alla vita non possono essere mai violati”, hanno scritto i presuli. “Chiediamo con forza il rispetto per la vita e per la sacralità dei luoghi di culto, degli ospedali e delle scuole”. Secondo i dati delle ong, dall’inizio del colpo di Stato del 1° febbraio 2021, più di 1.929 civili sono stati uccisi e 11.000 arrestati e secondo l’Unchr, più di 800.000 sono gli sfollati interni. Anche negli ultimi mesi, la giunta militare ha continuato a prendere di mira le chiese e le sue istituzioni. La Conferenza episcopale incoraggia sacerdoti, suore e cattolici a continuare a fornire assistenza umanitaria alle persone che “stanno affrontando difficoltà senza precedenti a causa dell’attuale situazione politica” senza fare alcun tipo di discriminazione. I vescovi chiedono con forza che si lavori per la “giustizia, la pace e la riconciliazione”, facilitando “l’accesso umanitario alle persone sofferenti e agli sfollati interni al fine di fornire loro l’assistenza umanitaria di base di cui necessitano”. E concludono: la Conferenza episcopale “è al fianco dei civili e continuerà a sostenere i bisogni delle persone indipendentemente dalla loro fede, razza ed etnia”.

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2022-06/papa-myanmar-popolazione-chiese-angelus-vescovi-distruzione.html

Corte europea e chiesa anglicana contro il “piano Rwanda”

E’ stato rinviato il primo volo di migranti destinati al trasferimento dal Regno Unito in Rwanda nell’ambito del contestato accordo tra il governo Johnson e Kigali, che prevede di mandare nel Paese africano una parte dei “clandestini” in attesa di risposta sulle loro richieste di asilo. Una “vergogna” secondo la Chiesa anglicana

Fausta Speranza – Città del Vaticano

E’ stato fermato il primo volo previsto ieri sera sulla base di una sospensiva accordata dalla Corte europea dei Diritti Umani di fronte a ricorsi dell’ultimo minuto. Sospensiva che invece i giudici britannici avevano negato fino agli ultimi appelli. Dopo giorni di prese di posizione da parte di  opposizioni politiche, ong, Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), di occhi puntati alla Corte di Londra e di manifestazioni,  il primo dei voli programmati sarebbe dovuto partire ieri sera con sette migranti e non più 30 come previsto nella lista iniziale dell’Home Office britannico.

La condanna della Chiesa anglicana

Intanto, è arrivato chiaro il pronunciamento della Chiesa anglicana. In una lettera aperta al Times, gli arcivescovi di Canterbury e di York, Justin Welby e Stephen Cottrell, hanno definito il cosiddetto piano Rwanda una scorciatoia “immorale” che “getta vergogna sulla Gran Bretagna”. “E’ una politica che dovrebbe farci vergognare come nazione”, una “vergogna” perché “la nostra eredità cristiana – scrivono – dovrebbe ispirarci a trattare i richiedenti asilo con compassione, equità e giustizia, come abbiamo fatto per secoli”.

Il governo britannico non cambia idea

Il governo britannico ha manifestato la propria determinazione a rimandare in Rwnda i migranti entrati illegalmente nel Regno Unito, nonostante la cancellazione, in tarda serata, del primo volo a seguito di ricorsi legali. “Non ci faremo scoraggiare dal fare la cosa giusta e dall’attuare i nostri piani per controllare le frontiere del nostro Paese”, ha dichiarato il ministro dell’Interno Priti Patel, aggiungendo che il team legale del governo sta “rivedendo ogni decisione presa su questo volo e i preparativi per il prossimo volo stanno iniziando ora”.

Il governo del Rwanda conferma gli impegni

Da Kigali il governo ha affermato di essere ancora impegnato ad accogliere i richiedenti asilo che dovrebbero essere inviati dal Regno Unito nonostante la cancellazione del volo che ieri avrebbe dovuto trasferire sette migranti. “Non siamo scoraggiati dagli ultimi sviluppi – ha detto la portavoce di Kigali, Yolande Makolo -. Il Rwanda resta fermamente impegnato per far sì che la collaborazione funzioni. Siamo pronti a ricevere i migranti quando arriveranno e ad offrire loro sicurezza e opportunità nel nostro Paese”.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-06/gran-bretagna-governo-corte-europea-diritti-uomo-canterbury.html

Gb e Ue: questione migranti e diversi approcci

Ancora ricorsi in Gran Bretagna, alla vigilia del primo volo previsto, contro la decisione del governo di espellere in Rwanda richiedenti asilo. Intanto, nell’Unione europea si discute sui ricollocamenti interni. L’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) chiede al governo britannico il rispetto dei diritti umani diritti umani, mentre si spera che i passi avanti di Bruxelles diventino operativi, come sottolineano l’esperto di diritto Christopher Hein e monsignor Gian Carlo Perego

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La Corte di Londra ha rigettato, ieri pomeriggio, i due ricorsi dell’ultimo minuto a proposito della questione dei richiedenti asilo da espellere. Si tratta dell’accordo tra governo britannico e governo rwandese che prevede il trasferimento di richiedenti asilo nel Paese africano in cambio di un pagamento iniziale di 120 milioni di sterline (148 milioni di dollari). Il primo volo è previsto per oggi e dovrebbe riguardare 30 persone di cui non è stata indicata la nazionalità. Secondo organizzazioni umanitarie, si tratta di persone in fuga dall’Afghanistan e dalla Siria.

L’ennesimo ricorso

La Corte d’Appello ha ascoltato le argomentazioni di due gruppi per i diritti umani e un sindacato ieri dopo che venerdì scorso un giudice dell’Alta Corte di Londra ha rifiutato la loro richiesta di un’ingiunzione che bloccasse il decollo del volo. Il giudice ha affermato la scorsa settimana che vi era un “interesse pubblico materiale” nel consentire al governo di perseguire la politica. L’Alta Corte ascolterà separatamente le argomentazioni di Asylum Aid, l’organizzazione per i rifugiati che ha lanciato una seconda sfida legale per impedire al governo di portare i rifugiati in Rwanda. Ne abbiamo parlato con Christopher Hein, docente di Diritto e politiche di immigrazione e asilo e Gestione delle migrazioni all’Università Luiss:

Il professor Hein ricorda innanzitutto che i ricorsi contro la decisione del governo britannico dell’espulsione  e contro questo accordo sono appoggiati dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) che – aggiunge – ha dichiarato che il piano del governo di concedere ai richiedenti asilo sette giorni per ottenere consulenza legale e presentare il loro caso per evitare l’espulsione è imperfetto e ingiusto. Su questo specifico punto sembra si pronuncerà lo stesso giudice che venerdì ha respinto la prima richiesta di decreto ingiuntivo.

Le motivazioni del governo di Londra

Il professor Hein ricorda che secondo il premier Johnson, la strategia di espulsione mira a minare le reti di traffico di esseri umani e a fermare il flusso di migranti che rischiano la vita attraversando la Manica su piccole imbarcazioni provenienti dall’Europa e aggiunge che effettivamente il flusso attraverso la Manica è sempre più consistente. Hein ribadisce la contrarietà dell’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu sottolineando che si tratta di provvedimenti che non rispettano i diritti dell’uomo anche perché in Rwanda ci sono sistemi di gestione che però rischiano il collasso se si pensa al numero di persone che potrebbe entrare in base a questo accordo. Secondo Hein, la vera motivazione è politica e consiste nell’intenzione che faccia da deterrente. Si vorrebbe – afferma – scoraggiare chiunque dall’arrivare in Gran Bretagna paventando il rischio che ci si ritrovi in Rwanda. Da parte sua,  il principe di Galles Carlo rimane “politicamente neutrale”: lo ha affermato l’ufficio stampa della Clarence House, la residenza dell’erede al trono britannico e della consorte Camilla, in risposta alle indiscrezioni di stampa diffuse oggi secondo cui Carlo avrebbe giudicato sconcertante  il piano del governo britannico di mandare in Ruanda migranti giunti illegalmente nel Regno Unito. “Non commentiamo su presunte conversazioni private e anonime con il principe di Galles, se non per ribadire che rimane politicamente neutrale. Le questioni che riguardano le politiche sono decisioni che spettano al governo”, ha fatto sapere Clarence House, riferisce Press Association. Il Times, citando una fonte anonima, aveva scritto che in conversazioni private Carlo si sarebbe detto “più che deluso” dalla vicenda.

Dibattito anche in Francia

Crescono i flussi migratori verso la Francia, secondo la Caritas, che stima in media 150 arrivi giornalieri. La stima deriva dal numero di coloro che si presentano alla mensa per colazione e pranzo.  Ad arrivare sono soprattutto afghani, iracheni, curdi e ivoriani. In una lettera pubblicata sul sito della diocesi, il vescovo di Ventimiglia Antonio Suetta ricorda l’anniversario dei sette anni da quell’ 11 giugno 2015 in cui il governo francese sospese gli accordi di Schengen, ripristinando i controlli alla frontiera. “Tale decisione – si legge – rinnovata di sei mesi in sei mesi, perdura e continua a produrre conseguenze molto negative, innanzitutto nei confronti delle persone migranti in viaggio, ma indirettamente anche verso”. Al confine – dice – è sistematica la richiesta dei documenti, ma solo a chi ha la pelle scura, con il conseguente respingimento e la permanenza in città. Ma ciò in questi anni non ha fermato i migranti, li ha portati a rivolgersi a trafficanti o a rischiare la vita per evitare i controlli; purtroppo sono decine le vittime: folgorate sui tetti dei treni, cadute dalle montagne, investite sull’autostrada. Monsignor Suetta interviene sulle differenze di trattamento tra i profughi africani o asiatici e gli ucraini. La decisione del Governo francese risulta ancora più ‘stridente’ – spiega – da quando è iniziata la guerra in Ucraina in quanto ai profughi ucraini è riconosciuto il diritto a muoversi all’interno dell’Unione Europea e a scegliere in quale Paese rifugiarsi. Vescovo e Caritas auspicano che “in attesa che cambino le regole, si proceda speditamente con l’apertura di un nuovo centro di accoglienza per affrontare una situazione assai complessa per i migranti e per il territorio e per riconoscere la dignità delle persone in viaggio”.

Prima intesa Ue su ridistribuzione

Commissione europea e presidenza francese del Consiglio si riuniscono nei prossimi giorni per mettere a punto la piattaforma di solidarietà approvata venerdì scorso in tema di richiedenti asilo. I ministri dell’Interno dei Paesi UE hanno raggiunto un primo accordo per la ridistribuzione (volontaria) dei migranti che arrivano via mare, con l’obiettivo di alleviare il peso sui Paesi di primo sbarco. La ricollocazione dei richiedenti asilo sarebbe volontaria ma chi si rifiuta di partecipare sarebbe obbligato a offrire un sostegno finanziario diretto ai Paesi di primo arrivo. Di segnale importante parla monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Commissione per le Migrazioni della CEI  e della Fondazione Migrantes:

Monsignor Perego parla di passo avanti significativo in termini di messaggio offerto dai ministri degli Interni. Sottolinea che servono altre decisioni a livello istituzionale per  rendere operativa questa indicazione ma certamente – afferma – si tratta – di un primo pronunciamento a nome dei governi importante anche perché chiarisce che i Paesi di primo approdo non possono essere lasciati soli nel gestire un’emergenza.  Ricorda che da tempo se ne parla con precedenti di tensione e con tentativi di incoraggiare alla corresponsabilità. Un meccanismo che obbliga all’accoglienza o che impone comunque un contributo economico può aiutare nella sensibilizzazione dei Paesi che si sentono fuori dalle rotte. Peraltro monsignor perego accenna alla questione ucraina come ad un tragico evento che ha aperto nuovi orizzonti di migrazioni per Paesi non toccati dalle rotte sul Mediterraneo.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-06/migranti-chiesa-gran-bretagna-ue-richiedenti-asilo.html

Europarlamento: stop ai motori ma con transizione equa

Fermare le vetture inquinanti ma preoccupandosi dei costi e dell’occupazione: è il senso della raccomandazione con la quale il Parlamento europeo ha approvato la proposta della Commissione di bloccare dal 2035 le vendite di auto nuove a diesel e a benzina. E’ fondamentale imporre il principio che chi inquina paga, ma non fermarsi alle auto elettriche e non gravare sui consumatori, sottolineano gli esperti di energia e economia Matteo Caroli e Carlo Andrea Bollino

Fausta Speranza – Città del Vaticano

La plenaria del Parlamento europeo (Pe) ha approvato, ieri a Strasburgo, la proposta della Commissione europea di rendere obbligatoria entro il 2035 l’immissione sul mercato Ue di auto e furgoni nuovi a zero emissioni, che decreta sostanzialmente la fine dei veicoli a combustione interna. In sostanza, uno stop alle vendite di auto nuove con motore a combustione a diesel e benzina. L’ok della Plenaria alla posizione negoziale degli eurodeputati sugli standard di emissioni di CO2 è arrivato con 339 voti a favore, 249 contro e 24 astenuti. L’emendamento sostenuto dal Partito popolare europeo (Ppe), che prevedeva una riduzione delle emissioni di CO2 del 90 per cento invece che del 100 per cento, non è stato approvato. Per il relatore Jan Huitema, “l’acquisto e la guida di auto a emissioni zero diventeranno più economici per i consumatori”.

Prossime tappe

Perché si possa parlare di decisioni operative bisogna aspettare. Seguiranno il Consiglio Ambiente del 28 giugno e la delicata trattativa tra l’Europarlamento e gli Stati membri. Il voto di ieri però rappresenta un segnale da non sottovalutare per il futuro dell’auto nel Vecchio Continente.

Non basta lo stop ai motori

Come già suggerito dalla Commissione Ambiente del Pe, si propongono regole sulle emissioni più stringenti da applicare all’industria. E, soprattutto, si fanno tre richieste alla Commissione Ue: presentare una relazione, la prima entro la fine del 2025 e successivamente su base annuale, per monitorare l’impatto sui consumatori e sull’occupazione; preparare un rapporto, entro la fine del 2023, sui finanziamenti necessari per garantire una transizione equa nel settore auto e per preservare i livelli di occupazione; adottare, entro il 2023, un nuovo metodo di calcolo delle emissioni che consideri l’intero ciclo di vita delle vetture.

Combattere l’inquinamento

In sostanza, gli eurodeputati hanno adottato – con 339 voti favorevoli, 249 contrari e 24 astensioni – il loro mandato per negoziare con i governi Ue i livelli di riduzione delle emissioni di CO2 delle autovetture e dei veicoli commerciali sostenendo la proposta della Commissione e fissando obiettivi intermedi, come quello della riduzione delle emissioni per il 2030  al 55 per cento per le automobili e al 50 per cento per i furgoni. Del tempo a disposizione e della necessità di lotta all’inquinamento abbiamo parlato con Matteo Caroli, docente di Gestione delle imprese internazionali all’Università Luiss:

Il professor Caroli evidenzia che, in base alle statistiche sulle vendite di auto, praticamente siamo di fronte a tre cicli di acquisti, sottolineando dunque che per chi avesse problemi con i costi oggi delle auto non inquinanti c’è tempo per vedere abbassare i costi. Il punto è – sottolinea – che non si possono dimenticare gli incentivi alle imprese e ai consumatori che vanno calibrati e messi in conto.

Politiche ad ampio raggio

C’è poi una raccomandazione nelle parole del professor Caroli: riguarda le scelte politiche che vanno fatte per accompagnare misure come questa che – afferma – sono obbligate se vogliamo ripristinare vivibilità nell’ambiente. Non si può che affermare il principio che chi inquina paga – spiega – perché non ci sarebbe altro modo di convincere le imprese. Ovviamente – dice – non si possono immaginare interventi nel settore auto dimenticando altri fondamentali comparti industriali, come per esempio pensando ai trasporti anche la nautica. E a questo proposito assicura che anche in questo settore ci si muove a livello di ricerca e investimenti per essere all’altezza al più presto proprio di quel principio inesorabile: chi inquina paga, chi non inquina deve essere premiato.

La questione occupazione

Sull’importanza di essere pronti a far fronte all’impatto in termini di occupazione, abbiamo sentito Carlo Andrea Bollino, docente di Economia dell’Energia all’Università Luiss:

Il professor Bollino raccomanda di non dimenticare l’impatto sull’occupazione di misure così significative: si tratta – ricorda – di una rivoluzione industriale che stravolge la società così come impostata nel secolo scorso. Indubbiamente, sottoscrive la necessità di agire in modo deciso a difesa dell’ambiente, ma – spiega – il punto è di non farlo in modo sconsiderato. Ricorda che, a parte il peso della guerra in Ucraina, anche prima si era presentata la questione energetica, con costi legati alla difficile ripresa. Tutto questo va considerato – avverte – e vanno monitorati i passi da fare, step by step. Non si può dimenticare di agire contemporaneamente a livello sociale per tutelare i posti di lavoro.

Non solo auto elettriche

Bollino raccomanda di non parlare soltanto di auto elettriche che – ricorda – possono avere anche i loro problemi per l’approvvigionamento di materie prime utili alle batterie. Bisogna valutare – dice – se l’implementazione di infrastrutture di ricarica e la disponibilità di materie prime per la produzione di batterie saranno in grado di eguagliare il continuo e rapido aumento dei veicoli elettrici a batteria. E’ fondamentale – chiarisce – non muoversi in un’unica direzione e investire in innovazione tecnologica. E fa l’esempio dell’idrogeno che può essere un’alternativa insieme ad altra tecnologia.

https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2022-06/unione-europea-inquinamento-vetture-benzina-gasolio-ambiente.html